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    Il Concilio di Trento o Concilio Tridentino fu il XIX concilio
    ecumenico della Chiesa cattolica, aperto da papa Paolo III nel 1545
    e chiuso, dopo numerose interruzioni, nel 1563. Con questo concilio
    venne definita la riforma della Chiesa cattolica (Controriforma) e
    la reazione alle dottrine del calvinismo e luteranesimo (Riforma
    protestante).
    
    Fu un concilio importante per la storia della Chiesa cattolica,
    tanto che l'aggettivo "tridentino" viene usato ancora oggi per
    definire alcuni aspetti caratteristici della Chiesa cattolica
    ereditati da questo concilio e mantenuti per i successivi tre
    secoli, fino ai concili Vaticano I e Vaticano II.
    
    Storia
    
    La necessità di un Concilio
    
    Il primo ad appellarsi ad un concilio che dirimesse il suo contrasto
    con il Papa fu Martin Lutero, già nel 1517: la sua richiesta
    incontrò subito il sostegno di numerosi tedeschi, soprattutto
    di Carlo V, che in esso vedeva un formidabile strumento non solo per
    la riforma della Chiesa, ma anche per accrescere il potere
    imperiale. Tra i primi fautori bisogna ricordare anche il vescovo di
    Trento Bernardo Clesio ed il cardinale agostiniano Egidio da
    Viterbo. A tale idea si oppose invece fermamente papa Clemente VII
    che, oltre a perseguire una politica filo-francese e ostile a Carlo
    V, da un lato vi vedeva i rischi di una ripresa delle dottrine
    conciliariste, dall'altro temeva di poter essere deposto (in quanto
    figlio illegittimo).
    
    L'idea di un Concilio riprese quota sotto il pontificato del
    successore di Clemente VII, papa Paolo III (1534 - 1549). Egli in
    primo luogo allargò il collegio cardinalizio, con
    l'inserimento di figure che, in modo diverso, erano favorevoli ad
    una riforma (come Reginald Pole, Giovanni Gerolamo Morone o i
    più moderati Gasparo Contarini e Giovanni Pietro Carafa); nel
    1536 convocò quindi prima a Mantova e poi a Vicenza
    un'assemblea di tutti i vescovi, abati e di numerosi principi
    dell'Impero, ma senza ottenere alcun effetto (a causa del conflitto
    tra Francesco I e Carlo V). Vi erano inoltre differenze di vedute
    riguardo alle motivazioni e agli scopi del concilio: se Carlo V
    auspicava la ricomposizione dello scisma protestante, per il papato
    l'obiettivo era un chiarimento in materia di dogmi e di dottrina,
    mentre per i riformati era l'attacco dell'autorità del papa
    stesso.
    
    Il fallimento dei colloqui di Ratisbona (1541) segnò un
    ulteriore passo per la rottura con i protestanti e la convocazione
    di un concilio fu giudicata improrogabile: per quanto riguarda la
    sede, nel 1542 si stabilì che venisse celebrato a Trento
    poiché, pur essendo una città italiana, era entro i
    confini dell'Impero ed era retta da un principe-vescovo; fu con la
    pace di Crepy che Paolo III poté finalmente emanare la bolla
    di convocazione, la Laetare Jerusalem (novembre 1544) e il Concilio
    si aprì solennemente a Trento il 13 dicembre 1545, III
    domenica di Avvento, nella cattedrale di San Vigilio, a fare gli
    onori di casa il principe-vescovo Cristoforo Madruzzo.
    
    La prima fase del Concilio
    
    Il primo periodo del concilio si svolse in 8 sessioni solenni a
    Trento (dal 1545 al 1547) e in altre due a Bologna (dal 1547 al
    1549), dove si decise di trasferire il concilio per il timore della
    peste e per sottrarsi alle ingerenze imperiali. Il Concilio
    contò inizialmente pochi prelati, quasi tutti italiani, e fu
    quasi sempre controllato dai delegati pontifici. Furono presenti
    anche alcuni prelati legati al cosiddetto evangelismo, come il
    cardinale Reginald Pole.
    
    Nelle prime sessioni vennero approvati i regolamenti e l'ordine di
    discussione degli argomenti; venne inoltre deciso, in seguito ad un
    compromesso fra le istanze imperiali e quelle papali, di affiancare
    decreti di natura dogmatica a quelli riguardanti questioni
    disciplinari. Venne inoltre riaffermato il simbolo
    niceno-costantinopolitano.
    
    Nella IV sessione venne fissato il numero e l'ordine dei libri
    sacri, tanto del Nuovo quanto del Vecchio Testamento (Canone
    Tridentino), e si ribadì la loro ispirazione; venne poi
    accettata come autentica la versione della Bibbia detta Vulgata e si
    respinse la dottrina del libero esame delle Scritture, ribadendo che
    la loro interpretazione spettava alla Chiesa. Contestualmente fu
    proibito agli stampatori di pubblicare e far circolare libri di
    argomento religioso contenenti una interpretazione delle Scritture
    difforme da quella insegnata dalla Chiesa, o privi del nome
    dell'autore[1].
    
    Nella V sessione venne trattata la dottrina sul peccato originale,
    che portò al decreto del 17-6-1546.
    
    Nella VI sessione fu trattata la giustificazione, da cui il decreto
    del 13-1-1547. Si afferma che il battesimo lava da tale peccato ma
    nel battezzato rimane una concupiscenza, fomite (causa, tentazione)
    del peccato. Nonostante il permanere della concupiscenza, si
    ripropone la tesi tomista dello "stato di grazia" inteso come una
    qualità che, quando ricevuta, diviene propria dell'uomo, e
    non quindi una sorte conferita sempre da Dio ma 'aliena' ad esso;
    anche se si abbandonano le categorie della Scolastica medievale
    nell'esporre questo concetto (la "grazia creata" di S.Tommaso quale
    dono soprannaturale infuso da Dio nell'uomo, nella modalità
    di qualità accidentale dell'anima). La persona che riceve la
    grazia quindi cambia realmente, sia in sè sia in un nuovo
    comportamento, con atti meritori che a loro volta confermano ed
    incrementano la grazia. Gli atti sono una conseguenza della grazia,
    ma sono necessari. La cooperazione dell'uomo è comunque
    necessaria anche prima dello "stato di grazia" (ovvero, l'abbraccio
    della fede, ovvero l'abbandono fiduciale in Cristo); il documento
    elenca la sequenza degli atti che portano un adulto alla
    giustificazione: dal volgere l'attenzione alle verità di
    fede, a dare loro un assenso interiore, riconoscere di conseguenza
    il proprio peccato e detestarlo, amare Dio con tutto il cuore. Tutti
    atti compiuti per volontà umana, che si differenziano
    dall'esercizio delle virtù teologali (fede, speranza,
    carità) possibili solo dopo il battesimo e tramite
    l'infusione dello Spirito Santo. Sono dunque condannate le tesi
    luterane sulla giustificazione: sia per quanto riguarda ciò
    che è necessario a conseguirla (Lutero affermava che bastava
    la sola fede, e le opere non avevano alcun valore) sia per quanto
    riguarda le conseguenze sul giustificato (secondo Lutero non vi era
    alcun cambiamento nella persona, che rimaneva nei suoi peccati:
    l'unica differenza è che Dio non glieli imputa più, e
    lo fa con un atto puramente unilaterale). Venne inoltre condannata
    la teoria calvinista della predestinazione degli Eletti e venne
    evidenziato il ruolo della libertà umana nella propria
    salvezza.
    
    Non venne trattata in modo esteso la questione dell'Immacolata
    concezione: il concilio si limitò a dire che le affermazioni
    sul peccato originale espresse negli stessi documenti non
    riguardavano la «beata ed immacolata vergine Maria» e
    che venivano soltanto riprese le indicazioni di Sisto IV (già
    istitutore della festa dell'Immacolata) in merito alla questione,
    secondo le quali non era possibile indicare come eretica né
    l'affermazione contraria né quella favorevole dell'Immacolata
    concezione di Maria, in quanto la Chiesa non aveva ancora espresso
    un parere definitivo.
    
    Si stabilirono alcuni decreti di riforma, tra i quali il divieto di
    predicazione ai questuanti, il dovere di residenza come condizione
    per la rendita dei benefici ecclesiastici e l'obbligo di residenza
    dei vescovi nelle loro diocesi. Avveniva infatti che i benefici
    ecclesiastici e i vescovati venissero assegnati generalmente ai
    nobili, senza che corrispondesse effettivamente l'obbligo di
    residenza e lo svolgimento dell'incarico.
    
    Nella VII sessione venne infine ribadita la dottrina generale dei
    sette sacramenti, ritenuti istituiti da Gesù Cristo e
    efficaci indipendentemente dalla loro esecuzione (ex opere operato).
    Vennero quindi esaminati nel dettaglio i sacramenti del battesimo e
    della confermazione. Di rilievo la figura del vescovo Luigi Bardone,
    teologo pavese, che presentò i nuovi dogmi a Carlo V.
    
    I lavori vennero quindi interrotti per via dei contrasti tra Paolo
    III e l'imperatore Carlo V.
    
    La seconda fase del Concilio
    
    La morte di Paolo III e l'elezione, dopo tre mesi di conclave, di
    Giulio III a papa portarono nel maggio 1551 ad una riapertura del
    concilio che vide una maggioranza di vescovi imperiali, l'astensione
    della Francia e la presenza di 13 inviati protestanti. Fallì
    tuttavia la trattativa con questi ultimi, a causa delle loro
    richieste di scioglimento del giuramento di fedeltà al papa e
    di ridiscussione dei decreti già approvati: non fu pertanto
    possibile risolvere il problema dell'accordo con la religione
    riformata, la quale nel frattempo era stata tollerata nell'impero
    con l'Interim di Augusta.
    
    Vennero quindi riprese le discussioni sui sacramenti: nella XIII
    sessione venne ribadita la presenza reale di Cristo nell'eucarestia,
    la sua istituzione nell'Ultima cena e la dottrina della
    transustanziazione; si affermò quindi l'importanza del
    sacramento e vennero quindi confermate le pratiche di culto e di
    adorazione ad esso collegate (come l'adorazione eucaristica e la
    festa del Corpus Domini). Nelle sessioni successive si
    riaffermò poi l'importanza dei sacramenti della penitenza (o
    confessione) e dell'unzione degli infermi, rifiutati da Lutero ma
    considerati dalla Chiesa cattolica istituiti direttamente da Cristo.
    
    Nell'aprile del 1552 il concilio venne di nuovo sospeso a causa
    delle guerre che vedevano coinvolte le truppe imperiali e i principi
    protestanti.
    
    La fase conclusiva del Concilio
    
    Alla morte di Giulio III nel 1555 si susseguirono i pontefici
    Marcello II (al soglio pontificio per solo 23 giorni) e Paolo IV il
    quale, riponendo poca fiducia nell'assise conciliare, tentò
    di effettuare una riforma con altri metodi, potenziando il
    Sant'Uffizio e pubblicando nel 1557 l'Indice dei libri proibiti
    (Index librorum prohibitorum), un elenco di testi la cui lettura
    veniva proibita ai fedeli per via di contenuti eretici o moralmente
    sconsigliabili.
    
    Nel 1559 divenne quindi papa Pio IV, il quale con l'aiuto del nipote
    cardinale Carlo Borromeo, futuro arcivescovo di Milano,
    riaprì, nel 1562, i lavori conciliari.
    
    Venne affrontata la questione del sacrificio della Messa,
    considerato memoriale e "ripresentazione" in maniera reale
    dell'unico sacrificio di Gesù sulla croce, sacerdote e
    vittima perfetta, condannando con ciò le idee luterane e
    calviniste della Messa come semplice "ricordo" dell'ultima cena e
    del sacrificio di Cristo.
    
    Nella XXIII sessione si riaffermò il valore del sacramento
    dell'ordine, considerato istituito da Gesù, e la
    legittimità della struttura gerarchica della Chiesa,
    costituita in primo luogo dal pontefice romano, successore di
    Pietro, e dai vescovi, successori degli apostoli. Vennero quindi
    approvati i decreti di riforma sulla presenza di seminari in ogni
    diocesi e sull'ammissione dei candidati al sacerdozio.
    
    La XXIV sessione si soffermò invece sul sacramento del
    matrimonio, considerato indissolubile secondo l'insegnamento di
    Cristo, e stabilì le norme per un eventuale suo annullamento;
    venne poi confermata e resa vincolante l'usanza del celibato
    ecclesiastico. Si decise inoltre che ogni parroco dovesse tenere un
    registro dei battesimi, delle cresime, dei matrimoni e delle
    sepolture. Ai vescovi fu imposto di compiere la visita pastorale
    ogni anno, completandola ogni due anni.
    
    Nella XXV e ultima sessione venne infine riaffermata la dottrina
    cattolica sul Purgatorio e sul culto dei santi, delle reliquie e
    delle immagini sacre; un decreto riaffermava la facoltà della
    Chiesa di concedere indulgenze come salutare per il popolo
    cristiano, approvata dai sacri canoni e conferita direttamente da
    Cristo, condannando di conseguenza chiunque ne predicasse
    l'inutilità[1]. Vennero infine affidate al pontefice e alla
    curia romana alcune questioni rimaste in sospeso per la mancanza di
    tempo: la revisione del breviario e del messale, del catechismo e
    dell'Indice dei libri proibiti.
    
    Con la bolla Benedictus Deus, emanata il 30 giugno 1564, Pio IV
    approvò tutti i decreti conciliari e incaricò una
    commissione di vigilare sulla corretta interpretazione e attuazione
    degli stessi.
    
    L'opera del Concilio
    
    Il concilio non riuscì nel compito di ricomporre lo scisma
    protestante e di ripristinare l'unità della Chiesa, ma
    fornì una risposta dottrinale in ambito cattolico alle
    questioni sollevate da Lutero e dai riformatori. Venne fornita una
    dottrina organica e completa sui sacramenti e si specificò
    l'importanza della cooperazione umana e del libero arbitrio nel
    disegno di salvezza.
    
    Rimasero insolute alcune importanti questioni nel campo della fede:
    non si trattò ad esempio in modo esaustivo il problema,
    sollevato dai protestanti, della natura e del ruolo del papato e del
    suo rapporto con l'episcopato (il quale sarà trattato dal
    Concilio Vaticano I); rimase anche in sospeso la questione del
    rapporto e della convivenza nella Chiesa tra aspetto istituzionale e
    misterico (per il quale bisognerà aspettare l'ecclesiologia
    del Concilio Vaticano II). Sul piano istituzionale, rimasero
    insolute inoltre le questioni dei privilegi e dei diritti attribuiti
    a sovrani e principi cattolici nell'intervenire nelle questioni
    interne alla Chiesa.
    
    Dal punto di vista disciplinare, vennero affrontati problemi come la
    preminenza della cura pastorale (cura animarum, cura delle anime)
    nell'operato del vescovo o la riforma della vita religiosa. Fu dato
    grande impulso alle diocesi imponendo ai vescovi la presenza nelle
    loro sedi, la celebrazione dei sinodi e le visite pastorali e
    prevedendo in ogni diocesi l'istituzione di un seminario.
    
    Lo storico contemporaneo Hubert Jedin sintetizzò così
    gli esiti del concilio:
        
    « Esso ha rigorosamente delimitato il patrimonio della fede
    cattolica nei confronti dei protestanti, anche se non su tutta la
    linea delle controversie [...] Esso ha contrapposto alla "riforma"
    protestante una riforma cattolica, che pur non essendo una
    reformatio in capite et membris nel senso del tardo Medioevo [...]
    eliminò certamente gli inconvenienti più gravi sul
    piano diocesano e parrocchiale e negli ordini religiosi,
    rafforzò di fatto il potere dei vescovi e portò in
    primo piano le esigenze della pastorale »
        (E. Iserloh - J. Glazik - H. Jedin, op. cit., p.
    596)
    
    Conseguenze e risultati del Concilio
    
    Riforma cattolica
    
    Il nuovo attivismo che derivò nei confronti del
    protestantesimo viene indicato in ambito storiografico col termine
    di Controriforma o, più raramente, Riforma cattolica.
    
    Furono in particolare i pontefici successivi al concilio ad attuare
    e portare a compimento il processo di riorganizzazione della Chiesa.
    Il primo di essi è Pio V, papa dal 1566, il quale
    promulgò il Catechismo Romano (pensato come strumento per i
    parroci e i predicatori); a lui si deve anche la revisione del
    breviario e del messale, con la conseguente uniformità
    liturgica della chiesa occidentale e l'adozione universale del rito
    romano nella sua forma tridentina (adottata con poche variazioni
    fino al Concilio Vaticano II e oggi celebrata come forma
    extraordinaria del rito romano); vennero aboliti molti riti locali e
    particolari, con l'eccezione del rito ambrosiano per l'arcidiocesi
    di Milano e di pochi altri riti. Nel 1571 Pio V istituì
    inoltre la Congregazione dell'Indice, con il compito di mantenere
    aggiornato l'Indice dei libri proibiti e la facoltà di
    effettuare speciali dispense.
    San Carlo Borromeo comunica gli appestati, in un dipinto del 1616.
    
    Papa Gregorio XIII, eletto nel 1572, diede notevole impulso al
    processo di accentramento di potere nelle mani del papato,
    sviluppando la nunziatura (una sorta di "ambasceria" dipendente
    direttamente dal papa e non dalla Chiesa locale) e promuovendo
    l'erezione in Roma di seminari e collegi per stranieri. Il
    successore, Sisto V, stabilì inoltre che i vescovi delle
    Chiese locali dovessero periodicamente effettuare le cosiddette
    visite ad limina, ovvero delle visite obbligatorie a Roma con
    relazione scritta sulla situazione delle proprie diocesi;
    riorganizzò inoltre la curia romana, istituendo 15
    congregazioni al servizio del papa.
    
    Grande attuatore della riforma cattolica fu Carlo Borromeo, figura
    dominante del terzo periodo conciliare, arcivescovo di Milano dal
    1565 e principale curatore del catechismo tridentino. Dedicò
    la sua attività di vescovo prevalentemente alla pastorale,
    distanziandosì dalla visione medievale del vescovo come uomo
    di potere; fondò il primo seminario a Milano e si
    impegnò nelle visite pastorali e nella stesura di norme
    importanti per il rinnovamento dei costumi ecclesiastici.
    
    Dalla fine del Cinquecento questo processo riformatore trova
    tuttavia un rallentamento e assume una direzione conservatrice:
    molti decreti sono disattesi e nella vita ecclesiale si arriva ad un
    prevalere degli aspetti giuridico-istituzionali rispetto a quelli
    sociali e al ruolo dei laici.
    
    L'influsso sull'arte
    
    Sebbene il Concilio emanasse soltanto principi generali sulla
    liceità dell'uso delle immagini, l'arte del tardo XVI secolo
    e del XVII secolo risentì di questi cambiamenti religiosi.
    Durante e subito dopo il Concilio vi fu una certa rarefazione del
    lusso manierista e alcune licenze formali tipiche del manierismo
    internazionale vennero abbandonate, almeno per le opere religiose.
    
    Il Barocco, generalmente considerato l'espressione artistica della
    Chiesa post tridentina, non è in realtà che
    l'espressione del nuovo ordine e del potere ritrovato dalla Chiesa
    dopo le divisioni e i ripensamenti del XVI secolo.
    
    L'influsso sulla musica
    
    Il Concilio ebbe un notevole influsso anche sulla musica, nella
    fattispecie sul Canto gregoriano. Si cercò infatti di
    riportarlo alla purezza originale, eliminando ogni artificio
    aggiunto nel corso dei secoli. Vennero così aboliti i tropi e
    quasi tutte le sequenze; venne inoltre eliminata ogni traccia di
    musica profana, come ogni cantus firmus non ricavato dal gregoriano.
    Anche qui da segnalare l'eccezione (come per il resto della
    liturgia) per il canto ambrosiano, nell'arcidiocesi di Milano.
    
    Si affidò infine a Giovanni Pierluigi da Palestrina e a
    Annibale Zoilo il compito di redigere una nuova edizione della
    musica liturgica che rispettasse le decisioni del Concilio. Tuttavia
    la musica che accompagnava le cerimonie religiose non fu mai
    limitata al solo gregoriano o ambrosiano. Molti tra i maggiori
    compositori come Monteverdi, Händel, Bach, Vivaldi,
    Charpentier, Cherubini, Haydn, Mozart, Verdi, Rossini scrissero
    messe, vespri, salmi, inni e altro, nello stile della propria epoca,
    e tutti questi vennero eseguiti regolarmente sia come musica
    liturgica sia in forma di semplice concerto.
    
    Giudizi critici sul Concilio
    
    Sull'assise conciliare non mancarono, già tra i
    contemporanei, i giudizi critici, non soltanto tra le file dei
    protestanti. In ambito cattolico, ad esempio, particolarmente
    esplicita fu la valutazione espressa da Paolo Sarpi, teologo ed
    erudito appartenente all'Ordine dei Servi di Maria, nonché
    influente consigliere della Repubblica di Venezia in occasione della
    complessa questione dell'interdetto (1604-1607). Nella sua Istoria
    del Concilio Tridentino, Sarpi affermò che il Tridentino ebbe
    effetti opposti rispetto a quelli auspicati da quanti ne
    caldeggiarono la convocazione, fallendo nel tentativo di
    ricomposizione dello scisma protestante e favorendo un'ulteriore
    centralizzazione della Chiesa cattolica attorno al papato e alla
    Curia romana, che videro enormemente rafforzato il proprio potere a
    discapito dell'autorità dei vescovi:
       
     « Questo concilio, desiderato e procurato dagli uomini
    pii per riunire la Chiesa che comminciava a dividersi, ha
    così stabilito lo schisma et ostinate le parti, che ha fatto
    le discordie irreconciliabili; e maneggiando da li prencipi per
    riforma dell'ordine ecclesiastico, ha causato la maggior
    deformazione che sia mai stata da che vive il nome cristiano, e
    dalli vescovi sperato per racquistar l'autorità episcopale,
    passata in gran parte nel sol pontefice romano, l'ha fatta loro
    perdere tutta interamente, riducendoli a maggior servitù: nel
    contrario temuto e sfuggito dalla corte di Roma come efficace mezzo
    per moderare l'esorbitante potenza, da piccioli principii pervenuta
    con vari progressi ad un eccesso illimitato... »
    
    Sul Concilio si dibatté a lungo anche nei secoli successivi,
    come testimonia l'abbondante letteratura controversistica sul tema.
    Nell'Ottocento, inoltre, la questione si spostò su un terreno
    più propriamente storiografico, quando si definirono in modo
    compiuto due tesi, tra di loro contrapposte, ma entrambe destinate
    ad una duratura fortuna e ad un ampio seguito, soprattutto in
    ragione del prestigio degli studiosi che le formularono: Leopold von
    Ranke (1795-1886) e Ludwig von Pastor (1854-1928). Il primo
    sosteneva che vi furono vari movimenti di riforma fin dal XV secolo,
    e che questo Concilio ebbe il ruolo di una restaurazione contro i
    tentativi che andavano in tale direzione, uno dei quali si
    realizzò nella riforma protestante; il secondo sosteneva che
    il protestantesimo fu una rivoluzione e che il Concilio di Trento
    rappresentò la vera riforma. La differente valutazione
    espressa sui due movimenti e la questione terminologica ad essa
    collegata (riforma protestante e controriforma cattolica oppure
    rivoluzione protestante e riforma cattolica) ha avuto degli echi
    fino al giorno d'oggi, sebbene non siano mancati, soprattutto in
    ambito anglosassone, tentativi interpretativi miranti al superamento
    di questa impostazione generale della querelle.
    
    Gran parte dei pensatori agnostici o anticlericali italiani
    dell'Otto-Novecento (Croce, Gentile, De Sanctis e altri) fu molto
    critica nei confronti della stagione della vita religiosa, sociale e
    politica apertasi con il Concilio, valutata come un'epoca di
    decadenza dell'arte e dei costumi, effetto di un clima di "chiusura"
    mentale in netta controtendenza con l'"apertura" della fase
    rinascimentale. Per giunta, con la Riforma cattolica, vi fu un
    fiorire di nuove devozioni, ordini religiosi (camilliani,
    oratoriani, gesuiti), confraternite ed associazioni (anche laicali)
    e un nuovo slancio evangelizzatore che allontanarono ulteriormente
    l’attenzione dai problemi sostanziali posti dalla Riforma, compiendo
    un’azione diversiva per salvaguardare il ruolo della Chiesa
    cattolica.