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di Jean-Claude Maire Vigueur
Nacque a Roma nel rione Regola nell'aprile o maggio del 1313 da
Lorenzo (Rienzo), taverniere, e da Maddalena, lavandaia. Apparteneva
dunque ad una famiglia di artigiani ("de vasso lennaio" dice
l'anonimo cronista romano suo biografo), una delle tante che
formavano a Roma il popolo minuto e che nella seconda metà
del sec. XIV, sotto il regime della Felice Società dei
balestrieri e dei pavesati, dividerà il potere comunale con
il ceto degli imprenditori agricoli ("bobacterii"). Per allora
tuttavia stava invischiata come molte altre della sua stessa
condizione nelle lotte faziose delle grandi famiglie baronali,
parteggiando a quanto pare per i Savelli.
Fino all'età di venti anni C. fu educato da un parente del
padre ad Anagni. Rientrato a Roma, sposò la figlia di un
certo Cecco, solitamente identificato con il notaio Francesco
Mancini. Anche C. esercitò il notariato e certo dopo avere
frequentato una scuola notarile romana.
In questi anni, compresi tra il ritorno a Roma da Anagni e il
viaggio ad Avignone, egli era già noto per la cultura
antiquaria. La sua conoscenza dell'antichità era ovviamente
contaminata dalle leggende medievali proliferate dai monumenti
antichi come dai grandi personaggi della storia romana. È
sicuro tuttavia che aveva letto direttamente gli antichi autori,
prosatori (Livio, Sallustio, Cicerone, Seneca, Valerio Massimo,
Boezio, Simmaco) e i poeti (Virgilio, Stazio, Lucano, Ovidio). Alla
lettera vanno prese le espressioni usate dall'Anonimo romano per
definire i suoi talenti intellettuali: era infatti capace di
comporre in latino, sia in prosa sia in versi, di leggere le
iscrizioni antiche, di tradurre e interpretare i testi. La passione
per l'antichità è motivata da una intenzione morale,
che spiega la preferenza per gli storici e per Livio in particolare.
Si trattava di recuperare le figure eroiche del passato romano,
soprattutto di quello repubblicano, per opporle alla decadenza del
presente. La sua conoscenza del diritto romano è attestata
dall'eccellente interpretazione della Lex de Imperio, utilizzata
ancora oggi per il restauro della parte del testo ormai perduta.
Tale conoscenza si manifesterà nella sua azione politica,
nella ristrutturazione delle istituzioni giuridiche comunali, e
nelle sue argomentazioni sui fondamenti del potere imperiale.
Né la Cronica dell'Anonimo romano né la corrispondenza
offrono testimonianze altrettanto precise della cultura religiosa di
C. prima del tribunato. Egli dà prova di avere buona
conoscenza della Bibbia e, in misura minore, di certi Padri della
Chiesa come Agostino e Girolamo, ma esprime senza perifrasi il
disprezzo per le elucubrazioni scolastiche della teologia medievale.
Si ritrovano dunque tratti comuni alla cultura religiosa del primo
umanesimo, acquisiti da C. con ogni probabilità nel corso
degli anni '30 e '40, a contatto con i giudici, i notai e i chierici
che saranno i suoi primi partigiani e gli forniranno buona parte del
personale politico durante il tribunato. Più difficile
cogliere l'influenza dei movimenti di riforma religiosa sulla sua
personalità. Ci si può limitare a constatare la
presenza di alcuni tratti comuni al pensiero religioso del primo
umanesimo e, più genericamente, a tutti i movimenti religiosi
dei secoli XII, XIII e XIV: l'esaltazione del carattere sacro di
Roma, l'aspirazione a un rinnovamento morale del mondo con l'aiuto
dello Spirito Santo, la preoccupazione di proteggere i poveri e gli
umili. Nel complesso una religiosità innegabile ma incerta,
capace per la sua propensione al misticismo di assumere spunti da
una dottrina rivoluzionaria come quella del gioachimismo più
eterodosso, ma che, fino alla fine del tribunato, si
contenterà senza contraddirsi di una politica di salvaguardia
e persino di restaurazione del patrimonio ecclesiastico e nel campo
sociale di misure di assistenza che lasciano intatti i privilegi
della classe dominante.
La prima comparsa di C. sulla scena politica coincide con la
formazione di un regime popolare a Roma. Alla fine del 1342,
approfittando dell'assenza dei due senatori inviati ad Avignone alla
testa di una ambasceria, i "tredecim boni viri" si arrogarono la
totalità del potere e costituirono un governo di tipo
popolare, che decise di mandare ad Avignone C. stesso come
ambasciatore. Da ciò si può dedurre che aveva avuto
parte importante nella fondazione del nuovo regime. Raggiunse
dunque, nell'autunno del 1342, ad Avignone la prima ambasceria che
aveva come scopo di conferire al nuovo papa, Clemente VI, la
dignità senatoriale e le altre cariche cittadine, di
chiedergli di visitare Roma e di accordare il giubileo per l'anno
1350. Il compito di C., che rappresentava i "consules artium et
alios populares Urbis ejusdem" (Burdach-Piur, IV, n. 1), era di
esporre al papa il punto di vista del partito popolare sulla
situazione romana per convincerlo ad accettarne le modifiche
istituzionali. C. descrisse a Clemente VI la miserevole condizione
della città oppressa dall'anarchia e dalle violenze baronali
con un'eloquenza che gli valse l'ammirazione del papa, ma anche
l'odio dei baroni presenti ad Avignone, che finirono per provocarne
la disgrazia. Egli prolungò tuttavia il suo soggiorno fino
all'estate del 1344: si legò di amicizia con il Petrarca e
acquistò una buona conoscenza dell'ambiente della Curia. Per
intercessione del Petrarca, che intervenne, ad esempio, in suo
favore presso il cardinale Giovanni Colonna, C. divenne un
"familiare" della corte pontificia e si fece conferire da Clemente
VI la carica di notaio della Camera capitolina con un salario di 5
fiorini al mese.
Il rientro a Roma ebbe luogo nel luglio o agosto del 1344. Sui
quattro anni che precedono l'ascesa al potere, le informazioni
fornite dall'Anonimo danno un'idea precisa del suo talento e della
complessità del suo progetto politico. La carica che
ricopriva gli permetteva di cogliere al vivo i vizi del regime
feudale, perché, nonostante il carattere apparentemente
popolare delle istituzioni romane, la realtà del potere era
nelle mani dei baroni che lo esercitavano secondo tutte le regole
del comportamento feudale: accaparrando a loro esclusivo vantaggio
le risorse e il patrimonio del Comune, impedendo alla giustizia
comunale di funzionare a tutto vantaggio della giustizia privata,
sostituendo in generale i rapporti di diritto con il ricorso alla
violenza. Basterà considerare del resto l'odio antibaronale
dell'Anonimo per avere una idea della violenza degli antagonismi di
classe sotto un tale regime. Violenza che investì C. stesso
dal momento in cui cominciò a rimproverarla ai baroni, nel
corso di una riunione del principale Consiglio comunale,
l'"assectamento": fu schiaffeggiato dal camerlengo del Comune,
Andreuccio dei Normanni, e insultato volgarmente da uno dei
segretari comunali, Tomao di Fortifiocca.
È evidente che l'Anonimo attribuisce a C., a partire dal
ritorno a Roma, una volontà politica ben precisa di cacciare
i baroni dal governo del Comune e di eliminare tutto ciò che
ricordava i comportamenti feudali dalla vita pubblica e privata.
L'Anonimo indica anche senza ambiguità i partigiani naturali
di questo progetto politico: tutti coloro che si dichiarano del
partito popolare, che traggono le loro risorse da un'attività
economica regolare e continua, fondata su rapporti di produzione
libera da ogni costrizione giuridica. In una parola, nella Roma di
allora anzitutto i proprietari e gli imprenditori delle grandi
aziende agrarie, quindi i mercanti, i bottegai e gli artigiani, se
riescono a liberarsi dalla soggezione alle grandi famiglie
signorili. C. negli anni 1344-47 cercò di suscitare in tutti
costoro una presa di coscienza dei loro interessi reali. E lo fece
con mezzi e larghezza di vedute che lo caratterizzano come una
figura eccezionale, più complessa e difficile da definire dei
riformatori comunali che l'hanno preceduto e non solo a Roma.
Ben noto è l'uso che egli seppe fare della parola e
dell'immagine per diffondere le sue idee. L'Anonimo descrive con
gran minuzia di particolari i due dipinti allegorici che egli fece
appendere, il primo sulla facciata del Campidoglio che dava sul
mercato, il secondo su un muro di S. Angelo in Pescheria. L'uno e
l'altro illustravano la situazione miserevole di Roma sotto il
governo dei baroni, quello del Campidoglio evidenziando con un
sistema sottilissimo di allegorie le diverse componenti del regime
baronale, il secondo ponendo l'accento sull'aspirazione ad un regime
migliore.
Durante lo spettacolo organizzato in S. Giovanni in Laterano per
commentare la Lex regia, sicuramente nel 1346, l'immagine è
ancora presente sotto forma di un dipinto (anche in questo caso si
ignora la natura del supporto, se di legno o di tela) che
rappresentava il Senato romano mentre conferiva l'impero a
Vespasiano. Sarebbe un errore vedere in questo ricorso all'immagine
una preoccupazione esclusivamente pedagogica, per illustrare in modo
grossolano ma efficace concetti esposti più sapientemente con
la parola. Le cerimonie complicate, gli abbigliamenti ricercati, le
insegne e i simboli che egli inventò o riesumò da un
passato lontano, in breve tutto ciò che era offerto allo
sguardo deve essere interpretato e valutato in funzione di una
fenomenologia della percezione nella quale il visuale svolge una
funzione infinitamente più grande di quanto non abbia nella
nostra struttura mentale. È privo di rilievo evocare
semplicemente il gusto di C. per lo spettacolo e per la messa in
scena, visto che si trattava di un elemento costante e strutturale
della mentalità del tempo. La sua originalità consiste
invece nella capacità di inventare, immaginare ed evocare,
sicuramente eccezionale, anche se oggi non è possibile
coglierla in tutte le sue forme espressive, dato che nulla resta dei
suoi discorsi, dei dipinti (suoi o comunque eseguiti sotto le sue
direttive), né delle poesie scritte durante il secondo
soggiorno avignonese e delle cerimonie da lui organizzate. Vi
rientravano tutti gli aspetti della sua politica, dal programma di
un regime comunale popolare fino al progetto di una Italia
unificata.
Il discorso sulla Lex regia permette di affermare che C. possedeva
prima di prendere il potere un progetto politico globale che puntava
già sull'idea più audace del tribunato: la
restituzione a Roma del suo diritto a conferire l'impero.
L'essenziale del suo discorso si attenne tuttavia quel giorno alla
prima parte del suo programma politico: la riforma delle istituzioni
comunali in senso popolare e antinobiliare. Su questo tema il suo
successo fu strepitoso. E tuttavia affiorò già la
tentazione di andare oltre le possibilità concrete che il
momento politico offriva, di anticipare sul futuro, contando sulle
risorse dell'immaginazione più che sui reali rapporti di
forza. Da ciò le provocazioni ai baroni, quando preannuncia
alla loro tavola la loro imminente disgrazia, la sua audacia
nell'annunciare con due mesi di anticipo la prossima rivoluzione,
affiggendo un cartello sulla porta della chiesa di S. Giorgio in
Velabro. Da ciò anche il compiacimento per le doti di attore
che egli stesso analizzerà molto bene durante il soggiorno in
Boemia. Tutti tratti che esprimono una propensione a contare in modo
esagerato sulla parola e sul gesto per risolvere problemi politici e
che possono anche spiegare le subitanee rinunce in situazioni che
pure gli lasciavano solidi punti di appoggio.
Sta di fatto comunque che C. era alla testa di un movimento politico
sostenuto da un consenso sociale molto largo e provvisto di un
programma politico accuratamente elaborato, se è vero che nel
corso dell'ultima riunione dei suoi principali partigiani, avvenuta
sull'Aventino il 18 maggio 1347, egli arrivò ad abbozzare
nelle grandi linee il bilancio del futuro governo. Il giorno
seguente, vigilia di Pentecoste ma anche giorno di mercato, i
congiurati si ritrovarono sulla piazza del Campidoglio, cacciarono
le guardie e i funzionari del Comune, convocarono per il giorno
successivo tutti gli uomini, senza armi, per tenere un Parlamento
destinato a riformare le istituzioni. C. passò la notte nella
chiesa di S. Angelo in Pescheria ad ascoltare trenta messe dello
Spirito Santo. Il mattino della Pentecoste, si recò in
Campidoglio, armato ma con il viso scoperto, accompagnato da
venticinque giovani armati e preceduto da quattro stendardi dei
quali l'Anonimo descrive con sfoggio di dettagli i colori e i
simboli. Il vicario del papa, il vescovo Raimondo di Orvieto, si
unì al corteo prima che cominciasse a salire i gradini del
Campidoglio. Davanti ad una gran folla C. fece una "bellissima
diceria" per esporre il suo programma politico. Intramezzò il
discorso con la lettura di una serie di misure concrete che propose
all'approvazione dell'Assemblea. Questa l'acclamò e gli
accordò pieni poteri, sulla base del programma esposto, da
esercitare insieme con il vicario del papa. Tutti e due assunsero il
titolo di rettori della città, titolo che sarà
confermato dal papa il 27 giugno 1347. Successivamente, nel corso di
una riunione del Parlamento anteriore al 24 maggio, C.
riesumò il titolo di tribuno e si fece conferire la "libera
potestas et auctoritas reformandi et conservandi statum pacificum
Urbis et totius Romanae provinciae" (Burdach-Piur, III, nn. 7-8) per
attuare la sua politica riformatrice senza tenere conto degli
statuti comunali e delle precedenti deliberazioni senatorie. Il suo
titolo si arricchirà ancora nei giorni seguenti e
assumerà l'andamento di una iscrizione antica: "Nicola il
severo e il clemente, tribuno della libertà, della pace e
della giustizia, liberatore della Santa Repubblica romana".
Fra i quindici provvedimenti acclamati dalla folla il giorno di
Pentecoste: l'ottavo e il nono miravano a smantellare l'apparato
militare dei baroni, il decimo ingiungeva loro di rispettare la
sicurezza, delle strade e l'ordine pubblico cessando di offrire
rifugio ai malfattori. Durante il mese di giugno C. obbligò i
baroni a demolire le porte e le fortificazioni che rendevano le loro
case delle fortezze. Per spezzare i legami di dipendenza che
assicuravano loro una clientela di fedeli e persino di vassalli fra
la gente dei loro quartieri, proibì i giuramenti di
vassallaggio, l'uso del titolo di dominus e dei blasoni nobiliari.
In tal modo C. realizzava a Roma quella abolizione delle fazioni e
delle clientele che tenterà di estendere a tutta l'Italia e
la cui esistenza, nel suo pensiero come del resto nella
realtà, derivava dalla persistenza di un modo di vita feudale
anche all'interno dei comuni che avevano messo in piedi istituzioni
schiettamente popolari.
Il quarto decreto del 20 maggio riorganizzava la milizia municipale
imponendo a ciascun rione di fornire cento fanti e venticinque
cavalieri. C. puntava dunque sul valore dei fanti e si sa che i
baroni combattevano a cavallo. È difficile dire se questa
milizia comunale abbia risposto sul campo alle sue speranze. Certo
è che egli gettò le basi della organizzazione militare
che permetterà al regime della Felice Società di
esercitare, tra il 1360 e il 1393, un'autorità incontestata
su Roma e sul suo contado. A partire dal 20 maggio un battello
armato doveva stazionare in permanenza alle foci del Tevere per
garantire la sicurezza del commercio marittimo e fluviale.
Pochi i provvedimenti innovatori nella politica finanziaria del
nuovo regime. Per riempire le casse del Comune bastava la percezione
rigorosa delle tasse esistenti, ma il cui gettito era in buona parte
distorto dalle malversazioni dei funzionari e dei baroni, e il
recupero del patrimonio comunale accaparrato dai signori. C.
iniziò dunque una politica di riappropriazione di questi
diritti e di rigorosa esazione delle tasse comunali, con grande
successo, a quanto pare, visto che il nuovo regime non ebbe mai
grosse difficoltà a pagare il soldo della truppa e che C. si
vanterà pure di avere soppresso le tasse che colpivano la
circolazione delle merci. Le fonti non permettono tuttavia di
ricostruire nei dettagli l'attuazione di questa politica.
Le misure di moralizzazione adottate da C. illustrano fino a che
punto egli intendesse trasformare la natura dei rapporti sociali. Il
divieto di giocare a dadi, di bestemmiare, i divieti sessuali,
l'obbligo di confessarsi e comunicarsi una volta l'anno annunciano
con un anticipo di parecchi decenni le disposizioni reclamate dai
grandi predicatori della prima metà del sec. XV, che
tentarono di addossare all'apparato statale le esigenze morali di
certe classi sociali. E tuttavia, non bisogna spingere troppo avanti
il confronto con questi predicatori, perché C. durante tutto
il tribunato dà l'impressione di avere anzitutto cercato di
utilizzare la religione per confortare gli aspetti antibaronali del
suo regime, invece di mettere le istituzioni al servizio della
religione.
Durante la sua ambasceria ad Avignone, aveva manifestato una
sollecitudine caratteristica del primo umanesimo verso i deboli, le
vedove, i poveri, gli orfani. Una volta asceso al tribunato, previde
la costituzione di granai municipali per fronteggiare le carestie e
promise l'aiuto del Comune agli indigenti. Resta tuttavia fermo che
non gli si può attribuire un'attenzione particolare, di
ispirazione gioachimita, alla miseria dei poveri. Non manca invece
di colpire la sua preoccupazione costante di stabilire buoni
rapporti con il clero locale, favorendone il desiderio di tutelare e
persino ricostituire il patrimonio ecclesiastico. È questo un
aspetto della sua politica tra i meglio documentati, che sconfessa
ogni tentativo di attribuirgli simpatie per la "furiosa
carità" dei fraticelli, almeno per il periodo del tribunato.
Nel settore giudiziario compaiono alcune novità, ma anche in
questa sede conta di più la volontà di applicare la
legislazione già esistente ma non rispettata. Sia a Roma sia
nel contado, dove C. denunciò la responsabilità dei
rettori pontifici che accordavano sistematicamente ai signori la
facoltà di cancellare i loro delitti con il pagamento di
un'ammenda spesso anche modesta. Il primo decreto del 20 maggio
imponeva "che qualunque perzona occideva alcuno, esso sia ucciso,
nulla exsceptuazione fatta" (Cronica, p. 155). In effetti le due
esecuzioni eseguite nelle prime settimane del governo di C.
colpirono fortemente la gente. L'Anonimo sorvola su quella di un
monaco di S. Angelo, ma si attarda sulla morte di Martino dei
Stefaneschi, tanto più esemplare in quanto la sentenza
colpiva un barone imparentato con i Colonna che si riteneva
intoccabile. L'Anonimo attribuisce inoltre a C. una semplificazione
della procedura che permise di accelerare il corso della giustizia e
produsse in breve tempo quegli effetti che gli daranno occasione di
abbozzare il famoso quadro di Roma e della sua campagna: "In questo
tiempo orribile paura entrao l'animi delli latroni" (p. 160). Il
carattere elegiaco di questo giudizio richiama quella che era
l'iniziativa più originale, almeno per l'epoca: la creazione
di una "casa della pace e della giustizia" destinata a regolare per
via di composizione generalmente pacifica e in ogni caso simbolica
(uno schiaffo ad esempio risarciva e annullava un colpo di pugnale)
le innumerevoli inimicizie tra privati. C. avanzerà
più tardi la cifra di milleottocento romani riconciliati con
questa procedura. La sua semplicità cortocircuitava
evidentemente la giustizia tradizionale, ma senza alienare a C. il
favore dei legisti, giudici, giusperiti e notai che costituivano il
nerbo dei suoi simpatizzanti. Simpatia più che naturale in
fondo, se si considera che uno Stato fondato sul diritto e sul
rispetto delle istituzioni ha bisogno per funzionare di un ceto di
specialisti della legge.
Il campo che illustra meglio l'intelligenza politica di C. è
costituito dai rapporti con il contado: l'espansione della
città tradizionalmente attribuita alla sua politica si
esercitò infatti principalmente a detrimento di grandi
baroni, come il prefetto di Vico e il conte Gaetano Caetani, oppure
ai danni dell'amministrazione corrotta ed incapace dei rettori
pontifici nel Patrimonio e nella Campagna e Marittima, C.
associò sempre l'espansione o il consolidamento
dell'autorità romana all'instaurazione di un nuovo regime nei
Comuni soggetti e di nuovi rapporti, più giusti e più
egualitari, con il Comune dominante. In fondo non cercava di
estendervi l'autorità del Campidoglio, ma di instaurarvi un
regime politico identico al romano. Non è chiaro quanto di
questo programma, esposto in maniera lucida e coerente nelle sue
lettere, sia passato nei fatti. Alcune testimonianze sono
indicative: l'estensione, ad esempio, a tutto il distretto
dell'esenzione dalle gabelle e dai pedaggi, la collaborazione
innegabile di numerosi Comuni del Patrimonio nella guerra contro il
prefetto di Vico o ancora la sottomissione volontaria di certi
Comuni della Sabina che preferirono l'autorità di un
podestà nominato da C. a quella dei loro signori o del
rettore pontificio. Anche se le fonti sono essenzialmente di origine
romana e dunque sospettabili di abbellire la realtà dei
rapporti con il distretto, non se ne può inficiare del tutto
la testimonianza. Le Comunità del distretto appoggiarono in
ogni caso fino in fondo la politica antibaronale di C. nel contado.
In effetti la sua politica riformatrice, almeno fin verso la fine
del 1347, trovò serie resistenze solo nelle grandi famiglie
baronali, perché l'atteggiamento dei rettori del Patrimonio e
della Campagna restò incerto e dubbioso. Anzitutto a Roma:
l'Anonimo riferisce episodi piuttosto coloriti: la collera del
vecchio Stefano Colonna contro "questo pascio" che osava sfidare le
prerogative signorili, la sua fuga vergognosa davanti alla immediata
reazione popolare a favore di C., quindi l'ordine rispettato da
tutti i baroni di abbandonare Roma, la sottomissione della maggior
parte di essi. Se C. dà l'impressione di fare con loro il
bello e il cattivo tempo, alternando misure di intimidazione e di
indulgenza con una disinvoltura talvolta sconcertante, i baroni
adottarono a loro volta un atteggiamento tutt'altro che univoco. Una
buona parte degli Orsini, dei rami di Montegiordano e di Castel
Sant'Angelo, e i Conti si schierarono sin dal primo giorno dalla sua
parte. Al contrario, i Colonna, i Savelli, gli Orsini di Marino gli
furono sempre ostili, malgrado adesioni effimere e poco convincenti.
Ci si può chiedere se C. seppe dare prova della necessaria
fermezza nei loro confronti. Per quel che riguarda i due signori che
si opposero apertamente alla sua politica nel contado, il prefetto
di Vico e Niccolò Caetani, C. si comportò con energia,
ricorrendo alla forza quando i mezzi giuridici si rivelarono
inefficaci. Contro Giovanni di Vico, citato in giudizio e poi
privato del titolo di prefetto, la campagna militare si protrasse
dal 20 giugno alla metà di luglio. La milizia romana,
rinforzata da contingenti forniti dai Comuni alleati,
saccheggiò i campi intorno a Viterbo, prese Vetralla, senza
riuscire ad espugnare la cittadella, costrinse infine il prefetto a
firmare il 16 luglio un trattato con il tribuno, nel quale Giovanni
di Vico riconosceva l'autorità del Campidoglio. Contro
Niccolò Caetani, signore di Sermoneta, Ninfa e Norma, le
ostilità furono ritardate dalle difficoltà opposte dal
contingente fiorentino. Di fatto, l'avanguardia romana, composta da
quattrocento cavalieri e condotta dal cancelliere Angelo Malabranca,
basterà a convincere Niccolò Caetani a sottomettersi,
almeno provvisoriamente, a C. (prima metà di settembre).
È da notare che C. aveva scelto i suoi principali capi
militari tra i signori, prima due Orsini: Giordano (del ramo di
Montegiordano) e Nicola (padrone di Castel Sant'Angelo), quindi,
quando i Colonna ebbero aderito al nuovo regime, Gianni, nipote del
famoso Stefano.
È facile oggi cogliere la portata sociale del conflitto tra
C. e i baroni. Per costoro si trattava della sopravvivenza dei loro
privilegi di natura signorile e dunque la persistenza di un certo
tipo di rapporti di produzione, anche se questi si conservavano
nella campagna piuttosto che nella città. C., dal canto suo,
esprimeva le esigenze politiche di una nuova classe sociale, quella
degli imprenditori agricoli, con la quale si identificavano fino ad
un certo punto i componenti delle "università". Non è
facile dire quale coscienza avessero i contemporanei di questo
conflitto. Colpisce la circostanza che tre personaggi tanto diversi
fra loro come Petrarca, l'Anonimo e C. stesso avessero una coscienza
identica e chiarissima della posta sociale che la lotta contro i
baroni comportava. Secondo loro si trattava infatti di annientare,
più che questo o quell'individuo particolarmente odioso, una
classe che il genere di vita, i costumi, le abitudini rendevano
incompatibile con l'ordine sociale e politico al quale aspiravano
C., Petrarca e l'Anonimo. L'equazione tirannide-baroni-feudalesimo
si legge esplicitamente negli scritti di questi tre personaggi.
Lungi dall'essere un simbolo ereditato dall'universalismo,
medievale, la tirannide è anzitutto la dominazione di una
classe sociale definita senza alcuna ambiguità. Ciascuno di
loro si distingue invece per la sua maniera di concepire il nuovo
regime: Petrarca si preoccupa essenzialmente di raggiungere una
certa forma di unità italiana. Nell'Anonimo la preoccupazione
dell'ordine e della sicurezza, necessari al buon andamento degli
affari, si accompagna ad una coscienza, sorprendente per i tempi
anche se non unica, dei rapporti che intercorrono tra le
attività economiche prevalenti, i gruppi sociali interessati
al successo del nuovo regime e i compiti richiesti da esso. Quanto a
C., il suo merito sta nell'avere elaborato, almeno al livello
concettuale, una forma di Stato che risponde alle esigenze della
nuova classe dominante, anche se il suo progetto globale anticipava
di molto sul grado di sviluppo raggiunto da essa e dunque sulle sue
concrete possibilità. Ciò non impedì che
durante i primi mesi del tribunato e almeno, fino alle grandi
cerimonie dell'agosto 1347, C. realizzasse l'unanimità della
popolazione romana nella lotta contro il feudalesimo. Lo prova il
successo della sua politica, la facilità con la quale
raggiunse i suoi principali obiettivi, il clima di euforia che si
coglie con particolare evidenza durante le grandi processioni nelle
quali il popolo romano trovò l'occasione di esaltare nella
persona di C. la sua propria forza: l'Anonimo romano racconta con
evidente narcisismo la cavalcata verso S. Giovanni in Laterano e la
processione per l'offerta a S. Pietro, organizzate tutte e due alla
fine di giugno. Occorre ancora ripetere che questa unanimità
risulta da una coalizione solidissima, certo, ma nella quale le
differenze di classe non solo sussistono ma sono talvolta
addirittura sanzionate dalla legge (certe disposizioni di C.
ratificano la separazione tra cavalerotti e piedoni) e nella quale
il ceto degli imprenditori agricoli, quali che siano i nomi che li
designano - "bobacterii", cavalerotti, mercanti (nella Cronica),
"nobiles viri", ecc. - svolge la parte principale, fornendo in
particolare al tribuno il nerbo del suo personale politico. Anche se
non esiste ancora la prosografia completa di questo personale,
è ora possibile, grazie ai registri notarili degli anni
seguenti, di provare con tutto il necessario rigore l'appartenenza
al ceto dei "bobacterii" di personaggi come Pandolfuccio de'
Franchi, Matteo dei Baccari, Francesco dei Baroncelli, Cola dei
Vallati, Buccio Giubileo, Gianni Cafarelli, Angelo Malabranca e
altri. Niente di strano che un gran numero di questi personaggi
proseguirà la carriera politica nella seconda metà del
XIV secolo, sotto regimi che in sostanza riproducono quello del
1347.
La miopia dell'Anonimo per ciò che riguarda la politica
italiana di C. è ben nota e senza la corrispondenza sarebbe
oggi impossibile farsene una idea precisa. Si può riassumere
la cronologia delle sue iniziative che sono all'incirca tutte di
natura epistolare o oratoria. Nei primissimi giorni del tribunato,
la Cancelleria di C., molto competente e bene organizzata secondo
l'Anonimo, stilò lettere per vari Comuni del Patrimonio e
dell'Umbria, come Viterbo, Orvieto, Todi. Una lettera datata 7
giugno convocò tutti gli Stati e Comuni dell'"Universa sacra
Italia" ad un sinodo fissato prima al 29 giugno, poi al 1º
agosto. In seguito partirono ambascerie destinate soprattutto ai
principali Comuni dell'Italia centrale, ai quali si chiese di
inviare a Roma contingenti militari. Si conosce la composizione
dell'ambasceria inviata a Firenze e di essa facevano parte esponenti
delle famiglie più rappresentative della nuova classe
dirigente. Quindi, quando fu abbandonata l'idea del sinodo italiano,
nuove missive furono spedite nel corso del mese di luglio per
invitare alle cerimonie del 1º agosto. Le città fecero
in generale buona accoglienza alle lettere e alle ambascerie di
Cola. Le decine di delegazioni che vennero ad esprimere il loro
sostegno al nuovo regime, i segni di stima e di simpatia che gli
vennero da personaggi considerevoli come Luigi di Ungheria, la
regina Giovanna di Napoli, Carlo di Durazzo, Luigi di Taranto che
gli chiesero di fare da arbitro nelle loro rivendicazioni al trono
di Napoli, tutto ciò poteva dare l'idea di una sorta di
accelerazione della storia; in ogni caso dovette far credere a C.
che la congiuntura si prestava alla realizzazione del suo progetto
italiano.
Questo progetto prese corpo e si affermò in quattro tappe. Il
22 luglio un'Assemblea del popolo romano revocò tutte le
concessioni del "popolo romano", in conformità con il parere
di un comitato di esperti, composto da giuristi romani e italiani,
che si era riunito nei giorni precedenti. C. ricevette pieni poteri
per attuare questa decisione. Il 1º agosto ebbe luogo la
cerimonia tante volte descritta della sua consacrazione a cavaliere
dello Spirito Santo, cerimonia che si protrasse per tre giorni e
offrì l'esempio più bello della capacità di C.
di associare le risorse dell'immaginario e del razionale per
raggiungere un fine politico. La cerimonia iniziò nel
pomeriggio del 31 luglio con un lungo corteo fino a S. Giovanni in
Laterano. Dopo un breve discorso, C. entrò nel battistero per
assistere ad una messa e soprattutto per fare il bagno nella vasca
che si supponeva fosse servita mille anni prima per il battesimo di
Costantino e che l'avrebbe liberato dalla lebbra. Dopo aver dormito
nel battistero, fu consacrato cavaliere dello Spirito Santo nel
corso di una messa solenne (il suo nuovo titolo in conseguenza fu
"Candidatus Spiritus Sancti miles, Nicolaus Severus et Clemens,
liberator Urbis, zelator Italiae, amator orbis et Tribunus
Augustus"). Fece quindi leggere il testo famoso che "dichiara la
volontà unanime del popolo romano di... riprendersi i suoi
antichi diritti di sovranità" (Piur, p. 69). Concesse, sempre
a nome del popolo romano, la cittadinanza romana a tutti gli
Italiani, rivendicò per Roma e per l'Italia il diritto di
nominare l'imperatore, invitò infine a Roma, prima della
Pentecoste del 1348, per difendere i loro diritti "omnes et singulos
electos, electores et quicumque in electione Romani imperii ac ipso
imperio ius pretendunt" (Burdach-Piur, III, n. 28). La cerimonia
proseguì con un fastoso banchetto al quale C. presiedette in
compagnia del legato pontificio che, dopo avere fatto mettere per
iscritto la sua protesta contro le idee esposte nel decreto, si
dichiarò soddisfatto dell'aggiunta di una clausola che
preservava tutta l'autorità del papa e della Chiesa. Il
giorno seguente, C. distribuì ai duecento inviati dei
venticinque Comuni rappresentati anelli e bandiere in segno di
alleanza. La terza tappa coincise con l'incoronazione del 15 agosto:
l'attribuzione al tribuno di sei corone, ognuna delle quali
simbolizzava valori insieme pagani e cristiani (C. aveva del resto
fatto compilare una Donatio coronarum e un Modus et forma
coronationis Tribuni che insistono piuttosto sui riferimenti
all'antichità), quindi l'attribuzione delle insegne del
potere, lo scettro e il globo terrestre; tutto ciò poteva
suscitare nei contemporanei l'idea che C. aspirasse ad esercitare
sull'Italia un potere equivalente a quello dell'imperatore e al
limite che egli rivendicasse per se stesso la corona imperiale. In
una Assemblea popolare che seguì la cerimonia religiosa, i
pretendenti all'Impero e gli elettori tedeschi furono di nuovo
citati a comparire per sostenere i loro diritti. Due decreti,
pubblicati quello stesso giorno, proibivano ad ogni principe di
entrare in Italia alla testa di eserciti e a chiunque di
qualificarsi guelfo o ghibellino. Ultima tappa: il 19 sett. 1347 C.
incaricò due giuristi, il miles Paolo Vaiani e Bernardo dei
Possoli di Cremona, di rivolgere ai "cives civitatum sacre Ytalie"
una triplice proposta: eleggere imperatore "aliquem Italicum, quem
ad zelum Italiae digne inducat unitas generis et propietas
nationis"; affidare l'elezione a ventiquattro delegati, romani e
italiani; concludere una "unio" tra le città italiane.
L'audacia di C. è innegabile. Ma non è certo che il
suo progetto fosse così irrealistico, come generalmente si
ritiene. Si è discusso all'infinito per determinare il modo
in cui egli concepiva l'unità italiana. Indicazioni si
possono avere dal vocabolario che egli utilizzava per designare le
sue aspirazioni. I termini che ricorrono più spesso nelle
lettere a Carlo IV e all'arcivescovo di Praga sono quelli di "unio",
"unitas" e "societas" che si opponevano alle fazioni e divisioni
designate con un vocabolario variato ("partes", "divisiones",
"scismata", "partialitas scismatica"), ma che rinviavano sempre a
realtà ben note dell'Italia comunale e signorile. Al
principale avversario della sua politica italiana, cioè al
papa, nelle grandi lettere del soggiorno praghese rivolgeva il
rimprovero di proteggere i tiranni (e si sa che questo termine
designa anzitutto i baroni), di incoraggiare le lotte di fazione, di
ostacolare il corso della giustizia, cioè di favorire in
tutta l'Italia la sopravvivenza di regimi politici in tutto e per
tutto simili a quello che C. era riuscito a distruggere a Roma. Del
resto per illustrare i meriti del suo tribunato, C. addusse una
serie di risultati che si opponevano con simmetria quasi perfetta ai
vizi attribuiti alla politica pontificia: sottomissione dei baroni,
eliminazione delle fazioni, restaurazione dell'ordine con
l'esercizio di una giustizia implacabile. Esiste dunque nel
programma italiano di C. un tema centrale, costante e primario che
occorre identificare nella sua volontà di estendere a tutta
l'Italia un regime uguale a quello che egli era orgoglioso di avere
instaurato a Roma. Per ciò il suo progetto di unità
italiana rispondeva all'attesa di coloro che in Italia puntavano
sull'instaurazione di strutture statali forti per eliminare tutto
ciò che nella vita pubblica e privata ricordasse ancora il
feudalesimo e, in primo luogo, le divisioni e rivalità tra
individui, famiglie e Comuni o Stati. Le sue parole d'ordine
rilanciavano nell'Italia tutte le aspirazioni proprie di coloro che
in ogni Comune o Signoria italiana costituivano i cosiddetti partiti
popolari. Non c'è dunque niente di utopico o di chimerico.
Resta il problema di come siano da giudicare le iniziative e le idee
di C. che riguardavano l'Impero. Il suo pensiero in questo campo si
è evoluto in modo che può apparire talvolta
incoerente. Inoltre le difficoltà della sua interpretazione
sono accresciute dal fatto che in certi momenti egli poteva svelare
solo una parte delle sue intenzioni. Una cosa tuttavia è
innegabile: in C. la questione dell'autorità meglio armata
per realizzare l'unità italiana è del tutto secondaria
rispetto alla natura del regime che questa unità doveva
permettere di instaurare in tutta l'Italia. Questa idea risalta con
assoluta nettezza dal passo ben noto della terza lettera a Carlo IV,
nel quale dichiarava senza esitazioni che non aveva inclinazioni
particolari per l'imperatore né per il papa, che la lezione
del passato gli avrebbe fatto preferire il papa all'imperatore -
sempre nella prospettiva del suo obiettivo primario - ma che nelle
circostanze presenti, egli giudicava preferibile di puntare su Carlo
IV piuttosto che su Clemente VI. Al limite si potrebbe sostenere
persino l'idea che questa "unio" dell'Italia nel pensiero di C.
fosse considerata possibile anche senza l'intervento di un
mediatore, sia che si trattasse del papa, dell'imperatore o di C.
stesso, realizzabile con il semplice gioco di un'alleanza tra Comuni
repubblicani simile alle leghe che solevano formare tra di loro.
Alleanza che doveva realizzarsi tuttavia su un piano di assoluta
uguaglianza, per riprodurre tra i Comuni l'uguaglianza che doveva
esistere nel nuovo regime tra i cittadini di ogni Comune, sia che
abitassero nelle città o nel contado e senza alcuna
discriminazione sociale. Questa formula aveva qualche
possibilità di riuscita nell'Italia centrale, tra i Comuni
della Toscana, dell'Umbria e del Lazio dove l'iniziativa di C.
suscitò le maggiori simpatie.
È un fatto però che a partire dal 1º agosto la
questione imperiale giocò una parte sempre più grande
nelle iniziative di C. senza che si riesca a spiegarne le ragioni. A
questo punto è necessario anzitutto esaminare il suo concetto
di signoria. C'è da chiedersi se forse egli coglieva nelle
signorie della sua epoca un nuovo tipo di Stato, fondato su principi
simili o vicini a quelli che egli aveva applicato a Roma. Tutto
ciò che si può dire è che i contemporanei, a
cominciare da C. stesso, non davano l'impressione di avere percepito
una qualunque affinità tra C. e i signori del suo tempo.
Nelle sue lettere del soggiorno praghese, C. confondeva i signori
dell'Italia del Nord, a cominciare da Luchino Visconti, con i
tiranni che egli aveva dovuto combattere a Roma. Questa confusione
è rivelatrice della sua incapacità di cogliere la
novità della signoria in rapporto al regime feudale, tra i
signori tipo Visconti e i baroni del genere del Colonna o degli
Orsini. È precisamente il concetto della signoria moderna,
cioè della struttura politica suprema, detentrice della
sovranità in uno Stato moderno, che faceva difetto a Cola.
Capace di elaborare le strutture amministrative di uno Stato
moderno, in particolare nel campo dei rapporti tra città e
contado, non arrivò fino al punto di concepire una struttura
politica nuova, radicalmente distaccata dal modello del Comune di
popolo fondato sull'alleanza più o meno stretta tra la
borghesia e il popolo minuto. Al massimo arrivò a sentire ad
un certo punto la necessità di un'autorità più
forte di quella che poteva emanare da un governo comunale, o da una
"unio" di Comuni, per fronteggiare gli avversari che minacciavano il
suo progetto politico: i baroni e soprattutto il Papato. Nel suo
pensiero s'impose allora l'idea di Impero, per la ragione evidente
che essa restava ancora l'idea più carica di autorità
e di prestigio. I contenuti politici e anzitutto i limiti geografici
apparivano abbastanza ambigui, ma l'eredità della tradizione
medievale dell'Impero universale resta evidente. Per risultare
completamente convincente a questa spiegazione manca solo la prova
che l'ambizione imperiale di C. si sviluppò
contemporaneamente alla considerazione che il Papato era il
principale ostacolo alla realizzazione del suo programma italiano.
Lo stato attuale della documentazione impedisce tuttavia di
fornirla. Più facile è invece vedere come il Papato e
i baroni abbiano provocato in concreto la caduta del
tribuno.L'ostilità del Papato alla politica di C. si spiega
agevolmente. Egli stesso e Petrarca denunciarono a chiare lettere la
collusione della Curia con i baroni. Nella sua lettera del 15 ag.
1350 all'arcivescovo di Praga C. analizzò con grande finezza
le ragioni per le quali a Roma, nelle province pontificie e in tutta
Italia il Papato avesse interesse a sostenere forze feudali e
particolarismi locali. Se in un primo tempo il Papato di buon occhio
aveva visto sparire a Roma il disordine e l'anarchia, già nel
mese di agosto, prima che giungesse ad Avignone la notizia delle
cerimonie del 1º e del 15, sorsero le prime inquietudini per la
politica comunale nel contado che metteva in causa la dominazione
pontificia su numerose Comunità e attaccava i privilegi dei
signori tradizionalmente sostenuti dall'amministrazione pontificia.
Dal 21 agosto al 3 nov. 1347, le lettere papali al legato Bertrand
de Deaulx e ai suoi ufficiali nelle province pontificie insistono
sugli attentati di C. ai diritti della Chiesa e dei signori in
queste province. La prima lettera che denuncia la politica imperiale
di C. data al 12 nov. 1347 soltanto: ciò significa che i
provvedimenti antibaronali del nuovo regime e tutta l'opera di
ristrutturazione amministrativa intrapresa da C. bastavano
ampiamente a suscitargli l'ostilità del Papato. Nella
corrispondenza del Petrarca s'intuisce del resto che ad Avignone si
era formato assai presto un partito decisamente ostile a C. e che
esso non fece fatica a guadagnare lo stesso papa e l'insieme della
Curia al proprio punto di vista.
A partire dalla fine dell'estate (fine di agosto e tutto settembre
1347), la corrispondenza di Clemente VI con i suoi rappresentanti
nell'Italia centrale rivela l'opposizione sempre più aperta
del pontefice all'opera del tribuno. È probabile, anche se
nondimostrato, che la rivolta dei baroni romani della fine di
settembre sia stata suscitata dall'atteggiamento avignonese. In
precedenza il periodo che va dal 15 agosto al 15 settembre aveva
segnato l'apogeo delle iniziative di Cola. I baroni che avevano
partecipato alle grandi feste del mese di agosto, se ne stavano
quieti, G. Caetani si era sottomesso al tribuno, nel contado
numerose Comunità, della Sabina e della Tuscia si erano poste
sotto l'autorità di Roma. C. si era sentito molto sicuro del
suo potere, tanto da congedare il vicario imperiale, che si era
ritirato a Montefiascone. Alla metà di settembre tuttavia, un
episodio spettacolare rivelò fino a che punto le relazioni
con i baroni restassero tese o equivoche. Si tratta di quella specie
di psicodramma diretto da C. che fu recitato in vari atti dal 14 al
17 settembre. Primo giorno: banchetto al Campidoglio, nel corso del
quale C. fece imprigionare il barone più prestigioso, Stefano
Colonna. Segue la cattura dei principali baroni, fra i quali i due
senatori in carica al tempo del colpo di Stato. Il 15 messa in scena
macabra, destinata a spaventare i baroni facendo loro credere che
sarebbero stati messi a morte. Quindi cambiamento di scena: il
tribuno "fece un bel sermone", perdonò ai baroni,
distribuì loro titoli onorifici desunti dal Basso Impero e
fece in loro compagnia una cavalcata attraverso Roma. L'episodio si
prolungò il 16 con una messa solenne e il 17 con una
processione che riunì tutto il clero della città.
"Questo fatto molto despiacque alli descreti" commentò
l'Anonimo (p. 191), per il quale l'episodio segna l'inizio della
fine. Il fatto è che pochi giorni dopo la parte dei baroni
più renitenti all'opera di C. entra in aperta ribellione
contro di lui: i Colonna e gli Orsini del ramo di Marino si
rifugiano nei loro castelli che fortificano in previsione di un
conflitto armato. Le ostilità cominciano all'inizio di
ottobre: partendo da Palestrina e da Marino i nobili devastano la
Campagna romana e razziano le greggi, spingendosi fino a porta S.
Giovanni. In queste operazioni che si svolgono secondo lo schema
più puro della guerra medievale, C. non sembra essersi
comportato con tutta la necessaria energia. L'Anonimo gli rimprovera
di avere lasciato ai baroni tutto il tempo di fortificare i loro
"castra", e parla di difficoltà ad assicurare il soldo alla
truppa. Sembra anche che si facesse più frequente in lui
l'alternarsi di momenti di depressione ad altri di eccitazione, come
quello in cui risponde ad una convocazione del legato pontificio
Bertrand de Deaulx, cingendo il mantello riservato alla
consacrazione dell'imperatore.
La battaglia decisiva tra le forze comunali e i baroni ebbe luogo il
20 novembre. C., messo al corrente della decisione dei baroni
riuniti a Palestrina di tentare un rientro in forze a Roma, era
passato da una fase iniziale di abbattimento ad una euforica, quando
in sogno s. Martino e Bonifacio VIII gli annunciarono la vittoria
delle forze comunali. La battaglia invece non ebbe neanche luogo: i
baroni, non essendo riusciti ad entrare in città con
l'astuzia, si ritirarono dopo essere sfilati in parata davanti a
porta S. Lorenzo. Gianni Colonna si fece tentare dalla porta
socchiusa, vi si precipitò, cadde da cavallo e fu ucciso. La
sua morte, seguita da quella di suo padre accorso alla sua ricerca,
incoraggiò i Romani che si misero a caccia di nobili: nelle
vigne di porta S. Lorenzo fu un vero massacro di baroni, fra i quali
cadde Agapito Colonna. C. rifiutò alle vedove del Colonna il
permesso di seppellire i loro morti in Aracoeli e consacrò
suo figlio cavaliere con il sangue di Stefano Colonna.
Per quanto strepitoso, il successo militare sui baroni non
servì a niente. Per due ragioni: anzitutto C. non si mosse da
Roma quando sarebbe stato facile inseguire i baroni e distruggere
almeno una delle loro fortezze, quella di Marino. Il suo
atteggiamento verso il Papato si rivelò sempre più
remissivo, e lasciò pensare che volesse rinunciare alla sua
politica italiana. Il suo scoraggiamento si spiega in parte con le
reticenze, per non dire di più, dei Comuni dell'Italia
centrale, troppo preoccupati di preservare i loro particolarismi per
dare seguito al progetto di C., e con l'intransigenza sempre
più scoperta del legato e ancor più della Curia, anche
quando egli mostra di aderire alle loro ingiunzioni, richiamando ad
esempio dai Comuni della Sabina e della Tuscia gli ufficiali che vi
aveva mandato su loro richiesta. Ma bisogna riconoscere anche il
ruolo decisivo che in questa fase finale del tribunato ebbero i
fattori psicologici, sempre a condizione di sapere distinguere tra
tratti mentali comuni a tutta l'epoca e la psicologia specifica di
Cola. Così quando C. imputerà più tardi la sua
apatia nelle ultime settimane del tribunato ai sogni spaventosi che
egli allora faceva, esprimeva solo una credenza generalizzata della
Roma medievale. Quando giustificava invece la sua
pusillanimità con l'orrore del sangue, durante la sedizione
che provocò la sua caduta, metteva il dito su una delle
componenti essenziali della sua psicologia, dominata da una fiducia
eccessiva nella parola e nel gesto simbolico che rendeva certamente
molto faticoso e aleatorio ogni passaggio all'azione.
In ogni caso, secondo la Cronica, è proprio l'apatia che
caratterizza il suo comportamento dopo la battaglia di S. Lorenzo.
L'Anonimo aggiunge al rimprovero considerazioni moralistiche sul
modo di vivere di C., che non aveva avanzato quando la politica del
tribuno soddisfaceva gli ambienti dei "descreti viri" con cui il
cronista si identificava. L'inazione di C. scoraggiò i suoi
partigiani, mentre i baroni ritrovavano in parte la loro arroganza:
il 4 dicembre Luca Savelli fece affiggere una dichiarazione che
invitava a rovesciarlo, quindi un nobile napoletano rifugiato a
Roma, il conte di Minervino, eresse una barricata nel rione Colonna.
La morte del capo dello squadrone inviato a rimuovere la barricata e
l'indifferenza dei Romani in questo inizio della sedizione gettarono
C. nello scoraggiamento. Il 15 dicembre, dopo un ultimo discorso, a
cavallo e rivestito delle insegne imperiali, si rifugiò in
Castel Sant'Angelo, rinunciando spontaneamente ad un potere che non
era seriamente minacciato. Lo prova la prudenza dei baroni che, dice
l'Anonimo, "sapevano cotale caduta, ma stettero dìi tre
'nanti che volessino tornare a Roma per la paura" (Cronica, p. 209).
Anche se la cronologia dell'andirivieni di C. tra le dimissioni e
l'arrivo in Boemia è imprecisa, si indovina che egli
restò a Roma con la speranza di ritornare al potere proprio
perché aveva conservato partigiani fra i popolares e il
regime da lui instaurato manteneva solide basi. Egli avrebbe anche
fatto dipingere su di un muro della chiesa di S. Maria della
Maddalena, vicino a Castel Sant'Angelo, un quadro con un agnello che
eliminava quattro animali simbolici. Questa speranza non si
realizzò. I nobili tornarono ad occupare le cariche
senatorie, mentre C. fu condannato da due sentenze del legato, a
fine dicembre 1347 e a metà febbraio 1348, che lo
scomunicavano e annullavano tutti i provvedimenti presi durante il
suo tribunato. Si sa che dopo avere passato l'inverno a Napoli, C.
ritornò a Roma, ma fu imprigionato dagli Orsini in Castel
Sant'Angelo da dove poté fuggire nei primi giorni
dell'autunno del 1348 grazie alla peste che uccise i due Orsini che
lo custodivano. Farà un altro soggiorno a Roma in incognito,
con l'occasione dell'anno santo, all'inizio del 1350.
Nei primi anni dell'esilio cade il lungo soggiorno (all'incirca
dalla fine del 1348 alla metà del 1350) tra i fraticelli
dell'Abruzzo, nel massiccio della Maiella. Dei francescani di
tendenza spirituale vivevano da quelle parti in piccole
comunità o come eremiti. Erano partigiani della
povertà assoluta condannata dalla Chiesa e predicavano
l'avvento di un mondo migliore, grazie alla venuta dello Spirito
Santo che avrebbe fondato sulla terra il nuovo regno di Dio. La sua
aspirazione di stampo umanistico al rinnovamento morale dell'uomo,
come la sua pronunciata devozione allo Spirito Santo disponevano C.
a condividere queste credenze, tanto più che era facile per
lui trovare nel profetismo escatologico dei fraticelli una missione
personale da adempiere: quella di convincere l'imperatore, che
secondo i fraticelli doveva essere lo strumento della restaurazione
del regno di Dio sulla terra. A tale scopo egli si recò a
Praga alla corte di Carlo IV e forse portò con sé
delle pergamene con le profezie di frate Angelo di Monte Vulcano che
ebbe una arte determinante in questa decisione. A Praga C.
alloggiò presso un albergatore italiano e fu ricevuto da
Carlo IV almeno tre volte, alla fine di luglio e nella prima
quindicina di agosto del 1350. Spiegò all'imperatore il senso
delle profezie di fra' Angelo, gli annunciò la venuta dello
Spirito Santo e in questa prospettiva gli propose di prendere il
potere in Italia. Carlo IV si mostrò abile e riservato:
ascoltò e s'informò, interrogando C. in particolare
sulla situazione politica a Roma e in Italia, ma senza accordare il
minimo credito ai discorsi escatologici. Quindi gli chiese di
redigere due relazioni, una per sé e l'altra per
l'arcivescovo di Praga, e lo fece arrestare, ciò che gli
valse immediatamente tre lettere di felicitazioni di Clemente VI.
Tuttavia egli si guardò bene di consegnarlo al papa e lo fece
trattare con riguardo per tutto il corso della detenzione.
Le lettere del soggiorno in Boemia costituiscono la parte migliore
dell'epistolario di Cola. Le qualità stilistiche le fecero
riunire presto in un carteggio che contribuì moltissimo alla
diffusione dell'umanesimo nel mondo germanico. Da Praga C. non
perdeva di vista la situazione romana. Le sue prime lettere
all'abate del monastero di S. Alessio e al cancelliere Angelo
Malabranca tentavano di sostenere il morale dei suoi partigiani
romani. Egli cercava anche di persuaderli, pensando ai Comuni guelfi
della Toscana e dell'Umbria, che il suo avvicinamento all'imperatore
non comportava alcun cambiamento sostanziale della sua politica. Poi
il tono cambia. Pessimismo e disperazione improntarono le lettere
all'eremita Michele e a suo figlio. A Raudnitz sull'Elba (Roudnice
nad Labem), dove era stato condotto alla fine del 1350, l'inverno
era rigido: un trasferimento ad Avignone, con i rischi che poteva
comportare, gli apparve preferibile ad un lungo internamento in
Boemia. Da parte pontificia, ci si preoccupava di ottenere questo
trasferimento prima che l'imperatore venisse a sapere dell'accordo
concluso da Clemente VI con Luchino Visconti. Donde la trasmissione
nel febbraio del 1352 a tutti i vescovi di Germania della bolla che
scomunicava C. e un mese più tardi il viaggio in Boemia di
tre inviati venuti a prenderlo in consegna.
L'arrivo ad Avignone ebbe luogo nel luglio o all'inizio di agosto
del 1352. C. resterà più di un anno chiuso in una
torre del palazzo pontificio, ma trattato con riguardo. La sua
posizione giuridica, piuttosto grave in partenza visto che egli si
era sottoposto ad una inchiesta dell'Inquisizione, migliorò
in seguito per ragioni di natura diversa. Giocò in suo favore
una raccolta di poemi di suo pugno, oggi perduti, che
rafforzò ad Avignone la sua reputazione di letterato. Per di
più la raccolta era dedicata al cardinale Guy de Boulogne,
uno dei membri della commissione incaricata da Clemente VI di
istruire il suo processo, e al quale C. aveva già indirizzato
da Raudnitz una lunga lettera per dimostrare l'ortodossia delle sue
idee. Dal punto di vista religioso egli si discolpò
denunciando come sataniche le profezie di frate Angelo. Poté
sostenere che la sua politica religiosa durante il tribunato fu
irreprensibile, mantenendo il silenzio sui suoi propositi ereticali
del soggiorno praghese che del resto né l'imperatore
né l'arcivescovo di Praga avevano denunciato.
La situazione volse definitivamente in suo favore con l'elezione del
successore di Clemente VI: Innocenzo VI intendeva riaffermare
energicamente l'autorità del Papato su Roma e sullo Stato
della Chiesa, e C. non ebbe difficoltà a dimostrare la
conformità della sua politica durante il tribunato con gli
obiettivi del nuovo pontefice e persino a convincere Innocenzo VI di
potere, in virtù della popolarità che aveva conservato
a Roma, aiutare a restaurare l'autorità pontificia sulla
città e sul suo distretto. Certo è che, immediatamente
dopo la sua liberazione, avvenuta il 15 sett. 1353, una serie di
lettere partirono da Avignone per annunciare al Comune di Roma, al
cardinale Albornoz, al Comune di Perugia e a tanti altri che C.
aveva ricevuto dal papa la missione di restaurare l'ordine a Roma.
Non gli fu conferito tuttavia alcun titolo ufficiale e la
corrispondenza pontificia non precisa né la natura dei poteri
conferitigli, né la procedura da seguire, né le
scadenze. Ora, il 14 settembre, quindi un giorno prima della sua
liberazione e, cosa più significativa, alla data che egli
stesso aveva fissato per la sua "rielevazione" durante il soggiorno
praghese, uno dei capi del partito popolare che era stato suo
ambasciatore a Firenze nel 1347, Francesco Baroncelli, fu nominato
secondo tribuno, alla testa di un regime che aveva le stesse basi
sociali e politiche di quelle del primo tribunato. All'inizio del
1354 gli successe Guido dei Patrizi che ricevette dall'Albornoz il
titolo di senatore ma senza alcuna modifica della natura profonda
del regime politico. Con ogni evidenza il destino personale di C.
importava abbastanza poco al cardinale Albornoz una volta che
l'ordine fosse tornato a regnare a Roma grazie al nuovo regime
popolare. Quanto a C., si ignorano i suoi sentimenti verso il nuovo
regime, perché la sua corrispondenza del periodo tra il 20
sett. 1353 e il 1º ag. 1354 non si è conservata.
Fino a questa data si conosce assai male l'andirivieni di Cola. Da
Avignone in un primo tempo egli si recò a Perugia dove stava
l'Albornoz. Dovette passare l'inverno 1353-54 nel Patrimonio, dove,
secondo l'Anonimo, partecipò al seguito del legato alla
riconquista di terre pontificie e ricevett e la visita di molti
romani venuti ad incoraggiarlo a riprendere il potere. Dall'aprile
al luglio 1354 i registri della tesoreria pontificia attestano che
C. prestò servizio presso il legato come cavaliere. Nello
stesso tempo egli cercò sussidi che gli permettessero di
arruolare mercenari e di prendere il potere a Roma. L'Albornoz gli
rifiutò ogni aiuto finanziario, benché Innocenzo VI,
in una lettera al Comune di Perugia, si fosse dichiarato pronto a
ratificare la sua nomina a senatore se il suo legato l'avesse
disposta. Una volta di più C. si trasse d'impaccio grazie
alla sua eloquenza e al potere di persuasione che essa gli dava. Con
belle promesse ottenne da uno dei due fratelli di fra' Morreale, il
più potente condottiero del momento, un sussidio di 4.000
fiorini. L'Albornoz allora si decise, tanto più che Guido dei
Patrizi si rivelava incapace di affrontare la coalizione dei Colonna
e degli Orsini di Marino, a nominarlo senatore. Alla testa di
duecentocinquanta cavalieri, rinforzati da un contingente di toscani
e perugini, C. fece un ingresso trionfale a Roma il 1º ag.
1354. "Pareva che per la letizia tutta Roma se operissi", commenta
l'Anonimo (p. 146), mentre "li baroni staievano alla guattata" (p.
147). In altri termini C. ritrovò gli stessi partigiani (dai
cavalerotti al popolo minuto) e con i baroni gli stessi avversari.
Impossibile tuttavia concludere che la storia si ripeteva. C. era
ormai al servizio del Papato, rappresentato sul luogo o nelle
immediate vicinanze da un legato energico ed accorto. Lo
proclamò egli stesso nelle lettere che indirizzò ai
Comuni amici proprio appena dopo il suo ritorno al potere e sembra
invero, per quanto se ne può giudicare dalla scarsa
documentazione, che abbia effettivamente rinunciato ad ogni
velleità di politica italiana e persino ad ogni progetto di
riforma comunale. Per questo C. scadde nel banale e la sua opera
fino all'8 ott. 1354 non presenta interesse maggiore di qualsiasi
altro ufficiale pontificio dell'epoca. A leggere la Cronica, sembra
che gli stessi contemporanei abbiano colto il cambiamento: dopo
l'euforia dei primi giorni C. si trovò nell'isolamento. I
romani disposti a sostenerlo nella lotta contro i Colonna non erano
molti. Forse era egli stesso cambiato. L'Anonimo lo descrive come
una sorta di degenerato, rozzo e rubicondo, sempre dedito al vino e
oscillante nelle opinioni. Salvo poi a lodare la sua energia nella
guerra contro i nobili e a segnalare che non esitò poi ad
abbassare il suo tenore di vita per ragioni di economia. Ciò
significa che in mancanza di una fonte così ricca e
attendibile come l'epistolario per il tribunato, è
impossibile farsi un'idea precisa della condizione di spirito di C.
durante il senatorato. Del resto il racconto dell'Anonimo si riduce
in fondo a tre soli episodi: la lotta contro i Colonna, che sembra
essere stato il grande affare di questi due mesi, l'esecuzione di
fra' Morreale e per finire il moto dell'ottobre.
Sin dal 4 agosto C. aveva chiesto ai baroni di giurargli obbedienza.
I due ambasciatori inviati a questo scopo a Palestrina presso
Stefanello Colonna, figlio e fratello dei due Colonna uccisi nella
battaglia di porta S. Lorenzo, furono imprigionati e torturati. Il
giorno seguente Stefanello razziò nella Campagna romana tutto
il bestiame che vi trovò e lo condusse nella foresta di
Pantano e poi a Palestrina. L'esercito comunale, composto di romani,
di mercenari e di contingenti forniti dai Comuni del distretto, si
accampò prima a Tivoli; quindi iniziò l'assedio di
Palestrina con il saccheggio delle terre circostanti. L'accesso alla
città restò però libero dal lato della montagna
e così gli assediati poterono continuare a ricevere
rifornimenti. La discordia sopraggiunta tra i contingenti di Tivoli
e di Vetralla, quindi i sospetti verso il Morreale, arrivato nel
frattempo da Roma, obbligarono C. a togliere l'assedio. Le
ostilità contro i Colonna continuarono e secondo l'Anonimo
con notevole energia da parte di C. e di un capitano di grande
valore, Imprennente Annibaldi. Per far fronte alle spese C. fu
costretto ad appesantire le imposte (gabella del vino e del sale in
particolare) e forse anche a vessazioni verso i contribuenti.
È stato anche affermato che egli fece imprigionare e poi
giustiziare il 29 agosto fra' Morreale per confiscargli i beni. La
scarsa documentazione esistente non consente tuttavia di cogliere
tutto il significato dell'episodio. Non sembra tuttavia che la morte
del condottiero abbia nuociuto a C. agli occhi dei Romani. Secondo
l'Anonimo il denaro confiscato a fra' Morreale sarebbe servito a
pagare i mercenari per riprendere con grande energia le operazioni
contro i Colonna.
L'Anonimo attribuisce altri motivi al malcontento popolare: il peso
delle imposte indirette, il comportamento dispotico (ma si conosce
un solo caso di esecuzione arbitraria, quello di un ex partigiano di
C.) e bizzarro, in cui si mescolano la versatilità del
carattere e una diffidenza sempre più morbosa. Ma il
malcontento era in fondo abbastanza limitato e non può
giustificare da solo il moto che condusse all'uccisione di Cola.
L'Anonimo insiste sul fatto che la mattina dell'8 ottobre si
sollevarono contro C. solo i quattro rioni di Sant'Angelo, Ripa,
Colonna e Trevi che sottostavano alla preponderante influenza dei
Savelli e dei Colonna. Questa circostanza lascia supporre che il
moto fosse guidato dai baroni più ostili a Cola. Il suo
stesso successo sembra essere stato occasionale: l'Anonimo racconta
che se C. fosse riuscito a prendere la parola avrebbe conservato
buone possibilità di trarsi d'impaccio e persino di volgere
la situazione dalla sua parte. A conti fatti, la sua caduta riflette
l'indifferenza, piuttosto che il malcontento popolare contro di lui
che era tornato al potere per volontà del papa.
La ribellione non trovò alcuna resistenza. C., che si era
presentato in alta tenuta dal balcone del Campidoglio con
l'intenzione di arringare i rivoltosi, dovette ripararsi dal lancio
delle pietre e delle frecce dentro il Campidoglio, abbandonato dal
personale comunale. Avrebbe esitato se scegliere di morire
combattendo o salvare la pelle con la fuga, per decidere infine di
travestirsi da contadino. Riuscì così ad abbandonare
il palazzo in fiamme e a mescolarsi alla folla gridando come gli
altri: "suso, suso a gliu tradetore!" (p. 263). Ma fu riconosciuto
dai braccialetti che aveva dimenticato di togliersi, condotto sulla
sommità della grande scalinata, vicino al leone, dove
restò un'ora prima che un certo Francesco de Vecchio gli
assestasse il primo colpo. Era l'8 ottobre del 1354. Il suo cadavere
mutilato sarà esposto per due giorni davanti alla chiesa di
S. Marcello, vicino al palazzo Colonna, in seguito bruciato sulla
piazza del mausoleo di Augusto.