AZEGLIO, Massimo Taparelli d'

www.treccani.it

Patriota, scrittore e statista (Torino 1798 - ivi 1866).

Dopo essersi dedicato alla pittura e, con buon successo, alla letteratura, intorno al 1843-44 si avvicinò alla politica, che lo vide partecipare alla prima guerra d'indipendenza e poi essere primo ministro del Piemonte, nella cui veste promosse radicali riforme nei rapporti fra Stato e Chiesa. Dimessosi nel 1852, mantenne posizioni antiaustriache e collaborò con Cavour in momenti delicati. Si oppose tuttavia all'unificazione della penisola, giudicandola immatura.

VITA E OPERE

Quartogenito del marchese Cesare Taparelli d'A. Dopo una brillante giovinezza, dedita soprattutto allo studio della pittura (1820-30 a Roma), frequentò nel 1831 a Milano il cenacolo del Manzoni, del quale sposò la figlia Giulia. Di questi anni sono i suoi romanzi (Ettore Fieramosca o La disfida di Barletta, 1833, Niccolò de' Lapi ovvero I Palleschi e i Piagnoni, 1841; La Lega Lombarda, incompiuto, scritto nel 1845 e pubblicato postumo nel 1871). Sviluppatasi negli anni 1843-44, attraverso colloqui col cugino Cesare Balbo, la passione politica, accettò nel 1845 di fare per il movimento liberale un viaggio per le Romagne, le Marche e la Toscana e al ritorno scrisse Gli ultimi casi di Romagna (1846), pagine ostili alle sètte ma ancor più al malgoverno papale, e auspicanti apertamente una cospirazione pubblica. Espulso dal governo toscano per tale opuscolo, d'A. all'avvento di Pio IX vide possibile la realizzazione del proprio programma liberale moderato e legalitario (nel 1847 espose il suo pensiero nella Proposta di un programma per l'opinione nazionale italiana), puntando decisamente prima su Pio IX e poi su Carlo Alberto. Scoppiata la guerra, fu aiutante di campo del gen. Durando e fu ferito al monte Berico (10 giugno 1848). In acre polemica con democratici e repubblicani da lui incolpati del fallimento della guerra del 1848-49, declinò l'invito di formare il ministero piemontese: solo il 7 maggio 1849 s'inchinò davanti all'ordine preciso del re.

Chiusa la vertenza austriaca (a tal fine fu costretto a sciogliere la Camera), d'A. seppe mantenere, nonostante le pressioni austriache, il sistema costituzionale e riformò radicalmente (1850) i rapporti fra Stato e Chiesa con le leggi Siccardi(1). Dimessosi il 22 ottobre 1852 per le difficoltà suscitategli dal "connubio" Cavour-Rattazzi, ebbe in seguito incarichi politici di minore importanza (nel novembre 1855 accompagnò il re a Londra e a Parigi, dove ritornò da solo prima della guerra; nel 1859 fu nominato commissario straordinario nelle Romagne, nel genn. 1860 governatore di Milano), mentre i suoi scritti agivano vitalmente sull'opinione pubblica (articoli antiaustriaci sul Morning Chronicle, 1859, De la politique et du droit chrétien au point de vue de la question italienne, 1860); in questi anni, dimenticando ogni precedente dissidio, aiutò il Cavour in momenti delicati (intervento in Crimea, guerra del 1859), ma successivamente il suo moralismo conservatore e paternalistico gli impedì di cogliere il significato degli avvenimenti che si compirono nel 1860 e negli anni seguenti, così si oppose all'unificazione del nord al sud della penisola, giudicandola immatura, e si scagliò, nell'opuscolo Questioni urgenti (1861), contro la prospettiva di portare la capitale a Roma, vedendo in essa un motivo esclusivamente retorico.

Solitario e incompreso, d'A. allora scrisse per gl'Italiani, "ancora da fare", I miei ricordi (incompiuti, si fermano al 1846, pubblicati postumi nel 1867).

(1 da www.sapere.it

Progetto di legge del 1850, che prende il nome dal suo promotore, G. Siccardi. Presentato al Parlamento il 25 febbraio come un unico progetto di legge, fu poi suddiviso in tre progetti separati che miravano all'abolizione del foro ecclesiastico e delle immunità del clero, all'interdetto delle manomorte (con divieto per gli enti morali di acquistare immobili per donazioni tra vivi o per testamento senza l'approvazione regia, previo parere del consiglio di stato), alla riduzione delle festività religiose e all'abolizione delle penalità per l'inosservanza delle stesse. Approvate a larga maggioranza dalla Camera e non senza contrasti dal Senato (promulgate dalla Corona il 9 aprile), provocarono la violenta reazione di Roma. )

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DBI

di Walter Maturi

Nacque a Torino il 24 ott. 1798. Il padre, marchese Cesare, fu uno dei più cospicui rappresentanti del cattolicesimo subalpino della Restaurazione; la madre, Cristina Morozzo di Bianzè, fu donna di costumi assai pii, ma né l'uno né l'altra riuscirono ad infondere la loro religiosità nell'A., che si mostrò fin da ragazzo indifferente ad ogni pratica ecclesiastica. Né l'A. fu più docile nella sua educazione letteraria, che si rifece da autodidatta più tardi. Gli giovò, invece, l'esser vissuto fin dai primi anni fuori del Piemonte, perché ciò l'avviò ad essere il più profondamente italiano, dopo il Gioberti, dei Piemontesi del Risorgimento. Dopo un lungo soggiorno a Firenze, nel 1807 l'A. ritornò a Torino, e le sue prime impressioni politiche furono il contrasto tra gli ultimi anni della dominazione napoleonica e i primi della Restaurazione. Ma, più che la politica, egli sentiva allora la passione di vivere e divertirsi, e a Roma, dove seguì nel 1814 il padre, che vi andava come ministro presso la S. Sede, e specialmente a Torino, dove ritornò come ufficiale nel "Piemonte Reale Cavalleria", si abbandonò alla più sfrenata scapigliatura. Da questa vita si sottrasse per influsso di un amico, il professore G. Bidone, e si rimise a studiare lettere e arti con tanta foga da prenderne una malattia. Fu questo l'avviamento al primo grande atto di volontà, compiuto dall'A., che rivelò allora la sua tempra alfieriana: la decisione di andare a Roma ad apprendere e a coltivare la pittura, sprezzando tutti i pregiudizi sociali, che condannavano tale vocazione per un nobile (1820).

A Roma, frequentando intellettuali ed artisti, più o meno intinti di liberalismo, pur non essendo iscritto ad alcuna società segreta, ebbe le prime noie dalla polizia pontificia, perché coinvolto nel processo Maroncelli come autore d'un sigillo simboleggiante l'Italia con la lancia abbassata e ai piedi un leone dormente, col motto non semper.Ma da tali noie non subì alcuna grave conseguenza. Anche a Roma gli giunsero le notizie dei moti di Napoli e di Torino del 1820-1821. Avrebbe voluto andare a combattere per Napoli, ma il Solaro della Margarita, allora suo amico e segretario di legazione a Napoli, lo dissuase dal farlo.

In quanto ai moti piemontesi, il padre temeva che, se non fosse stato a Roma, vi avrebbe forse partecipato. "Se fra tante brighe - scriveva il marchese Cesare al card. Consalvi (Archivio Vaticano, Lettere di particolari, rubr. 284, 30 luglio 1821) - Ella ha rammentato il mio figlio, avrà pensato essere stata Grazia speciale di Dio l'essere lui rimasto costà. Chi sa quale sarebbe stato, se si fosse trovato qui lo scorso marzo, quando a tanti nobilissimi giovani, eziandio d'alte speranze, andò in volta il senno?".

Passata la burrasca, l'A. compose uno scritterello, non pubblicato, Lo Stato d'Italia all'epoca dei rivolgimenti del '21, (ora in M. d'A., Scritti e discorsi politici a cura di M. De Rubris, I, Firenze 1931, pp. 533-539), in cui condannava le rivoluzioni in genere e quella del '21 in Piemonte in specie, ma nello studio sulle cause del fallimento del moto riecheggiava un motivo alfieriano: "Lo stato più abbietto di un popolo è quando un despotismo dolce gl'impedisce d'odiarlo quanto dovrebbe".

Per studiare, come pittore, la natura dal vero, l'A. visse molto nei Castelli e nella Campagna romana, in cerca del paesaggio, del costume, del tipo, ma di queste peregrinazioni cavò forse maggior frutto per le più belle pagine dei Ricordi e per i Bozzetti,che scrisse più tardi, che per i suoi quadri. L'opera pittorica dell'A. è collocata come opera di transizione tra i vedutisti del Settecento e gli impressionisti e macchiaioli del secondo Ottocento. Salutato al suo apparire come un novello Salvator Rosa, non mancarono all'A. pittore critici che gli negarono slancio e spontaneità nella creazione e gli imputarono pregiudizi di esecuzione naturalistica.

Natura cavalleresca, l'A. fu ben presto attratto dal paesaggio come sfondo di episodi eroico-romanzeschi e il suo primo grande quadro fu la Morte di Montmorency,che venne esposto a Torino e fu presentato a Carlo Felice.

Spinto sempre da questo gusto, l'A. passò al romanzo storico, nel quale sentiva di poter meglio esplicare il suo temperamento artistico e i suoi fini patriottici, poiché molti dei suoi quadri esaltavano episodi di patriottismo, fin da quello sulla morte di Leonida, del 1823, che non fu potuto presentare a Carlo Felice. Nel 1829, componendo un quadro sulla Disfida di Barletta, l'A. pensò che quell'episodio sarebbe riuscito di maggior efficacia educativa sugli Italiani se fosse stato narrato in prosa. Ma quale prosa? Non quella aulica, classicheggiante, di cui si era servito nelle composizioni giovanili e nella descrizione della Sagra di S. Michele,(Torino 1829), ma la prosa moderna, di cui era maestro insuperabile il Manzoni; e l'A. andò a stabilirsi nel marzo del 1831 a Milano, si mise a scuola del grande lombardo, di cui sposò la figlia Giulia, e, servendosi dei suoi consigli, pubblicò a Milano nel 1833 il romanzo Ettore Fieramosca o la Disfida di Barletta, che ebbe un successo strepitoso.

Il personaggio più popolare di esso fu il Fanfulla, sebbene personaggio secondario, e ciò che c'è di più bello in tutta l'opera è una certa aria fanfullesca (De Sanctis). L'episodio centrale del romanzo - una bella lezione data dagli Italiani allo straniero tracotante -, le parole di Ginevra ad Ettore alla vigilia dello scontro, il monito di Ettore a Graiano d'Asti, piemontese combattente per i Francesi ed immemore della patria, le considerazioni ingenuamente acute della saracena Zoraide sui diritti dei re, degli imperatori e dei papi, avevano allora un vivissimo sapore d'attualità.

Incoraggiato dal successo, l'A. si pose alla preparazione d'un secondo romanzo, il Niccolò dei Lapi, episodio dell'assedio di Firenze del 1530. Dell'argomento si era già occupato il Guerrazzi, e del confronto con lui era non poco preoccupato l'Azeglio. Il primo romanzo l'aveva buttato giù alla brava, non aveva spesa molta fatica per impadronirsi dell'aria del tempo, non era andato oltre, a suo dire, la lettura delle quattro pagine che all'episodio dedica il Guicciardini nella Storia d'Italia, e aveva disegnato i luoghi dell'azione romanzesca sulla prima carta che gli capitò sotto mano. Per il secondo romanzo, invece, lunghe letture: Varchi, Nardi, Ammirato, ecc.; i lunghi viaggi sui luoghi dell'azione, per ricostruirli con maggiore precisione, e via discorrendo. Tuttavia, quando il romanzo uscì a Milano nel 1841, non ottenne il successo del primo e allo stesso A. fu sempre meno caro del Fieramosca.

Un giudice come il De Sanctis ha confermato con la sua autorità di critico queste predilezioni sentimentali, e i tentativi del Camerini e del Vaccalluzzo di porre il Niccolò dei Lapi aldi sopra del Fieramosca come opera d'arte non sono riusciti ad affermarsi presso il grosso pubblico. Umorista impareggiabile, all'A. mancava una religiosità profonda per intendere e rappresentare gli ultimi eroici episodi dei seguaci del Savonarola. Il suo Niccolò dei Lapi manca di umanità, e lo stesso Fanfulla, che vi ricompare, ha perduto in parte la sua aria tipicamente sbarazzina.

Dopo il Niccolò dei Lapi,si dedicò alla composizione d'un terzo romanzo, La Lega Lombarda,nel quale voleva romanzescamente colorire il mito storiografico neo-guelfo, della funzione patriottica del papato. Vi lavorò fino al 1845-46, ma l'esempio del Balbo e gli avvenimenti politici del 1845 lo distolsero da quest'opera e lo spinsero all'aperta polemica politica.

Verso la fine del 1844, gli amici romani lo avevano chiamato a Roma e gli avevano offerta la direzione del movimento liberale in Romagna. L'A. accettò, e il 1º sett. 1845 col passaporto segreto della "trafila" mazziniana, compì il suo avventuroso giro politico in Romagna. Predicava la fiducia in Carlo Alberto e smontava le diffidenze verso di lui delle vendite carbonaresche, stigmatizzando i moti violenti, propugnando nuovi metodi di agitazione legale, tentando in una parola di attrarre nell'orbita del riformismo i partiti estremi. Terminato il viaggio, l'A. ottenne a Torino un'udienza da Carlo Alberto (12 ott. 1845, secondo il De Rubris), gli parlò delle speranze dei Romagnoli in lui, e Carlo Alberto rispose con le celebri parole: "Faccia sapere a quei Signori che stiano in quiete e non si muovano, non essendovi per ora nulla da fare; ma che siano certi, che, presentandosi l'occasione, la mia vita, la vita dei miei figli, le mie armi, i miei tesori, il mio esercito, tutto, sarà speso per la causa italiana ".

L'A. non aveva ancora finito il suo viaggio di Romagna, né avuto il colloquio con Carlo Alberto, quando scoppiò il moto di Rimini. Allora concepì quell'opuscolo sui Casi di Romagna,col quale s'iniziò la sua brillante carriera di pubblicista. Ne pesò attentamente ogni frase e, prima di pubblicarlo, lo fece leggere ai suoi amici moderati piemontesi, toscani e romani. Avrebbe voluto darlo alle stampe a Torino, ma Carlo Alberto non osò concedere il permesso di farlo, e il famoso opuscolo fu pubblicato alla macchia in Toscana (marzo 1846). Con i Casi di Romagna il partito moderato usciva dalle zone dell'alta politica, dei dotti volumi, e scendeva nelle piazze con un linguaggio facile, piano, alla buona. Il successo fu enorme. Il governo toscano, allarmato, ordinò all'autore lo sfratto dal granducato, ma l'A., ritirandosi in Piemonte, ebbe in tutte le città toscane dimostrazioni trionfali di simpatia.

Cominciò allora una vasta opera di riconciliazione per formare una compatta opinione pubblica nazionale: metteva pace tra Balbo e Giusti, tra moderati neo-guelfi e moderati anti-guelfi; persuadeva Genova a restituire a Pisa le catene della Meloria per simboleggiare la fine di ogni contrasto municipale; faceva offrire una spada d'onore a Garibaldi, che si era coperto di gloria nell'Uruguay; cercava di sopire i contrasti sociali tra nobiltà e borghesia con un articolo sull'Antologia Italiana di Torino diretta da F. Predari (Risposta alla lettera del Dottore Carlo Luigi Farini intitolata Dei Nobili in Italia e dell'attuale indirizzo delle opinioni italiane, III[1847], pp. 48-65). I reazionari subalpini, per opera del Solaro, tentarono di far espellere l'A. da Torino, ma non vi riuscirono. L'A. si sforzò di far dichiarare francamente dalla sua parte il re Carlo Alberto, ma fallì anche lui, e intuì che più che a Torino, era da adoperarsi a Roma per la causa liberale nazionale, a Roma, dove l'elezione di Pio IX aveva svegliato tante speranze. Prima, però, di ottenere dal papa il permesso di rientrare nello Stato romano, dové scrivere una Lettera al signor N. N.(Bologna 1846), cioè a Marco Minghetti, nella quale attenuava il fiero linguaggio dei Casi contro il governo papale. Così il 6 febbr. 1847 salpava da Genova alla conquista di Roma.

A Roma, il 13 febbr. 1847, ottenne un'intervista da Pio IX riferita in una famosa lettera al Balbo, che fu ampiamente diffusa (pubblicata dapprima in F. Predari, I primi vagiti, Milano 1861, pp. 188-192), e divenne l'anima del movimento moderato. Ispirava giornali, come il Contemporaneo e il Fanfulla;dirigeva le discussioni dei circoli, specialmente del "Circolo Romano"; fondava l'associazione della "Concordia"; spronava il papa alle riforme e cercava di scuotere con lettere aperte il Piemonte e Carlo Alberto; infine, riassumeva in un opuscolo il succo delle opinioni liberali, intitolandolo Proposta d'un programma per l'opinione nazionale italiana (Firenze 1847). Ma, soprattutto, l'A. predicava la necessità dell'indipendenza, e, quando l'Austria occupò Ferrara, compose una memoria sulla difesa dello Stato pontificio, la Protesta pei casi di Ferrara, Bastia (ma Bologna) 1847, e quando l'Austria infierì in Lombardia, le scagliò contro il più violento dei suoi opuscoli, I Lutti di Lombardia (Firenze 1848).

Era la guerra tante volte sognata contro il nemico ereditario, dichiarata finalmente a viso aperto, e, quando Carlo Alberto nominò Balbo presidente del primo ministero costituzionale, l'A. anziché raggiungerlo e collaborare con lui, preferì il suo dovere di soldato e pagare di persona nella guerra così costantemente predicata. Indusse il papa a porre alla testa delle truppe che inviava contro l'Austria il generale piemontese Giovanni Durando, e lo seguì col grado di colonnello. Una delle mansioni dell'A. era quella di stendere i proclami, e, in uno di essi, quello famoso del 5 apr. 1848, presentò come una crociata la guerra d'indipendenza italiana. Spiacque al papa tale interpretazione e volle mettere al coperto l'internazionalità della sua missione coll'allocuzione del 29 aprile, ma l'A. continuò a combattere valorosamente e il 10 giugno 1848 fu ferito a Monte Berico nell'eroica difesa di Vicenza.

Convalescente della ferita nella villa Almansi presso Firenze, con una serie di articoli (L'onore dell'Austria e l'onore dell'Italia - Quale sarà il diritto pubblico europeo - Parentele vecchie e parentele nuove) l'A. sferrò una vivace campagna che culminò nell'opuscolo Timori e speranze (Torino 1848) in cui il principio repubblicano era attaccato a fondo. Costretto, perciò, ad abbandonare la Toscana, tornò, a Torino, dove il 10 dic. 1848 gli fu offerta la presidenza del Consiglio dei ministri, che egli rifiutò ed accettò invece Gioberti. Dapprima l'A. avversò il Gioberti, ma, quando lo vide assai più moderato di quello che non lasciassero temere le sue parole, non gli negò il suo appoggio, specialmente per l'idea della spedizione anti-demagogica in Toscana. Dopo la rotta di Novara, il 7 maggio 1849, in un momento difficile, accettò il compito di presiedere il ministero.

Il problema più grave era la pace, che, per la opposizione della Camera, si complicava con la questione istituzionale. Dopo aver sciolta la Camera una prima volta nel luglio, l'A. fu costretto a scioglierla una seconda volta nel novembre e consigliò al re Vittorio Emanuele II quel proclama di Moncalieri, che, se parve incostituzionale alle vestali delle costituzioni, era, invece, costituzionalissimo per le oneste intenzioni che lo avevano dettato e fu opera di grande saggezza politica. La pace venne approvata quasi all'unanimità il 5 genn. 1850 e l'A. poté dedicarsi tutto alla sua opera di ricostruzione. L'esercito fu riorganizzato; Casale venne fortificata; il Piemonte divenne l'asilo della maggior parte dell'emigrazione politica italiana e comincio ad essere punto d'attrazione dei resto della penisola. Con l'abolizione del foro ecclesiastico (5 febbr. 1850), l'A. avviò la trasformazione del Piemonte in stato liberale laico moderno e mantenne coraggiosamente le sue riforme contro tutti gli attacchi del clero. Il ministro Giovanni Nigra riorganizzò le finanze; Cavour, entrato nel ministero l'11 ott. 1850, diede nuovo impulso al commercio; l'ordine fu conservato, tra l'ammirazione di tutti, contro i rossi e contro i neri. All'estero, se l'A. non riuscì a mantenere fedeli al regime costituzionale gli altri Stati della penisola con la missione Balbo a Gaeta nel 1849, ebbe invece l'appoggio morale entusiasta dell'Inghilterra e, salvo qualche noia per la libertà di stampa, godè dell'appoggio anche della Francia.

L'A. ebbe, il vanto di essere stato il mentore e il primo educatore politico di Vittorio Emanuele II. Ma se egli manteneva lo Statuto, non sapeva svolgerne le premesse. Si annoiava delle lunghe discussioni parlamentari e non sapeva dominarle. Nemico d'ogni setta, confondeva con le sette i partiti e ne ignorava la funzione dialettica. Il suo costituzionalismo era una specie di paternalismo costituzionale, che giovò peraltro molto ai difficili inizi del regime parlamentare in Italia. Come uomo di Stato, difettavano all'A. la continuità nel lavoro, che egli da artista amava soltanto a sprazzi e a scatti, la visione d'insieme lungiveggente, l'energia coordinatrice, la cultura tecnica nei problemi particolari. Salvo nella politica interna, nelle altre branche dell'amministrazione prevaleva la personalità dei singoli collaboratori: Giuseppe Siccardi, Giovanni Nigra, Cavour, Alessandro Jocteau, Alfonso La Marmora. Non fa meraviglia, quindi, che l'A. finisse col farsi sbalzare dal potere dal Cavour, che aveva tutte quelle doti che a lui mancavano, e fosse costretto a dimettersi il 22 ott. 1852.

Fino a quel giorno l'A. aveva preceduto gli eventi con mirabile fiuto ed era stato volta a volta pittore, romanziere, pubblicista, uomo politico e sempre al momento opportuno; d'allora in poi non precedé più i fatti, ma li seguì. Non derivava ciò da ripieghi personali, né da affievolimento delle facoltà intellettive e dell'entusiasmo morale, ma dalle conseguenze eccessive che traeva dall'esperienza del 1848-49: un'Italia ancora immatura per la libertà e un'Europa ancora non disposta a comprenderla. Tuttavia, non mancò di secondare Cavour tutte le volte che ne fu richiesto, senza piccinerie personali. Quando il re, colpito da una serie di lutti, balenò nella lotta anticlericale, l'A. intervenne e lo consigliò a perseverare con la sua lettera del 29 apr. 1855, e quando Cavour incontrò al Senato forte opposizione per la spedizione di Crimea trovò in lui un convinto sostenitore. Ma l'A. ebbe il torto di rifiutare l'incarico di rappresentare il regno di Sardegna al Congresso di Parigi (1856) e lasciò al suo rivale un'altra bella occasione per affermarsi. Dopo tre anni di vita tranquilla a Cannero, in cui tra l'altro pubblicò ne Il Cronista dell'amico G. Torelli i suoi deliziosi Bozzetti della vita italiana (Torino 1856), nei quali campeggia una delle sue più popolari figure umoristiche, il "sor Checco Tozzi", tornò alla politica militante nel 1859. Ebbe prima una missione segreta a Roma e poi un'altra a Parigi e a Londra alla vigilia della guerra, ma in quest'ultima missione, per i suoi scrupoli legalitari, era per cadere nelle panie della diplomazia europea quando, per fortuna, l'errore politico dell'Austria nel volere la guerra giovò più al Cavour che l'opera del suo collaboratore.

Della sua scarsa abilità diplomatica si riscattò in seguito l'A. come commissario straordinario in Romagna, specialmente per la bella campagna a favore dell'annessione dell'Italia centrale, che egli esplicò con un articolo nell'Opinione dell'11 sett. 1859, intitolato Il Piemonte e l'Italia centrale e con l'opuscolo La Politique et le Droit chrétien au point de vue de la question italienne (Paris 1860). Per ricompensa di questi servigi, Cavour gli offrì il posto di governatore di Milano ed egli accettò (16 genn. 1860).

La liberazione del Mezzogiorno segnò lo stacco dell'A. dal Cavour e dall'ondata unitaria, che egli aveva sino allora in sostanza sempre secondato. Il modo come si compì quella liberazione gli parve non bello: a Milano egli impedì ogni arruolamento di volontari, e, non potendo avere da Torino istruzioni precise sul suo modo di comportarsi in materia, si dimise da governatore e continuò ad osteggiare la politica del governo sabaudo verso Napoli fino a giungere a porre in dubbio nella lettera al senatore C. Matteucci la sincerità del plebiscito meridionale (2 ag. 1861). Credeva non ancora matura l'unificazione del nord col sud della penisola e già sufficientemente difficile fondere il nord col centro d'Italia, quasi che le occasioni storiche potessero aspettare i nostri comodi per ripresentarsi e che i fatti compiuti per il fatto stesso di essere compiuti non fossero già un principio di soluzione.

Come nella questione meridionale, così nella questione romana, l'A., che ora non seguiva più il corso della storia d'Italia, ma gli si contrapponeva nettamente, prese posizione contraria alle aspirazioni generali del paese, e nell'opuscolo Questioni urgenti (Firenze 1861) si scagliò contro la romanomania degli Italiani, non vedendo in essa che un motivo retorico e non comprendendo il fondo realistico che nell'aspirazione a Roma era in uomini tutt'altro che retori, in uomini come Camillo di Cavour (marzo 1861).

Per le discussioni sul trasporto della capitale a Firenze, l'A. fu accusato di municipalismo piemontese (Silva), ma egli fu invece in tale occasione pari a sé stesso e, in ultima analisi, seppe conciliare i suoi sentimenti di Piemontese con le esigenze politiche della nuova Italia. È da rimproverargli solo il desiderio che il trasporto della capitale fosse non una tappa verso Roma, ma la rinunzia a Roma, il che era divenuto in lui una vera fissazione.

Nel principio del 1863 cominciò a stendere i suoi Ricordi,che aveva condotti fino alla narrazione del colloquio famoso con Carlo Alberto, quando il 15 genn. 1866 la morte troncò, a Cannero, questa autobiografia tra le più caratteristiche del nostro Risorgimento.

Le varie interpretazioni dell'A. possono ricondursi a due fondamentali. La prima fu espressa nel modo più vivo da Margherita Provana di Collegno nel suo Diario (ed. A. Malvezzi, Milano 1926, p. 26): "La materia prima in lui è quella dell'artista, ne ha tutte le qualità e tutti i difetti, ed egli sembra compiacersi tanto delle une quanto degli altri... Nel 1847 faceva il cospiratore da artista, nel 1848 fece il soldato da artista, nel 1849 fu nominato capo del Ministero piemontese e riuscì a dare un colore ed un carattere artistico a quella carica antiartistica...".

Più penetrante è la seconda interpretazione, che ebbe in Francesco De Sanctis il più vigoroso sostenitore e verso la quale noi propendiamo: sotto un'apparente negligenza - "spensierato, stravagante, piacevolone nel conversare, pieno di motti e di frizzi, con certa scioltezza di forme, con certo abbandono naturale" - l'A. celava un fondo d'uomo serio, una profonda vocazione etico-politica. L'A. fu essenzialmente un grande educatore nazionale e dell'educatore nazionale ebbe la dote fondamentale assai rara, del coraggio civile. In un momento delicato per la storia del Piemonte e dell'Italia, in cui alta politica e morale coincisero, l'azione dell'A. fu decisiva per il nostro paese. La paura di veder rimorchiota il governo sabaudo dal partito d'azione rivoluzionario, secondo alcuni (Vaccalluzzo) o, a nostro avviso esattamente, la paura di vedere sommergere il vecchio Piemonte dai "sopravvenuti tumultuosi elementi" delle altre parti d'Italia, secondo altri (Silva), spiegano l'opposizione finale dell'A. alla soluzione unitaria. Ma in questa opposizione non vi era l'acidità radicale d'un Cesare Cantù; vi era, invece, la collera dell'amore di chi vede la donna amata tanto diversa da quella vagheggiata e per giunta in braccio ad "empi rivali", ma che per lei sarebbe sempre disposto a ricominciare ad agitarsi e a combattere.

Manca una bibliografia aggiornata degli scritti di e su A.; è ancora utile A. Vismara, Bibliografia di M. d'Azeglio,Milano 1878.

Fondamentali le ultime edizioni di opere azegliane condotte sugli autografi da A. M. Ghisalberti: I miei ricordi,Torino 1949; La Lega Lombarda, Le autopsie, Roma 1946 [ma 1949].

Degli Scritti e discorsi politici dell'A. ha curato una buona edizione M. De Rubris (Firenze 1932-1938, 3 voll.), cui si rinvia per le notizie sulla pubblicazione dei singoli scritti.

È da augurarsi una raccolta completa dell'epistolario azegliano (cfr. A. M. Ghisalberti, Un epistolario da raccogliere [con lettere inedite di M. d'A.],in Rass. stor. del Risorgimento, XXX [1943], pp. 398-403). I principali carteggi editi sono: L'Italie de 1847 à 1865. Correspondance politique de M. d'A. accompagnée d'une introduction et des notes par E.Rendu,Paris 1867; Lettere di M. d'A. a sua moglie Luisa Blondel,a cura di G. Carcano, Milano 1870 (nuova ediz. accresciuta, ibid. 1871); Lettere di M. d'A. al fratello Roberto,a cura di G. Briano, Milano 1872; Lettere di M. d'A. a Carlo di Persano,Torino 1878; L. Chiala, Le confidenze politiche di due uomini dabbene. M. d'A. e Alfonso La Marmora,in Nuova Antologia, 1º ag. 1879, pp. 431 ss., e 1º sett. 1879, pp. 18 ss.; N. Bianchi, Lettere inedite di M. d'A. al marchese E. d'Azeglio, Torino 1883-1884, voll. 3; Lettere inedite di uomini illustri a M. d'A.,con prefazione e note di P. Fea, Firenze 1884; Lettere di M. d'A. e di Filippo Gualtiero a T. Tommasoni,con avvertenza e note di G. Tommasoni, Roma 1885; M. d'A. e Diomede Pantaleoni. Carteggio inedito,con prefaz. di G. Faldella, Torino 1928; M. De Rubris, Carteggio polit. tra M. d'A. e Leopoldo Galeotti, Torino 1928; Id., Conferenze di M. d'Azeglio: Dal carteggio con Teresa TargioniTozzetti,Milano 1930.

L'attività artistica dell'A. negli ultimi anni è stata oggetto di un risveglio d'interesse nella critica. Ebbe maestro di disegno, durante il primo soggiorno romano, don Ciccio de Capo, pittore calabrese della scuola tradizionale, di scarsa levatura: la mancanza di una vera educazione artistica pesò poi su tutta la sua attività, e l'approssimatività del procedimento, sia pure accompagnata a una notevole dose di passione, si riflette negli stessi Ricordi quando l'A. descrive i suoi furori pittorici, la sua profonda aspirazione di imparare "prima di tutto... a riprodurre il vero, poi a fare i quadri". Durante il suo secondo soggiorno a Roma egli seguì il pittore fiammingo Martin Verstappen nelle passeggiate nella campagna e nei Castelli in cerca del paesaggio, del costume, del tipo; di queste passeggiate è rimasta testimonianza in un album di schizzi e felici annotazioni pittoriche dal vero che si possono datare tra il 1821 e il 1825 (Torino, Museo del Risorgimento). È, andato perduto il suo primo quadro a olio, del 1821, che l'A. stesso descrive come veduta di un castello con il Soratte nello sfondo, "roba di poco valore artistico ma... che tutto insieme, a chi non capiva, poteva piacere"; nonostante l'arguta autocritica il quadro piacque e la descrizione dell'autore ci conferma quella costanza di indirizzo nella pittura dell'A. che sarà anche il suo limite. Infatti come nella sua produzione letteraria anche in quella pittorica egli si infiammava per i motivi romantici; ma se nel 1825 i suoi paladini e cavalieri erano una novità rispetto ai pastori e al bestiame che popolavano i paesaggi di quel tempo, nel 1862 quando egli dipinse la sua ultima opera, L'incontro di Ulisse e Nausica,questi personaggi ancora romanticamente interpretati avevano un sapore di sorpassato e stucchevole. Maggior pregio hanno i suoi quadri di piccole dimensioni, i paesaggi bagnati di luce in cui i toni sono ricercati in funzione di un'atmosfera dorata, che, se da un lato ravvicina questi paesaggi alle vedute settecentesche, dall'altro, per il tempo rapido e conciso e la spontaneità, segnano una tappa nella storia della pittura di paesaggio piemontese (Effetto di tramonto sul monte Cenere,Torino, Galleria d'Arte Moderna; Il castagno di Loveno,Torino, Gall. Sabauda; Veduta del Castel dell'Uovo,Vigliano Biellese, Collez. Avogadro di Collobiano).

L'A. si dedicò alla pittura con serio intento e sin dal principio ebbe chiara l'ambizione di vendere i suoi quadri. E la sua fama di pittore crebbe contemporanea a quella del politico seppure in gran parte fosse condizionata da questa. Nel 1853, su cinque quadri portati a Londra quattro furono venduti ad alto prezzo; ebbe commissioni da Napoleone III, dal duca di Genova, da Vittorio Emanuele II. Nel 1855 l'A. subentrò al fratello Roberto come direttore della Pinacoteca di Torino e i suoi interessi per la pittura non si affievolirono anche se in lunghi periodi altre attività avevano il sopravvento.