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Il Cortegiano è un trattato scritto da Baldassare Castiglione
tra il 1513 e il 1524, sottoposto a correzioni e pubblicato
definitivamente nel 1528, poco prima della sua morte. Baldassare
trasse l'ispirazione per il Cortigiano dalla sua esperienza come
cortigiano della duchessa vergine Elisabetta Gonzaga alla corte di
Urbino. Il libro si presenta come un dialogo in quattro libri, di
cui il terzo parla delle regole per diventare una signora perfetta,
mentre i rimanenti si occupano di come si diventa un vero
cortigiano.
L’opera, sotto forma di dialogo, è divisa in quattro libri e
descrive usi e costumi ideali del perfetto cortigiano.
Il libro fu un successo immediato e fu uno dei libri più
venduti nel sedicesimo secolo. Durante la sua vista in Italia
Francesco I di Francia lo lesse e ne fu così impressionato da
farlo tradurre in francese. Ne fece fare varie copie, che
distribuì tra i suoi cortigiani. Pensava che il libro
dipingesse il suo modello ideale di corte reale, lo stesso cui
cercò di arrivare per la sua.
Al giorno d'oggi il Cortegiano rimane un ritratto della vita di
corte rinascimentale. Per questo aspetto è una delle opere
più importanti del Rinascimento.
Descrizione dell'opera
Pienamente inquadrato in quell'ormai sorta modernità, che si
è svincolata dalla metafisica e dalla religione,
convertendosi – come nota Hegel – dal cielo alla terra, il pensiero
di Baldesar Castiglione presenta un profondo rilievo filosofico,
soprattutto se opportunamente inserito nel contesto culturale in cui
è maturato: l'interesse metafisico per che cosa sia realmente
l'uomo è stato congedato e surclassato dalla nuova e
antimetafisica categoria dell'utile e del mondano, dell'individuale
di contro all'universale. Tratto saliente del pensiero moderno (che
è e rimane antimetafisico) è, in campo pratico,
l'assunzione di una riflessione mirante a calcolare gli interessi
terreni e mondani della collettività, e non stupisce dunque
che all'origine del moderno vi siano non già trattati,
bensì manuali, quale è Il Principe di Machiavelli o Il
cortegiano di Baldesar Castiglione: ci troviamo cioè di
fronte a guide pratiche, che segnano il mutato indirizzo di
pensiero.
Se per Machiavelli il fine a cui è orientata ogni nostra
azione è la preservazione di se stessi, in Castiglione la
preservazione diventa "cortegiania", ossia il soggiornare a corte
piacendo al principe, ed anch’egli esorta il lettore ad una
riflessione di calcolo: Machiavelli ci invita a fare come gli
arcieri prudenti (Il principe, cap. VI), che calcolano con
precisione la traiettoria delle frecce, scagliandole tanto
più in alto quanto più è distante il bersaglio;
Castiglione, invece, esorta il suo apprendista cortigiano ad un
calcolo analitico e sistematico, a cui non sfugga nulla di
ciò che deve essere fatto e detto:
«consideri ben che cosa è quella che egli fa o dice e
'l loco dove la fa, in presenzia di cui, a che tempo, la causa
perché la fa, la età sua, la professione, il fine dove
tende e i mezzi che a quello condur lo possono; e cosí con
queste avvertenzie s'accommodi discretamente a tutto quello che fare
o dir vole»
(Il cortegiano, II, 7)
Castiglione, dunque, teorizza quale debba esser l'arte di chi sta a
corte descrivendola anzitutto come arte della conversazione: il
compito del "cortegiano" è infatti primariamente quello di
piacere al principe e la conversazione è appunto uno degli
strumenti per generare tale piacevolezza, il torneare con motti
ingegnosi, il dispiegare facezie, arguzie e giochi di parole,
inscenando un "gioco ingegnoso" che permetta di conversare
amabilmente.
E tale conversazione è distinta dall'oratoria del filosofo
platonico/metafisico: "né io voglio che egli parli sempre in
gravità, ma di cose piacevoli, di giochi, di motti e di
burle, secondo il tempo"; non è un caso che uno dei
protagonisti de "Il Cortegiano" sia Pietro Bembo, il più
grande petrarchista rinascimentale, depositario della concezione
platonica dell'amore: egli – nell'opera di Castiglione – rappresenta
il tipico metafisico e si avventura in un discorso platonizzante,
finché non è interrotto da Cesare Gonzaga, che lo
mette in guardia facendogli cortesemente notare che a parlare in
maniera così elevata si rischia di far la fine di Icaro, al
quale - volando troppo vicino al sole – si sciolse la cera delle ali
e di conseguenza precipitò in mare.
Bembo, nel suo argomentare metafisico, pare quasi "astratto e fuor
di sé" ed incarna l'universal ragione metafisica in
contemplazione del mondo intelligibile, e – non a caso – di lui si
dice stava con lo sguardo fisso verso l'alto – quasi rimirasse i
cieli iperuranici -, "come stupido", fino a che la signora Emilia
non lo afferra per il vestito e, scossolo, lo fa tornare in
sé dicendo scherzosamente: "guardate, signor Pietro, che con
questi pensieri rischiate che l'anima si separi dal corpo". Al di
là dell'inevitabile effetto comico della scena, vi è
un evidente richiamo del filosofo, perso dietro ai sogni di un
visionario in preda di un attacco di delirante metafisica, a
ritornare coi piedi per terra, saldamente fissi sul vero mondo.
Nelle parole di Emilia (che simboleggiano quelle di Castiglione) si
scorge quell'invito a rivolgersi dal cielo alla terra che è
tipico dell'età moderna, un volgersi dal sublime al mediocre,
pienamente consapevoli dei propri limiti intrinsechi: dalle
speculazioni metafisiche tendenti ad avvitarsi su se stesse senza
giungere a nulla di concreto si sostituisce un pacato conversare
mirante ad un piacevole stare insieme, ed è appunto in questo
che consiste il vivere in società quale Castiglione lo
intende. La conversazione così concepita diventa forma di
mediazione di conflitti, un discorrere accademico vagliando i
diversi punti di vista per poter in tal maniera risolvere i
conflitti tra individui e aspirare ad una pacifica conciliazione.
Emerge vivamente il carattere tentativo/ipotetico/congetturale che
ha assunto il conversare in età moderna, un discorrere
formulando ipotesi, discutendole e, in ultima battuta, trovando la
mediazione che le concili: proprio in ciò risiede il tratto
distintivo della convivenza sociale, affidata al tatto, così
come nel buio si tasta ciò che ci circonda per trovare la
strada.
Lo stesso Montaigne, in età rinascimentale, quando intitola
la sua opera Essays (Saggi) fa riferimento all'etimologia del
termine, legato al "saggiare" ciò che ci circonda,
così come si saggia un terreno per appurare che non ceda
sotto il nostro peso. Per questa via, il male e il bene
metafisicamente intesi come assoluti cedono il passo a ipotesi e a
punti di vista che, senza arrogarsi la pretesa di sapere con
certezza, vengono a confronto pacificamente. In un contesto di
questo genere è allora fondamentale, secondo Castiglione, la
"sprezzatura": "e, per dir forse una nova parola, usar in ogni cosa
una certa sprezzatura, che nasconda l'arte e dimostri ciò che
si fa e dice venir fatto senza fatica e quasi senza pensarvi". In
pochi (forse anzi nessuno) posseggono la "cortegianeria"
naturalmente, giacché in pochi son dotati dell'arte di
inanellare piacevolmente motti di spirito e giochi di parole, ed
è per questo ch’essa dev’essere acquisita con arte; ma se
è frutto di uno sforzo e deve presentarsi come graziosa, ne
segue che lo sforzo che la produce deve essere celato, perché
esso non è piacevole a vedersi: la sprezzatura è
appunto l'arte di celare l'arte, l'artifizio di dissimulare la
simulazione, il far comparire la grazia ma non lo sforzo che l'ha
prodotta. In altri termini, la grazia deve diventare come una
seconda natura e in chi non la possiede per natura (cioè
nella maggioranza dei casi) essa è frutto di calcolo e di
simulazione, ma ciononostante deve apparire come se fosse dote
naturale.
Come esempio tipico di sprezzatura possiamo addurre il caso
dell'attore; a tutti noi pare un pessimo attore quello in cui
è palese lo sforzo che compie di recitare, ossia quello in
cui ci accorgiamo che sta recitando; ci sembra invece un ottimo
attore quello che impersona la parte come se fosse la sua vera
natura. Per raggiungere la sprezzatura, però, sono possibili
due diverse vie, teorizzate – in epoche diverse e posteriori a
Castiglione: da un lato, Diderot – nel suo Paradosso sull'attore –
sostiene l'assoluta freddezza dell'attore, asserendo che questi
è tale nella misura in cui è freddamente distaccato
dai personaggi che impersona; è tale freddezza, infatti, la
risorsa che gli permette di celare lo sforzo che egli compie per
impersonare quella data parte. La seconda via è quella
percorsa in Russia da Stanislawskij, il quale sosteneva che si
diventa ottimi attori solamente se ci si cala nei personaggi
impersonati, identificandosi con essi e in essi scomparendo, a tal
punto confondendosi da nascondere lo sforzo che si compie per
imitarli. Il contrario della sprezzatura è l'"affettazione",
che altro non è se non il fallimento della sprezzatura
stessa, lo sforzo di essere graziosi che non riesce a celarsi.
L'esempio che Castiglione adduce in merito è quello del
ballerino che danza "con tanta attenzione che di certo pare vada
enumerando i passi", senza riuscire ad introiettare lo sforzo di
esser piacevole. L'affettato è, in altri termini, colui che
vuole piacere ma non vi riesce ed è perciò tenuto
lontano dalla corte nello stato di natura, impacciato nella sua
assenza di grazia; egli, manifestando un evidente ed esasperato
sforzo di autocontrollo, rivela un non ancora avvenuto
autocontrollo, dimostra di volersi controllare ma di non essere
ancora capace a farlo senza darlo a vedere.
Letteralmente, "stare a corte" significa "corteggiare", "fare la
corte", ovvero seguire il principe intrattenendolo ovunque egli si
rechi, facendo cerchia intorno al potere: sicché la corte,
per un verso, è il luogo segreto in cui si esercita il potere
e, per un altro verso, è il luogo aperto, festivo e solare in
cui si pratica la rappresentazione dello stare a corte: è,
per dirla diversamente, il potere che da un lato viene esercitato e
dall'altro inscena sé stesso, cercando in tal maniera la
propria legittimazione; ma esso è anche tale da modificare
sempre più sensibilmente la convivenza, poiché da una
parte la corte legittima – mascherandolo – il proprio potere, ma
dall'altra – indossando tale maschera – tempera e modifica il
proprio potere stesso.
E così la corte rinascimentale segnala un accentramento del
potere (il che è centrale per il futuro passaggio
all'assolutismo), ma si configura anche come accentramento di
consuetudini: "la vita del principe è legge e maestra dei
cittadini e forza è che dei costumi di quello dipendano
quelli di tutti gli altri", scrive Castiglione, e tale vita di corte
– così concepita – si presenta con tutte le caratteristiche
della cortesia. Qualche decennio dopo, Torquato Tasso
comporrà dei trattati di divulgazione filosofica che
costituiscono un autentico compendio umanistico/rinascimentale: in
uno di questi, significativamente intitolato Il malpiglio ovvero
della corte – egli riprende temi di Castiglione, arrivando a
scrivere quanto segue:
«le virtù non tutte ugualmente né sempre si
manifestano, ma la magnificenza, la liberalità e quella che
si chiama cortesia è dipinta coi più fini colori che
abbia l'artificio della corte e del cortegiano; parimenti la
virtù del conversare, l'affabilità e la
piacevolezza»
La cortesia compendia tutte le virtù ed è l'arte del
conversare piacevolmente (in netta antitesi con lo scontro verbale
dei singoli); essa si forma a corte e si diffonde gradualmente nella
società civilizzandola. Il conciliare il principe si sposta
così al conciliare i cittadini fuori dalla corte: si deve
dunque in ogni caso esser piacevoli e schivare la noia, ma la corte
si intrattiene perché si trattiene; emerge cioè sempre
più l'arte del padroneggiarsi, giacché nella misura in
cui ci si domina ci si risulta scambievolmente piacevoli e ci si
trattiene. Nel Seicento, La Bruyère dirà che "un uomo
che sa la corte è padrone dei propri gesti, dei propri occhi,
del proprio volto", ossia sa perfettamente come condursi su quel
palcoscenico che è la vita; ma è a corte che si
sviluppa la capacità di smussare le differenze e di
incorporare le conflittualità, presentandole sotto l'egida
dell'etichetta e del protocollo capaci di armonizzare ogni cosa; ed
è lì che la forza bruta viene sostituita da quella
trattenuta e dissimulata, ed è appunto in ciò che
possiamo scorgere la funzione civilizzatrice della cortesia.
Ancora La Bruyère sintetizza: "la corte è come un
palazzo di marmo: voglio intendere che essa è composta di
uomini ben duri ma politi"; come si evince dal testo, la
spigolosità degli individui a corte non è eliminata,
ma solamente polita, ovvero trattenuta per convenzione; e un poco
alla volta le buone maniere diffusesi a corte si divulgheranno nella
società e fra i cittadini, producendo quel fenomeno che
è l'urbanità, cui è opposta la villania, ovvero
l'atteggiamento del villano che sta lontano dalla città e
dalle buone maniere. La civiltà, insomma, prende a
svilupparsi sul modello della corte, ingerendone le usanze e i
costumi: ne è prova lampante il fatto che la civiltà
moderna è la civiltà delle cosiddette buone maniere,
trasferitesi dalla corte alla città.
E come il discorso di Machiavelli non valeva solo per il principe,
ma per ogni cittadino, ugualmente quello di Castiglione non è
rivolto solo al cortigiano, ma anzi ci invita tutti a diventare
cortigiani, ad esser piacevoli con gli altri, intrattenendo la
malagrazia e la spiacevolezza dell'egoistica individualità di
ciascuno di noi, individualità che la cortesia reprime e
dissimula: ma si tratta di qualcosa che si spinge oltre all'ipocrita
dissimulare, giacché si realizza una reale smussatura
dell'aggressività, e ciò si attua grazie all'operare
dell'arte della cortesia. La funzione civilizzatrice della corte
è ribadita da Monsignor Giovanni della Casa nel suo Galateo
overo de' costumi, in cui scrive:
«e queste parole di signoria e di servitù e le altre a
queste somiglianti, come io di sopra ti dissi, hanno perduta gran
parte della loro amarezza; e, sì come alcune erbe nell'acqua,
si sono quasi macerate e rammorbidite dimorando nelle bocche degli
uomini.»
(Galateo, cap. XVI)
Anche per Giovanni della Casa la cortesia non elimina, ma
ammorbidisce la servitù e la signoria, rendendole più
vivibili, proprio come l'acqua ammorbidisce certe erbe in essa
immerse.