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Commediografo (Parigi 1622 - ivi 1673).
Assunse il nome d'arte di M. dopo essersi dato al teatro.
Studiò a Parigi nel collegio di Clermont (oggi liceo
Louis-le-Grand), retto dai gesuiti; fece in seguito, almeno pro
forma, gli studî di diritto e seguì con ogni
probabilità le lezioni del filosofo Gassendi. Legatosi alla
famiglia Béjart, in cui brillava la giovane Madeleine con
la quale M. strinse intima amicizia, nel 1643 costituì una
compagnia comica sotto il nome di "Illustre Théâtre":
l'esito dell'impresa fu mediocre; due anni dopo M. era per due
volte imprigionato per debiti allo Châtelet. Liberato per
l'intervento del padre, si recò con Madeleine a recitare in
provincia, entrando in contatto a Lione con le compagnie italiane
che recitavano la commedia dell'arte.
In quel periodo M. scrisse molte farse, quasi per intero perdute,
e due commedie, su modelli italiani, L'étourdi (derivato
dall'Inavvertito di M. Barbieri, detto Beltrame) e Le dépit
amoureaux.
Nel 1658, tornato a Parigi con la sua compagnia, per la quale
aveva ottenuto la protezione del fratello di Luigi XIV, fu bene
accolto dal pubblico, e rappresentò una commedia nuova, Les
précieuses ridicules (1659), vivace satira mondana e
letteraria. Seguirono Sganarelle, ou Le cocu imaginaire (1660),
una commedia eroica che non ebbe successo, Dom Garcie de Navarre
ou Le prince jaloux (1661) e, lo stesso anno, L'école des
maris e Les fâcheux.
Nel 1662, anno in cui sposò la ventenne Armande
Béjart, sorella minore o forse figlia di Madeleine (i
nemici di M. non esitarono a parlare di matrimonio incestuoso),
portò sulle scene L'école des femmes che è
veramente il suo primo capolavoro, e suscitò, insieme con
gli applausi, un'ondata di critiche, libelli, parodie, cui
replicò (1663) con la Critique de l'école des femmes
e con l'Impromptu de Versailles. Ormai l'attività di M.,
come attore e poeta, si svolgeva sotto l'egida del Re Sole, che
gli dimostrò apertamente la sua benevolenza e la sua
approvazione.
Nel 1664 la corte applaudì due "comédies-ballets"
composte da M. e, per la parte musicale, da G. B. Lulli, per
ordine del re: Le mariage forcé, rappresentato a Parigi, e
La princesse d'Élide. Quest'ultima fu eseguita a
Versailles, nell'ambito dei festeggiamenti "Les plaisirs de
l'île enchantée", affidati a M. e alla sua compagnia.
In quell'occasione appare una commedia nuova, designata nelle
relazioni del tempo come Tartuffe o l'Hypocrite: la satira che M.
rivolgeva contro i falsi devoti destò vive opposizioni e la
commedia non ebbe via libera se non nel 1669.
Frattanto M. aveva fatto rappresentare due commedie, Dom Juan ou
le festin de pierre (1665) e Le misanthrope (1666), un'altra
comédie-ballet, L'amour médicin (1665) e la farsa Le
médecin malgré lui (1666). Col Tartuffe e il
Misanthrope M. crea l'alta commedia di carattere e tocca il
vertice della sua arte; il Dom Juan, di un'andatura brusca,
disuguale, talora persino sconnessa, ci lascia del protagonista
un'immagine statuaria, che s'accompagnò poi sempre alla
fortuna di quella leggenda. In seguito, prodigò la sua
maestria in un teatro brillante, fantastico, sviluppando la
rappresentazione mitologica e la comédie-ballet, che
riuscivano assai gradite al re, e nelle quali sembrava egli stesso
cercare una distrazione: Mélicerte, comédie
pastorale héroïque e Le Sicilien ou l'amour peintre
(1666-67), l'elegante e spiritoso Amphitryon (1668). George Dandin
(1668) è una farsa in cui i tipi comici risultano incisi
crudamente. L'Avare (1668), intessuto su uno dei personaggi
più fortunati della commedia classica, è scolpito
con un rilievo possente e doloroso.
E sono di nuovo comédies-ballets: Monsieur de Pourceaugnac
(1669), parodia della piccola nobiltà provinciale, Les
amants magnifiques (1670). Le bourgeois gentilhomme (1670), cui
diede occasione un'ambasciata orientale alla corte di Luigi XIV,
delinea, in una delle più felici creazioni di M., il
ritratto di un mercante arricchito, di fondo bonario, ma tutto
acceso di vanità. La "tragédie-ballet"
Psyché, verseggiata per gran parte da Corneille, si
avvicina per il canto e le musiche, per la varietà, la
ricchezza delle scene e degli apparati, al nuovo teatro d'opera
verso il quale già si orientava il gusto del pubblico.
La salute di M., che era afflitto da un male incurabile, veniva
peggiorando: egli non rallentò le sue fatiche di
capocomico, di commediante e di autore: diede ancora alle scene le
vivacissime Fourberies de Scapin (1671), un abbozzo di commedia,
La comtesse d'Escarbagnas (1671), un nuovo capolavoro, Les femmes
savantes (1672), poi l'ultima comédie-ballet, Le malade
imaginaire (1673): morì poche ore dopo aver recitato, in
questa commedia, la parte di Argan, alla quarta rappresentazione.
M. ha l'innata capacità di discernere nella realtà
umana le zone più varie e più precise dell'illusione
comica; così nel groviglio dell'azione più agitata e
confusa, come negli intimi riflessi di una passione o di una
mania, l'occhio, l'intuizione di M. giungono fino all'estremo
limite, alle venature più lievi e delicate in cui possono
insinuarsi il riso e la beffa. Dapprima egli colse i gruppi di
persone comiche, abbozzate con brio fra i lazzi della commedia
italiana, e si compiacque del gioco delle scene, delle stesse
volgarità della farsa, della tradizione delle maschere, che
gli consentiva, su una psicologia sommaria ed elementare, di
trarre in piena luce le situazioni comiche più intense e
colorite. Nelle Précieuses ridicules si avverte qualcosa di
nuovo, che sta, più che nel proposito di satira letteraria
e mondana, in un primo tentativo di penetrare nei caratteri
comici, determinati da una contraddizione interiore, da una
finzione di vanità, da un errore iniziale, e talora
inconsapevole, nell'immagine che ciascuno si crea di sé
stesso. I contrasti intimi trovano il loro campo naturale e
prediletto nei casi d'amore, negli errori sentimentali o viziosi,
nelle brame e nelle gelosie. Il dominio di quello spirito comico
è assoluto, implacabile; il distacco dai personaggi che si
dibattono, si urtano, si congiungono e si tradiscono, è
completo: e quella schiera di figurine ridicole è
così nitida, perché lo sguardo che le contempla non
è velato da nessun proposito di guidarle a un suo fine, da
nessun risentimento che le accusi o le difenda.