Alfredo Panzini

 

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Scrittore italiano (Senigallia 1863 - Roma 1939). Muovendo da brevi romanzi o novelle di stampo ancora verista, d'un verismo lombardo alla De Marchi, P. giunse via via a esprimere il suo dissidio - tra antico e moderno; tra mondo ideale, tutto virtù e saggezza e mondo reale, attuale, meccanico e piccoloborghese - in un racconto pieno di divagazioni e di parentesi tra descrittive e morali, i cui protagonisti e le cui vicende non sono che schermi o proiezioni liriche dello stato d'animo dell'autore; o meglio, in una sorta di diario lirico-riflessivo dei propri viaggi nel tempo o nello spazio, diario nel quale la prosa, caduto ogni schema narrativo, si fa - sotto apparenze di classica armonia - rapida, convulsa, spezzata, conforme alla mutevolezza del sentimento dibattentesi tra i due estremi di quel dissidio eppure sforzantesi di conciliarli in una superiore sintesi di nostalgia umanistica e di amore di vita.

Vita.

Fece gli studi classici nel convitto Marco Foscarini di Venezia, e quelli letterari e filosofici all'università di Bologna, dove ebbe maestri G. Carducci e F. Acri. Insegnò per quarant'anni nelle scuole secondarie, a Milano (fino al 1917) nel ginnasio Giuseppe Parini e al Politecnico; trasferitosi a Roma nel 1917, fu professore prima nell'istituto Leonardo da Vinci, poi nel liceo Mamiani. Ha scritto in moltissimi giornali e riviste e ha fatto parte dell'Accademia d'Italia dalla fondazione.

Opere

Al centro della sua personalità artistica è il dissidio fra il mondo ideale ed eroico della sua educazione umanistica e carducciana e il mondo a lui contemporaneo, positivista e edonista, di cui è pur curioso osservatore. Donde il particolare umorismo di P., ch'è un sorridere tra ammiccante e accorato delle proprie angustie e velleità; donde il sempre più deciso prevalere, nella sua opera, della donna, concepita come compendio ed emblema di quel dissidio. L'ambivalenza di un'ispirazione insieme critica e lirica, ironica ed elegiaca, come fa sì che ogni dato e fatto divengano per P. motivo o simbolo di intima autobiografia, così lo porta a una forma letteraria che è la contaminazione di più «generi», risultando dall'innesto su un fondo narrativo tradizionale di evocazioni, confessioni, riflessioni, divagazioni fra sentimentali e fantastiche.

Questa forma di «viaggio» nello spazio e nel tempo, attuata con pienezza d'arte in La lanterna di Diogene (1907), sarà poi caratteristica di tutti i libri di P., anche di quelli che seguiteranno a presentarsi come racconti o romanzi (Santippe, 1914; Viaggio di un povero letterato, 1919; La pulcella senza pulcellaggio, 1925; Il bacio di Lesbia, 1937).

Echi carducciani e pascoliani si incontrano con altri di Sterne e di Heine in una prosa che, classica di fondo, viene sempre più accostandosi ai modi nervosi e franti del parlare comune, con tale studio tuttavia dell'intensità espressiva da precorrere le esigenze dei frammentisti, dai quali infatti venne a P. il primo ampio riconoscimento. Meno bene egli riesce là dove l'umorismo tende al sarcasmo e alla polemica (Io cerco moglie!, 1920; Il padrone sono me, 1923).

Tra le molte altre opere: Dizionario moderno, supplemento ai dizionari italiani, 1905 (10a ed., post., a cura di A. Schiaffini e B. Migliorini, 1963); La bella storia di «Orlando innamorato» e poi «furioso», 1933; Casa Leopardi, post., a cura di P. Pancrazi, 1948; Per amore di Biancofiore, post., a cura di M. Valgimigli, 1948.

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Storia della letteratura italiana

Garzanti, Milano 1987

vol. X, Il Novecento, pp. 251-254

di Emilio Cecchi

«I tedeschi — scriveva Nietzsche — non hanno dita per le sfumature. Povero me che sono una sfumatura!». E il Panzini potrebbe dire, in un certo senso: «Con questi italiani, povero me che sono tutto stile!». Un debole allora viene a patti; uno forte, per la incompatibilità, diventa più forte. E il Panzini, infatti, ecco che dai primi romanzi e racconti, ritirandosi come mortificato, come scegliendo forme d'appoggio intermedie, in realtà si libera e completa. E ci dà, per esempio, quella Lanterna di Diogene (1907), dove la materia sembra lasciata per giuoco sullo stesso piano della vita grezza e scagliosa: solo perché con più miracolo d'arte la si vegga irradiare pronta, e balzare su nelle sue complesse relazioni. Ci dà le novelle, quasi tutte bellissime, delle Fiabe della virtù (1911). O Santippe (1913), assumendo con classico procedimento la maschera d'un tema trattato mille volte, tema che non ha segreti per i ragazzi delle ginnasiali: la vita di Socrate, infilata, nei principali aneddoti, col refe nero delle disgrazie coniugali. Non pare probabile che il Panzini abbia lavorato per ripeterci le cose d'altronde commoventi che, intorno a Socrate uomo, misero insieme Senofonte e Platone. E l'interesse ironicamente contemporaneo che egli piglia per i casi di Socrate, come tipo del galantuomo per eccellenza, che non potè far bene nel mondo; e le punte contro la famigerata, misera Santippe; e le traduzioni di situazioni arcaiche, in termini di vita nuova: quel parlar di Cristo, di socialismo e di tango dentro la vita ateniese, non fanno che graziosamente sottolineare il rapporto di evadenza che egli ha anche qui col suo soggetto.

Intendo evadenza nel senso che egli s'è servito d'un soggetto che gli permettesse di evitare, senza inconvenienti, ogni soggetto: dando il suo ironismo in forme distillate, in filigrane autonome e astratte. Così un artista della Rinascenza si insediava naturalmente nei motivi tradizionali delle pietà, delle crocifissioni, delle annunciazioni, avendoli meditati al punto di dissolverli completamente, e ridurli niente altro che occasione di composizioni armoniose. Trovava un aumento di libertà espressiva nella vincolazione del motivo.

Altro saggio della sua libertà, il Panzini ebbe dato scrivendo una grammatica elementare, dove chi conosce la sua arte, la gode in complicazioni molto sottili: sillabario che sotto gli occhi si muta in poema. Naturalmente, opere siffatte debbono andare pel mondo come casse sigillate, con scritte sul coperchio delle diciture generiche: la gente legge questi caratteri e compra oro per piombo, altrimenti non comprerebbe. Ma direi che il lavoro di Panzini è duplice, in quanto consiste non solo nel riempire ben bene queste casse di roba d'amoroso contrabbando, e nel mascherarle in modo che tutti sieno superiormente tranquilli e nessuno sospetti di niente. All'ironia o luminoso distacco di ciascun artista rispetto al proprio soggetto, associa un'ironia ancor più interna, un'ironia di doppio grado, per la quale le rappresentazioni e il loro vero significato appaiono infine isolati e capovolti nello specchio lucido ma minaccioso di un pensiero fermo e profondo. In questa visione di rimbalzo, le immaginazioni assumono una tranquillità quasi disperata, di cose che sono state sempre; lo stile guizzante, lascia nella impronta le tracce di un arcaismo, d'un patriarcalismo triste. La poesia sembra rinunciare dopo aver lampeggiato, attualissima: crollando in una malinconia uguale, muta e centenaria. Prima c'è, insomma, una sollevazione di pensieri razzanti per mille linee, in vagabondaggi ironici. Poi c'è il tuffo sordo, espresso con strappi e silenzi di stile, di questa vivacità, nel lago d'alcune verità negative; enunciativamente troppo ovvie, perché non si senta subito che la loro ragione d'essere non è più nella sfera della ironia e dello sti­le, ma della mistica e della religione.

Data la natura del Panzini, non ci sarà da aspettarsi che il suo stile introduca in pensieri poetici pacati e larghi, come in un cristallo di dentro al quale tutta la realtà appaia tacitamente tramutata. Egli dà un'emozione di prevalente movimento, ottenuta col trapasso sinuoso per idee e sentimenti discordi e bizzarramente armonizzati. Come è nei drammatici, punto per punto la sua prosa pare ovvia e palmare; ma l'insieme è poesia veemente; deliziosamente indolorita in certi snodamenti che la fanno un poco vacillare. Il pensiero nel continuo mutare vi vibra sordamente in parole comuni e laceranti, forte e pudico. E un'arte tutta fatta di trapassi e gradazioni, principalmente un'arte avverbiale, che rinnova il miracolo della prosa ellenica con quelle precise e quasi prolisse bilicature interne, che reggono certe flessioni, e slanci lunghi, tremuli, come gambe di ragno. Manca di temi cantanti e sonori perché mancano gli affetti pri­mitivi; ma con incontri, urti e sovrapposizioni di valori brevissimi, offre una armonia agretta e complicata, un poco singultante. Donde la difficoltà di estrarre esempi del suo stile, che sembra vi si frantumi fra le dita.

Paragonatelo al Dossi. Sentirete quante graziucce sono in costui e come sfoggi il colore impressionista sopra un'umanità monotona, stecchita, cacciata lì, tante volte, per simmetria. Nel Dossi c'è la professionalità che il Panzini è troppo serio per esibire. Il Dossi si dà con quell'eccesso di vivacità nei dettagli che fa il grottesco; trasferi­sce in superficie le ragioni architettoniche, rende la psicologia loquace, traduce in sca­riche premature quello che dovrebbe essere forza silenziosa ed equilibrio delle masse e dei concetti. E un colorista affollato, pesante. E quando l'arabesco ironico del Panzini va librato su senza pesi, arioso, il suo si stronca anchilosato, con angoli acuti, scheletri­ci come un albero dai rami di fil di ferro tirati giù da un carico di frutti artificiali.

Si comincia ormai a potere avvantaggiarsi del distacco e della prospettiva del tempo, per alcuni autori, molto importanti, come il Pirandello, il D'Annunzio e lo stesso Panzini. Ma nel riaprire certe pagine, ad esempio, del teatro di Pirandello (per le novelle è un altro discorso), oggi si ha l'impressione di capirci piuttosto meno, e a volte quasi più niente. A parte alcune ardite intuizioni: i concetti, le situazioni, gli affetti, sono confusi, esasperati, e travolti in un linguaggio approssimativo. Il coraggio dell'autore, la sua audacia a slanciarsi verso un mondo inesplorato, restano in se e per se nobilissimi; ma il risultato è quello che è.

Tutto il contrario, in taluni, in molti scritti del Panzini; dove le idee e situazioni diventano ogni giorno più chiare, anche troppo chiare: ma d'una chiarezza remota e ormai consunta, che il minuzioso e luccicante ri­camo stilistico non può sempre rianimare o mascherare.

Circa alla medesima epoca, rielaborando e completando con fervida penna, per l'edizione in volumi delle Faville, l'ingente massa dei suoi ricordi di adolescenza e le sue prose sparse, il D'Annunzio, giunto anche lui sulla sessantina, dava fondo ai dizio­nari e agli spogli di lingua; si avventurava in inesauribili esperienze e ricerche sintattiche ritmiche, coloristiche. Perfino adottava, in burletta, la pedanteria dei vecchi canonici che gli avevano insegnato al Cicognini; e riuniva un complesso di scritture non meno sorprendenti per certe espressioni nuove e portentose, per certi lampi di profonda poesia, che per l'ingombro macchinoso, il barocco, la spietata sforzatura, e addirit­tura la soffocazione di tante e tante altre pagine.

Nello sbocciare di una fama che troppo aveva tardato a sorridergli, e nelle sollecitazioni di una richiesta giornalistica che il suo stato economico non gli permetteva di lasciar cadere, il Panzini per parte sua scelse, com'è naturale, il metodo a lui confacente. La sua disposizione nativa, ch'era più o meno verso la divagazione e l’essay, la orientò al possibile, sempre con prudenza, verso la popolarità del racconto. La sua casalinga saggezza, triturò e somministrò a tutti gli usi, quelli stessi a cui non poteva servire; e non sempre ricordandosi che c'è anche una rettorica dell'antirettorica e c'è un barocchismo delle moine e dell'antibarocco; come fra gli ultimi a proprie spese aveva mo­strato il Pascoli.

Ma tutto quanto usciva dalle sue mani era pur fatto così bene, che la gente ne traeva un innocuo divertimento; e non stava a badare se quelle preziosità, quelle ironie, quelle lepidezze, in sé graziosissime, erano cucite insieme alla meglio.

Fra tante altre cose si sa ch'egli molto scherzò e giocherellò anche intorno alle donne. Lo fece evidentemente con animo cordiale. E paziente Venere lasciò che faces­se, né volle tenergli il broncio di qualche patente irriverenza. Ma è un'osservazione a portata d'ognuno, che un fantasma muliebre sempre si aggira e risponde là dove il tono di Panzini s'esalta e diventa più lirico: sia l'indimenticabile figura dell'«Attrice» nella Lanterna di Diogene; sia la scarmigliata e disperata Santippe; sia sopratutto, nell'ultimo libro, l'alta, aurea forma di Clodia Lesbia. E mirabile è questo: che in un autore, come Panzini, la cui materia e la scrittura di continuo sembrano sospese, altalenanti, e quasi inafferrabili fra il tepore della sensa­zione e il gelo della satira, di tratto in tratto l'amore trovi impeti e parole di tanto drammatica pienezza e straziante carnalità. Una quantità di gente fece la propria vocazione di razzolare con la penna intorno all'amore, alla donna e siffatti argomenti; e può credersi che non ebbero sempre ritegni né scrupoli. Ma bisogna dire che, in confronto a questo vecchio, morigerato professore e pater familias, con i suoi scarponi da soldato e una lente agli occhiali sempre rotta, perdevano il loro tempo, e che con tutta la loro mondanità e sensualità, non sapevano dove mettersi le mani.

Leggete, o rileggete, di Lesbia e di Catullo. Fu questo forse il più bel dono che alla fedeltà di Panzini fecero i classici: Catullo, appunto; Lucrezio nel libro delle ossessioni amorose, e Virgilio nella morte di Dido; a parte ciò che contava di più e che, non occorre dirlo, era quello ch'egli ci mette­va di suo. Un sussurro ironico percorre il racconto, sottilmente lo interpunge, sorda­mente lo tormenta, con un sinistro frusciare come di elitre, che accompagni come un formicolio di presenze larvali. E di tanto in tanto scoppiano quegli altissimi, vertigino­si gridi della passione, che ci lasciano senza fiato, come al barbaglio improvviso d'una viva polla di sangue. Alla fine del Bacio, l'apparizione di Lesbia in casa di Catullo sul lago (quello scricchiolio lieve del sandalo), è fra le pagine più misteriose e folgoranti della nostra moderna letteratura. Onore, grande onore al poeta che creò pagine come cotesta.