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Termine storiografico usato per indicare quel complesso processo
    spirituale e politico, quella serie di trasformazioni economiche e
    sociali, di atteggiamenti letterari e culturali, di eventi
    diplomatici e militari, che tra la fine del Settecento e
    l’Ottocento, intrecciandosi e contrastandosi, portarono l’Italia dal
    secolare frazionamento politico all’unità, dal dominio
    straniero all’indipendenza nazionale, dall’assolutismo monarchico
    allo Stato liberale e costituzionale sotto la dinastia sabauda.
    
    Il Congresso di Vienna (1814-15) aveva riportato l’Italia alla
    frammentazione in vari Stati, soggetti al dominio diretto o
    indiretto dell’Austria. Contro la Restaurazione si formarono alcune
    società segrete di orientamento democratico-radicale, che
    animarono la prima fase del R. battendosi per un’Italia libera,
    unita e indipendente: la Carboneria organizzò i moti del
    1820-21 nei regni delle Due Sicilie e di Sardegna e del 1831 in
    Emilia Romagna e nelle Marche; la Giovine Italia di G. Mazzini
    promosse diverse insurrezioni. 
    
    Il fallimento di queste azioni favorì la nascita di correnti
    moderate, che cercarono la collaborazione di sovrani e ceti
    dominanti. Il neoguelfismo, propugnato da V. Gioberti, proponeva una
    confederazione di Stati italiani sotto la presidenza del papa; C.
    Balbo e M. d’Azeglio promossero il ruolo di guida del Piemonte
    sabaudo; C. Cattaneo mirò a una federazione italiana di
    repubbliche autonome. La breve stagione delle riforme, inaugurata
    dall’elezione al pontificato di Pio IX (1846), vide i sovrani
    concedere gli statuti, ma si concluse con le rivoluzioni del 1848. 
    
    Carlo Alberto di Savoia dichiarò guerra all’Austria, dando
    inizio alla prima guerra d’indipendenza; nella prima fase i
    piemontesi furono affiancati da Pio IX, Leopoldo di Toscana e
    Ferdinando re delle Due Sicilie, ma, dopo il ritiro degli alleati,
    la controffensiva austriaca fu affrontata dai soli piemontesi. Dopo
    la sconfitta di Carlo Alberto (1848) a muoversi furono i
    democratici, con la proclamazione delle Repubbliche di Toscana,
    Venezia e Roma. 
    
    Nel 1849 Carlo Alberto attaccò nuovamente l’Austria, ma, dopo
    essere stato sconfitto a Novara, abdicò a favore del figlio
    Vittorio Emanuele II. Cadute le Repubbliche, tutte le Costituzioni
    furono revocate, a eccezione dello Statuto albertino. 
    
    Dopo il fallimento dei tentativi insurrezionali mazziniani,
    l’iniziativa passò alla monarchia sabauda e a Cavour, capo
    del governo piemontese, che cercò in Europa le condizioni
    diplomatiche per la seconda guerra d’indipendenza, assicurandosi
    l’appoggio di Napoleone III. 
    
    Il conflitto (1859-60), dopo le insurrezioni dell’Italia centrale e
    la spedizione dei Mille di G. Garibaldi, si concluse con i
    plebisciti per l’annessione delle regioni centro-meridionali e la
    proclamazione del Regno d’Italia (1861) da parte del Parlamento di
    Torino e quindi con il successo del programma monarchico unitario.
    
    [...]
    
    2. La storiografia del Risorgimento
    
    Sul piano storiografico il R. è stato a lungo oggetto di
    polemiche accese. I primi contrasti interpretativi esplosero
    all’indomani stesso dell’unificazione politica dell’Italia: le
    esaltazioni apologetiche e agiografiche dei vincitori, monarchici,
    moderati, liberali da una parte, le requisitorie e le recriminazioni
    dei vinti, mazziniani e repubblicani, borbonici e clericali
    dall’altra, hanno radici nelle stesse lotte e passioni
    risorgimentali. Negli ultimi decenni dell’Ottocento, alle
    rappresentazioni spesso convenzionali dell’epopea risorgimentale si
    contrappose un proficuo lavoro di ricerca filologica e archivistica,
    di pubblicazione di documenti e di ricostruzione biografica.
    
    Alcuni studiosi, sensibili all’orientamento idealistico prevalente
    nella cultura italiana dell’epoca, richiamandosi esplicitamente al
    mito di rigenerazione umana proclamato dai profeti risorgimentali
    (V. Alfieri, U. Foscolo, G. Mazzini, V. Cuoco, V. Gioberti ecc.),
    finirono con il ridurre l’intero periodo a questa unica matrice
    culturale. In opposizione a questa unilaterale interpretazione del
    R., sotto la spinta inoltre di una ripresa delle forze democratiche
    nella lotta politica e con l’affermazione del pensiero socialista,
    verso la fine dell’Ottocento scesero in campo gli storici della
    cosiddetta scuola economico-giuridica.
    
    A complicare e confondere il puro problema storiografico
    s’insinuarono nel dibattito anche preoccupazioni di carattere
    nazionalistico: storici e pubblicisti cercarono di rivendicare la
    piena originalità e autonomia del processo risorgimentale
    rispetto alle influenze politiche e culturali straniere, soprattutto
    rispetto alla Rivoluzione francese e al dominio napoleonico, a cui
    tradizionalmente si facevano risalire gli inizi di quel processo.
    Contro la dilagante ondata nazionalistica, che poi divenne
    particolarmente insistente durante il fascismo, lo stesso B. Croce
    intervenne sostenendo che, sul piano politico, di storia
    propriamente italiana si poteva parlare soltanto a partire dal 1860,
    da quando il popolo italiano si era costituito politicamente in un
    effettivo organismo statale.
    
    Studiosi di ogni tendenza storiografica si dedicarono all’analisi
    delle epoche anteriori al Settecento, nell’intento di cogliere sul
    nascere le prime aspirazioni unitarie e liberali: furono condotte
    ricerche sulle condizioni politiche e diplomatiche dell’Italia e
    dell’Europa alla fine delle guerre di successione e sulle profonde
    trasformazioni sociali avvenute durante il dominio spagnolo in
    Italia. Per effetto di questo allargarsi delle indagini si
    ripudiò la data del 1815, tradizionalmente assunta come
    inizio del R., e si tese a riportare sempre più indietro le
    origini del movimento patriottico, sia sul piano culturale, sia sul
    piano più propriamente politico. Una tale esaltazione della
    continuità storica rischiò di dissolvere il concetto
    stesso di R.: una volta dissociati e singolarmente riportati alla
    loro origine i motivi confluiti nella sintesi risorgimentale, la sua
    storia si risolveva senza residui nella più generale storia
    italiana del 18° e del 19° secolo.
    
    Come tradizionalmente veniva narrata, la storia del R. appariva
    opera di un’esigua minoranza, e il fenomeno della frattura fra
    minoranza intellettuale e popolo era stato soltanto sfiorato, ma mai
    sviluppato nelle sue implicazioni. Sotto l’urgenza delle agitazioni
    sociali scoppiate alla fine della Prima guerra mondiale, alcuni
    uomini politici e studiosi furono indotti a rivolgere la loro
    attenzione a questo problema: si riparlò allora di conquista
    regia, di grettezza conservatrice e di tradimento degli ideali
    morali e religiosi affermati da Mazzini e dagli altri protagonisti
    risorgimentali. Tra i numerosi studi pubblicati in questo filone
    spiccano le opere di P. Gobetti. Esse dettero impulso a una
    più meditata valutazione del R., che il clima instaurato dal
    fascismo non riuscì a soffocare: La Storia del liberalismo
    europeo di G. De Ruggiero, gli scritti sul R. e in particolare
    L’opera politica del conte di Cavour di A. Omodeo e la Storia
    d’Europa nel sec. XIX di B. Croce nacquero anche come risposta
    polemica alle tesi antiliberali del fascismo. Sul motivo religioso
    insistevano altri studiosi tra cui F. Ruffini, i quali vedevano nel
    giansenismo italiano del Settecento una delle componenti essenziali
    del R., e a partire da questo ricostruirono l’ambiente morale e
    intellettuale in cui si formarono uomini come Manzoni e Cavour. Ma
    anche sul terreno religioso si doveva constatare la frattura che
    divideva il popolo italiano dalle aristocrazie intellettuali.
    
    Nuovo vigore e nuovi spunti problematici alle ricerche sul R.
    portò nel 1949 la pubblicazione delle riflessioni di A.
    Gramsci Sul Risorgimento, in cui il processo che condusse
    all’unificazione è classificato come la prima grande
    rivoluzione politica dell’età contemporanea, da analizzare
    nei suoi aspetti economici e sociali a partire dall’apporto delle
    varie componenti della società italiana. L’analisi di Gramsci
    rinnovò completamente la storiografia italiana del secondo
    dopoguerra, stimolando una più acuta sensibilità ai
    temi delle classi popolari e della questione agraria, e introducendo
    ottiche e strumenti nuovi nello studio dei movimenti politici e
    delle sette segrete.
    
    Negli ultimi decenni del 20° sec. accanto a ricerche su vari
    aspetti del ‘politico’ nel R. italiano (leader, organizzazioni,
    idee, istituzioni) si fece largo un’inclinazione non ideologica, con
    studi sulle formazioni sociali (nobiltà, borghesie, ceti
    popolari), le dinamiche economiche (processi di accumulazione e di
    trasformazione, soprattutto nel settore agrario) e gli assetti
    istituzionali (giurisprudenza e strutture statuali degli Stati
    preunitari) dell’Italia di primo Ottocento. 
    
    Tuttavia, sia la prospettiva storiografica tradizionale (interessata
    agli aspetti politico-ideologici) sia quella più originale
    (interessata alle questioni economiche, sociali e istituzionali)
    avevano, per ragioni diverse, messo in second’ordine un aspetto
    essenziale per la comprensione del processo risorgimentale, ossia la
    formazione e il radicamento di un senso di appartenenza a una
    comunità nazionale italiana e, di conseguenza, anche la
    profondità culturale del processo di edificazione di uno
    Stato-nazione che da tale senso di appartenenza era derivato. 
    
    A colmare questa lacuna si sono dedicati prima studi che hanno
    indagato i rituali di ‘nazionalizzazione delle masse’ nell’Italia
    postunitaria, fra cui spiccano, in particolare, quelli di B. Tobia
    (Una patria per gli italiani, 1991), di U. Levra (Fare gli italiani,
    1992) e di I. Porciani (La festa della nazione, 1997). 
    
    A essi hanno fatto seguito ricerche più direttamente
    impegnate nella ricostruzione delle connotazioni fondamentali
    dell’idea di nazione in epoca risorgimentale (A.M. Banti, La nazione
    del Risorgimento, 2000; C. Sorba, Teatri. L’Italia del melodramma
    nell’età del Risorgimento, 2001; Le immagini della nazione
    nell’Italia del Risorgimento, a cura di A.M. Banti, R. Bizzochi,
    2002; e Storia d’Italia, Annali, 22° vol., Il Risorgimento, a
    cura di A.M. Banti, P. Ginsborg, 2007). 
    
    
Gli studi sul R. hanno ricevuto un innegabile impulso dalle celebrazioni centenarie dell'unificazione politica italiana, che diedero luogo non solo a mostre significative e a congressi internazionali di ampio respiro (come quelli dell'Istituto per la storia del Risorgimento italiano tenutisi a Milano nel 1959, a Palermo-Napoli nel 1960 e a Torino nel 1961) ma anche a importanti iniziative editoriali, come la collana dell'editore Giuffrè "L'organizzazione dello Stato", in 10 volumi, diretta da A.M. Ghisalberti e coordinata da A. Caracciolo. Quelle manifestazioni confermarono il definitivo superamento, nel campo degli studi, di ogni agiografica concezione del R., già abbandonata, del resto, dalla migliore storiografia sempre attenta all'ammonimento espresso da G. Volpe fin dal 1921 (in una recensione alla Storia del Risorgimento politico d'Italia di I. Raulich) a non identificare la storia del R. con la storia del patriottismo italiano.
Non è privo di significato il fatto che proprio a ridosso della ricorrenza centenaria ci si sia interrogati anche sulla presenza della tradizione liberale del R. nella realtà politica italiana contemporanea, e che l'interrogativo abbia avuto da parte di due storici come R. Moscati e R. Romeo, di comune matrice ''liberale'' ma di diversa generazione, una risposta affermativa dal primo e negativa dal secondo.
Il definitivo abbandono di ogni atteggiamento agiografico è stato accompagnato da un allargamento degli studi sul R. che infatti, nell'ultimo trentennio (anni Sessanta-Novanta), hanno avuto in prevalenza come oggetto l'intera società italiana tra la fine del secolo 18° e gli inizi del 20°, colta in tutte le sue manifestazioni politiche, sociali, economiche, culturali, religiose, artistiche. Sono stati oggetto d'indagine quindi le condizioni degli antichi stati italiani esaminati nella loro realtà, indipendentemente dalla successiva soluzione unitaria, la grande trasformazione politica della penisola sfociata nell'unificazione, l'organizzazione dello stato unitario, il travaglio del Mezzogiorno, il sistema economico nazionale e lo sforzo per superare condizioni di arretratezza secolari.
Né sono state trascurate le arti figurative, come dimostra il profilo storico artistico di C. Maltese (1960), che ha rinnovato gli studi sull'arte dell'Ottocento italiano con un'attenzione particolare al rapporto tra aspirazione all'unificazione politica della penisola e ''momento unitario'' dell'arte italiana. Di conseguenza, con le tematiche strettamente politiche si sono intrecciate sempre più spesso ricerche sistematiche, spesso su base regionale, riguardanti le dinamiche socio-economiche, i fatti demografici e finanziari, l'agricoltura e l'industria, lo sviluppo e l'istruzione.
Quest'allargamento di prospettive ha rappresentato un aspetto e una conferma di quel rinnovamento storiografico che aveva avuto inizio a metà degli anni Cinquanta, quando l'Italia, sul punto di fare il suo ingresso fra le maggiori nazioni industrializzate, aveva cominciato a interrogarsi sulle origini e sui caratteri della sua formazione industriale. La questione, tradizionalmente riservata agli studiosi di storia economica, o comunque agli specialisti che erano soliti affrontare i temi connessi ai problemi dello sviluppo, questa volta coinvolse direttamente anche quanti studiavano la trasformazione della società italiana, le sue strutture politiche e amministrative, le classi subalterne, i movimenti politici, la classe dirigente, la sua composizione sociale. A questa collaborazione tra storici ed economisti − già a lungo discussa nella Rivista di storia economica fondata nel 1936 da L. Einaudi e auspicata da eminenti studiosi come A. Sapori, F. Chabod e G. Luzzatto (v. A. Caracciolo, La formazione dell'Italia industriale, 1963) − aveva dato l'avvio concreto R. Romeo con i due saggi La storiografia politica marxista e Problemi dello sviluppo capitalistico in Italia dal 1861 al 1887 (in Nord e Sud, 1956 e 1958, poi in Id., Risorgimento e capitalismo, 1959).
Il grande dibattito sullo sviluppo economico italiano, che ne derivò, coinvolse quindi, oltre gli storici dell'economia, gli storici del R., dell'Italia unita, dell'età giolittiana, dell'Italia contemporanea. Spiegare, infatti, lo sviluppo degli anni Ottanta del 19° secolo e la rivoluzione industriale degli inizi del Novecento con l'indispensabile funzione preparatoria svolta in Italia, nei primi due decenni dopo l'unificazione politica, dall'accumulazione di capitale presso i proprietari fondiari, resa possibile dall'accresciuta produzione agraria e dalla compressione dei consumi del mondo contadino (Romeo), ovvero negare o ridimensionare questo processo di accumulazione e attribuire il ritardo della formazione della grande industria in Italia a una struttura creditizia modesta e non adeguata, superata soltanto con la creazione delle nuove banche miste di tipo tedesco (A. Gerschenkron), comportava anche un giudizio assai diverso sulla classe dirigente liberale.
Riprendendo l'insegnamento di M. Bloch, secondo cui "in una società qualunque essa sia, tutto si lega e condiziona vicendevolmente, la struttura politica e sociale, l'economia, le credenze, le manifestazioni più elementari come le più sottili della mentalità", quest'integrazione dell'analisi storica con l'analisi economica fu accompagnata dall'esigenza di un allargamento della ricerca storica nella direzione delle scienze sociali, che venne discussa con particolare impegno dalla cultura storica internazionale dalla metà degli anni Cinquanta agli anni Sessanta e diffusa in Italia nel decennio successivo (Colloquio dell'Ecole Normale Supérieure di Saint-Cloud del maggio 1965, in L'histoire sociale. Sources et méthodes, 1967; trad. it., 1975).
Alle nuove tendenze storiografiche s'ispirarono alcune tra le maggiori iniziative editoriali italiane degli anni Settanta e Ottanta pubblicate da parte di grandi case editrici (Einaudi, UTET, Edizioni Scientifiche Italiane, Teti, La Nuova Italia), come le diverse storie d'Italia che "per la rilevanza delle energie intellettuali mobilitate, l'audacia, in qualche caso, degli obiettivi storiografici dichiaratamente perseguiti, l'importanza, data l'ampiezza del mercato a cui si sono rivolte, assunta nella formazione della coscienza storica di larghe fasce di opinione pubblica neoacculturata, hanno nettamente superato le poche iniziative di questo tipo realizzate nel precedente ventennio" (Pescosolido 1989, p. 37).
Queste storie generali − nelle quali il R. e l'Italia unita occupano sempre un posto di rilievo − presentano dimensioni e caratteristiche diverse: alcune risalgono al mondo antico, altre alla caduta dell'Impero romano, altre infine si limitano all'esame degli avvenimenti dell'ultimo secolo e mezzo. Diversa anche la loro caratterizzazione storiografica: ispirata in genere alla lezione della scuola francese delle Annales è la Storia d'Italia Einaudi, che proprio nei volumi dedicati al Settecento e all'Ottocento preunitario (J. Stuart Woolf, A. Caracciolo, N. Badaloni, F. Venturi) e all'Italia unita, còlta nel suo aspetto politico-sociale (E. Ragionieri), economico (V. Castronovo) e culturale (A. Asor Rosa), ha raggiunto forse i risultati più convincenti.
Attente alla salvaguardia dell'eredità dello storicismo crociano, ma aperte nel contempo a suggestioni ed esperienze della realtà culturale contemporanea, la Storia d'Italia della UTET, diretta da G. Galasso, e la Storia dell'Italia contemporanea, diretta da R. De Felice per le Edizioni Scientifiche Italiane; di orientamento marxista la Storia della società italiana dell'editore Teti, diretta da G. Cherubini, F. Della Peruta, E. Lepore, G. Mori, G. Procacci, R. Villari, che ricostruisce, in un ampio arco di tempo che prende le mosse dall'antichità, le trasformazioni sociali, politiche, economiche e culturali dell'Italia; nato sul finire degli anni Settanta da un'esigenza di "integrazione sostanziale e non formale tra la storia, l'economia, la sociologia, il diritto, l'antropologia, la psicologia e le altre scienze sociali" è invece Il mondo contemporaneo, un'iniziativa di F. Levi, U. Levra, N. Tranfaglia per La Nuova Italia, nella quale le ''voci'' alfabetiche − di taglio prevalentemente storiografico − dedicate all'Italia dell'Ottocento e del Novecento occupano i primi tre volumi (Storia d'Italia).
Accanto a queste opere collettive, nelle quali, anche se la ricostruzione del singolo periodo è dovuta a un unico studioso, l'impianto generale è necessariamente comune, il trentennio passato ha visto concludersi storie generali frutto di iniziative singole che, se non possono offrire la ricchezza di motivi presenti nelle ricostruzioni a più voci, guadagnano però in unitarietà di concezione e compattezza di disegno. Tra queste, la Storia del Risorgimento e dell'unità d'Italia, iniziata nel lontano 1933 da C. Spellanzon (voll. 1-5) e che ha conservato, nei volumi pubblicati tra la metà degli anni Cinquanta e la metà degli anni Sessanta da E. Di Nolfo (voll. 6-8), quella larghezza di documentazione e quel rigore scientifico già apprezzati da A. Omodeo, e la Storia dell'Italia moderna di G. Candeloro in 11 volumi (1956-86), in cui la chiara ispirazione gramsciana non nuoce a una ricostruzione equilibrata e scrupolosa, che riesce, tra l'altro, a tener ferma l'unità concettuale degli aspetti propriamente politici con quelli economici e culturali.
A un'esigenza di narrazioni complessive, scientificamente fondate ma non appesantite da apparati di note, e rivolte quindi anche a un pubblico di non specialisti, hanno risposto alla fine degli anni Sessanta la Storia degli italiani di G. Procacci (il 2° volume riguarda l'Italia tra il Settecento e la 2ª guerra mondiale) e, tra la fine degli anni Settanta e i primissimi anni Novanta, i volumi della casa editrice Il Mulino dedicati al R. (A. Scirocco), all'età liberale (R. Romanelli), all'età giolittiana (E. Gentile), e La storia dell'Ottocento. Dalla restaurazione alla ''belle époque'' (1992), di F. Della Peruta per la Le Monnier.
Nel trentennio decorso si è progressivamente rafforzata l'azione volta a mettere a disposizione degli studiosi strumenti bibliografici adeguati e nuove fonti. Tra i primi va ricordata la grande Bibliografia dell'età del Risorgimento in onore di A.M. Ghisalberti (1971-77), un'opera di vasto respiro, curata da E. Morelli e realizzata da oltre 40 collaboratori, strumento di consultazione indispensabile per chi studi il R. e l'Italia unita fino alla prima guerra mondiale.
Per quanto riguarda la sistematica pubblicazione di fonti devono essere ricordate, oltre agli Istituti per la storia del Risorgimento e per l'età moderna e contemporanea, e alla Commissione per la pubblicazione dei documenti diplomatici (le prime cinque serie dei Documenti diplomatici italiani riguardano l'Italia dal 1861 al 1918), le attività delle commissioni nazionali editrici degli scritti di G. Mazzini, di C. Cavour e di G. Garibaldi. La prima ha pubblicato i preziosi Indici dell'Edizione nazionale degli scritti editi e inediti di Mazzini e gli Zibaldoni giovanili; per la commissione cavouriana C. Pischedda e collaboratori hanno proceduto, a partire dagli anni Sessanta, a una nuova edizione dell'Epistolario di Cavour; per la commissione garibaldina è in corso di pubblicazione dal 1973 una nuova edizione dell'Epistolario di Garibaldi.
È stato già osservato che rispetto al primo ventennio postbellico gli studi sul Settecento e sull'Ottocento hanno mostrato nei decenni successivi "minore originalità e vigore", anche se si è aggiunto che ciò che si era perduto in vigore polemico e in originalità d'impostazione lo si era poi guadagnato "in una più sicura disciplina di ricerca, in una maggiore consapevolezza della complessità degli intrecci, in una più varia articolazione dei temi, e soprattutto nella presenza di un più folto numero di ricerche e di ricercatori" (Villani 1989, p. 168).
Questo giudizio conserva tuttora la sua sostanziale validità, come è dimostrato dal gran numero di ricerche e soprattutto dalla varietà di approcci che caratterizzano la produzione storiografica più recente. E così gli studi sull'Italia fra la fine del Settecento e la restaurazione hanno ribadito la frattura tra riformismo settecentesco e giacobinismo, sottolineando la novità rappresentata da quest'ultimo, ma hanno anche contrapposto il momento rivoluzionario, innovativo e di rottura, a quello napoleonico, più raccolto, e volto al consolidamento delle precedenti conquiste.
Una storiografia per lo più tesa in precedenza alla ricostruzione del pensiero e dei movimenti politici si è arricchita con ricerche volte alla ricostruzione delle strutture socio-economiche (nuovo assetto della proprietà dopo la vendita dei beni nazionali) e del funzionamento delle istituzioni (consigli provinciali e distrettuali e singoli funzionari) nonché dei mutamenti antropologici e delle mentalità (A. Saitta, F. Diaz, P. Villani, M. Berengo, C. Zaghi, C. Capra). Nel mondo della restaurazione, e in genere nell'Italia preunitaria, sono stati oggetto di indagini proficue il rapporto tra il potere e la cultura, la formazione dell'opinione pubblica, gli editori, la storia della stampa e la diffusione dell'istruzione (M. Berengo, V. Castronovo, D. Bertoni Jovine, G. Ricuperati, M. Roggero), la vita sociale e il movimento democratico (Della Peruta 1975), la complessa realtà meridionale studiata nelle istituzioni e nella società (A. Scirocco, G. Aliberti).
Mondo della restaurazione europea e crisi del sistema di stati italiani rappresentano lo sfondo della grande biografia di Cavour, apparsa tra il 1969 e il 1984, con la quale Romeo ha risposto anzitutto al problema di grande rilevanza, nel campo della conoscenza storica e in quello della coscienza civile e politica, della trasformazione dell'Italia da nazione culturale in nazione politica. Al di là delle nuove acquisizioni e delle radicali correzioni di giudizi storiografici − riguardanti il formarsi della riflessione politica di Cavour negli anni Quaranta e la sua collocazione nel contesto culturale europeo, la nascita del connubio e il collegamento tra il centro-sinistra di Rattazzi e la democrazia quarantottesca, il passaggio dal protezionismo al liberismo negli stati sardi − rese possibili da un imponente scavo archivistico e dall'uso di nuovi strumenti d'indagine, come le tecniche quantitative, il Cavour di Romeo ha affrontato anche il problema del rapporto tra storia politica e storia sociale. La biografia di un uomo politico è per Romeo "essenzialmente storia politica", ma nessuna storia politica, a suo giudizio, può esimersi dall'analizzare a fondo la materia su cui si esercita, cioè le forze presenti nella società che i movimenti politici cercano di dominare e d'indirizzare: in tal modo la rivendicazione del primato della storiografia politica e del ruolo dell'individuo nel processo storico presuppone una seria e approfondita analisi della realtà economico-sociale e delle forze che in essa si manifestano.
Mentre la polemica sullo sviluppo dell'Italia postunitaria (F. Bonelli, V. Castronovo, L. De Rosa, G. Mori, A. Caracciolo, G. Are, G. Pescosolido) aveva avuto per lo più come protagonisti storici di formazione crociana o gramsciana, a partire dalla fine degli anni Settanta, e soprattutto negli anni Ottanta, è stato messo in dubbio che la storia politica o politico-economica potesse continuare a essere l'osservatorio privilegiato dal quale esaminare i mutamenti dell'Italia postunitaria (P. Villani, A. Caracciolo, P. Macry) secondo un ''paradigma storicistico'' comune alle correnti storiografiche idealiste e marxiste.
L'apertura ai metodi e ai temi delle scienze sociali (G. Levi, E. Grendi, R. Romanelli, A.M. Banti) ha comportato lo sviluppo della storia urbana, della demografia storica, della storia orale, della storia delle donne, della microstoria, con un recupero della petite histoire, per dirla con M. Agulhon, e della storia della sociabilité. Il dibattito che ne è seguito ha contribuito anche a modificare aree di ricerca già largamente arate: gli studi sulla storia del Mezzogiorno, per es., si sono andati distaccando dal vecchio meridionalismo e dalla tradizionale coincidenza tra storia del Mezzogiorno e storia della questione meridionale, per dare del problema una lettura non ideologica ma compiutamente storica (P. Bevilacqua, Breve storia dell'Italia meridionale dall'Ottocento a oggi, 1993).
La storia della scuola, che nei primi anni Ottanta era stata oggetto di approfondite ricerche su base regionale (S. Pivato, G. Bonetta) o attente a cogliere il nesso tra questione scolastica e trasformazione del paese (G.C. Lacaita, M. Barbagli, G. Vigo, M. Raicich, S. Soldani), più recentemente è stata alimentata da una sistematica pubblicazione di fonti (L'istruzione normale dalla legge Casati all'età giolittiana, 1994; Il Consiglio superiore della pubblica istruzione 1848-1928, 1994; L'istruzione classica 1861-1910, 1994) e da opere volte a ripercorrere la costruzione della nostra identità nazionale attraverso l'esame della funzione svolta dalle istituzioni educative (Fare gli italiani. Scuola e cultura nell'Italia contemporanea, 1993).
Le stesse biografie di personaggi di rilievo dell'Italia ottocentesca hanno risentito del rinnovato clima storiografico. Ne fornisce un ottimo esempio l'ampio lavoro dedicato a Q. Sella da G. Quazza (L'utopia di Quintino Sella. La politica della scienza, 1992), nel quale il taglio narrativo è integrato da approcci che vanno dalla biologia alla psicologia, dall'economia alla statistica. Del politico di Biella, che proveniva, a differenza della grande maggioranza della classe dirigente risorgimentale, dalla borghesia imprenditoriale e non dal patriziato o dalla borghesia agraria, Quazza ha ricostruito, utilizzando una larghissima documentazione, "la lezione della comunità natìa, dell'educazione familiare, dell'autoeducazione" per giungere alla formulazione della sua ''utopia'', la politica della scienza − basata "sulla formazione della persona e sull'unità del sapere" al di là della contrapposizione delle due culture −, condizione essenziale per una convivenza pacifica fra i singoli e fra i popoli.
Il rinnovato interesse per i problemi delle nazionalità, suscitato dal crollo del sistema politico internazionale instaurato dal dopoguerra a partire dalla fine degli anni Ottanta, ha investito anche il R. e lo stato unitario, ma, in larga misura, si è trattato di ricerche volte non a una migliore comprensione del nostro passato, ma alla sua utilizzazione per una battaglia politica in corso: pubblicistica politica, pertanto, e non lavoro propriamente storico.
    
    
    
      In questa lunga vicenda di dibattiti e interpretazioni si possono
      distinguere quattro fasi: la prima riguarda l'iniziale riflessione
      critica sul Risorgimento che si apri all'interno stesso dei
      movimenti che stavano contribuendo alla sua riuscita all'indomani
      del biennio rivoluzionario 1848- 49; la seconda coincide con i primi
      decenni postunitari e fu incentrata essenzialmente sul tentativo di
      dare  un'immagine mitica  del processo di formazione dello
      stato unitario; la  terza consiste nell'ampia e complessa
      discussione che si aprì sul Risorgimento in epoca fascista,
      soprattutto dopo la pubblicazione nel 1928 del saggio del filosofo
      Benedetto Croce, Storia d'Italia dal 1871 al 1914; la quarta
      è quella che prese avvio con la pubblicazione nell'immediato
      secondo dopoguerra dei Quaderni dal carcere di Antonio Gramsci.
      
      Analizziamo separatamente ciascuna di queste fasi.
       
      La riflessione critica all'interno dei movimenti artefici del
      Risorgimento.
      
      Come si è detto, la prima fase coincise cronologicamente con
      gli eventi stessi che portarono all'unificazione nazionale, e il
      dibattito storiografico si intrecciò con quello politico,
      anzi ne fu una parte integrante fino a giungere quasi a sovrapporsi.
      Già dopo il fallimento della rivoluzione del 1848-49 si
      aprì un ampio dibattito tra i democratici (Carlo Cattaneo,
      Mazzini, Pisacane, Ferrari, Montanelli) e tra i liberali moderati
      (La Farina, Cesare Balbo, Farini) nel quale si delinearono alcune
      questioni che caratterizzarono in maniera permanente il dibattito
      storiografico fino ai giorni nostri: la funzione che il Piemonte
      venne assumendo nel processo risorgimentale; il ruolo della casa
      Savoia nel determinare gli esiti della battaglia nazionalistica;
      l'influenza della rivoluzione francese e più in generale
      della Francia nelle vicende italiane; gli esiti storici che la
      mancata o la scarsa partecipazione dei ceti popolari ebbe sui
      caratteri del moto risorgimentale e sulla futura connotazione dello
      stato unitario.
       
      Le ricostruzioni ideologiche del processo unitario.
      
      Dopo questa fase ricca di contrasti e di chiaroscuri, il dibattito
      si mosse in direzione opposta. Nei decenni immediatamente
      postunitari infatti gli storici, tra cui spiccano Nìcomede
      Bianchi con la sua monumentale Storia documentata della diplomazia
      europea in Italia dall'anno 1814 all'anno 1861, scritta fra il 1865
      e il 1872, e Carlo Tivaroni, con la sua Storia critica del
      Risorgimento italiano, pubblicata a partire dal 1888, tentarono di
      ricostruire un'immagine mitica e profondamente ideologica del
      Risorgimento. Come ha scritto lo storico contemporaneo Giorgio
      Candeloro: "Si venne formando, pur attraverso persistenti polemiche
      tra monarchici e repubblicani, l'immagine di un Risorgimento
      perfettamente concluso con la formazione del regno d'Italia e
      sì diffuse quindi la tendenza a considerare la contrastante
      attività delle correnti politiche risorgimentali come
      cospirante, quasi per disegno provvidenziale, ad una soluzione da
      accettarsi ormai da tutti senza discussioni nei suoi due aspetti
      fondamentali: l'unità e la monarchia sabauda».
      
      Esempio, forse meno noto, ma non meno significativo di questa
      tendenza fu la ricostruzione storica che del Risorgimento ci
      consegnò Alessandro Manzoni in alcune sue note sparse del
      1873, che in parte confluirono nel trattatello Dell’indipendenza
      italiana. «Certo – scriveva Manzoni - a nessuna mente umana
      era dato di predire la successione dei mezzi con cui l'Italia
      sarebbe arrivata alla sua mirabile formazione e che, tra questi
      mezzi, uno dei più potenti, anzi il solo efficiente e
      determinante, avesse a essere la concordia, allora tanto lontana,
      degli Italiani, nell'intendere e nel volere, delle specie
      immaginate, di una tale formazione, la sola desiderabile. E fu
      però questa concordia che, iniziata dai primi fatti [...]
      d'un re e di un popolo d'una parte d'Italia, e portata sempre
      più avanti da una continuità non interrotta di fatti
      consentanei ai primi, pervenne in dieci anni, a quell'alta
      maggioranza che, nelle cose del genere è la sola sperabile e,
      come l'esito ha mostrato, poté ciò che volle.»
      
      Questa storiografia,  tutta  rivolta,  per 
      dirla con  Gramsci,  a  ricostruire una 
      ideale  e spesso  ideologica «biografia della
      nazione», cominciò a mostrare notevoli crepe già
      sul finire dell'Ottocento; una serie di saggi, prevalentemente di
      storici appartenenti alla cosiddetta scuola economico-giuridica -
      tra cui spicca Antonio Anzillotti -, allargarono l'orizzonte delle
      ricerche agli aspetti economici che sottesero il Risorgimento e ai
      diversi gruppi sociali di cui fu espressione.
       
      L'interpretazione del fascismo e quella dei liberali
      
      La terza fase del dibattito si intreccia strettamente con la crisi
      dello stato liberale e con l'avvento del fascismo. Si
      sviluppò una riconsiderazione storica delle vicende
      risorgimentali orientata su due direttrici di fondo: quella degli
      storici fascisti come Gioacchino Volpe che, riprendendo la
      valutazione positiva del Risorgimento come "conquista regia della
      casa Savoia, spostavano l'accento sulla costruzione della compagine
      statale unitaria e individuavano nel fascismo l'esito culminante di
      tutte le vicende risorgimentali; quella degli storici liberali
      fortemente ispirati da Croce, che si mossero in direzione di una
      complessa opera di rivalutazione della linea d'intervento del
      movimento liberale. In questa corrente di pensiero si inserisce il
      libro di Adolfo Omodeo su L'opera politica del Conte di Cavour,
      uscito nel 1940, in cui veniva ricostruita l'elaborazione dello
      statista piemontese riuscendo a mettere in luce il ruolo da lui
      svolto nella formazione del regime parlamentare nello stato
      italiano.
      
      Questo lavoro si configurava soprattutto come risposta alle tesi
      sostenute diversi anni addietro da un giovane intellettuale
      torinese, Piero Gobetti, militante antifascista, morto esule a
      Parigi appena venticinquenne anche per le conseguenze di una barbara
      aggressione di alcuni squadristi torinesi. Gobetti, nello sforzo di
      individuare le ragioni della crisi dello stato liberale,
      operò una profonda revisione delle analisi storiografiche del
      Risorgimento, definendo il processo di creazione dello stato
      unitario una "rivoluzione fallita". Per "rivoluzione fallita"
      Gobetti intendeva il fatto che la direzione liberale e moderata del
      movimento risorgimentale non era riuscita a coinvolgere le grandi
      masse popolari, formando sulla loro partecipazione le basi sociali
      della nuova compagine sorta dalla lotta per l'indipendenza.
      
      Omodeo sostenne invece che la rivoluzione non era affatto fallita,
      anzi aveva sortito gli esiti migliori, perché era stata il
      trionfo di quel liberalismo moderato incarnato dalla figura
      dì Cavour, che aveva contribuito maggiormente alla
      realizzazione del Risorgimento.
       
      Gramsci e la rivoluzione fallita.
      
      La nuova fase di dibattito si aprì dopo la Seconda guerra
      mondiale. Fu soprattutto per merito di Antonio Granisci e delle
      felici elaborazioni contenute nei famosi Quaderni, compilati durante
      la lunga carcerazione impostagli dai tribunali fascisti, che la
      riflessione critica sul Risorgimento fece un notevole salto di
      qualità, esplorando nuovi territori e confrontandosi con
      nuove e più ampie problematiche. Analizzando la vittoria dei
      moderati, Gramsci la spiegava con il fatto che essi erano un gruppo
      di intellettuali socialmente e culturalmente omogeneo con le classi
      e i ceti, la grande e la media borghesia, sia urbana sia rurale, che
      di fatto alimentarono ed egemonizzarono il processo unitario. I
      democratici al contrario non erano l'espressione politica di classi
      omogenee; per esserlo avrebbero dovuto trasformare il loro programma
      in senso sociale, come indicavano Pisacane e Ferrari, diventando il
      partito dei lavoratori poveri e delle masse contadine diseredate,
      prevalentemente meridionali. Essi non operarono questa conversione
      del programma e rimasero stritolati politicamente tra l'egemonia
      moderata della borghesia e l'immobilismo popolare. Il Risorgimento
      era quindi una "rivoluzione fallita" perché non aveva saputo
      raccogliere, attraverso una decisa riforma agraria, l'adesione delle
      masse contadine, che rappresentavano la stragrande maggioranza della
      popolazione, allargando così le basi dello stato e garantendo
      il superamento dell'arretratezza economica di tanta parte del paese.
      
      Gramsci intende anche come “rivoluzione passiva” quella in cui i
      liberali moderati hanno avuto strategicamente la meglio sui
      repubblicani democratici mantenendo l’ordine feudale esistente
      causando la permanente spaccatura tra Stato e società civile.
      Il fascismo è la diretta conseguenza di questa situazione,
      cioè un tentativo della borghesia debole di ridefinire un
      sistema politico che stava crollando.
      
      Questa chiave interpretativa fu ripresa da parecchi studiosi e
      divenne il punto di riferimento teorico di numerose ricerche tra cui
      spiccano quelle di Emilio Sereni, di Giuseppe Berti, di Franco Della
      Peruta e di Giorgio Candeloro. Queste posizioni critiche, che
      configurano una vera e propria scuola storiografica di ispirazione
      marxista, suscitarono notevole opposizione, soprattutto sul problema
      della questione agraria nel Risorgimento.
      
      Lo storico Rosario Romeo, per esempio, in due interventi comparsi
      sulla rivista "Nord-Sud" nel 1956 e nel 1958 sostenne che la
      posizione degli storici gramsciani era errata, quando attribuivano
      alla mancata riforma agraria l'arretratezza della società e
      dello stato italiano, perché l'accumulazione di capitali che
      si verificò dopo l'Unità (la cosiddetta accumulazione
      primitiva) e che consentì il decollo industriale di fine
      Ottocento non si sarebbe potuta determinare se una redistribuzione
      delle terre avesse impedito una rivoluzione agricola di segno
      capitalistico, soprattutto nelle campagne settentrionali.
      
      In opposizione alle interpretazioni marxiste, gli storici liberali
      (Romeo, Luzzatto) sottolineano gli ostacoli al progresso politico ed
      economico dell’Italia: la dipendenza dalle potenze straniere, la
      discordia interna, l’arretratezza dei governi reazionari.
      
      Le ricerche di Romeo, fortemente influenzate dai nuovi approcci
      della storia economica e della teoria dello sviluppo, aprirono una
      nuova prospettiva di studio indirizzata all'analisi della storia
      dell'industrializzazione italiana, che avrebbe costituito negli anni
      seguenti il vero centro degli interessi della storiografia italiana.
      
      Luzzatto critica l’interpretazione del Risorgimento come espressione
      borghese, dal momento che questa classe sociale non esisteva a causa
      dell’assenza di uno sviluppo economico pre-1960. Le interpretazioni
      marxiste e liberali condividono l’esigenza di spiegare il
      significato della vittoria moderata del Sessanta alla luce degli
      insuccessi successivi dell’Italia Liberale: idea di una deviazione
      rispetto a modelli democratico-borghesi.
       
      La storiografia revisionista.
      
      L’unificazione nazionale viene considerata una soluzione parziale a
      problemi specifici, non un momento di rottura con il passato:
      rimessa in discussione di nessi causali prima consolidati.  Per
      i revisionisti, l’idea di deviazione italiana è stata
      inventata dagli storici influenzati da modelli di spiegazione
      deterministici dello sviluppo politico ed economico. Si tende,
      così, a sottolineare gli aspetti positivi dei regimi
      pre-unitari e a inserire la crisi dei governi della restaurazione e
      l’unificazione in un contesto più ampio: l’unità
      è esito di processi diversi, a volte contraddittori,
      identificabili con l’affermazione degli stati moderni, con la
      formazione di una cultura nazionale basata su lingua e economia
      capitalista. La storiografia revisionista non analizza l’azione
      politica, dimentica gli elementi di conflitto e di crisi dell’Italia
      800.
      
      La dimensione culturale
      
      Nuova corrente di ricerca che ha orientato la propria attenzione
      sulla creazione, nell’ambito della cultura romantica, di un’idea di
      Italia. Il tentativo di Banti (La nazione del Risorgimento.
      Parentela, santità e onore alle origini dell'Italia unita
      2006) è quello di rimettere in discussione l’immagine
      dell’identità Italiana frammentata, indebolita dai conflitti
      interni: esisteva “una sorta di narrazione coerente della nazione
      italiana, un discorso ricco di rimandi e di coerenze, una sorta di
      pensiero unico della nazione” che attingeva ad un comune repertorio
      di temi, metafore e simboli.
      
      Il Risorgimento viene considerato un movimento di massa, attivamente
      partecipato dai cittadini (nelle sue guerre, nella lotta politica,
      nelle feste e commemorazioni), che ha creato un movimento culturale
      più ampio, di portata europea. L’approccio secondo cui si
      mette al centro la cultura permette di mettere in rilievo il
      processo di “italianizzazione” già precedente l’Unità:
      pur mantenendo una dimensione locale, l’attività culturale
      iniziò a proporre temi, linguaggi, rituali “Italiani” (cfr:
      il campo musicale, pittorico e soprattutto teatrale; lo sviluppo
      della lingua italiana; la nascita di associazioni economiche e
      scientifiche nazionali).
*
www.filosofico.net
A cura di Diego Fusaro
  
  La maggior parte degli uomini sono
    filosofi in quanto operano praticamente e nel loro pratico operare
    è contenuta implicitamente una concezione del mondo, una
    filosofia. (Quaderni del carcere, 10, II)
      
      L'interpretazione gramsciana del Risorgimento
  
      Gramsci ha meditato a lungo sul processo storico che, nel secolo
      XIX, ha prodotto la travagliata costituzione dello stato italiano
      unitario. A suo avviso, tale processo è stato diretto
      fondamentalmente da forze moderate, e il cosiddetto Partito d'
      azione (cioè il complesso di gruppi e di correnti che si
      richiamavano in parte a Mazzini e a Garibaldi) si è rivelato
      incapace di svolgere un'opera adeguatamente incisiva e
      trasformatrice nel contesto politico del tempo.
      
      Quella risorgimentale è stata, per usare una celebre
      espressione gramsciana, una "rivoluzione mancata" - e la causa e la
      natura di tale "mancanza" sono state essenzialmente di carattere
      sociale. In effetti il limite storico del Partito d' azione va
      individuato nel fatto che è rimasto sempre un partito
      borghese di élite, non disposto o non capace di ricercare l'
      appoggio dei ceti non borghesi. Quali ceti?
      
      E' qui che Gramsci mostra la sua relativa eterodossia rispetto alle
      tesi canoniche del marxismo. Egli sa bene che nell' Italia dell'
      Ottocento non c' era un proletariato industriale e tanto meno una
      classe operaia organizzata - ossia il solo soggetto sociale in
      grado, secondo i princìpi marxisti, di promuovere una
      trasformazione radicale della società. L' autore dei Quaderni
      del carcere ritiene però che il risorgimento avrebbe potuto e
      dovuto ugualmente assumere un carattere rivoluzionario, acquisendo
      il consenso dei contadini. Proprio questi ultimi costituivano,
      infatti, quella massa popolare la cui partecipazione all'azione
      risorgimentale le avrebbe dato un sostanziale contenuto sociale e un
      adeguato impulso rinnovatore.
      
      Gramsci precisa che il movimento democratico avrebbe realizzato tale
      disegno e tale strategia se fosse stato capace di farsi partito
      "giacobino": se avesse saputo far propri gli interessi e le esigenze
      della classe contadina attraverso una riforma agraria volta a
      spezzare il latifondo e a creare un ceto di contadini piccoli
      proprietari. Proprio questo obiettivo era stato tenuto presente dai
      giacobini francesi, i quali avevano in tal modo evitato l'
      isolamento delle città e convertito le campagne alla
      rivoluzione. Solo così essi erano riusciti a superare la
      situazione di minoranza elitaria in cui si erano trovati
      inizialmente, e a sconfiggere le forze della reazione aristocratica.
      
      Tutto ciò non significa per Gramsci che il risorgimento sia
      stato un processo storico completamente negativo. In effetti esso ha
      favorito non solo l' unificazione della penisola ma anche la
      crescita della borghesia, gettando con ciò alcune premesse
      per lo sviluppo di una fase capitalistica in Italia. D' altra parte
      tale sviluppo si è realizzato in misura insoddisfacente;
      inoltre il nuovo stato si è costituito su una base sia
      economico sociale che politica assai ristretta.
      
      In effetti, per un verso il neonato capitalismo (concentrato nelle
      sole regioni settentrionali), non ha potuto usufruire di un adeguato
      mercato per i suoi prodotti, a causa dell'arretratezza economica
      della società italiana, soprattutto meridionale. Per un altro
      verso le masse indigenti (in primo luogo i ceti contadini)
      abbandonate sostanzialmente a loro stesse, non sono riuscite a
      divenire parte attiva della nuova compagine statuale. Quanto ai
      raggruppamenti politici anche più aperti e democratici, si
      sono rivelati incapaci di approfondire i loro legami con le forze
      sociali potenzialmente disponibili a un' azione di reale
      emancipazione.
      
      Se tutto ciò è vero, si tratta per Gramsci di
      elaborare le condizioni di una profonda trasformazione della
      realtà italiana emersa dal processo risorgimentale: una
      trasformazione il cui obiettivo finale deve essere quella
      rivoluzione sociale - anzi socialista - che il risorgimento non ha
      saputo compiere. A giudizio di Gramsci, tale rivoluzione
      potrà essere fatta solo attraverso un' alleanza tra
      proletariato settentrionale e contadini meridionali: sono essi,
      infatti, i soggetti sociali concretamente interessati alla
      realizzazione di un progetto politico così impegnativo e
      radicale.