Voltaire

 

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Pseudonimo dello scrittore e filosofo francese François Marie Arouet (Parigi 1694-1778).

Ultimo figlio di un ricco notaio del Châtelet, crebbe in un ambiente borghese colto, compiendo gli studi presso i gesuiti del collegio Louis-le-Grand, tra condiscepoli di nobile origine destinati alle più alte cariche e generosi di aiuto nei momenti difficili della sua movimentata esistenza. Essa si aprì all'insegna della mondanità nella società elegante e libertina del salotto di Ninon de Lanclos, dove Voltaire si fece notare per la finezza dell'ingegno.

Rientrato a Parigi dopo un breve soggiorno in Olanda al seguito dell'ambasciatore di Châteauneuf, suo padrino, compose poesie satiriche che gli crearono qualche guaio e lo costrinsero a un prudente esilio presso Fontainebleau, poi a Sully-sur-Loire. Una satira politica sul regno di Luigi XIV gli costò undici mesi di prigione alla Bastiglia (1717-18). Il successo della rappresentazione della sua prima tragedia, Œdipe (1718), gli aprì l'accesso all'alta società e la pubblicazione del poema La Ligue (1723) gli procurò l'assegnazione di una pensione da parte del re. Ormai celebre, mutò il nome borghese nell'anagramma (tratto da Arouet le Jeune: arouetlj = uoltajre = voltaire) di Voltaire; contemporaneamente l'eredità paterna e alcune felici speculazioni lo posero definitivamente al riparo da preoccupazioni economiche. Tale felice situazione precipitò nel 1726 per l'incidente occorsogli col cavaliere di Rohan, che lo fece bastonare dai suoi lacché per una risposta impertinente, indi rifiutò non solo di riparare con le armi, ma lo fece imprigionare alla Bastiglia. Ne uscì di lì a poco per riparare in Inghilterra, dove rimase circa tre anni.

Un cambiamento profondo si operò nella sua vita e nella sua cultura, a contatto con una società di nobili, di poeti e di filosofi (Congreve, Walpole, Swift, Pope, Berkeley) espressi da una società democratica al cui confronto quella arretrata e assolutista della Francia non poteva che ispirargli sentimenti severamente critici, suffragati da argomentazioni storico-filosofiche, razionalistiche e “laiche”, di nuova acquisizione.

Pubblicate durante l'esilio – come il poema La Henriade (1728), rifacimento della Ligue – o dopo il ritorno in patria – come le tragedie Brutus (1730), preceduta da un Discours sur la tragédie che diffuse in Francia la conoscenza di Shakespeare, Zaïre (Zaira), rappresentata trionfalmente nel 1732, La mort de César (1736), Adelaïde du Guescelin, o il poema in versi e prosa Le temple du goût (1733; Il tempio del gusto), o infine e soprattutto i due saggi storici e filosofici L'histoire de Charles XII (1731) e L'épître à Uranie (1732) pubblicati clandestinamente per il loro contenuto liberale e anticattolico – le sue opere si imposero per l'arditezza dei contenuti e un piglio polemico che suscitarono scandalo. Nel 1733 la pubblicazione in inglese a Londra e l'anno dopo l'edizione francese delle Lettres philosophiques (Lettere filosofiche) o Lettres anglaises segnarono la nascita dell'illuminismo francese e per Voltaire l'avvio della lotta alle istituzioni – religione, scienza, arte, filosofia, vita politica e sociale – sottoposte al vaglio della critica e di un metodo basato sulla documentazione. L'opera fu condannata al rogo e Voltaire si rifugiò a Cirey, in prossimità del confine lorenese, da Madame du Châtelet. Vi trascorse dieci anni, appassionandosi alle scienze di cui la sua amica era cultrice, lavorando a numerose tragedie, come Alzire (1736), Zulime, Mahomet ou le fanatisme (1741; Maometto ovvero il fanatismo), Mérope (1743), al poema eroicomico La Pucelle (1755), alla satira Le mondain (1736) e al Discours en vers sur l'homme (1738), sintesi delle sue concezioni epicuree della vita. Agli anni di Cirey risalgono anche i primi contatti epistolari con Federico di Prussia, il re filosofo che incarnava ai suoi occhi l'ideale del monarca illuminato, seguiti da una missione semiufficiale presso il giovane principe, e che sfoceranno in un'amicizia non sempre esente da sgarbi e delusioni.

Nel 1745, grazie ai buoni uffici dell'amico d'Argenson, nuovo primo ministro, Voltaire ritornò alla corte di Francia. Produsse in due anni tragedie, commedie (Nanine, 1749), versi di circostanza, libretti d'opera, due opere storiche a giustificazione della carica di storiografo del re: Le poème de Fontenoy e l'Histoire de la guerre de 1741, divenuta in seguito l'Histoire du siècle de Louis XV. Appena coronato dall'elezione all'Académie française (1746), nel 1747 cadde di nuovo in disgrazia e tornò a Cirey, dove scoprì un nuovo efficace canale di diffusione della critica sociale e religiosa nel conte philosophique il primo dei quali, Zadig ou la destinée (1747), costituisce un momento di riflessione non ottimistica sulle vicende dell'umana ragione, trionfante solo a prezzo di pesanti disgrazie. In competizione con Crébillon compose altre tragedie: Sémiramis (1748), Rome sauvée o Catilina (1749), Oreste (1750). Dopo la morte di M.me de Châtelet (1749), che lo gettò in un profondo scoramento, accettò la nomina a ciambellano di Federico di Prussia (1750).

Nonostante le affinità ideali, le due personalità non tardarono a scontrarsi, prendendo a pretesto per una clamorosa rottura un litigio di Voltaire con Maupertuis, presidente dell'Accademia prussiana, attaccato nella Diatribe du docteur Akakia. Nel 1753 Voltaire tornò quindi in Francia portando con sé la sua più importante opera storica, Le siècle de Louis XIV (1751), completata fino al 1756, e il racconto filosofico Micromégas (1752). Nel 1755 acquistò una proprietà nei pressi di Ginevra, attratto da un regime che gli sembrava rispondesse alle sue esigenze di tolleranza, ma che ben presto lo ostacolò nelle attività teatrali, costringendolo a stabilirsi a Ferney, in territorio francese a pochi chilometri dal confine (1759). Oltre alla collaborazione all'Encyclopédie (Enciclopedia), sono di quegli anni l'Essai sur les mœurs (1756; Saggio sui costumi), storia delle civiltà dominata dall'idea che a muovere il mondo non siano tanto le leggi della Provvidenza, quanto quelle della Ragione, pur ostacolata da fanatismi e superstizioni, il Poème sur le désastre de Lisbonne (1756) e il racconto Candide ou l'optimisme (1759; Candido ovvero l'ottimismo), dove si fa più preciso il rifiuto dell'ottimismo di Leibniz, cui oppone una lezione di saggezza e di lucida accettazione della condizione umana. Ne fece egli stesso la propria ragione di vita, indirizzando gli sforzi verso compiti concreti: potenziando e rivoluzionando l'agricoltura nella sua proprietà, creando fabbriche, migliorando la vita dei suoi dipendenti. Come un monarca ricevette l'omaggio nel suo castello di Ferney di ospiti illustri di tutta Europa, creandosi una fama tanto vasta da scoraggiare le minacce della corte e della Chiesa anche nei momenti di più virulenta polemica, attraverso una profusione di libelli, portanti le firme più varie ma pur sempre riconoscibili, contro gli abusi della giustizia, la tortura, il parlamento, la religione o l'infâme, come egli la chiama nell'Extrait des sentiments de Jean Meslier o nel Sermon des Cinquante, a sostegno di una religione naturale. Difese le vittime dell'intolleranza, spesso con successo, aprendo il “caso Calas" (1762), il “caso La Barre" (1764) e dando loro la massima risonanza politica. Proseguì ciononostante l'attività letteraria col poema Tancrède (1760), le tragedie “a tesi” L'orphelin de la Chine (1755) e Les lois de Minos, con i racconti Jeannot et Colin (1764), L'ingénu (1767), contro le ipocrisie sociali e la corruzione della corte, L'Homme aux quarante écus (1768), contro le ricchezze smodate, La princesse de Babylone (1768). Ritornò alla filosofia con qualche opera significativa: Le traité sur la tolérance (1763) sull'affare Calas, il Dictionnaire philosophique (1764), raccolta di articoli in ordine alfabetico, Questions sur l'Encyclopédie (1770), La Bible enfin expliquée (1776).

Un clima più liberale, instauratosi a Parigi dopo la morte di Luigi XV e con l'assunzione della carica di primo ministro da parte di Turgot, gli permise infine di ritornarvi per assistere al trionfo della rappresentazione di Irène (marzo 1778) e a quello suo personale, tributatogli dalle folle. Morì di lì a poco, senza ottenere il diritto di sepoltura a Parigi, dove i suoi resti furono trasferiti nella gloria del Panthéon per decreto della Costituente che in lui riconobbe uno dei massimi artefici della caduta dell'Ancien Régime e dell'avvento dei nuovi tempi col loro messaggio di libertà e di riconoscimento della dignità umana. In ciò e non in sentimenti rivoluzionari che non nutrì mai consiste la sua modernità, arricchita dalla novità dell'impegno civile, del coraggio, del vigore polemico dell'uomo di lettere, ignoti prima di lui. Mentre è riconosciuto il valore storico della sua opera, quello letterario e filosofico sono soggetti a riserve, nel primo caso perché egli non seppe emanciparsi dai canoni poetici classici, nel secondo dal debito verso i deisti e i materialisti inglesi, i cui valori ripensò tuttavia in modi e con intenti originali e dirompenti.

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Enciclopedia Universale Garzanti

Pseudonimo di Francis-Marie Arouet (Parigi 1694-1778), scrittore e filosofo francese.

La vita

Nacque in una famiglia della borghesia forense e amministrativa; il padre, notaio, portò il titolo di consigliere del re e fu esattore dei dazi sulle spezie presso la camera dei conti. Voltaire espresse più volte dubbi sulla legittimità della propria nascita; si definì infatti « il bastardo di Rochebrune », attribuendosi quale vero padre un poeta autore di canzoni e libretti. Non conosciamo i motivi, immaginari o fondati, di quest'affermazione; occorre tuttavia prestarvi attenzione per l'importanza che il tema della nascita illegittima assume nella sua opera. Perduta la madre a soli sette anni, fu educato prima nel collegio giansenista di Saint-Magloire, poi in quello gesuitico di Louis-le Grand.

Mentre il fratello maggiore, educato dai giansenisti, sarebbe diventato un religioso fanatico con simpatie per i « convulsionari », Voltaire ricevette un'eccellente educazione umanistica, insieme a giovani aristocratici. Giovanissimo fu introdotto nella Société du Tempie, circolo di liberi pensatori, e all'età di dieci anni affascinò per la sua intelligenza la vecchia Ninon de Lenclos, che gli avrebbe in seguito lasciato mille franchi per acquistarsi libri. Appena uscito dal collegio, iniziò a confrontarsi in canzoni, epigrammi, versi satirici e scherzosi, con i poeti più liberi del tempo. Per sottrarlo alle influenze di un ambiente giudicato pericoloso, il padre lo allontanò da Parigi, avviandolo alla carriera forense prima a Caen e poi in Olanda (1713). Ma anche là condusse una vita dissipata e imprudente, dedicandosi ad amori avventurosi. Richiamato a Parigi, si impegnò decisamente nell'attività letteraria, abbandonando gli studi giuridici. Una satira sui costumi del reggente gli costò l'arresto; durante gli undici mesi passati alla Bastiglia compose parte di un poema epico dedicato a Enrico IV e terminò la sua prima tragedia, Edipo [Oedipe] che, messa in scena nel 1718, incontrò un successo trionfale. Analoga accoglienza toccò al poema epico La Lega o Enrico il Grande [La Ligue ou Henri le Grand, 1723] che nel 1728 assumerà il titolo di Enriade [Henriade].

Considerato da questo momento il maggiore poeta drammatico ed epico del tempo, ricevette consistenti pensioni che gli permisero, trentenne, di considerarsi un intellettuale ricco e socialmente prestigioso. Uno scontro occasionale con il cavaliere di Rohan modificò tuttavia la sua situazione; schiaffeggiato in pieno giorno dai domestici del cavaliere e inviato alla Bastiglia per essersi voluto vendicare dell'offesa, scelse l'esilio in Inghilterra. Il soggiorno inglese, dal 1726 al 1729, lo mise in contatto con un ambiente intellettuale estremamente vivace e con spazi di libertà garantiti dal costituzionalismo parlamentare; conquistato dalla filosofia di J. Locke e dalla nuova scienza di I. Newton, dal teatro di W. Shakespeare e dalla poesia di J. Milton, frequentò gli ambienti dell'aristocrazia e dell'alta finanza, intrattenendosi con personaggi di primo piano come H. Walpole, W. Congreve, J. Gay, G. Berkeley, A. Pope, H. Bolingbroke, e interessandosi alle ricerche su movimenti religiosi (in particolare sui quaccheri e sui presbiteriani). Fu in questo periodo che Voltaire maturò una filosofia politica di segno liberale, stabilendo un rapporto fecondo con la sua generale situazione di letterato anticonformista e impegnato sul terreno della società civile. Ai principi della tolleranza politica e religiosa, vivi in Inghilterra e repressi in Francia, dedicò le Lettere filosofiche o Lettere sugli inglesi [Lettres philosophiques o Lettres sur les anglois] pubblicate nel 1733 a Londra [col titolo Letters Concerning the English Nation] e nel 1734 a Parigi.

Rientrato in Francia, nel 1732 riscosse un grande successo con il dramma « cristiano » Zaire e con la sferzante satira in versi e prosa Il tempio del gusto [Le tempie du goùt, 1733], volta a ridicolizzare i luoghi comuni della letteratura conformista; una buona accoglienza era stata riservata anche alle tragedie Bruto [Brutus, 1730] e La morte di Cesare [La mort de Cesar, 1731]. Ma il soggiorno parigino fu presto turbato da una « lettre de cachet »; per sfuggire a un nuovo arresto, Voltaire si trasferì in Lorena, nel castello di Cirey, ospite di Mme Emilie de Chàtelet, di cui divenne l'amante. Vi rimarrà per quasi un decennio, dedicandosi a un'intensa produzione letteraria e coltivando sempre più forti interessi scientifici.

Già nel 1731, a Parigi, la sua Storia di Carlo XII [Histoire de Charles XII], un primo saggio nel genere storiografico, era stata sequestrata perché la censura aveva creduto di ravvisarvi allusioni offensive nei riguardi di Stanislao Augusto di Polonia, suocero di Luigi XV; ora, vicino alla frontiera lorenese, Voltaire si sentiva al sicuro, nelle condizioni di mettersi in salvo in caso di necessità. Durante il soggiorno a Cirey, interrotto da una fuga in Olanda in seguito alla pubblicazione del poema Mondano [Mondain, 1736], apologia del piacere e critica del rigorismo giansenista, e da alcuni viaggi all'estero, Voltaire toccò il culmine della sua fecondità: scrisse un Trattato di metafisica [Traité de métaphysique], gli Elementi della filosofia di Newton [Eléments de la philosophie de Newton, 1736], il poema filosofico Discorso sull'uomo [Discours sur l'homme, 1738], iniziò grandi opere storiografiche che furono terminate negli anni successivi, come Il secolo di Luigi XIV [Le siècle de Louis XIV], e il Saggio sui costumi [Essai sur les moeurs], continuò a comporre tragedie, rappresentandole personalmente nei saloni del castello di Cirey: Alzira [Alzire, 1736], Zulime (1740), Maometto [Mahomet, 1741-42], Merope [Mérope, 1743].

Intrattenne inoltre una corrispondenza estesa all'intera Europa, particolarmente intensa con Federico di Prussia, che egli conobbe nel 1740. Dopo il 1743 Voltaire, protetto a Parigi da D'Argenson e Mme de Pompadour, riacquistò per qualche tempo il favore della corte. Il Poema di Fontanoy [Poème de Fontanoy, 1745], celebrazione di una vittoria militare francese, gli valse la nomina di storiografo del re e di gentiluomo ordinario della camera del sovrano. Eletto, nel 1746, all'Académie Francaise, scrisse per la corte opere di teatro -  La principessa di Navarra [La princesse de Navarre, 1745] - e libretti d'opera, fra cui Il tempio della gloria [Le tempie de la gioire, 1745]. Ma il favore della corte non durò a lungo, e Mme de Pompadour preferì le tragedie di P. Crébillon alle sue. Voltaire accolse la sfida, e compose opere teatrali sugli stessi temi del rivale: Semiramide [Sémiramis, 1750], Catilina (1750), proponendo nello stesso tempo nuovi generi letterari come il racconto filosofico (Zadig, 1747) e il pamphlet, anonimo o firmato con uno pseudonimo.

Nel 1749 Mme de Chàtelet, che si era legata al poeta J.-F. de Saint-Lambert, morì di parto; Voltaire, sconvolto, accettò la richiesta di Federico di Prussia di recarsi a Berlino. Accolto trionfalmente nel giugno del 1750, egli irritò presto il re « illuminato » con le sue avventure finanziarie e con un suo feroce attacco al fisico P.-L. de Maupertuis, presidente dell'Accademia di Prussia: Diatriba del dottor Akakia [Diatribe du dr. Akakia, 1752]. All'inizio del 1753 era costretto a lasciare Berlino, subendo l'affronto di una perquisizione e di un arresto per ordine del re; nel soggiorno berlinese aveva terminato Il secolo di Luigi XIV (1751) e il racconto filosofico Micromega [Micromégas, 1752]. Attraversando l'Alsazia e sapendo di non essere gradito a Parigi, Voltaire si stabilì a Saint-Jean, alla periferia di Ginevra, nella villa da lui chiamata « Les Délices », facendovi rappresentare opere teatrali che avrebbero presto scandalizzato i calvinisti. Turbato dalle notizie sul terremoto di Lisbona, scrisse il Poema sul disastro di Lisbona [Poème sur le désastre de Lisbonne, 1756], al cui pessimismo risponderà J.-J. Rousseau con una Lettera sulla provvidenza (1756), mentre proseguiva l'intensa produzione di opere teatrali: la tragedia L'orfano della Cina [L'orphelin de la Chine, 1755], l'irrispettosa parodia di Giovanna d'Arco nei modi della tradizione ariostesca, La Pulzella [La Pucelle, 1755], un'esposizione verseggiata della morale deista, La legge naturale [La loi naturelle, 1756], e una grande opera di filosofia della storia, il Saggio sui costumi (1756). Dopo un breve soggiorno nei dintorni di Losanna (1757), dove entrò in contrasto con la morale calvinista della repubblica, Voltaire acquistò nel 1758 il castello e il terreno di Ferney, territorio francese alle porte di Ginevra, e qui visse da caritatevole signore fino agli ultimi anni della vita (fra l'altro creò a Ferney fabbriche di calze di seta, di orologi ecc.). Vi insediò la nipote Denis, con cui viveva in un rapporto matrimoniale da molti anni, e vi ricevette generosamente ospiti provenienti da ogni parte d'Europa.

A questo periodo risale il romanzo Candido [Candide, 1759], uno dei suoi capolavori, che segna forse una svolta nella carriera dello scrittore. Pur continuando a scrivere tragedie in versi — Tancredi [Tancrède, 1764], Il triumvirato [Le triumvirat, 1764], Gli sciti [Les scythes, 1767], I guebri [Les guèbres, 1769], I pelopidi [Les pélopides, 1772], Le leggi di Minosse [Les los de Minos, 1772], Sofonisba [Sophonisbe, 1774], Irene [Irene, 1778] — Voltaire si dedicava sempre più alla difesa della sua filosofia deista contro l'ortodossia cattolica e soprattutto contro i gesuiti; contemporaneamente prendeva posizione contro l'ateismo, in particolare contro P.-H.D. d'Holbach, e attaccava Rousseau. Ma soprattutto si ergeva a difensore di tutti coloro che erano colpiti dall'ingiustizia e dall'intolleranza dei tribunali. Già nel 1757 era intervenuto in difesa dell'ammiraglio inglese Byng, accusato di tradimento e condannato a morte. Si impegnò poi per la riabilitazione dell'ugonotto J. Calas, giustiziato nel 1756 sotto la falsa accusa di aver assassinato il proprio figlio convertito al cattolicesimo, e per quella del cavaliere di La Barre, decapitato per aver bestemmiato al passaggio di una processione; difese a spada tratta Sirven, un protestante condannato a morte, e ne ottenne la scarcerazione. Si batté anche, con successo, per la riabilitazione del governatore generale Th.-A. Lally, giustiziato dopo la sconfitta francese in India; si adoperò per la liberazione dei servi della gleba del paese di Gex e del Giura; attaccò gli abusi del parlamento.

Questo suo impegno di lotta prese la forma di dialoghi e lettere, libelli e pamphlets, facezie ed epigrammi: Voltaire li chiamava i suoi « razzi », le sue rogazioni, i suoi piccoli pàtés. Il « patriarca di Ferney » era animato da una frenesia combattiva che gli faceva scoprire tutte le risorse di una scrittura rapida e nervosa, tra lo scherno distruttivo e l'eloquenza dell'indignazione. Nella sua produzione più tarda spicca la serie dei racconti: L'uomo dei quaranta scudi [L'homme aux quarante écus], Storia di Jenny [Histoire de Jenny], Il Bianco e il Nero [Le Blanc et le Noir], Jeannot et Colin, La principessa di Babilonia [La princesse de Babylone] e, bellissimo tra tutti, L'ingenuo [L'ingénu, 1767].

Da ricordare anche le opere filosofiche non sistematiche, composte di capitoli brevi o brevi articoli, che ebbero un'incidenza particolarmente efficace: il Trattato sulla tolleranza [Traité sur la tolérance, 1763], il Dizionario filosofico [Dictionnaire philosophique, 1764], le Questioni dell'Enciclopedia [Questions sur l'Encyclopédie, 1770-72],

Nel febbraio 1778 Voltaire rientrò a Parigi, ricevendo un'accoglienza trionfale: venne pubblicamente incoronato d'alloro e, al termine della rappresentazione dell'ultima tragedia, Irene, venne incoronato anche il suo busto. I massoni delle Nove sorelle lo accolsero nella propria loggia. Al culmine dell'apoteosi, sfinito, morì nel maggio dello stesso anno. Gli venne rifiutata la sepoltura ecclesiastica, ma tredici anni più tardi, durante la rivoluzione, le sue spoglie furono trasportate in trionfo al Panthéon, e tumulate accanto alla tomba di Rousseau.

L'immagine che di Voltaire si è affermata è stata quella di un uomo ricco di vivacità e spirito, il cui simbolo consisterebbe nel celebre sorriso. Troppo spesso si dimentica che quest'uomo è uno « scorticato vivo », che nei suoi sentimenti rappresenta la mobilità estrema, passando dal sarcasmo alle lacrime di commozione, dal rancore alla generosità. La sola idea della violenza, del fanatismo e del sangue versato lo fa ammalare; ogni anno, per l'anniversario della notte di San Bartolomeo, è febbricitante. Egli auspica un'umanità pacifica, dedita ad attività utili; ma è anche letterato geloso della propria supremazia e pronto a ogni aggressività verso i rivali, a ogni risposta nei confronti dei detrattori più insignificanti. Voltaire ha bisogno di avversari per esprimere pienamente le proprie facoltà intellettuali, e non sempre riesce a evitare forme di meschinità. Impetuoso e imprudente, ma anche intrigante, calcolatore e capace di procurarsi degli appoggi, poco incline a rivelare i segreti della propria vita ma sempre pronto a procurarsi pubblicità, fermissimo nei progetti a lungo termine ma aperto alle sollecitazioni del momento, Voltaire non è una personalità semplice e non è riducibile a una formula univoca.

L'opera

Voltaire volle innanzitutto essere un poeta, sempre, per tutta la vita. Cercò il sublime nella tragedia e nella poesia epica, ma non seppe che applicare, sia pure con abilità, le formule acquisite dal classicismo. Pur criticando i predecessori, rimase fedele, nei «generi elevati», alle norme del gusto e della convenienza.

Fece conoscere Shakespeare ai francesi, ma lo condannò nelle Lettere all'Accademia [Lettres à l’Académie, 1776]. Poco incline a concepire il tragico come risultato di un conflitto tra la volontà umana e un potere superiore, egli trasse dalla mitologia o dalla storia intrecci che costituiscono per lo più un pretesto per difendere la causa della ragione, della tolleranza, del bene pubblico, dell'eguaglianza di condizioni e, talvolta, in occasione di qualche avvenimento contemporaneo, per aggiungervi un commento allusivo.

La sua tragedia più famosa, Maometto, ha contribuito non poco ad accreditare un'immagine della religione che, risultato di un'impostura clericale, mira a sottomettere gli uomini in nome della credulità e del fanatismo. La Enriade, in cui i francesi credettero di aver finalmente trovato la loro epopea, è un'arringa in favore della concordia religiosa, e manca di una vera dimensione epica. Le sue commedie, a volte sentimentali — Il figliol prodigo [L'enfant prodigue, 1736], Nonnina [Nanine, 1749] —, a volte satiriche — La scozzese [L'écossaise, 1760] —, non hanno pregi particolari. Assai più efficace Voltaire si dimostra nel genere « medio » dell'epistola, nei suoi discorsi in versi (sulla legge naturale, sull'uomo, sul terremoto di Lisbona). Certo, egli ha un grosso debito con Pope e, più remoto, con Orazio, ma bisogna dire che gli si confà quel genere in cui il movimento del pensiero può svolgersi libero e vicino alla conversazione, pur piegandosi alle convenzioni di un ritmo imposto dal verso alessandrino.

Nelle forme più leggere, nella poesie fugitive e nell'epigramma, Voltaire lascia libero corso al suo senso dello scherzo e del gioco: senza essere né un inventore di immagini né un musicista del linguaggio, sa dire cose bizzarre, imprevedibili e irrispettose in una misura breve e ben modulata. Ben altrimenti importante è il contributo di Voltaire a una concezione nuova della storia. Se la Storia di Carlo XII era ancora il racconto delle bizzarrie di un personaggio assai singolare, Il secolo di Luigi XIV e il Saggio sui costumi inaugurano un nuovo metodo storiografico che non intende più applicarsi alla biografia dei monarchi ma alle istituzioni, all'economia, alle opinioni, alle produzioni artistiche, cioè a quello che oggi definiamo « cultura » o « civiltà ». Attento a tutti i fattori che contribuiscono alla prosperità o alla miseria collettive, Voltaire mette così in chiara evidenza un nuovo oggetto della ricerca storica.

Il criterio applicato alla storia, sulla base del quale viene giustificata la politica, è quello della felicità pubblica. Si potrà dire che Voltaire giudica da borghese: non gli interessano né la gloria del principe né quella di Dio. Così condanna le conquiste, le crociate, le lotte religiose, in qualunque forma si presentino. Il meglio che gli uomini possano fare consiste nel rendere sopportabile o, meglio, confortevole la propria esistenza terrena. Occorre quindi che seguano la ragione (piuttosto che i dogmi e i sentimenti), e che non rifiutino ipocritamente le felicità materiali che su questa terra si possono incontrare. Ed è nella speranza di affrettare il regno della ragione che Voltaire conduce una lotta così vivace per écraser l'infame. Invano si ricercherebbe tuttavia nei suoi scritti una esplicita teoria del progresso. Voltaire ritiene gli uomini capaci di liberarsi dal fanatismo e dalla violenza, ma li ritiene anche fallibili e capaci di ricadere a ogni istante nelle follie più terribili. La storia ha senso solo in quanto gli uomini riescono a sottrarsi all'assurdo.

Alla conclusione di un'epoca di guerre di religione, Voltaire denuncia soprattutto l'intolleranza cristiana, ricercandone le origini nella storia della chiesa e attaccando duramente l'Antico Testamento e gli ebrei. Questo attacco ha potuto assumere un aspetto ossessivo e aggressivo, e si può dire giustamente che ha costituito una delle fonti dell'antisemitismo moderno. In Voltaire questo atteggiamento trova il proprio antidoto in un deismo conciliante che relativizza i riti per appellarsi a un Dio impersonale che ogni uomo ragionevole è in grado di onorare. Come servire questo Dio, garante delle leggi della natura? Con la concordia e l'armonia che gli uomini attuerebbero tra di loro, con la messa al bando di ogni persecuzione. Ci si potrebbe aspettare da Voltaire una precisione maggiore nella professione del suo deismo: la sua filosofia è potuta sembrare un « caos di idee chiare » (E. Faguet).

Voltaire ritiene più urgente ricordare i doveri della morale pratica, perché ha bisogno di agire subito, di avere una presa immediata sulle situazioni che chiedono di essere trasformate. Per questo è un riformatore appassionato e non un utopista; si adatta all'ordine politico esistente (la monarchia) a condizione di abolire gli abusi particolari, i privilegi ingiusti, le abitudini oppressive: tutti compiti che possono essere assolti tanto da un despota illuminato quanto da un regime parlamentare. In questo, più attento ai fini e ai risultati che ai mezzi, egli testimonia il proprio senso della realtà. In ogni caso, Voltaire auspica che l'individuo impari ad aiutarsi da sé attraverso il proprio sforzo e il proprio lavoro; egli vuole che gli uomini non si affidino all'armonia prestabilita o alla provvidenza per trarne una motivazione di fiducia cieca o di pigrizia.

Zadig induce a pensare che le vie della provvidenza siano molto simili a quelle del caso. Candido, questo manifesto contro l'ottimismo leibniziano e il « tutto va bene » di Pope, mostra che il mondo è in preda al male fisico e morale, e non bisogna aspettarsi che la virtù sia ricompensata e il male punito. Troviamo un rimedio precario contro « le convulsioni dell'inquietudine » e « il letargo della noia » soltanto dedicandoci a « coltivare il nostro giardino ». E ancora occorre, come Candido, aver accettato l'esilio e la serie infinita delle delusioni. Huron (il protagonista dell'Ingenuo) raggiunge una certa saggezza e un ruolo onorevole nella società solo dopo essere stato imprigionato alla Bastiglia e aver perduto la donna amata. A condizione di volerlo attivamente, possiamo raggiungere un benessere assai esile, che può permetterci di dimenticare molte miserie. Se non tutto è bene, tutto è sopportabile.

Nella prosa di Voltaire, i tagli binari, asimmetrici, esprimono in modo preciso e vivo questo duplice aspetto delle cose: tutto sembra essere contro di noi, ma la partita è persa solo per chi cede alla disperazione. Ciò che appare tragico, visto sotto un altro aspetto suscita il riso. Queste caratteristiche di pensiero e di stile si incontrano allo stato puro nell'immensa corrispondenza di Voltaire, che alcuni considerano la sua opera più importante. Il lettore ha l'impressione di assistere al movimento di uno spirito che, senza perdere di vista l'obiettivo, trascrive il proprio umore e le proprie trovate nel momento stesso in cui sente e inventa. Nessun epistolario più di quello di Voltaire dà l'impressione dell'attualità vissuta dalla coscienza.

La fortuna

Il successo di Voltaire si misura dalle edizioni delle Opere complete: circa cinquanta in un secolo, a partire dal 1740. La più nota fu pubblicata a Kehl (70 voll., 1784-90) a cura di P.-A. de Beaumarchais. Il teatro voltairiano venne rappresentato e applaudito fino alla restaurazione; il modello classico della tragedia, di cui Voltaire fu sostenitore e difensore, conservò tutta la sua autorità per gli scrittori ufficiali della rivoluzione (si pensi a M.-J. Chénier). È importante ricordare che il primo romanticismo, con la sua nostalgia del passato religioso, con il suo culto del sentimento e le sue opzioni monarchiche, rivolse gli strali di una critica insistente contro il « riso » di Voltaire, contro l'angustia del suo razionalismo. Voltaire sconcertò F.-R. de Chateaubriand: « Tranne che in alcuni capolavori, si limita a scorgere il lato ridicolo delle cose e dei tempi, e mostra l'uomo all'uomo sotto una luce orribilmente gaia. Con la sua mobilità affascina e stanca, incanta e disgusta... » Mme de Staël, che ancora nel 1800 (Della letteratura considerata nei suoi rapporti con le istituzioni sociali) aveva additato in Tancredi un capolavoro di sensibilità, nel 1812 scorgeva in Candido un'« opera di gaiezza infernale: sembra infatti scritta da un essere di natura diversa dalla nostra, che, indifferente al nostro destino e contento delle nostre sofferenze, come un demonio o come una scimmia ride delle miserie di questa specie umana, con cui non ha niente in comune ». Queste osservazioni misconoscono, significativamente, la compassione e l'indignazione che in Voltaire accompagnano l'ironia sulle miserie umane: durante tutta l'epoca romantica, egli è l'uomo dal « sorriso odioso ».

Per Ch. Baudelaire rappresenta il simbolo dello spirito francese, a riprova del fatto che i francesi non sono poeti, « mi annoio in Francia, perché tutti somigliano a Voltaire », e Voltaire è « l'antipoeta, il re dei bighelloni, il principe dei superficiali, il predicatore delle portinaie ». Nel personaggio trionfante di Monsieur Homais, in Madame Bovary, Flaubert ha voluto ritrarre il piccolo borghese voltairiano. Il voltairianismo è concepito come buon senso positivo, di corte vedute, insensibile al mistero, « la perfezione delle idee comuni ».

Durante la terza repubblica, quando l'ideale dello stato laico e tollerante si afferma, la polemica antivoltairiana lascia il campo a valutazioni più serene: Voltaire è un antenato che non si rinnega più, ma che appartiene al passato. Lo dice chiaramente F. Brunetière nei suoi Studi critici; « Voltairiani senza saperlo e perfino senza volerlo essere, è là che abbiamo le nostre radici. » Durante il nostro secolo non si è tuttavia smesso di accusare Voltaire di superficialità: fuori dalle università, di lui non si leggono che i romanzi e i racconti. Oggi il sistema storico, pedagogico e politico-sociale di Rousseau esercita una più forte attrazione; il monismo e le teorie estetiche di D. Diderot interessano molto di più gli studiosi. Si ripubblica Voltaire, ma gli vengono dedicate sempre meno frequentemente analisi attente. Il suo spirito, lo stile delle sue osservazioni dirette contro i paralogismi del pensiero dogmatico, restano tuttavia più necessari che mai. Lo ha riconosciuto B. Russell: « Voltaire ha contribuito a insegnarmi che è necessario evitare ogni dogmatismo. Quand'anche un'opinione sia giusta, basta che sia professata dogmaticamente per diventare dannosa.

(Jean Starobinski)

Candido o l'ottimismo. Al giovane Candido, allevato in un castello, il filosofo Pangloss ha insegnalo come tutto sia bene in questo mondo che è il migliore possibile. È difficile però per Candido provare la verità delle teorie di Pangloss quando è cacciato dal castello per aver amoreggiato con la baronessina Cunegonda; quando apprende dal malato Pangloss che il castello è stato saccheggiato e gli abitanti uccisi, e assiste al terremoto di Lisbona, all'impiccagione di Pangloss. e ritrova Cunegonda mantenuta di lusso; quando infine è costretto a uccidere due uomini. Solo in Eldorado, nell'America del sud dove l'hanno condotto molte avventure, trova uomini privi di avidità e crudeltà. In Argentina egli si è dovuto separare da Cunegonda; dopo molte avventure, accompagnato dal pessimista Martino, la rintraccia a Costantinopoli, ma trasformata in megera dai patimenti. Non conviene, conclude Candido con Pangloss sopravvissuto alla forca, porsi domande sull'esistenza umana.