www.treccani.it
Letterato italiano (San Donà di Piave 1862 - Procaria, Ceres,
1951); prof. di letteratura italiana, dal 1896 al 1934, nelle univ.
di Messina, Pisa, Pavia, e Torino; direttore (1918-37) del Giornale
storico della lett. ital.; deputato (1924-29), senatore del regno
(1929). Fra i suoi studî di critica e storia letteraria,
notevoli specialmente: Un decennio della vita di m. P. Bembo,
1521-1531 (1885); La satira italiana (2a ed., 2 voll., 1945);
l'ediz. commentata del Cortegiano (1894).
*
DBI
di Piero Treves
CIAN, Vittorio. - Nato a San Donà di Piave (Venezia), da
Alberto e da Maria Plenario, il 19 dicembre 1862, studiò a
Venezia nel convitto nazionale "Marco Foscarini", ovebbe tra gli
insegnanti R. Giovagnoli e tra i condiscepoli A. Panzini, P.
Molmenti ed A. Fradeletto. Il primo scritto del C. fu la relazione
sul Viaggio d'istruzione alla mostra nazionale di Milano, intrapreso
dai convittori nell'agosto del 1881 (Venezia 1881).
Veneziano, massime dopo gli studi bernbiani, il C. amò sempre
chiamarsi e riconoscersi (cfr., per es., Scritti minori, Torino1936,
I, pp. 171, 198). Nonostante però i ricordi e raccordi
domestici, nonostante gli assidui studi di cose veneziane, non si
può tuttavia avvertire nell'opera e nella persona del C. il
segno della cultura veneta dell'Ottocento. La quale fu, al suo
meglio, vigorosamente fecondata da "uomini di frontiera" (come
l'Ascoli e il Malfatti, l'Occioni e l'Inama), eredi e continuatori
d'una cultura asburgico-mitteleuropea, in senso, appunto,
germanico-nordico (di cui si scorgono le tracce frequenti anche
nello Zanella, -nel Fogazzaro, nell'Aganoor, ecc.): e fu, sulpiano
politico, essenzialmente "liberale", o addirittura di sinistra, come
insegnano, oltre il non veneto Giovagnoli, i veneziani Fradeletto,
E. Castelnuovo, L. Luzzatti e, in minor misura, Molmenti.
Il C., invece, fucostantemente "uomo d'ordine", impervio e Ostile,
anzi, al verbo della Sinistra, in ispecie all'incipiente e tosto
vigoreggiante socialismo, pur vivendo, massime a Torino e a Messina,
in assiduo contatto con uomini di Sinistra, o aderenti addirittura
al socialismo, quali (rispettivamente) il Graf e il Pascoli. Simile,
in questo, al suo condiscepolo Panzini.
Altrimenti dal Panzini, però, scelse la facoltà di
lettere, anziché nella Bologna carducciana o nella Padova
dell'Ardigò, nella Torino del "metodo storico", dove, negli
anni medesimi dei suo studentato, sarebbe sorto, ad opera, oltre che
del lombardo F. Novati, di due suoi maestri subalpini (ma nessuno di
essi piemontese d'origine o di cultura), il Giornale storico della
letteratura italiana.
La scelta dell'università fu, consapevolmente o
inconsapevolmente, una scelta di vita. Ebbe conseguenze essenziali,
ma forse esiziali, per tutta la sua esistenza. Come si conveniva
forse a un adepto del Giornale storico, molto duramente criticato
dal Carducci nella prosa del Ça ira (cfr. Opere [ed. naz.],
XXIV, p. 442), ma altrimenti dalla maggioranza dei giovani italiani
di allora, facessero o non facessero professione di studi letterari,
il C. non fu mai "carducciano": nel senso, almeno, che poco o punto
delle idealità carducciane (fascisticamente adulterate o
fraintese in un discorso centenario del 1935, cfr. Scritti minori,
II, pp. 249 ss.; e peggio negli scritti anteriori, ma sempre "era
fascista": L'ora della Romagna, Bologna 1928, e la prefazione alla
ristampa di D. Zanichelli, Le poesie politiche di G. Carducci,
Bologna 1931), e nulla poi dello stile del Carducci, si ritrova
nell'operg e nella prosa del C., che al Carducci dedicò
unicamente osservazioni od annotazioni marginali fra biografiche, ed
erudite, massime sul dottor Michele, ma non ne sentì,
né si preoccupò mai di far sentire ai suoi allievi,
là poesia, e soprattutto la lezione.
Benché serbasse costante, riverente ricordo del Cipolla, del
Graf e del Renier, solo a quest'ultimo (che non senz'orgoglio,
associando al nome del C. quello di V. Rossi, "all'uno e all'altro
Vittorio", discepoli e quindi colleghi, dedicò Svaghi
critici, Bari 1910) il C. si apparenta, per il gusto comune
dell'erudizione, per la comune fedeltà al Giornale storico
(fors'anche per, certa comune fedeltà al natio Veneto),
sebbene il Renier avesse molto più del C. gusto e pratica
della chose littéraire e assai maggiori conoscenze di lingue
e letterature forestiere.
Molto in quest'ambito il C. avrebbe potuto imparare dal Graf, il
quale fu anche spirito problematico e aperto ai problemi della
politica e della scuola. Ancor prima che emergessero Farinelli e De
Lollis, ancor prima che fruttassero le ricerche dei "comparatisti" e
degi'italianisti esperti di cose straniere (dallo Zumbini al Neri e
al Galletti), il Graf poteva suggerire un avviamento
europeistico-nordico, a cui non furono certo insensibili suoi
allievi "novecenteschi" quali A. Momigliano e C. Calcaterra. Ma per
il C. le letterature straniere sempre sostanzialmente restarono
"terra incognita", a prescindere da qualche lettura del Taine, forse
con l'unica eccezione dell'assai lodato, e in verità
piuttosto mediocre, . e comunque "esterno" ed "allotrio", contributo
del 1892, Per la storia del sentimento e della poesia sepolcrale in
Italia e in Francia prima dei "Sepolcri" del Foscolo (in Giorn.
stor. ..., XX, pp. 205 ss.), dove la non poi troppo peregrina
erudizione, carente per quanto riguarda gli "influssi inglesi,
massime Thomas Gray, e sulla poesia "sepolcrale" francese e,
direttamente ancor più che indirettamente, sulla coeva poesia
italiana, certo non aiuta a cogliere il salto di qualità da
una comune tematica di sensiblerie variamente europea al diverso,
composito e personalissimo accento poetico del carme foscoliano.
In ultima analisi è, forse, da ritenere che dei tre suoi
maestri torinesi il C. si trovò ad essere più vicino,
anche per certo moralisnio e sterile patriottismo da "uomo
d'ordine", al veronese conte Carlo Cipolla, alle cui nozze il C.
bene augurò con una pubblicazione confessatamente
suggeritagli dalla "carità del natio loco", l'opuscolo che
stampa e illustra Due documenti storici sull'antica gastaldia di San
Donà di Piave (San Donà 1890), e al quale
successivamente dedicò il "medaglione" su Cola Bruno
messinese (Firenze 1901).
Nell'opera giovanile del C. il clima del tempo si riscontra,
perciò, oltre che nell'indefessa energia di lavoro, nello
scavo erudito, nella ricerca e pubblicazione del materiale,
nell'impressionante e ordinatissima raccolta delle schede, anche
nelle industri e pazienti indagini sulla poesia popolare,
proseguendo, senza tuttavia il loro impegno, in alto e lato senso,
"politico", nel solco del Nigra e del D'Ancona. Perché,
quand'anche il "codino" e prenazionalistico, e poi
nazional-fascistico, C. continuasse per qualche modo, e sostituendo
in ultima analisi la propaganda, l'accademismo e il partito preso al
generoso errore degli studiosi risorgimentali, il loro proposito
d'indagare, e sperabùmente di scovare, le tracce d'un
patriottismo nazionale italiano, dal Petrarca al Machiavelli,
dall'Ariosto al Castiglione, ai celebratori antispagnoli di Carlo
Emanuele I, nulla, in verità, se non analogia di temi e mera
similarità esterna d'indagini, raccorda l'opera del C.
all'opera, per es., d'un D'Ancona, il quale pur suggerì ai
colleghi pisani il nome del C. come suo successore sulla cattedra.
Sono, pertanto, meri propositi e attestazioni di pietas, non
confermati dall'attività scrittoria, e tanto meno "politica",
le asseveranze del C., nella prolusione pisana appunto (1900), d'una
"piena concordanza della mia modesta opera e dei criteri ai quali
essa è ispirata con la tradizione che s'impersona
nell'insigne Maestro" (Scrittiminori, I, p. 137).
Di qui la sostanziale estraneità, od alterità e
solitudine, del C. pur frammezzo alla generazione del "metodo
storico" (e ovviamente tanto più quando, varcata la soglia
del Novecento, il "metodo storico" fu gradatamente superato
dall'idealismo e dallo storicismo assoluto). Diverso dai
"carducciani" per una forse minor esperienza linguistica e certo per
un minor impegno di lettura dei classici, onde, a prescindere
dall'unicum delcommento castiglionesco, il C. (altrimenti dai
Casini, Albini, Ferrari, Mazzoni, Bertoldi, ecc.) non provvide ad
apprestare alcun commento, né di carattere storico-erudito,
né di carattere filologico-linguistico, né dì
carattere "estetico". Diverso, altresì, da quegli studiosi
che, pur condividendo col C. l'iniziale educazione filologica,
quest'ultima volsero tanto a cure editoriali (Rossi, Novati,
Sabbadini, ecc., per tacere, naturalmente, del Barbi; lacIdove la
sola, o maggior, prova del C. in tal carhpo, l'edizione, rimasta in
tronco al terzo volume, delle Prose foscoliane per i laterziani
"Scrittori d'Italia", Bari 1912-1920, riuscì parecchio
infelice) quanto all'esegesi di testi, danteschi in ispecie (Rossi,
Torraca, ecc.), mentre lo stesso "dantismo" del C., a prescindere da
occasionali discorsi accademici o da interventi polemici, come la
stroncatura del libro di Croce, s'incentrò quasi
esclusivamente sul problema dell'identificazione del Veltro: e
scarse deduzioni, del, resto, ne trasse per la storia dell'ideologia
dantesca e della Kaisermystik medievale.
Perciò il C. fu sempre, e soltanto, uomo di schede, autore
cioè di articoli, note, recensioni, ecc., ma non,
propriamente, di libri - e questi, del resto. caratterizzano
l'inizio e la fine d'una più che sessantennale
operosità, proseguita incessante, ma immutabile, senza
progresso d'incrementi ideali, di approfondimenti o
rinnovamentì metodici, senza cangiamenti stilistici, senza un
corso e una storia, se non si riduca la storia d'un uomo a un
regesto bibliografico di "contributi", praticamente per ogni ambito
e secolo della letteratura italiana.Il suo primo libro, la tesi di
laurea, tosto edita (Torino 1885) col titolo Undecennio della vita
di m. Pietro Bembo (1521-1531), e la dedica alla sua mamma,
è, quindi, rimasto paradigmatico dell'immediata
maturità e della sua intera attività erudita. Segna la
ripresa o l'inizio degli studi bembiani, come non mancò di
avvertire, allievo del C. e nostro bembista principe, C. Dionisotti
(in Diz. biogr. degli Ital., VIII, p. 147). Anche segna,
però, non pur la rivelazione, ma il ritratto fedele dei C.,
qual era poco più che ventenne e quale rimase fin quasi ai
novanta. Inarrivabile l'acribia dell'erudizione di prima mano, lo
scrupolo nel restringere la ricerca non solamente a un decennio
della vita dei Bembo, ma a quel decennio per cui meglio potevano
aiutar l'autore gli archivi e le biblioteche, soli da lui potuti
sfruttare, dell'Italia centrosettentrionale e di Roma. Encomiabili,
infine, in un giovanissimo, la modestia. la misura, la
consapevolezza di non essere, né lui né altri, ancora
in grado di scrivere una vita del Bembo e di dovere pertanto
limitarsi a "un primo contributo": benché non manchi
già qui la tendenza, se non a strafare, quanto meno a
sommergere la trattazione critica frammezzo all'"erudizione
ostentata" e ad una "sproporzione eccessiva nelle note", rimpinguate
nelle "aggiunte", e cui si affianca una ricca "appendice di
documenti".
Ma, in questo come nei migliori lavori del genere, non soltanto gli
alberi tendono ad oscurare la visione della foresta, sì
anche, e peggio, debolissimi si rivelano i criteri interpretativi,
la- caratterizzazione, storica del Rinascimento, fra una
svalutazione propria d'un meschino moralismo tardo-neoguelfo (per
es., nelle pagine sulla famiglia e il concubinato del Bembo) ed
un'esaltazione pseudo-patriottica, sulla quale, e
sull'italianità linguistica del letterato veneziano, stingono
i ricordi e gli echi'dell'italianità linguistica
ottocentistica, dalla Crusca al manzonismo. È significativo,
d'altronde, che una ripresa e un'integrazione, ma non una revisione
critica né un approfondimento storico, della monografia
bembiana resti, quindici anni dopo, il ricordato "medaglione" su
Cola Bruno, anch'esso, quale raccolta di materiali, esemplare e
definitivo (se come un riassunto od una parafrasi del C. si legge,
ad es., l'articolo sul Bruno nel Diz. biogr. degli Ital., XIV, pp.
650 s.).
Con questo bagaglio scientifico, che il C. tosto provvide ad
accrescere mercé l'assidua collaborazione al Giornale storico
e ad altri periodici, atti accademici e quotidiani (Fanfulla della
Domenica, Nuova Antologia, ecc.), iniziò la carriera
d'insegnante medio, massime al liceo "Cavour" di Torino, la
città in cui mise radici, pur senza partecipare in
realtà mai alla vera vita politico-culturale piemontese
né al tempo del "metodo storico" né da quando, ancor
professore a Pavia, il C. scelse Torino per sua stabile dimora.
Conseguita ben tosto la libera docenza, l'esercitò
all'università di Torino, dove l'anno accademico 1892-93 ebbe
"l'onore arduo di sostituire il Graf, impedito di attendere al suo
corso dall'ufficio di rettore" (Scritti minori, I, p. 384 n. 2; cfr.
p. 364): il Graf che il 23 ott. 1892, nella chiesa torinese del
Corpus Domini, era stato testimone delle nozze del C. con Maria
Sappa Flandinet (cfr. V. Cian, Scritti di erudizione e di storia
letteraria, Siena 1951, pp. 95 s.). Mentre la dotta italianistica
nostrale bene augurava alle nozze con una importante miscellanea
erudita (Bergamo 1894), il C. entrava così in relazioni di
parentela con una colta famiglia piemontese, in cui spiccano lo zio
M. Sappa e il nipote-scolaro B. Soldati, editore del Pontano e
studioso del Foscolo, la cui morte per postumi di guerra il C.
celebrò e pianse in pagine di alta umanità (cfr. B.
Soldati, Lettere e ricordi, Saluzzo 1919, pp. 288-291).
Contemporaneamente, il C. completava, per invito del Carducci e
pubblicazione appunto nella "carducciana" del Sansoni (Firenze
1894), la prima edizione del suo indubbio, sicuro e durevole
capolavoro, il commento al Cortegiano del Castiglione, la cui quarta
ed ultima edizione è, fuori collana, del 1947.
"Egli è conoscitore filologicamente perfetto del Cortegiano e
bisognerà procurarsi la sua edizione del libro", scriveva un
discepolo avverso nei propri quaderni carcerari (cfr. A. Granisci,
Il Risorgimento, Torino 1949, p. 33 n. 1), e così esattamente
coglieva il merito intramontabile del lavoro. Qui ancora, infatti,
l'acribia filologica, pur senza permettergli di redigere un testo
critico del Cortegiano, la conoscenza mirabile dell'ambiente, degli
interlocutori, dei personaggi, delle costumanze, delle allusioni, la
misura e sobrietà nelle annotazioni (che, a dritto o a torto,
non sono mai di carattere linguisticoestetico), la dottrina squisita
nel ritrovare (e sovente riprodurre in versioni cinquecentesche) i
luoghi dei classici greci e latini cui s'ispira il Castiglione,
cospirano all'interpretazione, ricreano nella sua interezza e nella
sua genesi un'opera emblematica del Rinascimento europeo (senza,
tuttavia, che la visuale meramente italica dei C. gli permetta di
render giustizia all'efficace funzione universalmente europea
ch'ebbe fra Cinque e Seicento il libro del Cortegiano;quale
affigurò, con tanto minor competenza specifica, per es. sir
E. Barker, Traditions of Civility, Cambridge 1948, pp. 124 ss.).
Significativo e rivelatore dell'uomo, e del suo scarso "storicismo",
è, d'altronde, che, spesa pressoché tutta una vita in
analisi e ricerche castiglionesche (se ne vegga l'elenco, redatto
dallo stesso C., a p. 338 della sua sottocitata monografia), il
volume conclusivo, a prescindere dalla completezza e
integralità di rassegna dell'attività letteraria e
politica del Castiglione, non offra né alcun approfondimento
ulteriore né alcun diverso punto di vista da cui giudicarne e
ricostruirne unitariamente la figura, né mostri alcuna
effettiva capacità d'immergerlo nella realtà
italo-europea del primo Cinquecento: come pur seppero fare, appunto
in virtù del loro "storicismo", critici e prosecutori dei C.
(quali C. Dionisotti, in Giorn. stor. ..., CXXIX [1952], pp. 31-57,
a rec. di V. Cian, Un illustre nunzio pontificio dei Rinascimento:
Baldassar Castiglione, Città dei Vaticano 1951; e C.
Cordiè, nella sua ed. "ricciardiana" dei Castiglione,
Milano-Napoli 1960, pp. XL-XLII).
Ben si meritava il C. una cattedra universitaria e l'ebbe, vincitore
di regolare concorso, a Messina, per l'anno accademico 1896-97,
Iniziò con la prolusione (letta il 16 genn. 1897) L'estetica
dellastoria (rist. in Scritti minori. I, pp. 3 ss.). E di qui
disgraziatamente anche incomincia: l'attività del C. minore o
peggiore. Consapevole, per un verso, dell'ormai incipiente, e anzi,
rapida, crisi del "metodo storico" e non ignaro degli studi di
stpriografia e di estetica intrapresi "dall'egregio amico B. Croce"
(ibid., I, p. 40 n. 28), il C. si diede, infatti, all'impossibile
tentativo di consertare le nuove esperienze "idealistiche" col suo
radicato anti-filosofare, cioè col suo intrinseco
antistoricismo. Donde l'inutilità dei problemi di metodo e
delle proposte critiche, vuoi (nella prolusione messinese) il
rapporto fra storia e poesia interpretato meramente come la
possibilità di trasformarla storia in poesia (o di far poesia
della storia: che sono, nel primo caso, un assurdo; nel secondo, una
banalità od un truismo), vuoi (nella prolusione torinese del
1914; ibid., I, pp. 363 ss.) il programma d'una "critica integrale o
totalitaria" (p. 381)., "per la buona intesa" fra metodo "storico" e
metodo "estetico", trasformando in funzioni Era pratiche e
didattiche, di armonica "unità e divisione nel campo
letterario", un'attività dialettica ed eminentemente
individuale (se davvero si vuole assurgere dal piano della mera
filologia al piano della critica e della storia).
Perciò tutte le scritture del C. che non trattino questioni
di pura informazione od erudizione risultano viziate in radice da
questa presunta polemica anticrociana (che dalla prima guerra
mondiale in poi si colorì di polemica politica). Lo stesso
miglior frutto del suo soggiorno messinese, il volumetto Sulle orme
del Veltro (Messina 1897), ripresentato molti anni di poi col nuovo
titolo (e l'impostazione immutata) Oltre l'enigma dantesco del
Veltro (Torino 1945; felicemente accresciuto, però, d'una
sorta di regesto o historique delle moderne interpretazioni dei
Veltro dantesco; e qui son particolarmente notevoli gli accenni al
Pascoli, pp. 78 s., 106 s.), resta unicamente valido per la
ricostruzione d'un abito e d'un programma di profezia politica che
il C. analizza nell'arco storico-cronologico dalla quarta ecloga
virgiliana alla pubblicistica e alla corte di Federico Il
(senz'avvertire, però, l'esistenza o almeno la
possibilità d'un filone greco dall'età ellenistica
alla fine del sec. XIII, tramiti e mediatori i Bizantini e gli
Arabi).
Il tratto più durevole del C. "messinese" resta,
perciò, la sua amicizia coi Pascoli, coronata e confermata in
perpetuo da quel saggio su G. Pascoli poeta (nella Nuova Antologia
del 1°nov. 1900, rist. in Scritti minori, I, pp. 293 ss.),
disteso "quasi sono gli occhi" dei poeta e certo d'intesa con. lui
(o, quanto meno, frutto delle conversazioni e discussioni dei due
colleghi), sebbene il Pascoli, pur professandosi gratissimo d'un
articolo su cui aveva pianto "spesso, e dirottamente, leggendolo: ti
basti questo, se vuoi sapere che cosa ne penso" (cfr. V. Cian, in
Convivium, n. s., 1 [1949], p. 29), sembra non si astenesse,
tuttavia, dal coniare contro il C. un sapido quanto ingeneroso
epigramma: "il contrario dell'Etna". Al Pascoli il C. rimase
legatissimo sempre e, trasferitosi nel 1900 all'università di
Pisa, divenne, da nuovo preside della facoltà letteraria,
strumento efficacissimo del proceduralmente assai complicato
passaggio del poeta dalla cattedra messinese di letteratura latina
alla cattedra pisana di grammatica greca e latina.
Ebbe anche il merito, o il coraggio, di sconsigliar energicamente il
Pascoli dal voler raccogliere la successione del Carduccì
sulla cattedra di Bologna, suscitando nell'amico quella quasi
allucinata reazione o rivelazione che resta uno dei documenti
capitali della psicologia del poeta (cfr. V. Cian, in Giorn. stor.
della lett. ital., CX [1937], 328 s., pp. 172 s., e Convivium, 1949,
pp. 49 s.).
I brevi anni pisani del C. (1900-1908) furono, essenzialmente, anni
di scuola ed è un'assai onorevole professione di gratitudine
al severo e operoso maestro il volume, pur stroncato ferocemente da
Renato Serra (cfr. E. Rainiondi, Il lettore di provincia, Firenze
1964, pp.158 ss.), che per il suo commiato gli dedicarono i
discepoli (insigni fra essi G. Fatini ed E. Clerici, L. Cambini e P.
Carli), non senza la rammaricante adesione di G. Gronchi (cfr. A V.
C. i suoi scolari dell'Università di Pisa, Pisa 1909, specie
pp. 203 ss., 289); mentre, né solo per la casualità
occasionale del centenario dell'orazione, furono essenzialmente
"foscoliani" gli anni pavesi (1908-1913). Alla morte del Graf gli
successe sulla cattedra di Torino e da Torino non si mosse
più. Divenne tosto uno dei maggiorenti nazionalisti (dond'era
poi breve il passo al fascismo, che lo volle suo deputato dal 1924
al 1929 e successivamente senatore), mentre dal 1918
esercitò. per un ventennio la direzione del Giornale storico.
Le testimonianze concordi, su e contro il "cianismo", di G. De
Sanctis (Ricordi della mia vita, Firenze 1970, pp. 107 ss.), che
accusa il C. di aver organizzato i tumulti universitari del "maggio
radioso", e di A. Granisci (Scritti 1915-1921, a cura di S.
Caprioglio, Torino 1968, pp. 4 s.), che analogamente accusava il C.
di voler la destituzione dei colleghi antilibici, stranieri e
neutralisti, nonché la denunzia che il C. sporse per
"disfattismo" contro un giornalista e insegnante integerrimo, il
dantista e francescanista U. Cosmo (vittoriosamente difeso da G. De
Sanctis e B. Croce), comprovano come il C. nel suo livore di vecchio
"codino" (già il 1900 nella commemorazione di Umberto I con
sorpresa e risentimento del Pascoli, non si era peritato di asserire
una sorta di complicità morale dei socialisti col regicida di
Monza) non esitasse a compiere bassezze e bricconate.
Sempre, però, e più sotto il fascismo, il C. rimase un
docente esemplare, imparzialissimo e liberalissimo anche nei
confronti di allievi dichiaratamente o notoriamente antifascisti;
come, nonostante la diuturna e miserevole polemica anticrociana,
ricercò la collaborazione, ed esaltò i meriti, di
studiosi lato sensu gobettiani e crociani, quali N. Sapegno e M.
Fubini, E. Rho, F. Antonicelli, C. Dionisotti, ecc. Negli anni del
suo impegno parlamentare volle, anzi, che L. Di Francia non
sostituisse, ma integrasse con i propri, i suoi corsi, imponendo
quindi agli studenti un esame obbligatorio biennale che si
articolava in quattro corsi monografici (più Dante e la
conoscenza larghissima dei maggiori fra i nostri classici).
Il meglio del C. "torinese" è nei due volumi (I, Milano 1923;
II, 2 ed., ibid. 1945) de La satira, nella vallardiana "Storia dei
generi letterari italiani", un'opera, od una cronistoria, rimasta in
tronco - al Chiabrera. Il C. negò di aver voluto scrivere la
storia d'un "genere" (perché non insensibile alla
liquidazione crociana del concetto di "genere" letterario) e
asserì d'aver tentato "di ricostruire, senza artifici e senza
preconcetti, né retorici, né estetici, né
filosofici", una "storia, nient'altro che storia" (I, p. XI),
sostituendo al criterio di genere letterario il problema e "la
storia dello spirito satirico italiano, svolgentesi attraverso. i
secoli, nella sua continuità ininterrotta, cioè nella
sua unità e insieme nelle sue più libere e svariate
manifestazioni, di arte individuale" (I, pp. VIII s.).
Lo spirito satirico italiano, però, non è,
nell'ipotesi migliore e nella sua miglior trattazione, se non un
aspetto, concreto sì, ma anche parziale, dell'attività
di un poeta o di un letterato (tranne quei rari casi nei quali
l'intera, o l'essenziale, operosità d'un letterato si assommi
e concluda tutta quanta nell'esercizio di questo presunto "spirito
satirico"). Perciò, se possono soddisfare, in-.
dipendentemente dal concetto o preconcetto o pseudoconcetto di
"spirito satirico", le pagine sull'Angiolieri e su altri scrittori
analoghi, la trattazione sullo "spirito satirico" in Dante, massime
il Dante della Commedia, o nell'Ariosto, in quanto autore appunto di
Satire, non può non riuscire monca e contraddittoria,
difettando la ricostruzione dialettica dell'unità dello
spirito d'un poeta; e di questo, soltanto, si può scriver la
storia. Qui pure il merito del C. si restringe, pertanto, ad aver
accumulato diligentissime schede, ampi sussidi bibliografici,
materiali per uno studio della tradizione letteraria o dei mezzi
espressivi di scrittori itgliani: dunque, solo un indiretto, e
parecchio limitato, "contributo" alla storia della nostra
letteratura.Torino, d'altronde, anche significava, per il C., il
Risorgimento e la cultura dell'Ottocento, chegli esplorò
nelle carte del Grassi e del Gioberti, del Breme e di P. A. Paravia,
con risultati tanto più apprezzabili quanto più
provvide a pubblicar materiale inedito o poco noto, come il
volumetto Glialfieriani-foscoliani piemontesi ed il romanticismo
lombardo-piemontese del primo Risorgimento (Roma 1934).
Non senza qualche infortunio dalle semicomiche conseguenze, ad es.,
l'infelice edizione delle Lettere di P. D. Pinelli a V. Gioberti
(Roma 1935).la cui stroncatura ad opera di A. Omodeo (in La Critica,
XXXIV [1936], pp. 210 s.) indusse il C. a troncare dopo trent'anni
l'abbonamento alla rivista (cfr. Carteggio Croce-Omodeo, a cura di
M. Gigante, Napoli 1978, pp. 105 s.).Croce, e dal carcere Gramsci
(cfr. Note sul Machiavelli, Torino 1966, p. 212), non mancarono di
protestare contro "la retorica stopposa del Cian", il suo
anacronistico "precursorismo". Tanto più che poi il C., il
successore di A. D'Ancona (ben diversamente in questo da G. Gentile)
non esitò ad imbragarsi nell'antisemitismo gli anni della
seconda guerra mondiale.
L'età e il crollo cruento dei suoi ideali politici non
l'indussero, tuttavia, a disarmare. Continuò, anzi, a
scrivere (ed eventualmente a macchiare con allusioni "attuali" i
propri volumi eruditi. come :il libriccino Umanesimo e Rinascimento,
Firenze 1941, mediocre ribadimento d'una lunga serie di "contributi"
elencati alle pp. 149 s. e pretesto per osannare alla conciliazione
del febbraio 1929, p. 92 [cfr. Scritti minori, II, p. 377]; o per
asserire, pp. 140 s., "che il sentimento della romanità...
riuscì a formare negli italiani colti una sempre più
chiara coscienza politica di carattere nazionale unitario").
Felicemente riprese fra manoil suo Castiglione, preparando la
monografia e l'edizione "definitiva" del Cortegiano, fra l'altro col
volumetto La lingua di B. Castiglione (Firenze 1942).
Sfollato e poi ritiràtosi a Procaria, comune di Ceres, in Vai
di Lanzo (Torino), vi morì il 26 dic. 1951, legando
all'Accademia delle scienze (della quale era socio dal 1917 e fu
commissario e presidente dal 1934 al 1938) una raccolta di circa
ventimila opuscoli ed un carteggio che sarà, per suo volere,
accessibile agli studiosi dal 1980 (così P. Jannaccone, in
Atti d. Acc. d. scienze di Torino, cl. di sc. mor., LXXXVII
[1952-53], p. 403)