COLA di Rienzo

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di Jean-Claude Maire Vigueur

Nacque a Roma nel rione Regola nell'aprile o maggio del 1313 da Lorenzo (Rienzo), taverniere, e da Maddalena, lavandaia. Apparteneva dunque ad una famiglia di artigiani ("de vasso lennaio" dice l'anonimo cronista romano suo biografo), una delle tante che formavano a Roma il popolo minuto e che nella seconda metà del sec. XIV, sotto il regime della Felice Società dei balestrieri e dei pavesati, dividerà il potere comunale con il ceto degli imprenditori agricoli ("bobacterii"). Per allora tuttavia stava invischiata come molte altre della sua stessa condizione nelle lotte faziose delle grandi famiglie baronali, parteggiando a quanto pare per i Savelli.

Fino all'età di venti anni C. fu educato da un parente del padre ad Anagni. Rientrato a Roma, sposò la figlia di un certo Cecco, solitamente identificato con il notaio Francesco Mancini. Anche C. esercitò il notariato e certo dopo avere frequentato una scuola notarile romana.

In questi anni, compresi tra il ritorno a Roma da Anagni e il viaggio ad Avignone, egli era già noto per la cultura antiquaria. La sua conoscenza dell'antichità era ovviamente contaminata dalle leggende medievali proliferate dai monumenti antichi come dai grandi personaggi della storia romana. È sicuro tuttavia che aveva letto direttamente gli antichi autori, prosatori (Livio, Sallustio, Cicerone, Seneca, Valerio Massimo, Boezio, Simmaco) e i poeti (Virgilio, Stazio, Lucano, Ovidio). Alla lettera vanno prese le espressioni usate dall'Anonimo romano per definire i suoi talenti intellettuali: era infatti capace di comporre in latino, sia in prosa sia in versi, di leggere le iscrizioni antiche, di tradurre e interpretare i testi. La passione per l'antichità è motivata da una intenzione morale, che spiega la preferenza per gli storici e per Livio in particolare. Si trattava di recuperare le figure eroiche del passato romano, soprattutto di quello repubblicano, per opporle alla decadenza del presente. La sua conoscenza del diritto romano è attestata dall'eccellente interpretazione della Lex de Imperio, utilizzata ancora oggi per il restauro della parte del testo ormai perduta. Tale conoscenza si manifesterà nella sua azione politica, nella ristrutturazione delle istituzioni giuridiche comunali, e nelle sue argomentazioni sui fondamenti del potere imperiale.

Né la Cronica dell'Anonimo romano né la corrispondenza offrono testimonianze altrettanto precise della cultura religiosa di C. prima del tribunato. Egli dà prova di avere buona conoscenza della Bibbia e, in misura minore, di certi Padri della Chiesa come Agostino e Girolamo, ma esprime senza perifrasi il disprezzo per le elucubrazioni scolastiche della teologia medievale. Si ritrovano dunque tratti comuni alla cultura religiosa del primo umanesimo, acquisiti da C. con ogni probabilità nel corso degli anni '30 e '40, a contatto con i giudici, i notai e i chierici che saranno i suoi primi partigiani e gli forniranno buona parte del personale politico durante il tribunato. Più difficile cogliere l'influenza dei movimenti di riforma religiosa sulla sua personalità. Ci si può limitare a constatare la presenza di alcuni tratti comuni al pensiero religioso del primo umanesimo e, più genericamente, a tutti i movimenti religiosi dei secoli XII, XIII e XIV: l'esaltazione del carattere sacro di Roma, l'aspirazione a un rinnovamento morale del mondo con l'aiuto dello Spirito Santo, la preoccupazione di proteggere i poveri e gli umili. Nel complesso una religiosità innegabile ma incerta, capace per la sua propensione al misticismo di assumere spunti da una dottrina rivoluzionaria come quella del gioachimismo più eterodosso, ma che, fino alla fine del tribunato, si contenterà senza contraddirsi di una politica di salvaguardia e persino di restaurazione del patrimonio ecclesiastico e nel campo sociale di misure di assistenza che lasciano intatti i privilegi della classe dominante.

La prima comparsa di C. sulla scena politica coincide con la formazione di un regime popolare a Roma. Alla fine del 1342, approfittando dell'assenza dei due senatori inviati ad Avignone alla testa di una ambasceria, i "tredecim boni viri" si arrogarono la totalità del potere e costituirono un governo di tipo popolare, che decise di mandare ad Avignone C. stesso come ambasciatore. Da ciò si può dedurre che aveva avuto parte importante nella fondazione del nuovo regime. Raggiunse dunque, nell'autunno del 1342, ad Avignone la prima ambasceria che aveva come scopo di conferire al nuovo papa, Clemente VI, la dignità senatoriale e le altre cariche cittadine, di chiedergli di visitare Roma e di accordare il giubileo per l'anno 1350. Il compito di C., che rappresentava i "consules artium et alios populares Urbis ejusdem" (Burdach-Piur, IV, n. 1), era di esporre al papa il punto di vista del partito popolare sulla situazione romana per convincerlo ad accettarne le modifiche istituzionali. C. descrisse a Clemente VI la miserevole condizione della città oppressa dall'anarchia e dalle violenze baronali con un'eloquenza che gli valse l'ammirazione del papa, ma anche l'odio dei baroni presenti ad Avignone, che finirono per provocarne la disgrazia. Egli prolungò tuttavia il suo soggiorno fino all'estate del 1344: si legò di amicizia con il Petrarca e acquistò una buona conoscenza dell'ambiente della Curia. Per intercessione del Petrarca, che intervenne, ad esempio, in suo favore presso il cardinale Giovanni Colonna, C. divenne un "familiare" della corte pontificia e si fece conferire da Clemente VI la carica di notaio della Camera capitolina con un salario di 5 fiorini al mese.

Il rientro a Roma ebbe luogo nel luglio o agosto del 1344. Sui quattro anni che precedono l'ascesa al potere, le informazioni fornite dall'Anonimo danno un'idea precisa del suo talento e della complessità del suo progetto politico. La carica che ricopriva gli permetteva di cogliere al vivo i vizi del regime feudale, perché, nonostante il carattere apparentemente popolare delle istituzioni romane, la realtà del potere era nelle mani dei baroni che lo esercitavano secondo tutte le regole del comportamento feudale: accaparrando a loro esclusivo vantaggio le risorse e il patrimonio del Comune, impedendo alla giustizia comunale di funzionare a tutto vantaggio della giustizia privata, sostituendo in generale i rapporti di diritto con il ricorso alla violenza. Basterà considerare del resto l'odio antibaronale dell'Anonimo per avere una idea della violenza degli antagonismi di classe sotto un tale regime. Violenza che investì C. stesso dal momento in cui cominciò a rimproverarla ai baroni, nel corso di una riunione del principale Consiglio comunale, l'"assectamento": fu schiaffeggiato dal camerlengo del Comune, Andreuccio dei Normanni, e insultato volgarmente da uno dei segretari comunali, Tomao di Fortifiocca.

È evidente che l'Anonimo attribuisce a C., a partire dal ritorno a Roma, una volontà politica ben precisa di cacciare i baroni dal governo del Comune e di eliminare tutto ciò che ricordava i comportamenti feudali dalla vita pubblica e privata. L'Anonimo indica anche senza ambiguità i partigiani naturali di questo progetto politico: tutti coloro che si dichiarano del partito popolare, che traggono le loro risorse da un'attività economica regolare e continua, fondata su rapporti di produzione libera da ogni costrizione giuridica. In una parola, nella Roma di allora anzitutto i proprietari e gli imprenditori delle grandi aziende agrarie, quindi i mercanti, i bottegai e gli artigiani, se riescono a liberarsi dalla soggezione alle grandi famiglie signorili. C. negli anni 1344-47 cercò di suscitare in tutti costoro una presa di coscienza dei loro interessi reali. E lo fece con mezzi e larghezza di vedute che lo caratterizzano come una figura eccezionale, più complessa e difficile da definire dei riformatori comunali che l'hanno preceduto e non solo a Roma.

Ben noto è l'uso che egli seppe fare della parola e dell'immagine per diffondere le sue idee. L'Anonimo descrive con gran minuzia di particolari i due dipinti allegorici che egli fece appendere, il primo sulla facciata del Campidoglio che dava sul mercato, il secondo su un muro di S. Angelo in Pescheria. L'uno e l'altro illustravano la situazione miserevole di Roma sotto il governo dei baroni, quello del Campidoglio evidenziando con un sistema sottilissimo di allegorie le diverse componenti del regime baronale, il secondo ponendo l'accento sull'aspirazione ad un regime migliore.

Durante lo spettacolo organizzato in S. Giovanni in Laterano per commentare la Lex regia, sicuramente nel 1346, l'immagine è ancora presente sotto forma di un dipinto (anche in questo caso si ignora la natura del supporto, se di legno o di tela) che rappresentava il Senato romano mentre conferiva l'impero a Vespasiano. Sarebbe un errore vedere in questo ricorso all'immagine una preoccupazione esclusivamente pedagogica, per illustrare in modo grossolano ma efficace concetti esposti più sapientemente con la parola. Le cerimonie complicate, gli abbigliamenti ricercati, le insegne e i simboli che egli inventò o riesumò da un passato lontano, in breve tutto ciò che era offerto allo sguardo deve essere interpretato e valutato in funzione di una fenomenologia della percezione nella quale il visuale svolge una funzione infinitamente più grande di quanto non abbia nella nostra struttura mentale. È privo di rilievo evocare semplicemente il gusto di C. per lo spettacolo e per la messa in scena, visto che si trattava di un elemento costante e strutturale della mentalità del tempo. La sua originalità consiste invece nella capacità di inventare, immaginare ed evocare, sicuramente eccezionale, anche se oggi non è possibile coglierla in tutte le sue forme espressive, dato che nulla resta dei suoi discorsi, dei dipinti (suoi o comunque eseguiti sotto le sue direttive), né delle poesie scritte durante il secondo soggiorno avignonese e delle cerimonie da lui organizzate. Vi rientravano tutti gli aspetti della sua politica, dal programma di un regime comunale popolare fino al progetto di una Italia unificata.

Il discorso sulla Lex regia permette di affermare che C. possedeva prima di prendere il potere un progetto politico globale che puntava già sull'idea più audace del tribunato: la restituzione a Roma del suo diritto a conferire l'impero. L'essenziale del suo discorso si attenne tuttavia quel giorno alla prima parte del suo programma politico: la riforma delle istituzioni comunali in senso popolare e antinobiliare. Su questo tema il suo successo fu strepitoso. E tuttavia affiorò già la tentazione di andare oltre le possibilità concrete che il momento politico offriva, di anticipare sul futuro, contando sulle risorse dell'immaginazione più che sui reali rapporti di forza. Da ciò le provocazioni ai baroni, quando preannuncia alla loro tavola la loro imminente disgrazia, la sua audacia nell'annunciare con due mesi di anticipo la prossima rivoluzione, affiggendo un cartello sulla porta della chiesa di S. Giorgio in Velabro. Da ciò anche il compiacimento per le doti di attore che egli stesso analizzerà molto bene durante il soggiorno in Boemia. Tutti tratti che esprimono una propensione a contare in modo esagerato sulla parola e sul gesto per risolvere problemi politici e che possono anche spiegare le subitanee rinunce in situazioni che pure gli lasciavano solidi punti di appoggio.

Sta di fatto comunque che C. era alla testa di un movimento politico sostenuto da un consenso sociale molto largo e provvisto di un programma politico accuratamente elaborato, se è vero che nel corso dell'ultima riunione dei suoi principali partigiani, avvenuta sull'Aventino il 18 maggio 1347, egli arrivò ad abbozzare nelle grandi linee il bilancio del futuro governo. Il giorno seguente, vigilia di Pentecoste ma anche giorno di mercato, i congiurati si ritrovarono sulla piazza del Campidoglio, cacciarono le guardie e i funzionari del Comune, convocarono per il giorno successivo tutti gli uomini, senza armi, per tenere un Parlamento destinato a riformare le istituzioni. C. passò la notte nella chiesa di S. Angelo in Pescheria ad ascoltare trenta messe dello Spirito Santo. Il mattino della Pentecoste, si recò in Campidoglio, armato ma con il viso scoperto, accompagnato da venticinque giovani armati e preceduto da quattro stendardi dei quali l'Anonimo descrive con sfoggio di dettagli i colori e i simboli. Il vicario del papa, il vescovo Raimondo di Orvieto, si unì al corteo prima che cominciasse a salire i gradini del Campidoglio. Davanti ad una gran folla C. fece una "bellissima diceria" per esporre il suo programma politico. Intramezzò il discorso con la lettura di una serie di misure concrete che propose all'approvazione dell'Assemblea. Questa l'acclamò e gli accordò pieni poteri, sulla base del programma esposto, da esercitare insieme con il vicario del papa. Tutti e due assunsero il titolo di rettori della città, titolo che sarà confermato dal papa il 27 giugno 1347. Successivamente, nel corso di una riunione del Parlamento anteriore al 24 maggio, C. riesumò il titolo di tribuno e si fece conferire la "libera potestas et auctoritas reformandi et conservandi statum pacificum Urbis et totius Romanae provinciae" (Burdach-Piur, III, nn. 7-8) per attuare la sua politica riformatrice senza tenere conto degli statuti comunali e delle precedenti deliberazioni senatorie. Il suo titolo si arricchirà ancora nei giorni seguenti e assumerà l'andamento di una iscrizione antica: "Nicola il severo e il clemente, tribuno della libertà, della pace e della giustizia, liberatore della Santa Repubblica romana".

Fra i quindici provvedimenti acclamati dalla folla il giorno di Pentecoste: l'ottavo e il nono miravano a smantellare l'apparato militare dei baroni, il decimo ingiungeva loro di rispettare la sicurezza, delle strade e l'ordine pubblico cessando di offrire rifugio ai malfattori. Durante il mese di giugno C. obbligò i baroni a demolire le porte e le fortificazioni che rendevano le loro case delle fortezze. Per spezzare i legami di dipendenza che assicuravano loro una clientela di fedeli e persino di vassalli fra la gente dei loro quartieri, proibì i giuramenti di vassallaggio, l'uso del titolo di dominus e dei blasoni nobiliari. In tal modo C. realizzava a Roma quella abolizione delle fazioni e delle clientele che tenterà di estendere a tutta l'Italia e la cui esistenza, nel suo pensiero come del resto nella realtà, derivava dalla persistenza di un modo di vita feudale anche all'interno dei comuni che avevano messo in piedi istituzioni schiettamente popolari.

Il quarto decreto del 20 maggio riorganizzava la milizia municipale imponendo a ciascun rione di fornire cento fanti e venticinque cavalieri. C. puntava dunque sul valore dei fanti e si sa che i baroni combattevano a cavallo. È difficile dire se questa milizia comunale abbia risposto sul campo alle sue speranze. Certo è che egli gettò le basi della organizzazione militare che permetterà al regime della Felice Società di esercitare, tra il 1360 e il 1393, un'autorità incontestata su Roma e sul suo contado. A partire dal 20 maggio un battello armato doveva stazionare in permanenza alle foci del Tevere per garantire la sicurezza del commercio marittimo e fluviale.

Pochi i provvedimenti innovatori nella politica finanziaria del nuovo regime. Per riempire le casse del Comune bastava la percezione rigorosa delle tasse esistenti, ma il cui gettito era in buona parte distorto dalle malversazioni dei funzionari e dei baroni, e il recupero del patrimonio comunale accaparrato dai signori. C. iniziò dunque una politica di riappropriazione di questi diritti e di rigorosa esazione delle tasse comunali, con grande successo, a quanto pare, visto che il nuovo regime non ebbe mai grosse difficoltà a pagare il soldo della truppa e che C. si vanterà pure di avere soppresso le tasse che colpivano la circolazione delle merci. Le fonti non permettono tuttavia di ricostruire nei dettagli l'attuazione di questa politica.

Le misure di moralizzazione adottate da C. illustrano fino a che punto egli intendesse trasformare la natura dei rapporti sociali. Il divieto di giocare a dadi, di bestemmiare, i divieti sessuali, l'obbligo di confessarsi e comunicarsi una volta l'anno annunciano con un anticipo di parecchi decenni le disposizioni reclamate dai grandi predicatori della prima metà del sec. XV, che tentarono di addossare all'apparato statale le esigenze morali di certe classi sociali. E tuttavia, non bisogna spingere troppo avanti il confronto con questi predicatori, perché C. durante tutto il tribunato dà l'impressione di avere anzitutto cercato di utilizzare la religione per confortare gli aspetti antibaronali del suo regime, invece di mettere le istituzioni al servizio della religione.

Durante la sua ambasceria ad Avignone, aveva manifestato una sollecitudine caratteristica del primo umanesimo verso i deboli, le vedove, i poveri, gli orfani. Una volta asceso al tribunato, previde la costituzione di granai municipali per fronteggiare le carestie e promise l'aiuto del Comune agli indigenti. Resta tuttavia fermo che non gli si può attribuire un'attenzione particolare, di ispirazione gioachimita, alla miseria dei poveri. Non manca invece di colpire la sua preoccupazione costante di stabilire buoni rapporti con il clero locale, favorendone il desiderio di tutelare e persino ricostituire il patrimonio ecclesiastico. È questo un aspetto della sua politica tra i meglio documentati, che sconfessa ogni tentativo di attribuirgli simpatie per la "furiosa carità" dei fraticelli, almeno per il periodo del tribunato.

Nel settore giudiziario compaiono alcune novità, ma anche in questa sede conta di più la volontà di applicare la legislazione già esistente ma non rispettata. Sia a Roma sia nel contado, dove C. denunciò la responsabilità dei rettori pontifici che accordavano sistematicamente ai signori la facoltà di cancellare i loro delitti con il pagamento di un'ammenda spesso anche modesta. Il primo decreto del 20 maggio imponeva "che qualunque perzona occideva alcuno, esso sia ucciso, nulla exsceptuazione fatta" (Cronica, p. 155). In effetti le due esecuzioni eseguite nelle prime settimane del governo di C. colpirono fortemente la gente. L'Anonimo sorvola su quella di un monaco di S. Angelo, ma si attarda sulla morte di Martino dei Stefaneschi, tanto più esemplare in quanto la sentenza colpiva un barone imparentato con i Colonna che si riteneva intoccabile. L'Anonimo attribuisce inoltre a C. una semplificazione della procedura che permise di accelerare il corso della giustizia e produsse in breve tempo quegli effetti che gli daranno occasione di abbozzare il famoso quadro di Roma e della sua campagna: "In questo tiempo orribile paura entrao l'animi delli latroni" (p. 160). Il carattere elegiaco di questo giudizio richiama quella che era l'iniziativa più originale, almeno per l'epoca: la creazione di una "casa della pace e della giustizia" destinata a regolare per via di composizione generalmente pacifica e in ogni caso simbolica (uno schiaffo ad esempio risarciva e annullava un colpo di pugnale) le innumerevoli inimicizie tra privati. C. avanzerà più tardi la cifra di milleottocento romani riconciliati con questa procedura. La sua semplicità cortocircuitava evidentemente la giustizia tradizionale, ma senza alienare a C. il favore dei legisti, giudici, giusperiti e notai che costituivano il nerbo dei suoi simpatizzanti. Simpatia più che naturale in fondo, se si considera che uno Stato fondato sul diritto e sul rispetto delle istituzioni ha bisogno per funzionare di un ceto di specialisti della legge.

Il campo che illustra meglio l'intelligenza politica di C. è costituito dai rapporti con il contado: l'espansione della città tradizionalmente attribuita alla sua politica si esercitò infatti principalmente a detrimento di grandi baroni, come il prefetto di Vico e il conte Gaetano Caetani, oppure ai danni dell'amministrazione corrotta ed incapace dei rettori pontifici nel Patrimonio e nella Campagna e Marittima, C. associò sempre l'espansione o il consolidamento dell'autorità romana all'instaurazione di un nuovo regime nei Comuni soggetti e di nuovi rapporti, più giusti e più egualitari, con il Comune dominante. In fondo non cercava di estendervi l'autorità del Campidoglio, ma di instaurarvi un regime politico identico al romano. Non è chiaro quanto di questo programma, esposto in maniera lucida e coerente nelle sue lettere, sia passato nei fatti. Alcune testimonianze sono indicative: l'estensione, ad esempio, a tutto il distretto dell'esenzione dalle gabelle e dai pedaggi, la collaborazione innegabile di numerosi Comuni del Patrimonio nella guerra contro il prefetto di Vico o ancora la sottomissione volontaria di certi Comuni della Sabina che preferirono l'autorità di un podestà nominato da C. a quella dei loro signori o del rettore pontificio. Anche se le fonti sono essenzialmente di origine romana e dunque sospettabili di abbellire la realtà dei rapporti con il distretto, non se ne può inficiare del tutto la testimonianza. Le Comunità del distretto appoggiarono in ogni caso fino in fondo la politica antibaronale di C. nel contado.

In effetti la sua politica riformatrice, almeno fin verso la fine del 1347, trovò serie resistenze solo nelle grandi famiglie baronali, perché l'atteggiamento dei rettori del Patrimonio e della Campagna restò incerto e dubbioso. Anzitutto a Roma: l'Anonimo riferisce episodi piuttosto coloriti: la collera del vecchio Stefano Colonna contro "questo pascio" che osava sfidare le prerogative signorili, la sua fuga vergognosa davanti alla immediata reazione popolare a favore di C., quindi l'ordine rispettato da tutti i baroni di abbandonare Roma, la sottomissione della maggior parte di essi. Se C. dà l'impressione di fare con loro il bello e il cattivo tempo, alternando misure di intimidazione e di indulgenza con una disinvoltura talvolta sconcertante, i baroni adottarono a loro volta un atteggiamento tutt'altro che univoco. Una buona parte degli Orsini, dei rami di Montegiordano e di Castel Sant'Angelo, e i Conti si schierarono sin dal primo giorno dalla sua parte. Al contrario, i Colonna, i Savelli, gli Orsini di Marino gli furono sempre ostili, malgrado adesioni effimere e poco convincenti. Ci si può chiedere se C. seppe dare prova della necessaria fermezza nei loro confronti. Per quel che riguarda i due signori che si opposero apertamente alla sua politica nel contado, il prefetto di Vico e Niccolò Caetani, C. si comportò con energia, ricorrendo alla forza quando i mezzi giuridici si rivelarono inefficaci. Contro Giovanni di Vico, citato in giudizio e poi privato del titolo di prefetto, la campagna militare si protrasse dal 20 giugno alla metà di luglio. La milizia romana, rinforzata da contingenti forniti dai Comuni alleati, saccheggiò i campi intorno a Viterbo, prese Vetralla, senza riuscire ad espugnare la cittadella, costrinse infine il prefetto a firmare il 16 luglio un trattato con il tribuno, nel quale Giovanni di Vico riconosceva l'autorità del Campidoglio. Contro Niccolò Caetani, signore di Sermoneta, Ninfa e Norma, le ostilità furono ritardate dalle difficoltà opposte dal contingente fiorentino. Di fatto, l'avanguardia romana, composta da quattrocento cavalieri e condotta dal cancelliere Angelo Malabranca, basterà a convincere Niccolò Caetani a sottomettersi, almeno provvisoriamente, a C. (prima metà di settembre). È da notare che C. aveva scelto i suoi principali capi militari tra i signori, prima due Orsini: Giordano (del ramo di Montegiordano) e Nicola (padrone di Castel Sant'Angelo), quindi, quando i Colonna ebbero aderito al nuovo regime, Gianni, nipote del famoso Stefano.

È facile oggi cogliere la portata sociale del conflitto tra C. e i baroni. Per costoro si trattava della sopravvivenza dei loro privilegi di natura signorile e dunque la persistenza di un certo tipo di rapporti di produzione, anche se questi si conservavano nella campagna piuttosto che nella città. C., dal canto suo, esprimeva le esigenze politiche di una nuova classe sociale, quella degli imprenditori agricoli, con la quale si identificavano fino ad un certo punto i componenti delle "università". Non è facile dire quale coscienza avessero i contemporanei di questo conflitto. Colpisce la circostanza che tre personaggi tanto diversi fra loro come Petrarca, l'Anonimo e C. stesso avessero una coscienza identica e chiarissima della posta sociale che la lotta contro i baroni comportava. Secondo loro si trattava infatti di annientare, più che questo o quell'individuo particolarmente odioso, una classe che il genere di vita, i costumi, le abitudini rendevano incompatibile con l'ordine sociale e politico al quale aspiravano C., Petrarca e l'Anonimo. L'equazione tirannide-baroni-feudalesimo si legge esplicitamente negli scritti di questi tre personaggi. Lungi dall'essere un simbolo ereditato dall'universalismo, medievale, la tirannide è anzitutto la dominazione di una classe sociale definita senza alcuna ambiguità. Ciascuno di loro si distingue invece per la sua maniera di concepire il nuovo regime: Petrarca si preoccupa essenzialmente di raggiungere una certa forma di unità italiana. Nell'Anonimo la preoccupazione dell'ordine e della sicurezza, necessari al buon andamento degli affari, si accompagna ad una coscienza, sorprendente per i tempi anche se non unica, dei rapporti che intercorrono tra le attività economiche prevalenti, i gruppi sociali interessati al successo del nuovo regime e i compiti richiesti da esso. Quanto a C., il suo merito sta nell'avere elaborato, almeno al livello concettuale, una forma di Stato che risponde alle esigenze della nuova classe dominante, anche se il suo progetto globale anticipava di molto sul grado di sviluppo raggiunto da essa e dunque sulle sue concrete possibilità. Ciò non impedì che durante i primi mesi del tribunato e almeno, fino alle grandi cerimonie dell'agosto 1347, C. realizzasse l'unanimità della popolazione romana nella lotta contro il feudalesimo. Lo prova il successo della sua politica, la facilità con la quale raggiunse i suoi principali obiettivi, il clima di euforia che si coglie con particolare evidenza durante le grandi processioni nelle quali il popolo romano trovò l'occasione di esaltare nella persona di C. la sua propria forza: l'Anonimo romano racconta con evidente narcisismo la cavalcata verso S. Giovanni in Laterano e la processione per l'offerta a S. Pietro, organizzate tutte e due alla fine di giugno. Occorre ancora ripetere che questa unanimità risulta da una coalizione solidissima, certo, ma nella quale le differenze di classe non solo sussistono ma sono talvolta addirittura sanzionate dalla legge (certe disposizioni di C. ratificano la separazione tra cavalerotti e piedoni) e nella quale il ceto degli imprenditori agricoli, quali che siano i nomi che li designano - "bobacterii", cavalerotti, mercanti (nella Cronica), "nobiles viri", ecc. - svolge la parte principale, fornendo in particolare al tribuno il nerbo del suo personale politico. Anche se non esiste ancora la prosografia completa di questo personale, è ora possibile, grazie ai registri notarili degli anni seguenti, di provare con tutto il necessario rigore l'appartenenza al ceto dei "bobacterii" di personaggi come Pandolfuccio de' Franchi, Matteo dei Baccari, Francesco dei Baroncelli, Cola dei Vallati, Buccio Giubileo, Gianni Cafarelli, Angelo Malabranca e altri. Niente di strano che un gran numero di questi personaggi proseguirà la carriera politica nella seconda metà del XIV secolo, sotto regimi che in sostanza riproducono quello del 1347.

La miopia dell'Anonimo per ciò che riguarda la politica italiana di C. è ben nota e senza la corrispondenza sarebbe oggi impossibile farsene una idea precisa. Si può riassumere la cronologia delle sue iniziative che sono all'incirca tutte di natura epistolare o oratoria. Nei primissimi giorni del tribunato, la Cancelleria di C., molto competente e bene organizzata secondo l'Anonimo, stilò lettere per vari Comuni del Patrimonio e dell'Umbria, come Viterbo, Orvieto, Todi. Una lettera datata 7 giugno convocò tutti gli Stati e Comuni dell'"Universa sacra Italia" ad un sinodo fissato prima al 29 giugno, poi al 1º agosto. In seguito partirono ambascerie destinate soprattutto ai principali Comuni dell'Italia centrale, ai quali si chiese di inviare a Roma contingenti militari. Si conosce la composizione dell'ambasceria inviata a Firenze e di essa facevano parte esponenti delle famiglie più rappresentative della nuova classe dirigente. Quindi, quando fu abbandonata l'idea del sinodo italiano, nuove missive furono spedite nel corso del mese di luglio per invitare alle cerimonie del 1º agosto. Le città fecero in generale buona accoglienza alle lettere e alle ambascerie di Cola. Le decine di delegazioni che vennero ad esprimere il loro sostegno al nuovo regime, i segni di stima e di simpatia che gli vennero da personaggi considerevoli come Luigi di Ungheria, la regina Giovanna di Napoli, Carlo di Durazzo, Luigi di Taranto che gli chiesero di fare da arbitro nelle loro rivendicazioni al trono di Napoli, tutto ciò poteva dare l'idea di una sorta di accelerazione della storia; in ogni caso dovette far credere a C. che la congiuntura si prestava alla realizzazione del suo progetto italiano.

Questo progetto prese corpo e si affermò in quattro tappe. Il 22 luglio un'Assemblea del popolo romano revocò tutte le concessioni del "popolo romano", in conformità con il parere di un comitato di esperti, composto da giuristi romani e italiani, che si era riunito nei giorni precedenti. C. ricevette pieni poteri per attuare questa decisione. Il 1º agosto ebbe luogo la cerimonia tante volte descritta della sua consacrazione a cavaliere dello Spirito Santo, cerimonia che si protrasse per tre giorni e offrì l'esempio più bello della capacità di C. di associare le risorse dell'immaginario e del razionale per raggiungere un fine politico. La cerimonia iniziò nel pomeriggio del 31 luglio con un lungo corteo fino a S. Giovanni in Laterano. Dopo un breve discorso, C. entrò nel battistero per assistere ad una messa e soprattutto per fare il bagno nella vasca che si supponeva fosse servita mille anni prima per il battesimo di Costantino e che l'avrebbe liberato dalla lebbra. Dopo aver dormito nel battistero, fu consacrato cavaliere dello Spirito Santo nel corso di una messa solenne (il suo nuovo titolo in conseguenza fu "Candidatus Spiritus Sancti miles, Nicolaus Severus et Clemens, liberator Urbis, zelator Italiae, amator orbis et Tribunus Augustus"). Fece quindi leggere il testo famoso che "dichiara la volontà unanime del popolo romano di... riprendersi i suoi antichi diritti di sovranità" (Piur, p. 69). Concesse, sempre a nome del popolo romano, la cittadinanza romana a tutti gli Italiani, rivendicò per Roma e per l'Italia il diritto di nominare l'imperatore, invitò infine a Roma, prima della Pentecoste del 1348, per difendere i loro diritti "omnes et singulos electos, electores et quicumque in electione Romani imperii ac ipso imperio ius pretendunt" (Burdach-Piur, III, n. 28). La cerimonia proseguì con un fastoso banchetto al quale C. presiedette in compagnia del legato pontificio che, dopo avere fatto mettere per iscritto la sua protesta contro le idee esposte nel decreto, si dichiarò soddisfatto dell'aggiunta di una clausola che preservava tutta l'autorità del papa e della Chiesa. Il giorno seguente, C. distribuì ai duecento inviati dei venticinque Comuni rappresentati anelli e bandiere in segno di alleanza. La terza tappa coincise con l'incoronazione del 15 agosto: l'attribuzione al tribuno di sei corone, ognuna delle quali simbolizzava valori insieme pagani e cristiani (C. aveva del resto fatto compilare una Donatio coronarum e un Modus et forma coronationis Tribuni che insistono piuttosto sui riferimenti all'antichità), quindi l'attribuzione delle insegne del potere, lo scettro e il globo terrestre; tutto ciò poteva suscitare nei contemporanei l'idea che C. aspirasse ad esercitare sull'Italia un potere equivalente a quello dell'imperatore e al limite che egli rivendicasse per se stesso la corona imperiale. In una Assemblea popolare che seguì la cerimonia religiosa, i pretendenti all'Impero e gli elettori tedeschi furono di nuovo citati a comparire per sostenere i loro diritti. Due decreti, pubblicati quello stesso giorno, proibivano ad ogni principe di entrare in Italia alla testa di eserciti e a chiunque di qualificarsi guelfo o ghibellino. Ultima tappa: il 19 sett. 1347 C. incaricò due giuristi, il miles Paolo Vaiani e Bernardo dei Possoli di Cremona, di rivolgere ai "cives civitatum sacre Ytalie" una triplice proposta: eleggere imperatore "aliquem Italicum, quem ad zelum Italiae digne inducat unitas generis et propietas nationis"; affidare l'elezione a ventiquattro delegati, romani e italiani; concludere una "unio" tra le città italiane.

L'audacia di C. è innegabile. Ma non è certo che il suo progetto fosse così irrealistico, come generalmente si ritiene. Si è discusso all'infinito per determinare il modo in cui egli concepiva l'unità italiana. Indicazioni si possono avere dal vocabolario che egli utilizzava per designare le sue aspirazioni. I termini che ricorrono più spesso nelle lettere a Carlo IV e all'arcivescovo di Praga sono quelli di "unio", "unitas" e "societas" che si opponevano alle fazioni e divisioni designate con un vocabolario variato ("partes", "divisiones", "scismata", "partialitas scismatica"), ma che rinviavano sempre a realtà ben note dell'Italia comunale e signorile. Al principale avversario della sua politica italiana, cioè al papa, nelle grandi lettere del soggiorno praghese rivolgeva il rimprovero di proteggere i tiranni (e si sa che questo termine designa anzitutto i baroni), di incoraggiare le lotte di fazione, di ostacolare il corso della giustizia, cioè di favorire in tutta l'Italia la sopravvivenza di regimi politici in tutto e per tutto simili a quello che C. era riuscito a distruggere a Roma. Del resto per illustrare i meriti del suo tribunato, C. addusse una serie di risultati che si opponevano con simmetria quasi perfetta ai vizi attribuiti alla politica pontificia: sottomissione dei baroni, eliminazione delle fazioni, restaurazione dell'ordine con l'esercizio di una giustizia implacabile. Esiste dunque nel programma italiano di C. un tema centrale, costante e primario che occorre identificare nella sua volontà di estendere a tutta l'Italia un regime uguale a quello che egli era orgoglioso di avere instaurato a Roma. Per ciò il suo progetto di unità italiana rispondeva all'attesa di coloro che in Italia puntavano sull'instaurazione di strutture statali forti per eliminare tutto ciò che nella vita pubblica e privata ricordasse ancora il feudalesimo e, in primo luogo, le divisioni e rivalità tra individui, famiglie e Comuni o Stati. Le sue parole d'ordine rilanciavano nell'Italia tutte le aspirazioni proprie di coloro che in ogni Comune o Signoria italiana costituivano i cosiddetti partiti popolari. Non c'è dunque niente di utopico o di chimerico.

Resta il problema di come siano da giudicare le iniziative e le idee di C. che riguardavano l'Impero. Il suo pensiero in questo campo si è evoluto in modo che può apparire talvolta incoerente. Inoltre le difficoltà della sua interpretazione sono accresciute dal fatto che in certi momenti egli poteva svelare solo una parte delle sue intenzioni. Una cosa tuttavia è innegabile: in C. la questione dell'autorità meglio armata per realizzare l'unità italiana è del tutto secondaria rispetto alla natura del regime che questa unità doveva permettere di instaurare in tutta l'Italia. Questa idea risalta con assoluta nettezza dal passo ben noto della terza lettera a Carlo IV, nel quale dichiarava senza esitazioni che non aveva inclinazioni particolari per l'imperatore né per il papa, che la lezione del passato gli avrebbe fatto preferire il papa all'imperatore - sempre nella prospettiva del suo obiettivo primario - ma che nelle circostanze presenti, egli giudicava preferibile di puntare su Carlo IV piuttosto che su Clemente VI. Al limite si potrebbe sostenere persino l'idea che questa "unio" dell'Italia nel pensiero di C. fosse considerata possibile anche senza l'intervento di un mediatore, sia che si trattasse del papa, dell'imperatore o di C. stesso, realizzabile con il semplice gioco di un'alleanza tra Comuni repubblicani simile alle leghe che solevano formare tra di loro. Alleanza che doveva realizzarsi tuttavia su un piano di assoluta uguaglianza, per riprodurre tra i Comuni l'uguaglianza che doveva esistere nel nuovo regime tra i cittadini di ogni Comune, sia che abitassero nelle città o nel contado e senza alcuna discriminazione sociale. Questa formula aveva qualche possibilità di riuscita nell'Italia centrale, tra i Comuni della Toscana, dell'Umbria e del Lazio dove l'iniziativa di C. suscitò le maggiori simpatie.

È un fatto però che a partire dal 1º agosto la questione imperiale giocò una parte sempre più grande nelle iniziative di C. senza che si riesca a spiegarne le ragioni. A questo punto è necessario anzitutto esaminare il suo concetto di signoria. C'è da chiedersi se forse egli coglieva nelle signorie della sua epoca un nuovo tipo di Stato, fondato su principi simili o vicini a quelli che egli aveva applicato a Roma. Tutto ciò che si può dire è che i contemporanei, a cominciare da C. stesso, non davano l'impressione di avere percepito una qualunque affinità tra C. e i signori del suo tempo. Nelle sue lettere del soggiorno praghese, C. confondeva i signori dell'Italia del Nord, a cominciare da Luchino Visconti, con i tiranni che egli aveva dovuto combattere a Roma. Questa confusione è rivelatrice della sua incapacità di cogliere la novità della signoria in rapporto al regime feudale, tra i signori tipo Visconti e i baroni del genere del Colonna o degli Orsini. È precisamente il concetto della signoria moderna, cioè della struttura politica suprema, detentrice della sovranità in uno Stato moderno, che faceva difetto a Cola. Capace di elaborare le strutture amministrative di uno Stato moderno, in particolare nel campo dei rapporti tra città e contado, non arrivò fino al punto di concepire una struttura politica nuova, radicalmente distaccata dal modello del Comune di popolo fondato sull'alleanza più o meno stretta tra la borghesia e il popolo minuto. Al massimo arrivò a sentire ad un certo punto la necessità di un'autorità più forte di quella che poteva emanare da un governo comunale, o da una "unio" di Comuni, per fronteggiare gli avversari che minacciavano il suo progetto politico: i baroni e soprattutto il Papato. Nel suo pensiero s'impose allora l'idea di Impero, per la ragione evidente che essa restava ancora l'idea più carica di autorità e di prestigio. I contenuti politici e anzitutto i limiti geografici apparivano abbastanza ambigui, ma l'eredità della tradizione medievale dell'Impero universale resta evidente. Per risultare completamente convincente a questa spiegazione manca solo la prova che l'ambizione imperiale di C. si sviluppò contemporaneamente alla considerazione che il Papato era il principale ostacolo alla realizzazione del suo programma italiano. Lo stato attuale della documentazione impedisce tuttavia di fornirla. Più facile è invece vedere come il Papato e i baroni abbiano provocato in concreto la caduta del tribuno.L'ostilità del Papato alla politica di C. si spiega agevolmente. Egli stesso e Petrarca denunciarono a chiare lettere la collusione della Curia con i baroni. Nella sua lettera del 15 ag. 1350 all'arcivescovo di Praga C. analizzò con grande finezza le ragioni per le quali a Roma, nelle province pontificie e in tutta Italia il Papato avesse interesse a sostenere forze feudali e particolarismi locali. Se in un primo tempo il Papato di buon occhio aveva visto sparire a Roma il disordine e l'anarchia, già nel mese di agosto, prima che giungesse ad Avignone la notizia delle cerimonie del 1º e del 15, sorsero le prime inquietudini per la politica comunale nel contado che metteva in causa la dominazione pontificia su numerose Comunità e attaccava i privilegi dei signori tradizionalmente sostenuti dall'amministrazione pontificia. Dal 21 agosto al 3 nov. 1347, le lettere papali al legato Bertrand de Deaulx e ai suoi ufficiali nelle province pontificie insistono sugli attentati di C. ai diritti della Chiesa e dei signori in queste province. La prima lettera che denuncia la politica imperiale di C. data al 12 nov. 1347 soltanto: ciò significa che i provvedimenti antibaronali del nuovo regime e tutta l'opera di ristrutturazione amministrativa intrapresa da C. bastavano ampiamente a suscitargli l'ostilità del Papato. Nella corrispondenza del Petrarca s'intuisce del resto che ad Avignone si era formato assai presto un partito decisamente ostile a C. e che esso non fece fatica a guadagnare lo stesso papa e l'insieme della Curia al proprio punto di vista.

A partire dalla fine dell'estate (fine di agosto e tutto settembre 1347), la corrispondenza di Clemente VI con i suoi rappresentanti nell'Italia centrale rivela l'opposizione sempre più aperta del pontefice all'opera del tribuno. È probabile, anche se nondimostrato, che la rivolta dei baroni romani della fine di settembre sia stata suscitata dall'atteggiamento avignonese. In precedenza il periodo che va dal 15 agosto al 15 settembre aveva segnato l'apogeo delle iniziative di Cola. I baroni che avevano partecipato alle grandi feste del mese di agosto, se ne stavano quieti, G. Caetani si era sottomesso al tribuno, nel contado numerose Comunità, della Sabina e della Tuscia si erano poste sotto l'autorità di Roma. C. si era sentito molto sicuro del suo potere, tanto da congedare il vicario imperiale, che si era ritirato a Montefiascone. Alla metà di settembre tuttavia, un episodio spettacolare rivelò fino a che punto le relazioni con i baroni restassero tese o equivoche. Si tratta di quella specie di psicodramma diretto da C. che fu recitato in vari atti dal 14 al 17 settembre. Primo giorno: banchetto al Campidoglio, nel corso del quale C. fece imprigionare il barone più prestigioso, Stefano Colonna. Segue la cattura dei principali baroni, fra i quali i due senatori in carica al tempo del colpo di Stato. Il 15 messa in scena macabra, destinata a spaventare i baroni facendo loro credere che sarebbero stati messi a morte. Quindi cambiamento di scena: il tribuno "fece un bel sermone", perdonò ai baroni, distribuì loro titoli onorifici desunti dal Basso Impero e fece in loro compagnia una cavalcata attraverso Roma. L'episodio si prolungò il 16 con una messa solenne e il 17 con una processione che riunì tutto il clero della città. "Questo fatto molto despiacque alli descreti" commentò l'Anonimo (p. 191), per il quale l'episodio segna l'inizio della fine. Il fatto è che pochi giorni dopo la parte dei baroni più renitenti all'opera di C. entra in aperta ribellione contro di lui: i Colonna e gli Orsini del ramo di Marino si rifugiano nei loro castelli che fortificano in previsione di un conflitto armato. Le ostilità cominciano all'inizio di ottobre: partendo da Palestrina e da Marino i nobili devastano la Campagna romana e razziano le greggi, spingendosi fino a porta S. Giovanni. In queste operazioni che si svolgono secondo lo schema più puro della guerra medievale, C. non sembra essersi comportato con tutta la necessaria energia. L'Anonimo gli rimprovera di avere lasciato ai baroni tutto il tempo di fortificare i loro "castra", e parla di difficoltà ad assicurare il soldo alla truppa. Sembra anche che si facesse più frequente in lui l'alternarsi di momenti di depressione ad altri di eccitazione, come quello in cui risponde ad una convocazione del legato pontificio Bertrand de Deaulx, cingendo il mantello riservato alla consacrazione dell'imperatore.

La battaglia decisiva tra le forze comunali e i baroni ebbe luogo il 20 novembre. C., messo al corrente della decisione dei baroni riuniti a Palestrina di tentare un rientro in forze a Roma, era passato da una fase iniziale di abbattimento ad una euforica, quando in sogno s. Martino e Bonifacio VIII gli annunciarono la vittoria delle forze comunali. La battaglia invece non ebbe neanche luogo: i baroni, non essendo riusciti ad entrare in città con l'astuzia, si ritirarono dopo essere sfilati in parata davanti a porta S. Lorenzo. Gianni Colonna si fece tentare dalla porta socchiusa, vi si precipitò, cadde da cavallo e fu ucciso. La sua morte, seguita da quella di suo padre accorso alla sua ricerca, incoraggiò i Romani che si misero a caccia di nobili: nelle vigne di porta S. Lorenzo fu un vero massacro di baroni, fra i quali cadde Agapito Colonna. C. rifiutò alle vedove del Colonna il permesso di seppellire i loro morti in Aracoeli e consacrò suo figlio cavaliere con il sangue di Stefano Colonna.

Per quanto strepitoso, il successo militare sui baroni non servì a niente. Per due ragioni: anzitutto C. non si mosse da Roma quando sarebbe stato facile inseguire i baroni e distruggere almeno una delle loro fortezze, quella di Marino. Il suo atteggiamento verso il Papato si rivelò sempre più remissivo, e lasciò pensare che volesse rinunciare alla sua politica italiana. Il suo scoraggiamento si spiega in parte con le reticenze, per non dire di più, dei Comuni dell'Italia centrale, troppo preoccupati di preservare i loro particolarismi per dare seguito al progetto di C., e con l'intransigenza sempre più scoperta del legato e ancor più della Curia, anche quando egli mostra di aderire alle loro ingiunzioni, richiamando ad esempio dai Comuni della Sabina e della Tuscia gli ufficiali che vi aveva mandato su loro richiesta. Ma bisogna riconoscere anche il ruolo decisivo che in questa fase finale del tribunato ebbero i fattori psicologici, sempre a condizione di sapere distinguere tra tratti mentali comuni a tutta l'epoca e la psicologia specifica di Cola. Così quando C. imputerà più tardi la sua apatia nelle ultime settimane del tribunato ai sogni spaventosi che egli allora faceva, esprimeva solo una credenza generalizzata della Roma medievale. Quando giustificava invece la sua pusillanimità con l'orrore del sangue, durante la sedizione che provocò la sua caduta, metteva il dito su una delle componenti essenziali della sua psicologia, dominata da una fiducia eccessiva nella parola e nel gesto simbolico che rendeva certamente molto faticoso e aleatorio ogni passaggio all'azione.

In ogni caso, secondo la Cronica, è proprio l'apatia che caratterizza il suo comportamento dopo la battaglia di S. Lorenzo. L'Anonimo aggiunge al rimprovero considerazioni moralistiche sul modo di vivere di C., che non aveva avanzato quando la politica del tribuno soddisfaceva gli ambienti dei "descreti viri" con cui il cronista si identificava. L'inazione di C. scoraggiò i suoi partigiani, mentre i baroni ritrovavano in parte la loro arroganza: il 4 dicembre Luca Savelli fece affiggere una dichiarazione che invitava a rovesciarlo, quindi un nobile napoletano rifugiato a Roma, il conte di Minervino, eresse una barricata nel rione Colonna. La morte del capo dello squadrone inviato a rimuovere la barricata e l'indifferenza dei Romani in questo inizio della sedizione gettarono C. nello scoraggiamento. Il 15 dicembre, dopo un ultimo discorso, a cavallo e rivestito delle insegne imperiali, si rifugiò in Castel Sant'Angelo, rinunciando spontaneamente ad un potere che non era seriamente minacciato. Lo prova la prudenza dei baroni che, dice l'Anonimo, "sapevano cotale caduta, ma stettero dìi tre 'nanti che volessino tornare a Roma per la paura" (Cronica, p. 209). Anche se la cronologia dell'andirivieni di C. tra le dimissioni e l'arrivo in Boemia è imprecisa, si indovina che egli restò a Roma con la speranza di ritornare al potere proprio perché aveva conservato partigiani fra i popolares e il regime da lui instaurato manteneva solide basi. Egli avrebbe anche fatto dipingere su di un muro della chiesa di S. Maria della Maddalena, vicino a Castel Sant'Angelo, un quadro con un agnello che eliminava quattro animali simbolici. Questa speranza non si realizzò. I nobili tornarono ad occupare le cariche senatorie, mentre C. fu condannato da due sentenze del legato, a fine dicembre 1347 e a metà febbraio 1348, che lo scomunicavano e annullavano tutti i provvedimenti presi durante il suo tribunato. Si sa che dopo avere passato l'inverno a Napoli, C. ritornò a Roma, ma fu imprigionato dagli Orsini in Castel Sant'Angelo da dove poté fuggire nei primi giorni dell'autunno del 1348 grazie alla peste che uccise i due Orsini che lo custodivano. Farà un altro soggiorno a Roma in incognito, con l'occasione dell'anno santo, all'inizio del 1350.

Nei primi anni dell'esilio cade il lungo soggiorno (all'incirca dalla fine del 1348 alla metà del 1350) tra i fraticelli dell'Abruzzo, nel massiccio della Maiella. Dei francescani di tendenza spirituale vivevano da quelle parti in piccole comunità o come eremiti. Erano partigiani della povertà assoluta condannata dalla Chiesa e predicavano l'avvento di un mondo migliore, grazie alla venuta dello Spirito Santo che avrebbe fondato sulla terra il nuovo regno di Dio. La sua aspirazione di stampo umanistico al rinnovamento morale dell'uomo, come la sua pronunciata devozione allo Spirito Santo disponevano C. a condividere queste credenze, tanto più che era facile per lui trovare nel profetismo escatologico dei fraticelli una missione personale da adempiere: quella di convincere l'imperatore, che secondo i fraticelli doveva essere lo strumento della restaurazione del regno di Dio sulla terra. A tale scopo egli si recò a Praga alla corte di Carlo IV e forse portò con sé delle pergamene con le profezie di frate Angelo di Monte Vulcano che ebbe una arte determinante in questa decisione. A Praga C. alloggiò presso un albergatore italiano e fu ricevuto da Carlo IV almeno tre volte, alla fine di luglio e nella prima quindicina di agosto del 1350. Spiegò all'imperatore il senso delle profezie di fra' Angelo, gli annunciò la venuta dello Spirito Santo e in questa prospettiva gli propose di prendere il potere in Italia. Carlo IV si mostrò abile e riservato: ascoltò e s'informò, interrogando C. in particolare sulla situazione politica a Roma e in Italia, ma senza accordare il minimo credito ai discorsi escatologici. Quindi gli chiese di redigere due relazioni, una per sé e l'altra per l'arcivescovo di Praga, e lo fece arrestare, ciò che gli valse immediatamente tre lettere di felicitazioni di Clemente VI. Tuttavia egli si guardò bene di consegnarlo al papa e lo fece trattare con riguardo per tutto il corso della detenzione.

Le lettere del soggiorno in Boemia costituiscono la parte migliore dell'epistolario di Cola. Le qualità stilistiche le fecero riunire presto in un carteggio che contribuì moltissimo alla diffusione dell'umanesimo nel mondo germanico. Da Praga C. non perdeva di vista la situazione romana. Le sue prime lettere all'abate del monastero di S. Alessio e al cancelliere Angelo Malabranca tentavano di sostenere il morale dei suoi partigiani romani. Egli cercava anche di persuaderli, pensando ai Comuni guelfi della Toscana e dell'Umbria, che il suo avvicinamento all'imperatore non comportava alcun cambiamento sostanziale della sua politica. Poi il tono cambia. Pessimismo e disperazione improntarono le lettere all'eremita Michele e a suo figlio. A Raudnitz sull'Elba (Roudnice nad Labem), dove era stato condotto alla fine del 1350, l'inverno era rigido: un trasferimento ad Avignone, con i rischi che poteva comportare, gli apparve preferibile ad un lungo internamento in Boemia. Da parte pontificia, ci si preoccupava di ottenere questo trasferimento prima che l'imperatore venisse a sapere dell'accordo concluso da Clemente VI con Luchino Visconti. Donde la trasmissione nel febbraio del 1352 a tutti i vescovi di Germania della bolla che scomunicava C. e un mese più tardi il viaggio in Boemia di tre inviati venuti a prenderlo in consegna.

L'arrivo ad Avignone ebbe luogo nel luglio o all'inizio di agosto del 1352. C. resterà più di un anno chiuso in una torre del palazzo pontificio, ma trattato con riguardo. La sua posizione giuridica, piuttosto grave in partenza visto che egli si era sottoposto ad una inchiesta dell'Inquisizione, migliorò in seguito per ragioni di natura diversa. Giocò in suo favore una raccolta di poemi di suo pugno, oggi perduti, che rafforzò ad Avignone la sua reputazione di letterato. Per di più la raccolta era dedicata al cardinale Guy de Boulogne, uno dei membri della commissione incaricata da Clemente VI di istruire il suo processo, e al quale C. aveva già indirizzato da Raudnitz una lunga lettera per dimostrare l'ortodossia delle sue idee. Dal punto di vista religioso egli si discolpò denunciando come sataniche le profezie di frate Angelo. Poté sostenere che la sua politica religiosa durante il tribunato fu irreprensibile, mantenendo il silenzio sui suoi propositi ereticali del soggiorno praghese che del resto né l'imperatore né l'arcivescovo di Praga avevano denunciato.

La situazione volse definitivamente in suo favore con l'elezione del successore di Clemente VI: Innocenzo VI intendeva riaffermare energicamente l'autorità del Papato su Roma e sullo Stato della Chiesa, e C. non ebbe difficoltà a dimostrare la conformità della sua politica durante il tribunato con gli obiettivi del nuovo pontefice e persino a convincere Innocenzo VI di potere, in virtù della popolarità che aveva conservato a Roma, aiutare a restaurare l'autorità pontificia sulla città e sul suo distretto. Certo è che, immediatamente dopo la sua liberazione, avvenuta il 15 sett. 1353, una serie di lettere partirono da Avignone per annunciare al Comune di Roma, al cardinale Albornoz, al Comune di Perugia e a tanti altri che C. aveva ricevuto dal papa la missione di restaurare l'ordine a Roma. Non gli fu conferito tuttavia alcun titolo ufficiale e la corrispondenza pontificia non precisa né la natura dei poteri conferitigli, né la procedura da seguire, né le scadenze. Ora, il 14 settembre, quindi un giorno prima della sua liberazione e, cosa più significativa, alla data che egli stesso aveva fissato per la sua "rielevazione" durante il soggiorno praghese, uno dei capi del partito popolare che era stato suo ambasciatore a Firenze nel 1347, Francesco Baroncelli, fu nominato secondo tribuno, alla testa di un regime che aveva le stesse basi sociali e politiche di quelle del primo tribunato. All'inizio del 1354 gli successe Guido dei Patrizi che ricevette dall'Albornoz il titolo di senatore ma senza alcuna modifica della natura profonda del regime politico. Con ogni evidenza il destino personale di C. importava abbastanza poco al cardinale Albornoz una volta che l'ordine fosse tornato a regnare a Roma grazie al nuovo regime popolare. Quanto a C., si ignorano i suoi sentimenti verso il nuovo regime, perché la sua corrispondenza del periodo tra il 20 sett. 1353 e il 1º ag. 1354 non si è conservata.

Fino a questa data si conosce assai male l'andirivieni di Cola. Da Avignone in un primo tempo egli si recò a Perugia dove stava l'Albornoz. Dovette passare l'inverno 1353-54 nel Patrimonio, dove, secondo l'Anonimo, partecipò al seguito del legato alla riconquista di terre pontificie e ricevett e la visita di molti romani venuti ad incoraggiarlo a riprendere il potere. Dall'aprile al luglio 1354 i registri della tesoreria pontificia attestano che C. prestò servizio presso il legato come cavaliere. Nello stesso tempo egli cercò sussidi che gli permettessero di arruolare mercenari e di prendere il potere a Roma. L'Albornoz gli rifiutò ogni aiuto finanziario, benché Innocenzo VI, in una lettera al Comune di Perugia, si fosse dichiarato pronto a ratificare la sua nomina a senatore se il suo legato l'avesse disposta. Una volta di più C. si trasse d'impaccio grazie alla sua eloquenza e al potere di persuasione che essa gli dava. Con belle promesse ottenne da uno dei due fratelli di fra' Morreale, il più potente condottiero del momento, un sussidio di 4.000 fiorini. L'Albornoz allora si decise, tanto più che Guido dei Patrizi si rivelava incapace di affrontare la coalizione dei Colonna e degli Orsini di Marino, a nominarlo senatore. Alla testa di duecentocinquanta cavalieri, rinforzati da un contingente di toscani e perugini, C. fece un ingresso trionfale a Roma il 1º ag. 1354. "Pareva che per la letizia tutta Roma se operissi", commenta l'Anonimo (p. 146), mentre "li baroni staievano alla guattata" (p. 147). In altri termini C. ritrovò gli stessi partigiani (dai cavalerotti al popolo minuto) e con i baroni gli stessi avversari.

Impossibile tuttavia concludere che la storia si ripeteva. C. era ormai al servizio del Papato, rappresentato sul luogo o nelle immediate vicinanze da un legato energico ed accorto. Lo proclamò egli stesso nelle lettere che indirizzò ai Comuni amici proprio appena dopo il suo ritorno al potere e sembra invero, per quanto se ne può giudicare dalla scarsa documentazione, che abbia effettivamente rinunciato ad ogni velleità di politica italiana e persino ad ogni progetto di riforma comunale. Per questo C. scadde nel banale e la sua opera fino all'8 ott. 1354 non presenta interesse maggiore di qualsiasi altro ufficiale pontificio dell'epoca. A leggere la Cronica, sembra che gli stessi contemporanei abbiano colto il cambiamento: dopo l'euforia dei primi giorni C. si trovò nell'isolamento. I romani disposti a sostenerlo nella lotta contro i Colonna non erano molti. Forse era egli stesso cambiato. L'Anonimo lo descrive come una sorta di degenerato, rozzo e rubicondo, sempre dedito al vino e oscillante nelle opinioni. Salvo poi a lodare la sua energia nella guerra contro i nobili e a segnalare che non esitò poi ad abbassare il suo tenore di vita per ragioni di economia. Ciò significa che in mancanza di una fonte così ricca e attendibile come l'epistolario per il tribunato, è impossibile farsi un'idea precisa della condizione di spirito di C. durante il senatorato. Del resto il racconto dell'Anonimo si riduce in fondo a tre soli episodi: la lotta contro i Colonna, che sembra essere stato il grande affare di questi due mesi, l'esecuzione di fra' Morreale e per finire il moto dell'ottobre.

Sin dal 4 agosto C. aveva chiesto ai baroni di giurargli obbedienza. I due ambasciatori inviati a questo scopo a Palestrina presso Stefanello Colonna, figlio e fratello dei due Colonna uccisi nella battaglia di porta S. Lorenzo, furono imprigionati e torturati. Il giorno seguente Stefanello razziò nella Campagna romana tutto il bestiame che vi trovò e lo condusse nella foresta di Pantano e poi a Palestrina. L'esercito comunale, composto di romani, di mercenari e di contingenti forniti dai Comuni del distretto, si accampò prima a Tivoli; quindi iniziò l'assedio di Palestrina con il saccheggio delle terre circostanti. L'accesso alla città restò però libero dal lato della montagna e così gli assediati poterono continuare a ricevere rifornimenti. La discordia sopraggiunta tra i contingenti di Tivoli e di Vetralla, quindi i sospetti verso il Morreale, arrivato nel frattempo da Roma, obbligarono C. a togliere l'assedio. Le ostilità contro i Colonna continuarono e secondo l'Anonimo con notevole energia da parte di C. e di un capitano di grande valore, Imprennente Annibaldi. Per far fronte alle spese C. fu costretto ad appesantire le imposte (gabella del vino e del sale in particolare) e forse anche a vessazioni verso i contribuenti.

È stato anche affermato che egli fece imprigionare e poi giustiziare il 29 agosto fra' Morreale per confiscargli i beni. La scarsa documentazione esistente non consente tuttavia di cogliere tutto il significato dell'episodio. Non sembra tuttavia che la morte del condottiero abbia nuociuto a C. agli occhi dei Romani. Secondo l'Anonimo il denaro confiscato a fra' Morreale sarebbe servito a pagare i mercenari per riprendere con grande energia le operazioni contro i Colonna.

L'Anonimo attribuisce altri motivi al malcontento popolare: il peso delle imposte indirette, il comportamento dispotico (ma si conosce un solo caso di esecuzione arbitraria, quello di un ex partigiano di C.) e bizzarro, in cui si mescolano la versatilità del carattere e una diffidenza sempre più morbosa. Ma il malcontento era in fondo abbastanza limitato e non può giustificare da solo il moto che condusse all'uccisione di Cola. L'Anonimo insiste sul fatto che la mattina dell'8 ottobre si sollevarono contro C. solo i quattro rioni di Sant'Angelo, Ripa, Colonna e Trevi che sottostavano alla preponderante influenza dei Savelli e dei Colonna. Questa circostanza lascia supporre che il moto fosse guidato dai baroni più ostili a Cola. Il suo stesso successo sembra essere stato occasionale: l'Anonimo racconta che se C. fosse riuscito a prendere la parola avrebbe conservato buone possibilità di trarsi d'impaccio e persino di volgere la situazione dalla sua parte. A conti fatti, la sua caduta riflette l'indifferenza, piuttosto che il malcontento popolare contro di lui che era tornato al potere per volontà del papa.

La ribellione non trovò alcuna resistenza. C., che si era presentato in alta tenuta dal balcone del Campidoglio con l'intenzione di arringare i rivoltosi, dovette ripararsi dal lancio delle pietre e delle frecce dentro il Campidoglio, abbandonato dal personale comunale. Avrebbe esitato se scegliere di morire combattendo o salvare la pelle con la fuga, per decidere infine di travestirsi da contadino. Riuscì così ad abbandonare il palazzo in fiamme e a mescolarsi alla folla gridando come gli altri: "suso, suso a gliu tradetore!" (p. 263). Ma fu riconosciuto dai braccialetti che aveva dimenticato di togliersi, condotto sulla sommità della grande scalinata, vicino al leone, dove restò un'ora prima che un certo Francesco de Vecchio gli assestasse il primo colpo. Era l'8 ottobre del 1354. Il suo cadavere mutilato sarà esposto per due giorni davanti alla chiesa di S. Marcello, vicino al palazzo Colonna, in seguito bruciato sulla piazza del mausoleo di Augusto.