Classi medie

 

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Enciclopedia delle scienze sociali

di Angelo Pichierri

sommario: 1. Classi medie e modelli dicotomici di stratificazione. 2. Le classi medie nella struttura di classe dei paesi industrializzati. 3. La tradizione marxista. 4. La tradizione weberiana. 5. La mobilità sociale: proletarizzazione e imborghesimento. 6. La mobilitazione politica: classi medie e fascismo. 7. Strategie di chiusura, privazione relativa, gruppi d'interesse. □ Bibliografia.

1. Classi medie e modelli dicotomici di stratificazione

L'espressione 'classe media' diventa di uso comune nel XIX secolo come sinonimo di 'borghesia imprenditoriale', per indicare cioè la classe che per reddito, prestigio e potere occupa una posizione intermedia tra l'aristocrazia e il proletariato. Col progressivo peggioramento della posizione relativa della vecchia classe dominante, e la sua sostituzione a opera della nuova classe imprenditoriale, l'espressione 'classe media', il suo sinonimo 'ceto medio' e i loro plurali passano a indicare quei gruppi sociali che, non appartenendo né alla borghesia né al proletariato, si collocano tra i due occupando una dimensione rilevante della stratificazione sociale.

Per scontato che possa sembrare, è necessario notare fin dall'inizio che parlare di classi medie implica che: a) si considerino le classi come attori rilevanti nella struttura sociale; b) si faccia riferimento a due classi estreme rispetto alle quali una o più altre occupano una posizione di mezzo.

Da queste osservazioni ne derivano altre a volte paradossali, relative al rapporto tra il concetto di classe media e le teorie sociologiche della struttura di classe, e in particolare quelle di tali teorie che usano schemi dicotomici.

I concetti di classe e di struttura di classe non coincidono con quello di stratificazione sociale, con cui sono se mai in un rapporto da specie a genere. L'espressione 'stratificazione sociale' fa riferimento a diversi modelli di classificazione delle diseguaglianze sociali strutturate: gli strati che questi individuano non sono attori sociali collettivi nel senso in cui lo sono le classi. La contrapposizione tra teorie della stratificazione sociale e teorie delle classi è ancora più evidente quando le seconde usano schemi dicotomici, che dividono la società tra governanti e governati, ricchi e poveri, quelli per cui si lavora e quelli che lavorano (v. Ossowski, 1957, cap. 2).

Ora, se da una parte l'espressione 'classe media' fa implicitamente riferimento a un qualche modello dicotomico (e non pluralisticamente articolato) di struttura di classe (e non di stratificazione sociale), dall'altra parlare di classe media fa compiere un passo in direzione di modelli di stratificazione, che generalmente prevedono una pluralità di strati. In questi modelli ogni strato, tranne i due estremi, è in qualche modo 'medio'. Accade così che, sebbene la dicotomia sia il presupposto della medietà, in ogni interpretazione dicotomica della struttura di classe le classi medie abbiano un ruolo secondario, disturbante, transitorio: lo si vedrà in particolare a proposito dell'opera di Marx.

Che il concetto di classe media sia contraddittoriamente ma inestricabilmente legato a interpretazioni di tipo dicotomico è provato anche dalla sua scarsa presenza e dalla sua scarsa rilevanza nei modelli di tipo funzionalistico, anch'essi in genere pluralistici. Anche negli schemi di tipo funzionalistico è possibile individuare due classi estreme in cui reddito, prestigio e potere sono molto più elevati o molto più bassi di quelli di altre classi, 'medie'. Ma se l'accento è posto sulle funzioni svolte da determinate classi, è difficile individuare una gerarchia che renda sensato parlare di classi medie: nell'apologo di Menenio Agrippa ogni organo del corpo umano svolge una funzione egualmente indispensabile. Se invece l'accento è posto sui compensi ottenuti (i sociologi hanno di solito misurato reddito e prestigio), si ricade nella pluralità di strati che rende difficile parlare di classi medie. Ulteriori elementi di complicazione derivano dall'introduzione della dimensione soggettiva. L'autoassegnazione a (l'identificazione con) una classe presuppone intanto che l'individuo che la compie abbia una visione strutturata della società in cui vive, nella quale le classi siano un elemento rilevante. Ma l'autoassegnazione alla classe media implica assai spesso forti elementi normativi, una visione non conflittuale della società, fiducia nelle autorità tradizionali. Anche a prescindere dalle obiezioni metodologiche che di solito si possono rivolgere alle surveys che prevedono domande su questo tema, è quindi quantomeno imprudente dedurre proposizioni sulla strutturazione reale dell'ineguaglianza sociale, in una data società, dall'autoassegnazione di classe dei soggetti interessati, ritenendo, ad esempio, che la crescita del numero delle persone che si considerano classe media corrisponda davvero alla crescente unificazione della situazione di lavoro e di mercato di una vasta parte della popolazione.

Su alcuni di questi problemi torneremo nei capitoli successivi, per discutere le diverse soluzioni teoriche che sono state per essi proposte.

Ma prima converrà dedicare qualche rapido cenno alle caratteristiche empiriche e all'evoluzione delle classi medie. Parleremo in genere di 'classi medie' al plurale: l'espressione 'classe media' è diventata estremamente generica a partire dal momento in cui, non designando più la borghesia imprenditoriale, ha cominciato a designare gruppi così diversi come i contadini e i liberi professionisti, gli artigiani e i burocrati. Dati i limiti di questo articolo, il campo di osservazione sarà costituito dai paesi capitalistici industrializzati, nell'ambito dei quali il concetto è stato elaborato e prevalentemente usato.

2. Le classi medie nella struttura di classe dei paesi industrializzati

Dopo le rispettive rivoluzioni industriali, in ognuno dei paesi capitalistici oggi 'avanzati' la struttura di classe è caratterizzata dalla presenza delle due fondamentali classi degli imprenditori e degli operai industriali. Non sempre e non subito queste due classi diventano rispettivamente dominante e maggioritaria. Il fatto che esse siano comunque le classi caratteristiche della nuova formazione sociale fa sì che le altre classi debbano essere in qualche modo definite in rapporto a esse.

Il grosso delle altre classi può esser fatto rientrare nella piccola borghesia 'relativamente autonoma' e nella piccola borghesia 'impiegatizia' (v. Sylos Labini, 1974). Della prima fanno parte i lavoratori autonomi, proprietari dei loro mezzi di produzione, che non impiegano, o impiegano in misura minima e occasionale, lavoro salariato: coltivatori diretti, commercianti, artigiani. Della seconda fanno parte gli impiegati pubblici e privati. Esistono poi gruppi sociali più difficilmente classificabili, come i liberi professionisti, il clero, i militari. Ognuna di queste classi ha avuto un'evoluzione diversa.Allo spostamento di popolazione attiva dall'agricoltura all'industria e ai servizi ha ovviamente fatto riscontro, in tutti i paesi capitalistici industrializzati, una drastica diminuzione del numero dei coltivatori diretti. In Gran Bretagna la riduzione degli addetti all'agricoltura precede e accompagna la rivoluzione industriale; in un paese late-comer come l'Italia i coltivatori diretti erano ancora il 22,5% della popolazione attiva nel 1881, e sono il 7,6% nel 1983; in Francia l'evoluzione è assai simile; negli Stati Uniti i dati sono ancora abbastanza simili nel 1890, ma la successiva riduzione è assai più drastica (v. Sylos Labini, 1986).

La permanenza o meno di una vasta classe contadina (e di una classe di grandi proprietari terrieri) nel corso del processo di industrializzazione è gravida di conseguenze non solo per la struttura di classe, ma anche per il sistema politico. Nell'interpretazione che dà B. Moore (v., 1966) delle "origini sociali della dittatura e della democrazia", i contadini vengono regolarmente strumentalizzati ai fini di soluzioni politiche autoritarie di destra, quando non costituiscono la base di massa di una rivoluzione comunista. Solo in Gran Bretagna e negli Stati Uniti - paesi in cui, per ragioni diverse, i contadini non sono più stati un soggetto rilevante dopo la rivoluzione industriale - la democrazia parlamentare si è affermata in maniera solida.Per la seconda componente della piccola borghesia autonoma, i commercianti, la tendenza secolare è quella della stabilità o addirittura della crescita. La crescita è clamorosa in Italia, dove i commercianti passano tra il 1881 e il 1983 dal 2,5 al 10,4% (v. Sylos Labini, 1986).

Nel caso dei coltivatori diretti come nel caso dei piccoli commercianti, l'evoluzione quantitativa della classe è fortemente condizionata dalle decisioni del potere politico: lo Stato interviene a più riprese per correggere una tendenza alla contrazione determinata dal mercato. È il caso delle bonifiche e dei programmi di riforma agraria che promuovono la proprietà contadina nell'Italia fascista e nell'Italia repubblicana; è il caso del complesso e costosissimo sistema di aiuti all'agricoltura della Comunità Economica Europea, che mantiene sul mercato produttori (non soltanto piccoli) di beni destinati all'immagazzinamento permanente e alla distruzione. Per quanto riguarda i commercianti, in tutti i paesi europei il loro numero è stato influenzato dall'atteggiamento più o meno permissivo assunto dal potere politico nei confronti della grande distribuzione. In Italia, per un lungo periodo di storia unitaria, la possibilità stessa di diventare commerciante dipese da una decisione del potere politico locale, attraverso l'istituto della 'licenza'. Recentemente la norma che ha reso obbligatorio per i piccoli commercianti l'uso dei registratori di cassa ha mostrato ancora una volta come l'adozione di un solo provvedimento legislativo possa influire in tempi brevi sulle dimensioni e la composizione di una classe.I casi citati mostrano chiaramente come la persistenza della piccola borghesia tradizionale non sia spiegabile in termini puramente economici. Le spiegazioni sociologiche più interessanti rimandano all'azione del potere politico, che protegge i ceti in declino per le funzioni che essi svolgono nel contenimento della disoccupazione, nel controllo dei lavoratori marginali, nella produzione di consenso (v. Berger, 1974; v. Pizzorno, 1980).

La distinzione tra piccola borghesia tradizionale e piccola borghesia moderna non passa solo attraverso le dimensioni dell'impresa: esistono grandi imprese gestite con criteri del tutto tradizionali e piccole imprese innovative. Ciò appare particolarmente importante nel caso della terza componente della piccola borghesia relativamente autonoma, gli artigiani, la cui evoluzione sembra più direttamente determinata dal mercato e dalle caratteristiche della struttura industriale. In termini generali si può parlare: a) di una riduzione del numero degli artigiani nella prima fase del processo di industrializzazione, quando un gran numero di microimprese vengono eliminate dalla concorrenza delle grandi e un gran numero di artigiani si proletarizzano in senso stretto, passano cioè nelle file del lavoro salariato; b) di tendenze contraddittorie nella fase 'fordistica' caratterizzata dalla grande fabbrica e dal lavoro a catena, in presenza però di una fitta rete di sub-fornitori e di 'nuovi artigiani' che svolgono attività di manutenzione e riparazione; c) di un recente aumento delle piccole imprese e dei lavoratori autonomi nella fase in cui al fordismo subentra la 'specializzazione flessibile' (v. Sabel, 1982). Quantificare queste affermazioni è però assai problematico, date le difficoltà di definizione, classificazione e quindi comparabilità che l'uso del termine 'artigiano' comporta. Lo stesso vale per 'piccolo imprenditore', 'lavoratore autonomo', o per l'inglese self-employed, non a caso non traducibile alla lettera in italiano. La legislazione di diversi paesi prevede una particolare normativa per artigiani diversamente definiti: ad esempio, in Italia in base al numero dei dipendenti e alla partecipazione del titolare al processo produttivo, nella Repubblica Federale di Germania in base al settore di appartenenza e al tipo di bene prodotto. Gli artigiani si collocano in un continuum a un estremo del quale troviamo il lavoratore autonomo che opera senza dipendenti, in una situazione che può configurare forme di lavoro dipendente mascherato (come nel caso in cui l'artigiano ha un unico cliente) e può prevedere periodici passaggi al lavoro dipendente (come accade in settori così diversi come l'edilizia e la produzione di software). Lungo il continuum si incontrano poi i piccoli imprenditori titolari di imprese in cui lavorano dei salariati: ma è difficile decidere in astratto quando un'impresa cessa di esser piccola per diventare media o grande, e quando un piccolo borghese diventa borghese.

La percezione e la valutazione della piccola impresa hanno rapidamente attraversato, specialmente in Italia, fasi contraddittorie non sufficientemente giustificabili con l'evoluzione dell'oggetto dell'indagine. Negli anni cinquanta e sessanta l'attenzione degli studiosi, ma anche quella degli operatori politici e sindacali, era prevalentemente assorbita dalla grande impresa, nonostante il fatto che, anche negli anni del 'miracolo economico', la maggior parte dei lavoratori industriali fossero impiegati presso imprese piccole e medie, la cui crescita numerica indicava rilevanti processi di mobilità ascendente. Alla fine degli anni sessanta la 'scoperta' del mondo della piccola impresa coincise con la sua interpretazione in termini di arretratezza o come risultato di una strategia di decentramento attuata dalle grandi imprese, volta a creare 'reparti staccati' dove i lavoratori potessero essere meglio controllati e sfruttati. Dalla metà degli anni settanta la consapevolezza del fatto che, almeno dal punto di vista dell'occupazione, le piccole imprese avevano retto alla crisi meglio delle grandi e la crescente notorietà dei successi economici dei 'distretti industriali' dell'Italia centrorientale, caratterizzati da reti di piccole imprese dinamiche e innovative, provocarono valutazioni spesso indiscriminatamente positive dei vantaggi economici e sociali della piccola dimensione.

Gli impiegati pubblici - gruppo sociale già chiaramente identificabile, anche se non particolarmente numeroso, al momento della formazione degli Stati nazionali - aumentano progressivamente con l'estendersi delle funzioni dello Stato e in particolare, nel XX secolo, con l'espandersi del sistema educativo e delle attività caratteristiche dello Stato assistenziale. Nel corso degli ultimi cent'anni circa la loro percentuale sul totale della popolazione attiva passa dal 4,1 al 15,8% in Italia; dal 5,4 al 20,4% in Francia; dal 6 al 21% nel Regno Unito; dal 7 al 17,4% negli Stati Uniti (v. Sylos Labini, 1986).

Gli sviluppi del Welfare State successivi alla seconda guerra mondiale sono stati spesso interpretati con modelli di "carattere 'dicotomico-evoluzionista', in cui il termine a quo - costituito dal mercato, con le sue modalità selettive ed i suoi limiti di soddisfacimento dei bisogni sociali - viene corretto e superato dal termine ad quem - un Welfare State sviluppato ed esteso" (v. Paci, 1982, p. 346). Nel caso della protezione sociale come in quello di una serie di servizi, sembra invece più utile ragionare in termini di mix tra Stato, mercato e 'terzo settore' (famiglia, comunità, associazioni volontarie), le cui variazioni possono dare esiti non unilineari per quanto riguarda l'evoluzione quantitativa del pubblico impiego.

Gli impiegati privati, in particolare dell'industria, sono un gruppo quantitativamente assai ristretto durante la prima fase del processo di industrializzazione. Proprio in relazione al loro basso numero si è spesso sottolineato il loro ruolo di stretti collaboratori e rappresentanti dell'imprenditore; ma ricerche recenti hanno mostrato almeno per un caso nazionale, quello della Germania, quanto vaga fosse la linea di separazione tra colletti bianchi e colletti blu ancora alla fine del XIX secolo, in netto contrasto con la situazione di pochi decenni dopo (v., Kocka, 1981). Sempre secondo le stime di Sylos Labini (v., 1986) per l'ultimo secolo, gli impiegati privati passano in Italia dallo 0,6 al 10,2%; in Francia dal 5,7 al 18,4%; nel Regno Unito dal 3,3 al 23,9%; negli Stati Uniti dal 14,7 al 49,1%.Assai rilevante appare, nell'industria, il fenomeno definito come 'burocratizzazione delle imprese' (v. Bendix, 1956, cap. 4) o come 'impiegatizzazione' (v. Gambetta, 1978). Si tratta della tendenza all'aumento percentuale dei lavoratori non manuali sul totale dei lavoratori industriali, oggi chiarissima, ma già visibile nella prima metà del XX secolo: negli Stati Uniti gli impiegati passano tra il 1889 e il 1947 dal 7,7 al 21% dei lavoratori industriali; in Francia, tra il 1901 e il 1936, dall'11,8 al 14,6%; in Gran Bretagna, tra il 1907 e il 1948, dall'8,6 al 20%; in Germania, tra il 1895 e il 1933, dal 4,8 al 14% (v. Bendix, 1956). Alla fine degli anni sessanta la percentuale degli impiegati sul totale dei dipendenti dell'industria è dell'11,3% in Italia, del 25% nella Repubblica Federale di Germania, del 24,1% in Francia, del 27,5% in Olanda, del 19% in Belgio, del 24,2% in Gran Bretagna (v. Gambetta, 1978). Dati di questo genere costituiscono un elemento importante dello sfondo delle teorie della proletarizzazione degli impiegati (v. cap. 5).

Anche a prendere con cautela le stime fin qui citate, e le categorie cui esse si riferiscono, la crescente rilevanza quantitativa e funzionale delle classi medie risulta evidente. Oltre che da ragioni puramente intellettuali, l'interesse per questi gruppi sociali è stato dettato dal desiderio di spiegare e prevedere il loro comportamento politico, risultato decisivo in più di una circostanza storica. In particolare, come vedremo, l'analisi delle caratteristiche e del comportamento delle classi medie è stata un passaggio obbligato delle interpretazioni sociologiche del fascismo (v. Saccomani, 1977).

3. La tradizione marxista

Come è stato più volte osservato, nell'opera di Marx il concetto di classe, sebbene centrale, non è definito con precisione né trattato sistematicamente. A maggior ragione questo vale per le classi medie e per la loro posizione nella struttura di classe. In quella che S. Ossowski chiama "la sintesi marxiana", la piccola borghesia "viene definita applicando contemporaneamente due criteri, ciascuno dei quali separatamente costituisce una base per una demarcazione dicotomica delle classi sociali" (v. Ossowski, 1963; tr. it., p. 87). La prima dicotomia è quella tra classi che posseggono e classi che non posseggono gli strumenti di produzione; la seconda è quella tra classi lavoratrici e classi non lavoratrici. La piccola borghesia è composta da coloro che posseggono propri mezzi di produzione e li adoperano personalmente; in una versione più restrittiva il secondo criterio comporta che non si utilizzi in alcun modo lavoro salariato. La definizione, come si vede, riguarda le classi medie tradizionali e non la nuova classe media impiegatizia, che costituirà in seguito per i marxisti un difficile problema teorico e pratico. Ossowski fa poi notare la presenza (marginale) in Marx di un'interpretazione delle classi medie fondata su uno schema di gradazione, in cui la collocazione di classe varia al variare dell'ammontare del capitale e delle dimensioni dei mezzi di produzione, e la presenza (rara, ma non marginale) di uno schema funzionalistico di origine smithiana (proprietari di sola forza lavoro, proprietari di capitale, proprietari fondiari) in cui non c'è posto per classi intermedie.

Nell'opera di Marx coesistono quindi schemi interpretativi diversi, da cui è possibile ricavare una struttura a più classi. Lo stesso Marx, in opere come Il 18 brumaio, ricava dalla 'struttura stabile' dicotomica una 'struttura mobile' articolata, attraverso l'uso di variabili politiche, organizzative, istituzionali (v. Pizzorno, 1980, p. 68). La dicotomia tra capitalisti e proletari resta tuttavia fondamentale, soprattutto perché indica la direzione dell'evoluzione storica, nel corso della quale le classi medie sono destinate a scomparire progressivamente. Sta qui l'origine delle teorie della proletarizzazione, con le quali tanti marxisti cercheranno in seguito di spiegare e prevedere l'evoluzione della vecchia e della nuova classe media. Come sottolinea efficacemente Giddens, in Marx il modello 'astratto' o 'puro' di struttura di classe è sempre dicotomico. "Le classi medie sono o classi transitorie o segmenti delle classi fondamentali": classi transitorie e segmenti di classe complicano il modello dicotomico, ma è questo che si afferma progressivamente, con la loro eliminazione (v. Giddens, 1973, cap. 1).
I termini essenziali del dibattito sulle classi medie in campo marxista si profilano chiaramente già alla fine del secolo scorso. 'Revisionisti' come Bernstein, David, Kampffmeyer - confutati dagli 'ortodossi' Kautsky, Pannekoek, Lenin - anticipano molte delle obiezioni rivolte a Marx dalla sociologia contemporanea (v. Fetscher, 1964; tr. it., vol. II, p. 278). La previsione della progressiva proletarizzazione delle classi medie e della progressiva polarizzazione della struttura e del conflitto di classe si scontra con la persistenza delle classi medie tradizionali e soprattutto con la crescita della nuova classe media degli impiegati e dei tecnici, cui Marx aveva dedicato solo rapidissimi cenni. Il comportamento di questi gruppi sociali diventa potenzialmente determinante nei conflitti sindacali e politici: il movimento socialista si pone il problema dell'alleanza con le (nuove) classi medie, e i suoi intellettuali si pongono il problema della loro collocazione nella struttura di classe, nella convinzione che l'individuazione di tale collocazione, e degli interessi 'oggettivi' che essa comporta, permetta di prevederne il comportamento politico.

Nella definizione della collocazione di classe della piccola borghesia impiegatizia sono state regolarmente usate altre due dicotomie: la prima, fondata sull'osservazione e sul senso comune, è quella tra lavoro manuale e lavoro intellettuale o, in modo più neutro, non manuale; la seconda, tipica della tradizione marxista, è quella tra lavoro produttivo e lavoro improduttivo.In una classificazione particolarmente rigorosa e restrittiva (v. Poulantzas, 1974, parte III) - e come tale presa a bersaglio favorito da un critico neoweberiano (v. Parkin, 1979, cap. 2) - le due dicotomie vengono combinate distinguendo tra lavoro salariato a) produttivo intellettuale, b) produttivo manuale, c) improduttivo intellettuale, d) improduttivo manuale. Solo il lavoro produttivo manuale caratterizza la classe operaia, mentre gli altri tre tipi individuano diverse componenti della piccola borghesia.

La distinzione tra lavoro produttivo e lavoro improduttivo è stata al centro di una lunga controversia teorica, che non possiamo qui ricostruire e che ha lasciato seri dubbi sulla sua fondatezza. Inoltre, essa si è rivelata inutile al fine della spiegazione e della previsione degli atteggiamenti e comportamenti politici dei gruppi sociali che pretendeva di individuare.
Commentando tentativi di questo genere, Parkin ha scritto che "indipendentemente dal rigore scientifico e dalla precisione con cui sono definite le categorie tassonomiche, sembra che i principali gruppi sociali continuino ad agire nella più palese indifferenza rispetto a tali categorie" (v. Parkin, 1979; tr. it., p. 22). La critica di Parkin non si limita a questo, e considera del tutto incoerenti i tentativi di marxisti come Poulantzas e Carchedi di introdurre nell'analisi delle classi variabili politiche e ideologiche, perché i conflitti politici "non corrispondono mai ai confini del modello delle classi" (ibid., p. 23). Affermare che non vi sia mai corrispondenza tra posizione di classe e comportamento politico sembra francamente eccessivo. È vero però che, come mostrano l'osservazione e la ricerca empirica, la formazione di identità collettive e i comportamenti che ne conseguono dipendono da variabili talmente diverse che la posizione di classe non sembra un predittore privilegiato.

D'altro canto, in un'opera ricca, articolata, e anche internamente contraddittoria come quella di Marx, non mancano appigli per una definizione delle classi in cui gli aspetti soggettivi e culturali, da una parte, e le forme della rappresentanza degli interessi, dall'altra, abbiano un peso rilevante. È il caso del passo frequentemente citato sui contadini francesi: "Nella misura in cui milioni di famiglie vivono in condizioni economiche tali che distinguono il loro modo di vita, i loro interessi e la loro cultura da quelli di altre classi e li contrappongono a esse in modo ostile, esse formano una classe. Ma nella misura in cui tra i contadini piccoli proprietari esistono soltanto dei legami locali, e l'identità dei loro interessi non crea tra di loro una comunità, una unione politica su scala nazionale e una organizzazione politica, essi non costituiscono una classe" (v. Marx, 1852; tr. it., pp. 208-209).Una prospettiva di questo genere risulta però compiutamente sviluppata solo con Max Weber.

4. La tradizione weberiana

Nell'analisi weberiana delle classi presenti nella formazione sociale capitalistica compaiono, tra le classi medie, la piccola borghesia tradizionale e i colletti bianchi (v. Weber, 1922; tr. it., vol. I, p. 302). Dei secondi viene chiaramente riconosciuta la crescente importanza, e la progressiva erosione della prima viene attribuita al suo passaggio nelle file dei lavoratori manuali altamente specializzati e dei lavoratori non manuali, più che alla 'proletarizzazione'.

Se l'individuazione concreta delle classi non si discosta molto da quella marxista, i criteri che Weber propone per l'individuazione di gruppi sociali rilevanti (classe, ceto, partito) portano a risultati più articolati di quelli della tradizione marxista, e da essi divergenti. Il criterio della 'capacità di mercato' apre la possibilità di disarticolare la classe media impiegatizia in una quantità di gruppi professionali. L'affermazione che la formazione di identità collettive può fondarsi su elementi diversi da quelli su cui si fondano le classi apre la strada alla possibilità di individuare nella piccola borghesia (vecchia e nuova) una pluralità di attori collettivi. Dopo Weber il sociologo non può più parlare indifferentemente di 'classi medie' e 'ceti medi'. Il ceto, raggruppamento sociale fondato "sull'onore e sulla condotta di vita", può essere interno alla classe o tagliare trasversalmente più classi: quanto e più della classe è capace di mobilitazione per il perseguimento di obiettivi materiali o simbolici (v. Parkin, 1982, cap. 5).

Weber afferma che quasi ogni "caratteristica esteriormente determinabile" può essere assunta da un gruppo per fondarvi strategie di chiusura nei confronti di altri (v. Weber, 1922; tr. it., vol. I, pp. 340 ss.). Il concetto di 'strategie di chiusura', ricavabile da un capitolo di Economia e società diverso da quello dedicato alle classi e ai ceti, è al centro di una promettente analisi neoweberiana delle classi medie. Secondo Parkin (v., 1974) la distinzione fondamentale tra borghesia e proletariato sta nelle strategie di chiusura prevalentemente adottate, esclusione e solidarismo; è il passaggio dall'uno all'altro tipo di chiusura che segna la frattura fondamentale nell'ordine della stratificazione. Naturalmente, strategie di esclusione si riscontrano anche tra i lavoratori manuali, ma con alcune importanti differenze. Le professioni cercano di stabilire un 'monopolio legale' sull'offerta di certi servizi, diventando in tal modo "gruppi legalmente privilegiati"; il raggiungimento di questo status è assai più raro nel caso dei mestieri manuali (v. Parkin, 1979; tr. it., p. 50). Tipiche strategie di esclusione utilizzate dalle classi medie sono il credentialism (richiesta vincolante di titoli di studio) e appunto la professionalizzazione. Assai frequente è il caso di "strategie duali" (usurpazione verso l'alto, esclusione verso il basso): ad esempio le "semiprofessioni" (insegnanti, social workers, infermieri, ecc.), non essendo riuscite a garantirsi la completa chiusura e il controllo legale sull'accesso che caratterizzano le professioni, ricorrono anche alle tattiche proprie del solidarismo operaio (ibid., cap. 6).

Il concetto di strategie di chiusura, nell'elaborazione di Parkin, appare del tutto compatibile con i risultati di alcune tra le più interessanti ricerche sul comportamento di gruppi d'interesse della classe media impiegatizia, sia che lo usino esplicitamente (v. Baldissera, 1988), sia che usino apparati concettuali di altro genere (v. Barbagli, 1974; Boltanski, 1979): i maestri elementari italiani negli anni venti, i quadri francesi negli anni trenta, i quadri italiani negli anni ottanta sono altrettanti casi esemplari.

5. La mobilità sociale: proletarizzazione e imborghesimento

Le classi, a differenza degli ordini e delle caste, sono gruppi sociali aperti, l'uscita dai quali e l'entrata nei quali è giuridicamente possibile. L'esistenza di processi anche intensi di mobilità sociale, orizzontale e verticale, caratterizza e trasforma continuamente la struttura di classe delle società capitalistiche a partire dalla loro formazione: alcuni dei flussi di mobilità più rilevanti hanno come punto di arrivo o di partenza le classi medie, o si svolgono al loro interno. La proletarizzazione è definibile come "il passaggio dalla condizione di piccolo produttore indipendente, in un qualsiasi ramo di attività economica - artigianale, industriale, agricola, commerciale - alla condizione di lavoratore salariato, o proletario, alle dipendenze di un'azienda o di un privato, causa l'avvenuta perdita dei mezzi di produzione" (v. Gallino, Proletarizzazione, 1978). Come fa notare lo stesso autore, il termine è però stato frequentemente e impropriamente usato per indicare diversi processi di perdita di status.

La proletarizzazione, nel significato corretto del termine, è storicamente alla base della formazione del proletariato, e flussi di mobilità provenienti dalle classi medie tradizionali (in particolare contadine) alimentano il proletariato industriale per tutto il processo di industrializzazione, spesso coincidendo con la mobilità geografica dei soggetti interessati. Processi di questo genere non sono rilevanti solo quantitativamente: la provenienza sociale dei suoi membri ha importanti conseguenze sulle caratteristiche psicologiche e sociali di una classe, sul suo comportamento politico, ecc., come dimostrano ad esempio le ricerche sugli operai di origine agricola (v. Touraine e Ragazzi, 1961).

Il termine 'proletarizzazione' è stato spesso - in genere impropriamente - usato nella discussione teorica e nella ricerca empirica relativa alla 'nuova classe media' impiegatizia. Nel tentativo di "definire questo gruppo che non è un gruppo, questa classe che non è una classe, questo strato che non è uno strato" (v. Dahrendorf, 1957; tr. it., p. 101), lo si è di volta in volta considerato come estensione della classe dominante, come nuova classe, come insieme composito di frazioni di classi diverse, come parte del proletariato (o 'in via di proletarizzazione').
Alcune aporie caratteristiche delle teorie della proletarizzazione degli impiegati sono chiaramente visibili in un libro che ha esercitato un'influenza determinante negli anni settanta e ottanta. Secondo H. Braverman (v., 1974), gli impiegati della fase del capitalismo monopolistico sono qualcosa di totalmente diverso dai ristretti gruppi impiegatizi del secolo scorso. L'ufficio è tendenzialmente un luogo di lavoro manuale come la fabbrica, e già da tempo vi vengono applicate le regole dello scientific management; situazione di mercato e situazione di lavoro degli impiegati e degli operai si vanno progressivamente unificando. Il materiale empirico presentato è di una ricchezza e di un interesse che spiegano l'attrattiva esercitata dal libro, ma non bastano a fondarne la proposta teorica. Braverman oscilla tra il significato della proletarizzazione come processo e l'affermazione che gli impiegati sono stati sempre proletari; trascura settori fondamentali, come la pubblica amministrazione; concentra dichiaratamente l'attenzione sulle posizioni impiegatizie non qualificate. Soprattutto, la sua analisi è inserita in una più generale teoria della progressiva degradazione del lavoro, che può essere falsificata, in particolare, attraverso analisi multidimensionali della qualità del lavoro (v. Gallino, 1983).

Le ricerche più recenti e più autorevoli sul lavoro industriale (v. Kern e Schumann, 1984), e in particolare sul lavoro impiegatizio (v. Baethge e Oberbeck, 1986), mostrano l'esistenza di importanti processi di riqualificazione legati all'introduzione di nuove tecnologie. Queste ultime producono anche effetti negativi, come l'aumento dello stress e l'intensificazione del controllo, effetti peraltro comuni a operai e impiegati. Questo tipo di attenuazione della distinzione tra lavoratori manuali e non manuali, se non conferma le tradizionali teorie della proletarizzazione (che ipotizzavano un comune e globale peggioramento della situazione di mercato e di lavoro) rende d'altro canto ancora più problematica la possibilità di utilizzare il concetto di 'classe media' per i lavoratori non manuali dell'industria. Il lavoro industriale si presenta sempre più come attività di elaborazione di informazioni, e gli 'impiegati' si collocano quindi lungo un continuum di compiti di diversa complessità e autonomia (v. Rieser, 1988).

Le strategie di flessibilità delle imprese e lo sviluppo delle tecnologie informatiche stanno inoltre rendendo più incerta, in questo campo, la linea di separazione tra lavoro dipendente e lavoro autonomo. I passaggi dall'uno all'altro sono più frequenti, e più spesso reversibili; il lavoratore autonomo ('consulente') si ritrova spesso in azienda a svolgere mansioni di routine in nulla diverse da quelle degli impiegati; il lavoratore dipendente può operare a domicilio su un terminale (ibid.).

Le teorie della proletarizzazione degli impiegati hanno in genere concentrato l'attenzione sulle trasformazioni strutturali (mercato e lavoro), deducendone proposizioni e previsioni relative alla coscienza sociale e al comportamento politico dei gruppi interessati. Le teorie dell'imborghesimento della classe operaia, popolari soprattutto nei primi anni sessanta, hanno invece prevalentemente concentrato l'attenzione sui valori e sugli stili di vita e di consumo, la cui evoluzione trasformerebbe gli operai in classe media. Gli indicatori strutturali di una trasformazione di questo genere erano così deboli che "non restava altra via, per sostenere la tesi dell'imborghesimento, che dimostrare l'avvenuta interiorizzazione, da parte operaia, dei valori della classe media, in una sorta di processo di socializzazione anticipatoria rispetto a dinamiche reali di evoluzione troppo lente" (v. Romagnoli, 1973, p. 16).

L'ipotesi di un progressivo imborghesimento della classe operaia 'opulenta' fu radicalmente confutata dai risultati di una nota ricerca sugli operai industriali inglesi. Gli autori pervennero alla conclusione che permanevano ambiti di esperienza sociale tipicamente operai; che gli operai non si sforzavano affatto di emulare comportamenti e stili di vita borghesi; che non si poteva parlare di assimilazione nella società borghese come tendenza in atto né come obiettivo desiderato (v. Goldthorpe e altri, 1969; tr. it., p. 311).

Altre ricerche, specialmente britanniche, sull'immagine della società e sulla valutazione della gerarchia delle occupazioni da parte degli operai, pervennero a risultati analoghi (v. Paci, 1969). È peraltro dimostrato che una parte degli operai si considerano membri della classe media, e che questa identificazione ha conseguenze importanti, in particolare sul comportamento elettorale (v. Runciman, 1966).

6. La mobilitazione politica: classi medie e fascismo

Il problema della mobilitazione politica delle classi medie, e della loro posizione negli schieramenti di classe, si pone in maniera drammatica nel periodo tra le due guerre mondiali, segnato dall'affermarsi di regimi fascisti in Europa. Dalla discussione politica e dalla riflessione scientifica - spesso strettamente intrecciate - sui rapporti tra classi medie e fascismo, sviluppatesi innanzitutto tra i marxisti, emergono con una certa chiarezza alcuni problemi centrali.

In primo luogo, quello della posizione delle classi medie negli schieramenti di classe che determinano l'affermarsi del fascismo, e della misura in cui il regime fascista tutela i loro interessi. Le interpretazioni vanno da quella che considera la piccola borghesia come attore principale nel processo di affermazione del regime a quella opposta, che considera le classi medie al completo servizio del grande capitale, da cui vengono strumentalizzate: la piccola borghesia fornisce la 'base di massa' e il personale politico necessario, ma resta solo uno strumento. Nel mezzo ci sono interpretazioni più articolate, che sottolineano gli aspetti contraddittori dell'alleanza tra piccola borghesia e grande capitale, e la misura in cui il fascismo, pur appoggiando essenzialmente gli interessi di quest'ultimo, dà agli interessi della piccola borghesia voce e spazio (v. Saccomani, 1977, cap. 2). La posizione secondo cui la piccola borghesia ha interessi oggettivamente contrastanti con quelli del grande capitale, e può perciò stabilire alleanze non occasionali con il movimento operaio, è fatta propria e sviluppata nel secondo dopoguerra soprattutto dal Partito Comunista Italiano (v. Togliatti, 1973).

Dalle analisi politiche più attente ai fatti, e dalla ricerca storiografica e sociologica, emerge peraltro chiaramente quanto possa esser fuorviante parlare genericamente di classe media, ceti medi, piccola borghesia, dato che le loro diverse componenti hanno una rilevanza e un ruolo assai differenti. La mobilitazione politica di destra coinvolge soprattutto la piccola borghesia impiegatizia e intellettuale, per l'effetto combinato delle difficoltà economiche e occupazionali e delle difficoltà psicologiche, derivanti dal ritorno alla 'vita mediocre' dopo l'esperienza della guerra compiuta in posizioni di comando (v. Romano, 1977, parte V).

Nel tentativo di spiegare le motivazioni della mobilitazione politica e dell'agire di classe della piccola borghesia (o meglio, di una parte di essa e delle sue organizzazioni) in questo periodo storico, si è attribuita grande importanza al suo impoverimento, sottolineando il fatto che attivi nell'appoggio al movimento fascista furono soprattutto piccoli borghesi 'spostati', rovinati e simili. Il peggioramento assoluto della situazione della piccola borghesia nel periodo postbellico è però assai meno rilevante del suo peggioramento relativo, e degli acuti sentimenti di privazione relativa suscitati dal confronto (non sempre empiricamente fondato) con gli operai, come mostrano le poche ricerche sociologiche su questo tema (v. Barbagli, 1974, cap. 5).

Sempre ai fini della spiegazione dell'agire di classe, una certa attenzione è stata riservata alle ideologie, caratteristiche della piccola borghesia, atte a promuovere il consenso nei confronti dei regimi autoritari e fascisti. Tali ideologie hanno spesso radici assai lontane nel tempo: per sottolinearne alcuni elementi comuni con il liberalismo classico (avversione per la grande impresa, per il sindacato, per l'intervento statale), che diventano reazionari ed eversivi nella moderna società industriale, è stata coniata la categoria di "estremismo di centro" (v. Lipset, 1960) e, in campo marxista, quella di "anticapitalismo reazionario" (v. Guérin, 1936).Esiste infine un filone di ricerca, iniziato negli anni trenta, che ha studiato le radici del consenso al fascismo della piccola borghesia attraverso l'analisi, condotta utilizzando categorie psicanalitiche, delle strutture familiari e dei processi di socializzazione primaria che danno luogo alla formazione di personalità 'potenzialmente fasciste' (v. Saccomani, 1977, cap. 3). Il concetto di 'personalità autoritaria' viene elaborato nella più celebre e influente di queste ricerche, peraltro assai criticata dal punto di vista metodologico: il problema di partenza è appunto quello dell'individuazione delle strutture della personalità che determinano nei confronti del fascismo non "sottomissione atterrita" ma "collaborazione attiva" (v. Adorno e altri, 1950).

Negli anni settanta, un contributo decisivo alla comprensione dei rapporti tra classi medie e fascismo è venuto da indagini comparative. In particolare, le ricerche di Kocka sugli impiegati hanno messo definitivamente in crisi l'idea che i loro atteggiamenti e comportamenti politici possano essere dedotti dalla loro posizione nell'organizzazione del lavoro e dalle loro vicende economiche. Esposti a mutamenti abbastanza simili nell'organizzazione del lavoro e a una stessa crisi economica, gli impiegati americani e tedeschi hanno infatti reagito in maniera radicalmente diversa per quanto riguarda l'appoggio fornito a movimenti autoritari e fascisti. La spiegazione viene ricercata da Kocka in una complessa combinazione di fattori politici e culturali: il significato della distinzione tra 'manuali' e 'non manuali', le caratteristiche del movimento operaio, i tassi di mobilità, la presenza o meno di divisioni etniche e di valori e tradizioni precapitalistici (v. Kocka, 1977).

Il lavoro di Kocka, oltre che per il suo significato teorico, è importante come contributo alla storia sociale degli impiegati. Tanto più importante in quanto il fatto che la riflessione sulla mobilitazione politica delle classi medie si sia a lungo concentrata sugli eventi drammatici e sulle crisi che hanno accompagnato l'affermarsi di regimi fascisti, se da una parte ha contribuito a evidenziarne alcuni aspetti fondamentali, dall'altra ha forse distolto l'attenzione scientifica da aspetti più quotidiani e istituzionalizzati dell'agire di queste classi. Esiste peraltro tra i sociologi e gli studiosi di relazioni industriali una tradizione di ricerca sui processi di sindacalizzazione dei 'colletti bianchi' o 'giacche nere', che ha prodotto da tempo opere rilevanti (v. Lockwood, 1958), mentre più recente è l'attenzione per i gruppi d'interesse delle classi medie tradizionali.

7. Strategie di chiusura, privazione relativa, gruppi d'interesse

Le ricerche sulle classi medie, ormai troppo numerose e disparate perché si possa pensare di darne conto nei limiti assegnati a questo articolo, continuano ad avere molto spesso in comune il fatto di essere originate dall'intenzione di spiegarne e prevederne il comportamento politico. Ciò non vale solo per quelle di ispirazione weberiana, o comunque teoricamente attente alla formazione e al comportamento degli attori sociali. Anche nella recente produzione marxista, in cui le preoccupazioni di ordine classificatorio e tassonomico appaiono spesso soverchianti, classificazioni e tassonomie vengono utilizzate come strumenti per la comprensione del comportamento nei conflitti di classe.

La crescente attenzione scientifica per i gruppi sociali intesi come attori, assieme all'erosione di alcuni dei tradizionali criteri strutturali in base ai quali le classi medie venivano definite, evidenziano la crescente difficoltà di utilizzare il concetto di 'classi medie' nella ricerca empirica. D'altro canto, ammesso che parlare di classi medie abbia ancora senso, sembra difficile negare che buona parte dei loro comportamenti risultino pressoché inspiegabili se non si tiene conto della collocazione di queste classi nella divisione sociale del lavoro e dei mutamenti nei processi di produzione e di distribuzione. I risultati in genere fuorvianti delle teorie della proletarizzazione e dell'imborghesimento non devono far dimenticare i problemi che esse hanno cercato senza successo di spiegare.

Per orientarsi in un campo ormai difficilmente definibile nei termini tradizionali, sembrano mantenere o accrescere la loro rilevanza alcuni concetti e alcune teorie di 'medio raggio'.In primo luogo, la teoria già illustrata delle 'strategie di chiusura' (v. cap. 4). È proprio l'analisi dell'agire di classe che evidenzia la fecondità di questo concetto weberiano. La formazione di identità collettive e l'azione collettiva di gruppi di classe media sono regolarmente avvenute contro altri gruppi; strategie di esclusione sono state regolarmente usate ogni volta che la situazione sembrava consentire qualche appiglio in questa direzione; forme di sindacalizzazione di tipo operaio ricorrono invece quando il gruppo sociale in questione appare troppo vasto e i suoi membri troppo deboli in termini di capacità di mercato per consentire strategie di esclusione (buona parte della letteratura sulla sindacalizzazione dei colletti bianchi può esser letta in questa chiave).

La possibilità di individuare le classi in termini relazionali, invece che come soggetti dati una volta per tutte, sembra particolarmente utile alla luce delle difficoltà che la delimitazione delle classi medie non cessa di porre (come quella relativa alla distinzione manuale/non manuale nell'industria).

La teoria dei gruppi di riferimento e della privazione relativa ha dato ripetutamente buona prova nell'analisi degli atteggiamenti e dei comportamenti delle classi medie, a determinare i quali è spesso risultata decisiva la frustrazione nascente dal confronto con altri gruppi. Questo strumento concettuale si è rivelato abbastanza agile da consentire analisi assai articolate e disaggregate senza perdere di vista la dimensione propriamente di classe: "Qualunque persona ha una molteplicità di gruppi di riferimento: di appartenenza, comparativi e normativi. Non solo questi possono variare da argomento ad argomento, ma anche sullo stesso argomento possono in teoria cambiare da un momento all'altro. Sui grandi problemi dell'eguaglianza sociale le privazioni relative comuni a un gruppo o a una classe saranno però abbastanza coerenti" (v. Runciman, 1966; tr. it., p. 24).

Rispetto alla teoria che spiega il comportamento politico con l'esistenza di una incongruenza di status, con lo stress che ne deriva e con il tentativo di riequilibrare lo status al livello più elevato (v. Giampaglia e Ragone, 1981), la teoria della privazione relativa presenta il vantaggio di una maggior attenzione al contesto culturale, resa possibile dall'individuazione non solo dei gruppi di riferimento comparativi (quelli che posseggono il bene di cui ci si considera privi), ma anche di quelli 'normativi' (da cui la persona trae i suoi criteri di giudizio) e 'di appartenenza' (quello in cui la persona si colloca ai fini del confronto). Non è detto infatti che sempre si cerchi di ridurre l'incongruenza di status: in certe culture, ad esempio, non si ritiene che la ricchezza dia diritto all'influenza politica (v. Pichierri, 1972).

Infine, alcune importanti ricerche sui gruppi d'interesse nell'Europa occidentale hanno mostrato, proprio a proposito delle classi medie, che la formazione di identità collettive è il risultato di un complesso processo di interazione tra divisione sociale del lavoro e organizzazioni di rappresentanza degli interessi. I gruppi d'interesse "sono manifestazioni di modelli di classe e di gruppo, ma retroagiscono anche su tali modelli consolidandoli e talvolta determinandone la ridefinizione. I gruppi d'interesse servono inoltre come veicoli per la trasmissione degli interventi governativi i quali, più o meno intenzionalmente, contribuiscono a modellare il sistema di classi e di gruppi sia al momento del suo emergere che nelle sue trasformazioni successive" (v. Kocka, 1981; tr. it., pp. 130-131). Il concetto di gruppo d'interesse offre, rispetto a quello di classe, il vantaggio di stabilire con molto maggiore immediatezza i nessi tra interessi e comportamenti (v. Gallino, Gruppo d'interesse, 1978) e costituisce quindi un altro dei possibili strumenti analitici da utilizzare per una ridefinizione del campo d'indagine sempre meno adeguatamente coperto dall'etichetta di 'classi medie'.

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di Frank Parkin

Classi e stratificazione sociale

sommario: 1. Introduzione. 2. Il modello marxista delle classi. 3. Autorità e subordinazione. 4. La teoria funzionalistica della stratificazione. 5. Lavoro manuale e lavoro non manuale. 6. Le classi nella società socialista. 7. Masse ed élites. 8. Condizione etnica e stratificazione di classe. 9. Conclusioni. □ Bibliografia.

1. Introduzione

Le teorie delle classi e della stratificazione sociale hanno sempre occupato un posto di primaria importanza nella storia delle scienze sociali e della sociologia in particolare. In effetti, si potrebbe sostenere che la teoria della stratificazione costituisca la base teorica della disciplina, la pietra angolare sulla quale poggia tutto il resto. Ciò non sorprende, dal momento che le scienze sociali sono nate nelle società europee in un'epoca di acuto conflitto di classe. Non è troppo azzardato ritenere che gli sconvolgimenti politici e sociali prodotti dalle divisioni di classe del capitalismo del XIX secolo abbiano contribuito potentemente alla nascita delle scienze sociali. Almeno in parte, la sociologia e l'economia si affermarono come discipline importanti per il bisogno di spiegare, e a volte di giustificare, le disuguaglianze e le ristrutturazioni delle classi prodotte dalla rapida transizione da un modo di produzione agrario a uno industriale.

L'analisi della formazione delle classi rappresentò fin dall'inizio il punto centrale della teoria della stratificazione, che non prese in considerazione praticamente nessun'altra forma di disuguaglianza strutturale. Le divisioni sociali di tipo etnico, razziale, sessuale, ecc. venivano ignorate oppure subordinate alle esigenze della teoria delle classi. L'esclusivo interesse per la natura e le forme delle classi sociali, caratteristico dei primi teorici della stratificazione, non ha favorito lo sviluppo della moderna teoria sociale, che si trova di fronte a una realtà diversa ma è comunque fortemente influenzata dai concetti e dagli assunti dei fondatori della disciplina.

La stretta adesione alle idee dei teorici classici è tanto più rilevante se si pensa che gli autori che hanno avuto maggiore influenza si potrebbero contare sulle dita di una mano. L'attuale teoria delle classi o della stratificazione deriva quasi interamente dagli scritti di Marx ed Engels, di Max Weber e della scuola di Mosca e Pareto. Questo non significa, naturalmente, che molti altri tra i primi teorici non abbiano fornito osservazioni e intuizioni valide sulla struttura e sulle forme della disuguaglianza. Le opere di Saint-Simon, Tocqueville, Durkheim e Sombart, per non nominare che alcuni autori, offrono molteplici spunti sulle forze del capitalismo allora emergenti, sulla distribuzione del prestigio sociale, sui cambiamenti di condizione prodotti da nuove fonti di disuguaglianza, nonché sulle varie proposte per rimarginare le ferite causate da una competizione economica senza freni. Nondimeno, quale che possa esserne la ragione, nessuno di questi contributi ha dato luogo a una tradizione teorica o a un insieme di concetti che siano entrati a far parte della corrente principale della teoria della stratificazione. Anche gli scritti di Mosca e Pareto, pur occupandosi direttamente del problema della riproduzione e del dominio di classe, non hanno in realtà esercitato molta influenza sul dibattito contemporaneo in materia, sebbene riferimenti occasionali alle loro opere siano presenti in quel ramo specialistico degli studi politici noto come 'teoria delle élites'. Infatti, è il patrimonio di idee trasmesso da Marx e da Weber che costituisce la base della gran massa degli studi empirici e teorici sulla stratificazione.

Una ragione plausibile per la quale una parte tanto ampia della sociologia classica non ha lasciato un'impronta più duratura nella teoria della stratificazione è che i primi autori erano fortemente interessati al drammatico passaggio da una società agricola e rurale a una società industriale e urbana. Nonostante le differenze terminologiche, la distinzione introdotta da Durkheim tra solidarietà meccanica e organica, quella di Tönnies fra Gemeinschaft e Gesellschaft, o di Maine tra status e contratto, e così via, si riferiscono tutte a questo grande spartiacque nella riorganizzazione economica e morale delle società europee. La contrapposizione tra il sistema industriale e quello preindustriale fu ritenuta così importante da indurre a non prestare adeguata attenzione alla vasta fenomenologia delle classi e ad altre formazioni sociali comprese in ciascuno dei due tipi generali. La classificazione delle società mediante il ricorso a uno dei sinonimi del termine 'preindustriale' ha comportato l'aggregazione indiscriminata di una vasta gamma di sistemi sociali del tutto diversi fra loro, come il tribale, lo schiavistico, il sistema di casta, quello feudale, assolutista e dispotico. Qualcosa di simile è avvenuto in tempi recenti per la nozione di 'società industriale' che è stata impiegata come concetto onnicomprensivo per sistemi così diversi come il capitalismo del welfare, la democrazia sociale, il fascismo, il socialismo di Stato e la dittatura militare. Nel caso della società preindustriale, non accadeva tanto che le diverse forme di stratificazione venissero considerate sufficientemente simili da autorizzare la loro inclusione in una singola categoria concettuale; piuttosto, era la stessa impostazione concettuale a impedire di riconoscere le variazioni storiche e culturali come validi oggetti di indagine.

Né Marx né Weber caddero in questo errore. Il loro grande interesse per la storia comparata non era accompagnato dall'esigenza comune di cogliere la complessità e la varietà del mondo sociale attraverso il ricorso alla semplice dicotomia industriale/preindustriale. Paradossalmente, forse, fu il loro rispetto, peraltro poco sociologico, nei riguardi delle testimonianze storiche a metterli in guardia contro i limiti di tale schematizzazione semplicistica. Comunque sia, la loro sensibilità nei confronti della varietà delle formazioni sociali precedenti alla nascita del capitalismo permise alle loro analisi delle classi e della stratificazione di avere un'influenza assai maggiore e più duratura di quelle di ogni altro autore classico. In effetti, questa influenza è forse più forte ora che in ogni epoca passata della storia della disciplina.

Ciò dipende in parte dal fatto che solo tardivamente gli studiosi americani di scienze sociali hanno riconosciuto l'importanza dell'opera di Marx e hanno preso in esame la tradizione marxista con la stessa serietà con cui essa è sempre stata considerata in Europa. Fino a poco tempo fa, gli studiosi americani o hanno ignorato completamente Marx o l'hanno considerato come un autore di scarsa importanza. Questo giudizio negativo si è protratto a lungo nel dopoguerra, favorito senza dubbio dall'atteggiamento di aperto anticomunismo diffuso nella società americana dell'epoca. Soltanto con l'attenuarsi del clima della guerra fredda e con la nascita del movimento studentesco radicale verso la fine degli anni sessanta il marxismo ha raggiunto una certa rispettabilità intellettuale agli occhi dei sociologi americani. A partire da allora, negli Stati Uniti, la teoria della stratificazione è risultata più congruente con quella europea di quanto fosse mai accaduto in precedenza.

Un'ulteriore ragione che ha favorito l'avvicinamento tra l'orientamento americano e quello europeo è da ricondurre al declino di alcune correnti statunitensi dell'analisi delle classi che non trovavano riscontro nella sociologia europea. Il carattere particolare dell'orientamento americano viene chiaramente alla luce nel dibattito sviluppatosi nell'immediato dopoguerra intorno alla questione della 'reale' esistenza delle classi. Il problema sul quale si incentrava la discussione era se le classi dovessero essere intese come effettive entità sociali al pari della famiglia o della Chiesa, o se invece dovessero essere considerate alla stregua di mere invenzioni dell'immaginazione statistica. Coloro che sostenevano quest'ultimo punto di vista erano colpiti dal fatto che la distribuzione delle remunerazioni nella società americana si disponeva lungo un continuum praticamente ininterrotto dall'alto verso il basso, così che qualunque decisione di introdurre delle linee di separazione tra una classe e l'altra appariva come una procedura arbitraria e inutile. Arbitraria perché, in mancanza di fratture oggettive nella gerarchia delle remunerazioni, diveniva possibile tracciare un'artificiale linea di separazione pressoché ovunque; inutile perché le classi individuate in questo modo non avrebbero trovato corrispondenza in alcun effettivo raggruppamento sociale contraddistinto da un sentimento di identità comune. Come ha osservato Oliver Cromwell Cox, uno dei primi a sostenere questo punto di vista, "lo studioso che si addentra in questo campo alla ricerca di una classe sociale cerca qualcosa che non esiste; la troverà soltanto nella sua mente come una finzione intellettuale" (v. Cox, 1970, p. 306).

La difesa teorica dell'America come società senza classi ha trovato ulteriore sostegno nell'impiego del cosiddetto modello 'multidimensionale' della stratificazione. Secondo questo modello i criteri in base ai quali gli individui possono essere collocati in una gerarchia sociale sarebbero troppo numerosi e diversi per dar luogo a una coerente struttura di classe: si sosteneva che classi o strati chiaramente delineati si riscontravano soltanto in quelle società nelle quali i criteri di ordinamento sono rigorosamente definiti - come nel caso dei sistemi feudali, dove il diritto di portare armi o la proprietà terriera erano tra i pochi principî che determinavano lo status e il privilegio sociale. Nelle moderne società industriali, di contro, lo status sociale complessivo dell'individuo era determinato da una complessa gamma di criteri diversi, quali ad esempio il livello di istruzione, l'occupazione, il reddito, l'etnia di appartenenza, l'affiliazione religiosa, ecc. Il fatto che questi criteri fossero relativamente indipendenti l'uno dall'altro implicava che gli individui che avevano raggiunto una posizione elevata in un certo ambito potevano occuparne una inferiore in un altro, di modo che nel complesso non veniva a configurarsi una precisa struttura di disuguaglianza. In luogo di un modello di società stratificata emergeva l'immagine di un ordine sociale non strutturato, altamente frammentato, composto di aggregati di individui senza nulla in comune, se non il fatto di occupare una posizione consimile nella gerarchia sociale.

Le origini concettuali di questo modello multidimensionale venivano ricondotte di solito all'opera di Weber, e più precisamente a quelle versioni riduttive delle idee weberiane che vengono presentate come una confutazione di quelle di Marx. Il modello multidimensionale veniva difatti presentato come un correttivo, più spesso come un'alternativa, alla presunta concezione materialistica della classe attribuita a Marx. La strategia adoperata consisteva nell'enfatizzare il ruolo dei fattori di status che operano in modo indipendente dalla classe e ne attenuano gli effetti politici e sociali. Poiché si poteva agevolmente dimostrare che il livello di reddito di un individuo non corrispondeva necessariamente alla sua posizione di status, ne conseguiva chiaramente che la definizione materialistica della classe, e per estensione la teoria marxista in generale, era di scarsa utilità per comprendere la realtà americana. Da parte di innumerevoli autori si ribadì l'esistenza di ampie difformità tra classe e status (di solito intesi semplicisticamente come livelli di reddito e di prestigio), e di conseguenza il fatto che il concetto di struttura di classe era erroneo dal punto di vista teorico e sospetto da quello ideologico. Come ha scritto Bernard Barber, "un principio fondamentale è che la stratificazione ha un carattere multidimensionale". Coloro che mettono in discussione questo assunto lo fanno perché, "per motivi ideologici, pretendono di ricondurre la 'classe' a una nozione univoca, semplice e onnicomprensiva" (v. Barber, 1968, p. 292).Il ricorso all'autorità di Weber era giustificato dal fatto che il suo modello della stratificazione cercava di separare una serie di variabili distinte che erano invece fuse insieme nel concetto di classe di Marx. L'aggiunta di alcune variabili ulteriori si poteva pertanto legittimare come una procedura in perfetta sintonia con il ragionamento di Weber.

Che si trattasse o no del prestigio accademico conferito dal rapporto con l'opera weberiana, i sociologi americani accolsero con grande favore questo modo di vedere la stratificazione e lo fecero virtualmente proprio.Secondo Milton Gordon "l'accettazione dell'approccio multidimensionale, la sua elaborazione e il suo ulteriore approfondimento, hanno proceduto lentamente ma con velocità gradualmente crescente" nel periodo del dopoguerra. "In effetti, l'intero periodo in questione [1925-1955] può essere visto come un momento in cui i teorici delle classi sociali si impegnarono gradualmente ma con crescente precisione nel tentativo di operare distinzioni analitiche tra i numerosi fattori o le variabili che possono essere comprese nella categoria di stratificazione sociale". Gordon sostiene inoltre che "lo stesso approccio multidimensionale può essere visto come parte di un procedimento analitico che è fondamentale in qualunque attività di ricerca e conoscenza scientifica: quello della specificazione delle variabili inerenti a un determinato campo d'indagine" (v. Gordon, 1963, pp. 15-16).

Il richiamo al presunto carattere 'scientifico' dell'approccio multidimensionale poneva in secondo piano il fatto che la sua affinità con l'approccio weberiano era alquanto remota. Il Weber a cui si fa riferimento in questi contributi americani è a malapena riconoscibile come l'autore di Economia e società. È un Weber cui si attribuisce il ruolo di alfiere del movimento contro il materialismo, o il determinismo economico, o la teoria monocausale delle classi, o altre nozioni consimili con le quali all'epoca si identificava il marxismo. È un Weber, questo, interamente 'demarxificato' e pertanto utilizzato come campione ideologico della società senza classi del capitalismo americano. Invano si cercherà in questi studi una traccia dei tipici interessi weberiani per la burocrazia di Stato, per la proprietà, il conflitto di classe o il mutamento rivoluzionario. Né vi è in essi la benché minima consapevolezza dell'inequivocabile tesi weberiana secondo la quale le 'dimensioni' della stratificazione non debbono essere intese come un insieme di attributi individuali, ma piuttosto come "fenomeni della distribuzione del potere all'interno di una comunità" (v. Weber, 1922). Invece la realtà raffigurata in molti di questi studi empirici è quella di una società in cui la proprietà è svanita, le classi sono scomparse, lo Stato dissolto.

Questo travisamento dell'opera weberiana non trova riscontro nelle teorie europee della stratificazione, forse perché gli studiosi europei non hanno mai avuto dubbi sull'esistenza formale di un sistema di classi. Quando si è fatto ricorso a qualcosa di simile a un modello multidimensionale, come nell'analisi delle società dell'Est europeo condotta da Wlodmierz Wesolowski, si è rimasti assai più fedeli allo spirito dell'opera weberiana. Wesolowski ritiene che la transizione dal capitalismo al socialismo di Stato abbia portato alla 'de-composizione' del sistema di stratificazione. Nella Polonia prebellica, ad esempio, vi era un elevato grado di congruenza tra il livello materiale e quello di status delle classi. Quanti percepivano redditi elevati godevano quasi sempre di uno status elevato, mentre i gruppi a reddito inferiore si collocavano nelle più basse posizioni di status. Con il passaggio al socialismo, tuttavia, si verifica una decomposizione, per cui la situazione materiale non corrisponde più allo status. Numerosi gruppi di operai specializzati, ad esempio, ottengono salari equivalenti e perfino superiori a quelli dei colletti bianchi, sebbene questi ultimi godano di un maggior prestigio sociale. Wesolowski sottolinea come la de-composizione del sistema di stratificazione possa dar luogo a forti attriti sociali. Gruppi professionalmente qualificati manifestano il loro risentimento per il fatto di avere un livello di remunerazione non superiore, e talvolta inferiore, a quello di numerose categorie di lavoratori manuali. Allo stesso modo, questi ultimi esprimono scontento per la discrepanza esistente tra i loro elevati guadagni e lo scarso prestigio sociale di cui godono (v. Wesolowski, 1979).T

ensioni analoghe si verificarono in Cecoslovacchia negli anni sessanta. La 'primavera di Praga' rappresentò, tra l'altro, un attacco al sistema egualitario da parte dei colletti bianchi, come pure un tentativo di introdurre riforme economiche conformi al modello dell'economia di mercato; riforme che avrebbero garantito loro maggiori benefici materiali, assai più adeguati al loro status sociale (v. Parkin, 1971). Il modello multidimensionale può, dunque, rappresentare un utile strumento per evidenziare il rapporto esistente tra gli aspetti materiali e quelli di status delle classi e per l'esame delle sue possibili implicazioni politiche.

Come abbiamo già osservato, gli studiosi europei hanno quasi unanimemente ammesso l'esistenza di una struttura di classe. E tuttavia vi è profondo disaccordo circa la natura di questa struttura e l'apparato concettuale che meglio permette di analizzarla. Stanislaw Ossowski ha notato che i modelli della stratificazione impiegati sia dai sociologi che dai profani possono essere raggruppati in tre grandi categorie: dicotomici, graduali e funzionali.

I modelli dicotomici fanno riferimento a un rapporto tra due classi principali, che assume di solito un carattere conflittuale. In questo modello non v'è spazio per una terza classe, se non durante le fasi di transizione. In alcune versioni di questo modello il conflitto tra le due classi è visto come irriducibile e come fonte di profonda instabilità politica. In altre versioni il conflitto è visto come una caratteristica permanente del sistema, ma a tal punto entrato a far parte della consuetudine da non rappresentare una reale minaccia politica.

Il modello di tipo graduale presenta la stratificazione come un ordinamento composto di almeno tre, ma talvolta più, classi o strati. Sebbene il conflitto possa nascere a vari livelli del sistema, esso non è tale da creare un clima politico di ostilità permanente. In questo modello gli interessi di status sono più rilevanti di quelli di classe.Il modello funzionalista rappresenta la società come un insieme armonico di parti ineguali, ciascuna delle quali concorre con il proprio contributo al benessere generale. Padroni e servi hanno entrambi un ruolo importante, ciascuno di essi con i propri doveri e responsabilità. E poiché tanto gli strati elevati che quelli inferiori svolgono i compiti loro assegnati al meglio delle loro possibilità, il risultato globale è il consenso generale e la reciprocità degli interessi (v. Ossowski, 1957).
Ossowski ritiene che il più diffuso di questi tre modelli, tanto nella percezione comune della disuguaglianza che nelle sue rappresentazioni sociologiche, sia quello dicotomico. Questa dicotomia può essere espressa in una pluralità di forme: come un conflitto tra governanti e governati, tra ricchi e poveri, tra padroni e operai, tra abbienti e non abbienti, e così via. Sebbene il modello dicotomico si sia dimostrato particolarmente attraente per i sociologi, esso è stato nondimeno utilizzato in modi assai diversi. Inoltre - cosa ancor più importante - non esiste un consenso generalizzato sui criteri che debbono essere impiegati per definire la linea di demarcazione tra le due classi principali. Per i seguaci di Marx la contraddizione tra capitale e lavoro costituisce la causa ultima della divisione in classi all'interno della società borghese; per altri la principale divisione passa per una diversa coppia di opposti: tra lavoro manuale e lavoro non manuale, tra autorità e subordinazione, oppure tra élites e masse. Ciascuno dei modelli rappresentati da questi termini raffigura il sistema di classe in modo dicotomico e conflittuale, che non è dissimile dallo schema di Marx; e tuttavia ciascuno di essi cerca in modi diversi di offrire un'alternativa alla distinzione tra capitale e lavoro. Esaminiamoli uno per uno.

2. Il modello marxista delle classi

Per Marx il 'difetto strutturale' della società capitalistica sta nelle contraddittorie esigenze del capitale e del lavoro. Coloro che possiedono i mezzi di produzione e coloro che vendono la loro forza lavoro sono portatori di interessi inconciliabili che provocheranno da ultimo il crollo del sistema. Marx considera il capitalismo come un sistema sociale caratterizzato da un fondamentale difetto di struttura, che non è riducibile agli atteggiamenti e ai comportamenti degli attori sociali. I capitalisti cercano di sfruttare i lavoratori non perché sono malvagi o avidi, ma perché il sistema di cui fanno parte impone loro di agire in questo modo. I capitalisti che agissero diversamente andrebbero rapidamente in rovina. Allo stesso modo, i lavoratori cercano di intraprendere un'azione collettiva a difesa dei loro interessi, perché la logica della loro situazione li obbliga a seguire questa strada. Sono dunque gli imperativi intrinseci al capitalismo in quanto sistema produttivo che danno origine a classi antagonistiche. I valori e le motivazioni personali hanno poco a che fare con ciò.

Anche se si sostituisse un dato insieme di capitalisti e di operai con uno completamente diverso, questi si comporterebbero esattamente nello stesso modo.Marx, tuttavia, non sempre considera le classi sociali come semplici agenti la cui condotta è determinata da forze che sfuggono al loro controllo. Spesso egli passa a un diverso livello di analisi, nel quale si dà pieno rilievo ai fattori psicologici e sociali nella formazione delle classi. Ciò è particolarmente evidente nella sua disamina delle condizioni nelle quali una classe 'in sé' diviene una classe 'per sé'. Vale a dire, delle condizioni nelle quali il proletariato prende coscienza del suo destino collettivo come classe sociale ed è preso da un fervore rivoluzionario.

Marx riteneva, a ragione, che la massiccia concentrazione operaia all'interno delle fabbriche capitalistiche costituisse un elemento importante per lo sviluppo della coscienza di classe. I contadini, di contro, non potevano pervenire a un'identità di classe e a una coscienza politica, nonostante il comune sfruttamento a cui erano sottoposti, in quanto erano dispersi e isolati l'uno dall'altro. Essi erano, dice Marx con un'espressione famosa, come "un sacco di patate": singole unità che non avrebbero mai potuto fondersi in un'unica entità. Marx dunque riconosceva pienamente che lo sfruttamento di per sé non era sufficiente a creare una classe nel pieno senso di una collettività sociale caratterizzata da una prospettiva comune e da uno scopo politico condiviso. Tuttavia occorre riconoscere che egli non dubitò mai seriamente che il capitalismo avrebbe spontaneamente dato vita ai presupposti sociali e psicologici indispensabili alla trasformazione del proletariato urbano in un'attiva forza rivoluzionaria. Era in questo senso che egli definiva i capitalisti come becchini di se stessi.

La teoria marxiana della coscienza e dell'azione rappresenta un tentativo molto convincente di spiegare la struttura del conflitto di classe nell'Europa del XIX secolo. Essa consente di spiegare adeguatamente questo conflitto endemico e spesso violento come risultato dell'intrinseco antagonismo tra la classe capitalistica e il proletariato. Ma sebbene la teoria costituisca uno strumento efficace per comprendere il processo di radicalizzazione del proletariato di fabbrica, il suo assunto fondamentale, secondo il quale il conflitto tra le due grandi classi della storia condurrebbe inevitabilmente a una resa dei conti e infine al trionfo della classe operaia, si rivela erroneo. La teoria di Marx costituisce, in effetti, una brillante previsione del sorgere di quella che Lenin in termini denigratori chiamava la "coscienza sindacale"; ossia di quell'organizzazione collettiva dei lavoratori intesa a ottenere una quota maggiore dei frutti del capitalismo, piuttosto che a produrre la distruzione del sistema. La teoria non permette di spiegare perché lo sviluppo della coscienza di classe debba, per così dire, 'congelarsi' a livello di una milizia di tipo sindacale e non piuttosto sfociare in un esito rivoluzionario.

Non sorprende che questo apparente fallimento del proletariato nell'assumere il ruolo storico che Marx gli aveva assegnato abbia dato luogo a un'ampia riflessione teorica da parte dei suoi seguaci. Lenin fu tra i primi ad apportare delle modifiche alla teoria, sostenendo che il proletariato non sarebbe mai stato in grado di realizzare, senza aiuti esterni, la trasformazione cruciale della coscienza sindacale in una piena coscienza di classe. Il tipo di aiuto che egli aveva in mente era quello fornito da un partito d'avanguardia composto di rivoluzionari di professione - organismo, questo, completamente assente dallo schema marxiano. Abbandonato a se stesso, il proletariato non avrebbe mai potuto acquisire una reale coscienza politica del proprio destino, poiché era troppo profondamente influenzato da idee borghesi. Solo il partito d'avanguardia era in grado di sottrarsi all'ideologia borghese e di generare un'ideologia rivoluzionaria di cui in seguito avrebbe potuto appropriarsi la classe operaia. Per Lenin, una classe 'in sé' non poteva trasformarsi spontaneamente in una classe 'per sé'. Egli, naturalmente, non si spingeva fino all'eresia di sostenere che Marx aveva torto a pensarla diversamente; ma evidentemente è questo il significato implicito della sua teoria e, ciò che più importa, della sua pratica politica.

Contributi più recenti alla teoria marxista delle classi si sono soffermati sul tema della coscienza e dell'ideologia nel tentativo di spiegare il persistente fallimento del proletariato occidentale nel sovvertire il sistema capitalistico. Gli scritti di Louis Althusser e dei suoi allievi hanno esercitato una notevole influenza a questo riguardo. La spiegazione avanzata da Althusser riguardo al carattere non rivoluzionario della classe operaia è costituita in effetti dall'interpretazione di alcune idee sostenute molto prima da Lukács e da Gramsci. Sia l'uno che l'altro, ciascuno a suo modo, ritenevano che lo strumento principale attraverso il quale lo Stato capitalistico esercitava il controllo sul proletariato era passato dalla coercizione alla manipolazione ideologica. La borghesia controllava le menti dei lavoratori tramite il sottile ricorso all'indottrinamento e alla propaganda, in modo tale che difficilmente essa aveva necessità di ricorrere a più oppressivi strumenti di controllo.

Inoltre Gramsci sosteneva che, oltre a esercitare una 'egemonia' ideologica, lo Stato borghese forniva al tempo stesso al proletariato diritti e vantaggi apprezzabili, quali libertà civili e garanzie giuridiche che attenuavano gli effetti più duri del capitalismo e conferivano al sistema una certa dose di legittimità anche agli occhi degli sfruttati. Questi fattori contribuivano a celare i mali del modo di produzione capitalistico e impedivano ai lavoratori di prendere coscienza dell'alternativa socialista.

Il lavoro di Althusser si sviluppa lungo queste linee. Secondo il filosofo francese il capitalismo moderno resta politicamente stabile perché, malgrado le sue contraddizioni e le sue crisi, la lotta di classe si è spostata dal piano materiale a quello normativo. Il capitalismo cerca di preservare se stesso creando un complesso di istituzioni intese a mistificare il proletariato. Si tratta dei cosiddetti 'apparati ideologici di Stato', ovvero di istituzioni sociali come le scuole e le università, i mass media, la famiglia, la Chiesa, i partiti borghesi o socialdemocratici e i sindacati. Ciascuno di questi apparati contribuisce a suo modo all'egemonia ideologica della borghesia prevenendo la formazione di una coscienza di classe tra gli operai (v. Althusser, 1969).

I seguaci di Althusser hanno anche tentato di emendare la teoria marxista delle classi attraverso una profonda revisione del concetto di 'proletariato'. Più precisamente, essi hanno proposto di ridefinire la linea di confine tra la borghesia e il proletariato in modo da distinguere più chiaramente l'essenza politica di quest'ultimo. Questa ridefinizione si impone, essi sostengono, perché la vecchia distinzione tra lavoro e capitale non è sufficiente come modello delle divisioni di classe all'interno del capitalismo monopolistico. Una delle ragioni principali di questo fatto è l'eccezionale espansione in epoca recente dei colletti bianchi e dei gruppi professionali. Tale sviluppo ha reso altamente problematica la nozione di 'classe operaia'. La grande maggioranza dei colletti bianchi vende la propria forza lavoro e in questo senso appartiene al proletariato. Eppure è evidente che la massa degli impiegati non si identifica col proletariato né agisce politicamente all'unisono con la classe operaia tradizionale. Stando così le cose, si rende indispensabile una definizione più raffinata della classe operaia odierna. In altri termini, i marxisti hanno bisogno di trovare una soluzione a ciò che Nicos Poulantzas ha definito il "problema del confine" (v. Poulantzas, 1974).

La soluzione che Poulantzas propone è quella di ripristinare la negletta distinzione marxiana tra lavoro produttivo e lavoro improduttivo quale criterio dell'appartenenza di classe. Per lavoro produttivo si intende un'attività che produce plusvalore; lavoro improduttivo, invece, è l'attività che non dà luogo a plusvalore. Così, un tassista occupato presso un'impresa privata svolge un lavoro produttivo perché genera plusvalore per i suoi datori di lavoro e viene sfruttato nel processo produttivo. Un tassista che lavora in proprio, invece, svolge un lavoro improduttivo dal momento che non produce alcun surplus e non è sfruttato. La sua prestazione non è diversa tecnicamente da quella fornita da un domestico; entrambe comportano un onere contro un reddito e come tali non recano alcun contributo all'accumulazione del capitale. Su un piano alquanto più elevato la categoria del lavoro improduttivo comprende non solo coloro che erogano servizi contro reddito, ma anche coloro che sono occupati nel settore statale e i cui redditi sono pagati con le imposte. Il prelievo fiscale è estratto dai salari dei lavoratori produttivi o dal plusvalore sotto forma di tasse sui profitti, così che in effetti il lavoro degli impiegati dello Stato, come quello dei domestici, costituisce una prestazione di servizi contro reddito.

Occorre chiarire subito che molti marxisti occidentali respingerebbero questo tentativo di ripristinare la distinzione tra lavoro produttivo e improduttivo come elemento determinante delle divisioni di classe. Dopotutto, vi è scarsa evidenza empirica che questa distinzione puramente formale abbia un qualche valore esplicativo; in nessuna società capitalistica si è prodotto un conflitto di interessi tra membri della classe lavoratrice differenziata in questo modo, ed è assai probabile che gli stessi lavoratori sarebbero sorpresi nell'apprendere l'esistenza di un tale antagonismo. Inoltre, la definizione della classe lavoratrice sulla base dei rigidi criteri proposti da Poulantzas ha come conseguenza quella di ridurre questa classe a una quota affatto minoritaria della popolazione. Come lo studioso marxista americano Erik Wright ha mestamente osservato, l'applicazione rigorosa di questi criteri al proletariato americano lo ridurrebbe a una entità insignificante. "È difficile immaginare - egli scrive - che un vitale movimento socialista possa svilupparsi in un paese a capitalismo avanzato nel quale meno di una persona su cinque è un operaio" (v. Wright, 1976, p. 23). C'è qualcosa di ironico nel fatto che una teoria, avanzata tra l'altro per confutare il punto di vista borghese secondo il quale la classe operaia è storicamente condannata, debba essa stessa concludersi con delle affermazioni che portano a un risultato del tutto analogo.

3. Autorità e subordinazione

L'elemento centrale nel modello marxista classico delle classi è il possesso della proprietà sotto forma di capitale; è attraverso la proprietà che di fatto la borghesia domina e controlla il proletariato. Un critico influente di questa concezione è il sociologo tedesco Ralf Dahrendorf, il quale ha proposto un modello alternativo in cui è l'autorità piuttosto che la proprietà il fattore determinante delle divisioni di classe. Secondo Dahrendorf l'errore fondamentale di Marx è stato quello di confondere la parte con il tutto, ossia di non vedere che la proprietà capitalistica non è che una specifica forma di autorità; l'autorità stessa costituisce la forma generale del dominio di classe e la principale origine del conflitto di classe. In altre parole, la distinzione sociale fondamentale non è tra coloro che posseggono i mezzi di produzione e coloro che vendono la loro forza lavoro, bensì tra quanti comandano e quanti obbediscono. Il possesso dell'autorità conferisce comuni interessi di classe a coloro che detengono il potere, allo stesso modo in cui la mancanza di autorità conferisce comuni interessi di classe a coloro che occupano posizioni subordinate (v. Dahrendorf, 1957).

Il modello di Dahrendorf si ispira all'analisi weberiana della burocrazia che mette in evidenza il potere inerente all'esercizio di una carica indipendentemente dal possesso della proprietà. Poiché i burocrati possono sviluppare autonomamente degli interessi di classe, e poiché la burocrazia costituisce un aspetto inevitabile di ogni società complessa, la divisione in classi è destinata a sorgere comunque, quale che sia la natura del sistema politico. La proprietà privata potrebbe essere abolita con un semplice tratto di penna da parte del legislatore, ma l'autorità non potrebbe mai essere eliminata per decreto. Qualunque ipotesi di una società senza classi pertanto non è che un pio desiderio.Una delle conseguenze che derivano dal considerare l'autorità come fattore determinante della divisione di classe è quella di dissolvere la nozione stessa di classe sociale in quanto fenomeno la cui ampiezza coincide con quella della società. Una classe subordinata, secondo Dahrendorf, esiste all'interno di qualunque organizzazione burocratica, sia essa una impresa industriale, un sindacato, una prigione, un ospedale, una università, o altro. In ciascun caso esiste una linea di demarcazione o un confine tra coloro che comandano e coloro che obbediscono. Ciò implica l'esistenza di una pluralità di classi subordinate, istituzionalmente isolate l'una dall'altra, piuttosto che di una singola classe dotata di una identità e di una coscienza comuni.

L'immagine che ne deriva è più simile al ritratto che Marx dà della classe contadina come "un sacco di patate" che non a quella di una collettività sociale. Nello schema di Marx coloro che sono privi di proprietà costituiscono una classe nel pieno senso sociale del termine perché l'apparato politico e giuridico dello Stato li opprime, in qualunque ambito della società essi si trovino. Nello schema di Dahrendorf, invece, i subordinati costituiscono una classe solo in un senso parziale e limitato, perché i suoi membri sono in grado di affrancarsi dal loro stato di subordinazione nel momento stesso in cui abbandonano il luogo fisico nel quale vigono le regole dell'autorità e dell'obbedienza. Un operaio, per esempio, cessa di essere un membro della classe subordinata non appena esce dai cancelli della fabbrica; da quel momento egli è libero di assumere altri ruoli, compresi quelli investiti di autorità. La subordinazione costituisce pertanto una condizione temporanea, il che non vale evidentemente per il proletariato di Marx. Secondo Marx il proletariato non ha alcuna possibilità di sfuggire alla propria condizione di sfruttamento poiché la proprietà capitalistica e i rapporti di mercato invadono ogni angolo della società, non soltanto la fabbrica. La classe è perciò universalmente diffusa come forma di vita collettiva, mentre per Dahrendorf essa si manifesta come una serie di sottogruppi frammentati, troppo diversi tra loro per dar luogo a una comune situazione di classe.

Dahrendorf non è il solo dei grandi teorici a ridimensionare il ruolo della proprietà privata nel sistema di stratificazione del moderno capitalismo. L'influente sociologo americano Talcott Parsons assume una posizione anche più estrema. Non vi è alcuna possibilità di equivoco riguardo alla sua affermazione che "nel recente dibattito sulla classe, condotto al di fuori dei canoni marxiani, il riferimento specifico alla proprietà dei mezzi di produzione è virtualmente scomparso" (v. Parsons, 1970, p. 22). L'evidente favore con cui Parsons considera questo stato di cose deriva dalla sua convinzione che il declino del concetto sia dovuto alla dissoluzione stessa della proprietà in quanto fattore significativo del mantenimento della diseguaglianza di classe. Egli ritiene che ciò sia avvenuto in parte a seguito della separazione tra proprietà e controllo all'interno della grande impresa moderna, in parte perché "il reddito familiare deriva sempre più dall'attività di lavoro piuttosto che dalla proprietà, fenomeno che, in termini di status, investe non solo gli strati inferiori dei lavoratori salariati ma anche i vertici della scala occupazionale". Dato che "non è più possibile parlare di una classe 'capitalistica' proprietaria sostituitasi alla primitiva classe 'feudale' di possidenti", Parsons ritiene che si debba "separare il concetto di classe sociale dal suo rapporto storico sia con la parentela che con la proprietà in quanto tale" (p. 23).

La principale ragione invocata per giustificare l'esclusione della proprietà dall'analisi delle classi è che nella società capitalistica moderna quasi tutti sono in una certa misura proprietari. Il termine 'proprietà', secondo Parsons, come per molti altri sociologi, non è che un sinonimo di 'possesso'. Vale a dire un'entità trasferibile da un attore all'altro, un'entità che può passare di mano attraverso un processo di scambio. Ora, se la proprietà è semplicemente un determinato tipo di possesso, ne segue che ognuno nella società è in qualche misura proprietario. In questa prospettiva, non può esservi una netta divisione tra proprietari e non proprietari, ma solo differenze di grado tra chi possiede molto e chi possiede poco. Il possesso di un pozzo petrolifero o di una flotta navale conferisce ai loro proprietari diritti e obblighi in tutto simili a quelli che derivano dal possesso di uno spazzolino da denti o di un paio di scarpe. Le leggi sulla proprietà non possono pertanto essere interpretate come leggi di classe, dal momento che giuridicamente tutte le forme di possesso sono uguali.Il desiderio manifesto di eliminare la proprietà dalla moderna teoria delle classi sembra una conseguenza pressoché naturale della concezione funzionalistica della società.

Teorici del funzionalismo come Parsons ritengono che il capitalismo moderno sia caratterizzato dal declino dei criteri di tipo ascrittivo e dalla nascita di criteri meritocratici per mezzo dei quali gli individui vengono premiati in virtù dei loro sforzi e dei risultati acquisiti. In questo schema la persistenza dei diritti di proprietà rappresenta una seria anomalia, in quanto l'ereditarietà del patrimonio familiare non implica quelle qualità e quegli sforzi che sono ritenuti i soli mezzi legittimi per conquistare una posizione. Da una prospettiva di tipo funzionalistico la proprietà continua a sopravvivere come una sorta di 'ritardo culturale', un bizzarro residuo di un'età ormai tramontata.

4. La teoria funzionalistica della stratificazione

La concezione di Parsons presenta una notevole affinità con la cosiddetta teoria funzionalistica della stratificazione, elaborata da Kingsley Davis e Wilbur Moore. Secondo questa teoria la stratificazione sociale è una necessità universale. Tutti i sistemi sociali hanno determinate esigenze funzionali, che debbono essere soddisfatte perché essi risultino efficienti e produttivi. Tutte le posizioni cruciali debbono essere occupate dagli individui più capaci e dotati, cosicché è indispensabile introdurre determinati meccanismi sociali al fine di garantire che le persone più brillanti siano attratte dai ruoli più importanti. La stratificazione sociale è esattamente il meccanismo che realizza questo scopo. Una diseguaglianza strutturale si produce a causa della necessità di offrire i compensi più elevati a coloro che occupano le posizioni più importanti in termini funzionali. Incentivi materiali e sociali diventano essenziali per poter fornire una motivazione sufficiente a individui di talento, nonché per dare ad essi una ricompensa per la lunga preparazione a cui devono assoggettarsi e per le pesanti responsabilità che si chiede loro di assumere. Senza questi incentivi differenziali non necessariamente le persone migliori si farebbero avanti per occupare le posizioni più importanti. In un sistema in cui ci fosse una perfetta eguaglianza, le posizioni di vertice potrebbero agevolmente essere ricoperte dalle persone meno capaci, a detrimento dell'intera società.

La questione che si pone è come decidere quali siano le posizioni di maggior importanza funzionale e, dunque, meritevoli dei compensi più elevati. Davis e Moore suggeriscono, a tale proposito, due criteri: a) l'unicità funzionale; b) l'indispensabilità, ovvero la misura in cui altre posizioni all'interno della divisione del lavoro dipendono dalla posizione considerata. Così, un pilota d'aereo è unico dal punto di vista funzionale, nel senso che egli soltanto possiede la capacità di pilotare l'aeroplano. Lo steward di bordo non potrebbe svolgere questo compito, ma il pilota potrebbe agevolmente compiere le mansioni dello steward. Un esempio di indispensabilità è quello del comandante militare. Un numero assai maggiore di persone dipende dalle decisioni di un generale dell'esercito di quante non dipendano dalle decisioni di un caporale; allo stesso modo, più persone dipendono dalle decisioni di un caporale che non da quelle di un soldato semplice. Questi tre gradi militari si pongono dunque in ordine decrescente di importanza funzionale, e i corrispondenti livelli di compenso saranno regolati in conformità. Davis e Moore sostengono che le differenze nei livelli di importanza funzionale conducono inevitabilmente alla stratificazione sociale e che, inoltre, la stratificazione costituisce un sistema razionale per utilizzare le capacità umane nel modo più efficace.

La teoria funzionalistica è stata oggetto di numerose e pesanti critiche. Melvin Tumin ha sostenuto che l'importanza funzionale relativa delle diverse posizioni non può essere stabilita tanto facilmente quanto ritengono Davis e Moore. Per esempio, è a dir poco dubbio se il pilota d'aereo possa operare efficacemente senza il supporto del personale di terra e dei tecnici che, secondo Davis e Moore, sono meno importanti dal punto di vista funzionale. Allo stesso modo potremmo chiederci se il generale dell'esercito possa agire efficacemente senza i propri caporali e soldati semplici. Nella società moderna le diverse posizioni all'interno della divisione del lavoro sono strettamente interdipendenti, cosicché ciascuna di esse può essere del tutto efficace soltanto con la cooperazione delle altre. Chiedersi quale posizione sia funzionalmente più importante di altre equivale a chiedersi quale delle gambe di un tavolo sia più importante per tenerlo in piedi.
Inoltre, la teoria funzionalistica trascura l'influenza del mercato sul livello di remunerazione delle occupazioni, a prescindere dalla loro importanza sociale o funzionale. Attori del cinema, cantanti pop, divi del calcio e celebrità televisive ricevono compensi spettacolari ma sarebbe un'ingenuità presumere che il loro contributo alla società sia più importante di quello fornito da lavoratori modestamente remunerati come minatori, vigili del fuoco, insegnanti e infermieri. Il mercato si rivela piuttosto indifferente all'importanza funzionale delle occupazioni.

Mentre Davis e Moore giudicano la stratificazione sociale come un aspetto positivo della società, dal momento che contribuisce a massimizzare le risorse umane, alcuni critici ritengono che essa sia in effetti disfunzionale. Le divisioni di classe, in particolare, danno luogo a forme di differenziazione sociale e culturale che spesso impediscono l'impiego ottimale delle capacità. Bambini dotati degli strati sociali inferiori spesso non possono realizzare le proprie potenzialità a causa dei limiti della sottocultura della classe a cui appartengono. Oltre a ciò, coloro che occupano le posizioni di vertice tentano solitamente di erigere delle barriere sociali in modo da prevenire possibili invasioni dal basso. Da questo punto di vista, la stratificazione sociale conduce allo spreco di capacità e risorse umane e non a un loro uso più efficiente.Wesolowski ha rilevato inoltre che gli incentivi materiali e di status (e quindi le disuguaglianze) non sono gli unici stimoli capaci di attrarre gli individui verso le posizioni chiave. Il potere o l'autorità che di norma sono connessi a queste posizioni vengono generalmente considerati di per se stessi come un compenso. In altri termini, l'esercizio del potere comporta una soddisfazione personale sufficiente per motivare gli uomini ad aspirare alle posizioni più elevate, e questa motivazione persisterebbe anche in assenza di incentivi materiali.

La teoria di Davis e Moore, infine, non è in grado di dar conto dell'importanza della proprietà privata nella società moderna. Se la ricchezza materiale è vista esclusivamente come una ricompensa necessaria allo svolgimento dei compiti più essenziali, allora qual è la funzione sociale della ricchezza ereditata? I figli e le figlie dei più ricchi possono godere delle ricompense più generose senza svolgere alcun compito socialmente utile. Essi non hanno bisogno di dimostrare alcun particolare talento, se non quello di scegliersi oculatamente i genitori. In questa prospettiva sembra che la teoria funzionalistica della stratificazione rappresenti una comoda ideologia per la classe proprietaria.

5. Lavoro manuale e lavoro non manuale

Data l'immagine che i funzionalisti hanno della società come un insieme caratterizzato da armonia sociale e integrazione morale, è più che comprensibile che la proprietà sia esclusa dalle loro analisi della stratificazione. Questa omissione, tuttavia, è meno giustificabile nel caso di quelle teorie che non adottano una visione consensualistica della stratificazione sociale. La più diffusa di queste teorie nella sociologia occidentale contemporanea è quella che pone il confine tra le classi nella distinzione tra occupazioni manuali e non manuali. Nessun'altra definizione delle classi ha dimostrato di essere altrettanto adattabile agli studi e alle indagini di sociologia empirica; l'analisi di aspetti della vita sociale quali il comportamento elettorale, la struttura della famiglia, i modelli di consumo, i risultati scolastici, l'affiliazione religiosa, e simili, utilizza in effetti correntemente la distinzione tra lavoro manuale e lavoro non manuale per evidenziare le differenze di classe.

L'origine di questa teoria deve essere cercata in quei problemi in cui si sono imbattuti i sociologi all'inizio del secolo, allorquando si sono trovati di fronte alla nascita dei nuovi gruppi dei colletti bianchi. Questi gruppi si estendevano a spese delle tradizionali categorie operaie, il che suscitò numerose discussioni e un grande interesse da parte degli intellettuali socialisti, naturalmente preoccupati di stabilire la coscienza di classe e l'orientamento politico dei nuovi strati intermedi. Il dibattito su questo tema ebbe inizio tra le file del Partito Socialdemocratico Tedesco e si associava all'aspra controversia sul 'revisionismo'. Successivamente esso fu ripreso da due studiosi tedeschi, Hans Speier ed Emil Lederer, impegnati nell'analisi sociologica dei ceti impiegatizi (Angestellten). In entrambi i casi l'intento era il medesimo: quello di stabilire in che misura, nel quadro del processo di trasformazione dalla condizione di 'colletti blu' a quella di 'colletti bianchi', la classe lavoratrice muti anche le proprie pratiche politiche e sociali. Il perdurante interesse per questo tema, che negli anni venti e trenta si inseriva nel dibattito più generale sulla Verbürgerlichung, è documentato dal fatto che esso riemerse negli anni sessanta nelle vesti del dibattito sull'embourgeoisement. Mentre nel primo caso il problema era quello della possibile inclusione dei colletti bianchi nella classe operaia, nel secondo veniva analizzato il tema dell'assorbimento dei colletti blu nella classe media. In entrambi i casi si assumeva che la natura stessa delle occupazioni, le loro caratteristiche lavorative, le loro remunerazioni sia materiali che non pecuniarie, ecc., costituissero elementi cruciali nella strutturazione degli atteggiamenti e dei comportamenti di classe. La semplice mancanza della proprietà non era sufficiente a determinare la classe sociale; le differenze all'interno della divisione del lavoro, in particolar modo quelle tra occupazioni manuali e non manuali, erano molto più decisive.

Weber aveva notato in precedenza come l'onnicomprensivo concetto marxiano di 'lavoro salariato' fosse troppo ampio e generico per cogliere le complesse articolazioni del concetto di classe. Egli riteneva che le diverse categorie nell'ambito della divisione del lavoro avessero situazioni di mercato affatto diverse, a seconda del variare dei livelli di specializzazione, di qualificazione e di potere contrattuale in generale. Il modello delle classi basato sulla distinzione tra lavoro manuale e lavoro non manuale rappresenta in effetti una formalizzazione dell'analisi weberiana, benché si debba osservare che Weber non impiegò questa distinzione in modo sistematico. È probabile che egli si rendesse conto che questo modello comportava un uso improprio delle sue idee, dal momento che esso contrasta con alcuni dei suoi concetti fondamentali relativi alla stratificazione.

Può sembrare sorprendente che i sociologi non abbiano mai sottoposto questo modello delle classi a un severo esame critico, nonostante i suoi ovvi limiti. Uno di questi limiti è che esso non è in grado di evidenziare la natura conflittuale dei rapporti di classe, anche se molti dei sociologi che lo utilizzano in genere non concepiscono i rapporti di classe in termini non conflittuali. È certamente vero che nell'ambito dell'industria la divisione tra lavoro manuale e non manuale corrisponde approssimativamente alla linea di demarcazione tra le classi, in particolare in quelle situazioni in cui anche i livelli più bassi dei colletti bianchi si identificano più con la dirigenza che con i lavoratori manuali. Tuttavia esiste un'ampia gamma in continua espansione di impieghi nella burocrazia dello Stato e nelle amministrazioni locali, nonché all'interno delle diverse professioni del terziario, che non stanno affatto in opposizione alla forza lavoro manuale. Generalmente nella tipica burocrazia statale non esiste alcuna forza lavoro manuale. Se i lavoratori non manuali nel settore pubblico allargato non si trovano in opposizione diretta con i lavoratori manuali sul posto di lavoro, si potrebbe forse sostenere che il conflitto si sposta a livello nazionale. Ma, di nuovo, non è molto convincente sostenere che vi sia un'opposizione fondamentale tra, diciamo, minatori, ferrovieri e portuali, da un lato, e infermieri, insegnanti e assistenti sociali dall'altro. Senza dubbio esiste scarsa evidenza empirica del fatto che queste due ampie categorie si siano organizzate su linee tra loro antagonistiche. Semmai, è vero il contrario; le associazioni sindacali dei colletti bianchi hanno mostrato una crescente tendenza a mettere da parte il loro tradizionale senso di superiorità di status sui sindacati operai e ad allearsi con questi in modo da avere un maggior potere contrattuale. Quando sia i lavoratori manuali che quelli non manuali sono formalmente rappresentati nell'ala industriale del movimento sindacale, come avviene in molti paesi, sarebbe perlomeno una incongruenza teorica considerarli schierati su fronti opposti nella divisione di classe.

La ragione per la quale i raggruppamenti di colletti bianchi di livello medio e inferiore vengono considerati parte integrante della classe media è che, entro la sfera dell'industria privata, essi si sono generalmente schierati con i gruppi superiori dell'organizzazione, piuttosto che con quelli inferiori. Nel settore pubblico o statale, d'altra parte, non solo spesso non esiste alcuna categoria subordinata di lavoratori manuali sulla quale esercitare il comando, ma l'identificazione con i quadri superiori è assai meno agevole quando la gerarchia dell'autorità si estende verso l'alto perdendosi nell'amorfo organismo statale. Inoltre gli impiegati del settore pubblico non hanno di regola alcuna opportunità di trasferire le loro capacità tecniche e i loro servizi a un altro datore di lavoro come accade per i colletti bianchi impiegati nel settore privato. Tutti i miglioramenti retributivi e di condizioni di lavoro debbono essere negoziati con un imprenditore monopolistico, che tra l'altro deve attenersi a un bilancio strettamente controllato. Tutto ciò contribuisce a produrre una situazione di conflitto latente o potenziale tra i lavoratori non manuali e lo Stato in veste di datore di lavoro: una situazione non dissimile da quella che di frequente esiste tra dirigenti e lavoratori manuali nell'industria privata. Quando i servizi pubblici e assistenziali cadono sotto la scure dei tagli di spesa governativi, le risposte collettive dei lavoratori non manuali colpiti da questi provvedimenti costituiscono l'esatta replica di scioperi, dimostrazioni di protesta e altre espressioni consimili che un tempo si pensava fossero prerogativa esclusiva dei lavoratori manuali. Il modello delle classi fondato sulla contrapposizione tra lavoro manuale e non manuale deve ancora adattarsi a questi cambiamenti.

Un'ulteriore caratteristica di questo modello è che l'analisi si incentra sulle diseguaglianze di classe che derivano esclusivamente dalla divisione del lavoro. Non vi è posto in esso per la proprietà privata e per le sue conseguenze. Nato come un tentativo di articolare l'onnicomprensivo concetto di 'lavoro salariato', evidenziando le diversità della struttura occupazionale, il modello fondato sull'opposizione lavoro manuale/lavoro non manuale è riuscito a eliminare il concetto gemello di 'capitale' dal vocabolario delle classi. Il potere e i privilegi che derivano dalla proprietà di ricchezza e capitale sono analiticamente distinti da quelli che provengono dalla divisione del lavoro. Una teoria delle classi che prenda in considerazione solo quest'ultima è indubbiamente squilibrata. In quanto si ammetta che il possesso della proprietà genera interessi di classe, il presupposto implicito è che questi interessi siano grosso modo in linea con quelli della classe dei lavoratori non manuali, o almeno dei suoi livelli più elevati. Da un punto di vista empirico è possibile che le cose vadano spesso in questo modo, ma è alquanto difficile spiegare teoricamente questa convergenza di interessi nel quadro logico di un modello fondato esclusivamente sulla divisione del lavoro. Il fatto che quanti posseggono ricchezze ereditate o un capitale possano fare causa comune con quanti godono di redditi elevati, che traggono soltanto dalla vendita delle proprie prestazioni lavorative, costituisce un aspetto interessante e problematico del capitalismo, che merita di essere spiegato. Un problema del genere non può nemmeno essere formulato in un modello di classe nel quale il concetto di proprietà è assente. I sostenitori del modello fondato sulla distinzione tra lavoro manuale e non manuale possono anche proclamarsi eredi intellettuali di Weber, ma sembrano aver dimenticato che quest'ultimo aderiva alla posizione di Marx quando sosteneva tassativamente che " 'proprietà' e 'assenza di proprietà' sono le categorie fondamentali di tutte le situazioni di classe" (v. Weber, 1922).

L'accordo tra Weber e Marx su questo punto non deve, tuttavia, far dimenticare le profonde divergenze tra le loro posizioni. Se Weber riconosceva l'importanza cruciale dei rapporti di classe e di proprietà, riteneva però che altri fattori non fossero meno importanti. Egli concepiva la stratificazione come sintesi di tre distinti elementi: le classi, i gruppi di status e i partiti, ciascuno dei quali dava luogo a una specifica forma di diseguaglianza. Le classi si formano, secondo Weber, a seguito di due congiunte condizioni sociali: il possesso della proprietà e la vendita di prestazioni lavorative nel mercato. Quando il sistema distributivo poggiava su fattori distinti dalla proprietà privata e dalle forze del mercato, le classi sociali non potevano costituirsi. Schiavi e servi, ad esempio, non formavano delle classi sociali perché il loro sfruttamento derivava dal ricorso alla coercizione fisica e non dal contratto di lavoro salariale. Essi costituivano piuttosto dei gruppi di status (Stände).
Quando la classe sociale è definita come un prodotto del mercato, nasce il problema di stabilire dove termina una classe e dove comincia l'altra. Ovviamente, vi è un ampio ventaglio di situazioni di mercato che risultano dalla divisione del lavoro. Coloro i quali vendono le proprie prestazioni lavorative possono trovarsi in condizioni di vantaggio o svantaggio in molteplici modi. Alcuni gruppi potranno esigere retribuzioni adeguate alle loro specializzazioni esclusive o qualificazioni; altri potranno disporre di un potere contrattuale in ragione della posizione strategica che occupano all'interno del processo produttivo. Il mercato è un luogo in cui tutte le categorie professionali si trovano indirettamente in competizione fra loro; ognuno cerca di ottenere la fetta più grande di una torta limitata; una porzione maggiore per alcuni implica necessariamente una porzione minore per altri. Il modello o l'immagine evocati da questo meccanismo sono quelli di una società frammentata in una serie innumerevole di divisioni e , e non quelli di una società divisa tra una classe dominante e una classe subordinata.

Weber sostiene che le classi sono composte da vari gruppi le cui opportunità di mercato e possibilità di vita sono in gran parte simili. Ma egli non propone nessun criterio definito per stabilire il confine tra le classi, né per determinare il numero delle classi rivali. L'immagine risultante è piuttosto quella dell'hobbesiano omnium bellum contra omnes, dal momento che ciascun gruppo combatte la propria battaglia nell'anarchia del mercato. Sebbene Weber faccia frequenti riferimenti alle categorie marxiane delle classi - l'aristocrazia, i contadini, la borghesia, il proletariato - egli non propone alcuna definizione formale relativamente alla loro composizione.I gruppi di status (Stände), il secondo dei tre aspetti della stratificazione, si differenziano dalle classi per il fatto di derivare la loro importanza dal prestigio sociale e non dal possesso materiale. Weber fu tra i primi a sottolineare che i compensi simbolici o di status non sempre vanno di pari passo col potere economico. Vi possono sempre essere delle discrepanze, come nel caso degli aristocratici decaduti o dei bramini che vivono in povertà; allo stesso modo, le famiglie arricchite da poco sono spesso oggetto di disprezzo da parte di quelle di più antico lignaggio. Ma anche quando ricchezza e prestigio sociale si equivalgono, il rapporto causale tra loro non ha necessariamente la medesima direzione. Talvolta il prestigio sociale deriva dal possesso della ricchezza, talaltra costituisce piuttosto un trampolino per accedervi. Disparità tra posizioni di classe e posizioni di status hanno più probabilità di sorgere nella società capitalistica, in quanto i rapporti di mercato risultano regolati da considerazioni affatto impersonali. Il mercato, come afferma Weber, "nulla sa dell'onore". L'ordine basato sullo status, d'altro canto, ha un senso esattamente opposto. La stratificazione in base allo status è determinata da fattori quali il prestigio e gli stili di vita e non dalla mera acquisizione economica e dal nudo potere economico (v. Weber, 1922).

Weber tende a vedere i gruppi di status come corpi alquanto combattivi. Sebbene essi siano fondati su basi diverse da quelle delle classi sociali, sono ugualmente capaci di mobilitarsi per il perseguimento di fini materiali. Dove i gruppi di status formano anche delle comunità morali, caratterizzate da un forte senso della propria identità, essi possono avere una percezione più chiara dei loro interessi comuni rispetto ai membri di una classe sociale. Ciò può contribuire a fare di questi gruppi una formidabile forza nella lotta per la ripartizione delle risorse; una forza che molto spesso serve a contrastare o ad annientare l'azione delle classi sociali. È difficile che una classe sociale divisa al suo interno in base alle differenze di status possa agire come un'entità collettiva unitaria.Il terzo elemento della stratificazione è il partito. Weber adopera questo termine per indicare pressoché qualunque tipo di organizzazione politica capace di condizionare in modo indipendente la distribuzione delle risorse. In linea di principio il sistema di stratificazione può essere organizzato in diversi modi a seconda degli ideali politici del partito che detiene il potere. Gli Stati dominati dai partiti di sinistra tentano, in genere, di imporre un sistema di distribuzione diverso da quello che vige negli Stati dominati dai partiti di destra. In altri termini, il sistema di stratificazione può entro certi limiti essere manipolato dall'intervento politico. Classi e gruppi di status possono all'occorrenza influenzare un partito collaborando alla formulazione dei programmi politici, ma possono a loro volta esserne influenzati quando il partito in questione assume il potere statale. Il partito rappresenta, pertanto, l'aspetto della stratificazione che più strettamente si identifica con l'autorità di cui è investito lo Stato.

La tesi fondamentale di Weber è che la stratificazione sociale non è riducibile semplicemente a fattori economici e materiali, per quanto questi siano importanti. Le divisioni di classe sono sempre attenuate dai gruppi di status e dalle istituzioni politiche, che operano spesso in senso contrario a queste divisioni. L'effetto esercitato dai gruppi di status e dai partiti consiste nel temperare il clima politico di un mero conflitto di classe, o deviandolo entro canali che nulla hanno a che vedere con la classe o trasformandolo in un processo regolamentato e di routine. È soprattutto per questa ragione che Weber giudicava con manifesto scetticismo la fiduciosa previsione di Marx, secondo la quale le due grandi classi del capitalismo sarebbero andate sempre più divaricandosi, fino a costituire 'due campi armati' che avrebbero condotto alla guerra civile e al sovvertimento rivoluzionario del sistema. Malgrado il permanere delle diseguaglianze di classe, il capitalismo ha dimostrato di possedere una ben maggiore elasticità, e ciò, in larga misura, per le ragioni delineate da Weber.

6. Le classi nella società socialista

Da quanto precede si può concludere che le teorie della stratificazione sociale sono sorte come un tentativo di spiegare il sistema di diseguaglianze prodotto dalla società capitalistica. La nascita delle società socialiste ha creato non poche difficoltà a queste teorie e ha ispirato nuove prospettive intese a cogliere le realtà specifiche del socialismo di Stato. La teoria marxista delle classi, in particolare, ha incontrato gravi difficoltà nel tentativo di spiegare il sistema di potere e diseguaglianza sorto all'interno di società che si fondavano dichiaratamente sui principî marxisti. Quasi tutti i teorici marxisti erano disposti ad ammettere che l'Unione Sovietica, la Cina, i paesi dell'Est europeo, Cuba, il Vietnam, la Corea del Nord, e altri, erano società stratificate; ma non tutti ammettevano necessariamente che la stratificazione assumesse in quei paesi caratteristiche di classe. La teoria marxista classica sosteneva che le classi sono destinate a sparire con l'abolizione della proprietà privata, veleno mortale annidato nel cuore del capitalismo. Le società socialiste, avendo consegnato la proprietà dei mezzi di produzione nelle mani della collettività, diventavano perciò stesso, per definizione, società senza classi. Determinati tipi di diseguaglianza erano ugualmente presenti sotto il nuovo regime, ma la divisione in classi non esisteva perché mancava lo sfruttamento.

La premessa di fondo di questa tesi era che le diseguaglianze prodotte dalla proprietà privata dessero luogo a insoddisfazioni e malcontenti ben più gravi di quelli che sorgono quando è presente la proprietà collettiva. I conflitti tra capitale e lavoro nella società borghese non possono essere risolti nel quadro del sistema. Nelle società socialiste, invece, le diseguaglianze tra diversi gruppi sociali, quali operai, contadini e intelligencija, non erano ritenute tali da dar luogo a classi e conflitti di classe, bensì a ciò che Stalin definiva "strati non antagonistici". Stalin manifestava in effetti disprezzo nei confronti dell'idea che il socialismo fosse un sistema egualitario. Egli sosteneva che l'eguaglianza non era che una nozione piccolo-borghese, e negli anni trenta intraprese una violenta campagna ideologica contro l'uravnilovka o 'livellamento'. Se in Unione Sovietica, sotto Lenin, la struttura dei redditi aveva mostrato un considerevole grado di egualitarismo, all'epoca di Stalin essa divenne assai più differenziata. I dirigenti di fabbrica venivano remunerati molto meglio dei loro lavoratori manuali, sia in termini salariali che di premi di produttività. Anche all'intelligencija fu riservato un trattamento privilegiato, secondo una tendenza che si è mantenuta anche successivamente. Colletti bianchi e tecnocrati hanno goduto di compensi di gran lunga superiori a quelli dei colletti blu e dei contadini. A prescindere dai vantaggi garantiti da redditi più elevati e da alloggi migliori, l'intelligencija godeva in misura sproporzionata di molti altri benefici derivanti dall'appartenenza al Partito Comunista. Di nome partito della classe operaia, il Partito Comunista in URSS e nei paesi dell'Est europeo era dominato dall'intelligencija; operai e contadini rappresentavano una minoranza in rapido declino (v. Parkin, 1971).

L'appartenenza al Partito Comunista nella società socialista comportava vantaggi che non trovavano corrispondenza nella società capitalistica. La tessera del partito poteva consentire a un singolo di tirare le fila di una comunità locale, di ottenere un alloggio migliore, di acquistare gli scarsi beni di importazione, di compiere viaggi all'estero, e soprattutto di accrescere le proprie prospettive di carriera. Senza la tessera del partito, nessuno poteva aspirare a ottenere i posti meglio remunerati e di maggiore responsabilità; poiché competenze e qualificazioni dovevano associarsi all'affidabilità politica, le posizioni chiave erano assegnate solo ai membri della cosiddetta nomenklatura. I privilegi dei colletti bianchi si estendevano finanche alla possibilità di trasmettere i vantaggi sociali ai loro discendenti. L'ereditarietà della proprietà, così come esiste in Occidente, era virtualmente assente nella società socialista, ma i privilegiati potevano garantire il futuro dei loro figli mediante un accorto uso del sistema educativo. Numerosi studi empirici hanno dimostrato che i figli di famiglie di professionisti e tecnocrati raggiungevano livelli di rendimento superiori a quelli dei figli di famiglie operaie e contadine, sia nella scuola che all'università. È provato che il modello di selezione di classe nell'accesso ai livelli di istruzione più elevati non era molto diverso da quello esistente nell'Occidente capitalistico. Forse l'intelligencija dei paesi socialisti non disponeva di capitale materiale da trasmettere ai propri discendenti, ma era sufficientemente dotata di ciò che Bourdieu ha chiamato 'capitale culturale' per assicurare la propria riproduzione sociale attraverso la discendenza.

All'altro estremo della scala sociale, gli studi sulla mobilità condotti in Unione Sovietica e nei paesi dell'Europa dell'Est hanno mostrato che coloro che provenivano da famiglie operaie avevano maggiori probabilità di divenire essi stessi operai. In Ungheria, ad esempio, oltre il 70% dei maschi figli e nipoti di contadini o operai erano diventati a loro volta contadini o operai. I sociologi sovietici hanno rilevato dati analoghi circa la 'riproduzione di classe' in URSS. L'elevato livello di assenteismo e la scarsa produttività che caratterizzavano i lavoratori di molte società socialiste stavano a indicare che il senso di 'alienazione' non era affatto inconsueto in questi paesi, nonostante l'assenza della proprietà privata. In effetti, per alcuni aspetti i lavoratori erano più alienati nella società socialista che non in Occidente; la nascita di movimenti di opposizione su scala nazionale in Polonia e in Ungheria, per non considerare che gli esempi più evidenti, era la prova di una disaffezione di massa che si pensava fosse una prerogativa esclusiva del proletariato in regime capitalistico.

L'ampiezza della diseguaglianza nella società socialista, e in particolare gli svantaggi di cui soffrivano gli operai in rapporto all'intelligencija e alla burocrazia del partito, indusse alcuni teorici marxisti a equiparare questo sistema a un sistema di stratificazione in classi non molto diverso dal capitalismo. L'intellettuale iugoslavo Milovan Djilas, marxista e leader rivoluzionario, fu uno dei primi a riconoscere la natura classista dell'Unione Sovietica e, per estensione, degli altri Stati socialisti basati su quel modello (v. Djilas, 1957). Egli riteneva che il concetto di proprietà non dovesse essere inteso solo alla stregua di un mero titolo giuridico. Coloro che detenevano il controllo dei mezzi di produzione e dell'allocazione delle risorse dovevano essere considerati de facto come 'possessori' di proprietà. In ultima analisi, sosteneva Djilas, ciò che più conta non è chi ha il possesso della proprietà giuridica di fabbriche e uffici, bensì chi possiede il diritto di assumere e licenziare i lavoratori, nonché chi ha il diritto di decidere la distribuzione del prodotto. Nella società socialista, secondo Djilas, era sorta una "nuova classe" formata da coloro che controllavano l'accesso alle risorse dello Stato e che pertanto sfruttavano il resto della comunità.

Da questo punto di vista, la "nuova classe" delle società socialiste aveva un ruolo analogo a quello della borghesia in un sistema capitalistico. Non diversa fu la posizione assunta dallo studioso marxista francese Charles Bettelheim, il quale riteneva che le società di tipo sovietico non potessero essere considerate realmente socialiste dal momento che non erano state capaci di realizzare la transizione dal modo di produzione capitalistico a quello socialista. Questa tesi era pienamente compatibile con la concezione marxista ortodossa delle classi poiché non si basava solo sulla diseguaglianza sociale. Essa si incentrava sull'organizzazione della produzione anziché sulla distribuzione, e dunque chiamava in causa il processo politico attraverso il quale aveva luogo lo sfruttamento. Non si trattava solo del fatto che in un sistema socialista la classe dominante si appropriava di una quota sproporzionata di beni e di risorse, ma piuttosto del fatto che essa e soltanto essa decideva come il surplus dovesse essere ripartito. In una società effettivamente senza classi sarebbero stati gli stessi produttori a determinare l'organizzazione della produzione e la distribuzione del surplus. Nella società socialista, invece, il proletariato non era meno sfruttato che nel capitalismo.

I teorici marxisti delle classi hanno incontrato qualche difficoltà anche nel definire la posizione della burocrazia di Stato nel socialismo. Trockij, forse il critico dello stalinismo che ha avuto maggior risonanza, sosteneva che, malgrado tutti i suoi difetti, l'Unione Sovietica restava pur sempre uno Stato proletario privo di classi fintantoché il capitale privato non fosse stato reintrodotto. Le deformazioni erano provocate unicamente dal partito e dalla burocrazia statale, che monopolizzavano il potere e soffocavano ogni iniziativa proveniente dal basso. Su un punto, tuttavia, Trockij restava fermo: sul fatto che la burocrazia non dovesse essere vista come una classe dominante, perché, a differenza della borghesia, essa non possiede i mezzi di produzione. Per Trockij, a quel che sembra, per quanti abusi politici potessero verificarsi, per quanto violenta potesse essere la repressione dei lavoratori o ampio il divario tra i loro redditi e quelli dei leaders del partito, la società restava nondimeno uno Stato dei lavoratori fintanto che esisteva il possesso collettivo dei mezzi di produzione (v. Trockij, 1937).

Il problema della burocrazia nella società socialista continuò da allora a tormentare il marxismo. La teoria non poteva ammettere che la burocrazia potesse diventare una classe dominante senza scardinare i suoi dogmi fondamentali. Se si riconosceva apertamente che gli interessi di classe possono cristallizzarsi attorno a un gruppo burocratico in modo affatto indipendente dalla proprietà delle risorse produttive, l'analisi marxista sarebbe stata pressoché indistinguibile da quella weberiana. Weber non avrebbe avuto alcuna difficoltà a descrivere la burocrazia dello Stato socialista come una classe dominante, dal momento che era ben consapevole delle potenzialità oppressive di tutte le forme di autorità burocratica.

Egli aveva anzi predetto che il socialismo sarebbe divenuto un sistema più oppressivo del capitalismo proprio perché la burocrazia socialista avrebbe usurpato l'autorità di cui si supponeva dovesse essere investita la classe operaia. Il dilemma, per i marxisti occidentali, era che se si ammetteva la stratificazione in classi della società socialista allora l'elaborata teoria intesa a dimostrare il carattere specificamente oppressivo del capitalismo risultava sconvolta. Se, invece, si accettava la versione ufficiale del marxismo sovietico, secondo la quale la società socialista contemporanea era priva di classi, ciò non costituiva di certo una buona propaganda per il socialismo, tenuto conto di quanto si sapeva sull'arretratezza economica e sulla rigidità politica di questo sistema. Perché allora la classe operaia occidentale avrebbe dovuto intraprendere il difficile e rischioso compito di sovvertire il capitalismo solo per realizzare un sistema nient'affatto migliore, anzi, probabilmente, peggiore dello stesso capitalismo?

7. Masse ed élites

L'immagine del socialismo come società senza classi non fu delineata soltanto dagli apologeti di questo sistema, ma anche dai suoi più accaniti detrattori. Per questi ultimi l'assenza delle classi non era tanto un sogno quanto un incubo. Intellettuali come Raymond Aron e Hannah Arendt descrissero le società di tipo sovietico come una sorta di totalitarismo, una forma di stratificazione nella quale un'élite politica fortemente coesa si contrapponeva a una massa disorganizzata.

L'onnipotenza e l'onnipresenza dell'apparato di partito erano talmente schiaccianti da annullare tutti i gruppi sociali indipendenti che si situavano tra la famiglia e lo Stato. A causa del diffuso timore per la polizia segreta e per altri organi dello Stato, era difficile che potessero sorgere nella popolazione sentimenti e atteggiamenti tipici della classe. Le differenze di origine sociale, di reddito, di istruzione, ecc., diventavano insignificanti di fronte a più immediate preoccupazioni. Tutti erano uguali sotto il terrore rosso. Oltretutto, si sosteneva, la stratificazione di classe nella società socialista non era impedita dai soli effetti atomizzanti della coercizione; il partito tentava anche attivamente di prevenire la formazione di classi, dal momento che le classi sociali, al pari di altri gruppi spontanei, avrebbero minacciato il suo monopolio del potere. Come scrisse Robert Feldmesser, "il partito doveva far sì, nel lungo periodo, che ogni persona si sentisse individualmente e continuamente messa alla prova, che status e compensi rimanessero contingenti ed effimeri. La minaccia più grave per il partito era che potesse svilupparsi, entro un gruppo o una classe, un sentimento di identificazione o di solidarietà". In particolare, il partito avrebbe tentato di prevenire la nascita di una 'classe manageriale', dal momento che questa avrebbe potuto divenire una potente forza autonoma affrancata dalle direttive dell'apparato di partito (v. Feldmesser, 1961, p. 581).
Tutto ciò avrebbe dato origine a una società non stratificata in classi secondo il modello convenzionale; la divisione fondamentale era invece quella tra l'élite del partito e una massa amorfa e indifferenziata. Si trattava di un tipo di stratificazione in cui all'individuo erano negati quei supporti psicologici e sociali propri di un gruppo indipendente. Le persone erano alla deriva sociale, senza radici e demoralizzate, il che le rendeva tanto più adatte a essere manipolate dall'élite politica.

Da questo punto di vista la stratificazione di classe appariva un sistema sociale positivo e umano. Le classi si affermano soltanto dove lo Stato e la società civile sono ben distinti, consentendo così alle leggi naturali del mercato di creare divisioni economiche e sociali altrettanto naturali. Là dove lo Stato assorbe la società civile, esso impone un sistema artificioso di allocazione delle risorse determinato più da criteri ideologici che dalla mano invisibile e impersonale del mercato. Vale a dire che l'ordine della stratificazione è una creazione politica intenzionale, che riflette gli atteggiamenti e gli orientamenti politici di volta in volta diversi dell'élite del partito. Classi sociali vere e proprie possono nascere soltanto, per così dire, dal basso; non possono essere imposte dall'alto come parte di un qualche grandioso progetto ideologico. Vere classi possono sorgere soltanto in una situazione di libertà. L'assenza delle classi è un chiaro indice di assenza di libertà.

8. Condizione etnica e stratificazione di classe

Fino a non molto tempo fa, qualunque discussione sul tema della stratificazione sociale poteva agevolmente prescindere dal problema etnico senza per questo risultare incompleta, anche se sarebbe stato opportuno prendere in considerazione taluni aspetti delle divisioni razziali. Non sarebbe stato possibile, invece, fare lo stesso discorso per quanto concerne diseguaglianze e divisioni fondate su differenze non appartenenti alla sfera delle caratteristiche fisiche. Per gli studiosi europei di scienze sociali, in particolare, l'omogeneità etnica e razziale ha costituito il presupposto dell'analisi dei rapporti di classe. Gli autori classici della teoria sociale condividevano in larga parte l'idea che le identità ascrittive, come la razza, la lingua, la religione e la cultura, fossero destinate a scomparire per l'influenza omologante della moderna società industriale. Sussisteva la diffusa convinzione che il graduale assorbimento nella società civile di gruppi precedentemente esclusi avrebbe indebolito le rigide fedeltà 'tribali' tradizionali, tipiche dei sistemi agrari.La riluttanza a prendere in seria considerazione le differenze etniche e culturali potrebbe trovare, almeno in parte, giustificazioni di ordine teorico. Una delle caratteristiche tipiche della differenziazione e del conflitto etnico è costituita dall'assoluta varietà di forme che essi assumono nelle diverse realtà sociali. In alcune società si tratta del conflitto razziale tra bianchi e neri; in altre si ha una contrapposizione tra cattolici e protestanti, o tra musulmani e cristiani; in altre ancora tra gruppi linguistici distinti e così via.

Queste divisioni emergono in situazioni specifiche di determinate società, ed esistono, se esistono, ben pochi antecedenti storici comuni in grado di spiegarle tutte. Ciò è dovuto forse al fatto che la condizione etnica, a differenza della condizione di classe, non può essere considerata come una caratteristica intrinseca e generale della società capitalistica. In effetti si tratta di un aspetto affatto contingente, nel senso che è perfettamente possibile costruire un modello tipico di capitalismo che escluda del tutto i fattori etnici. Poiché la condizione etnica non è stata considerata un elemento distintivo del sistema sociale - ossia una sua caratteristica universale e necessaria - l'esigenza di incorporare i fatti relativi alla razza, alla religione, alla lingua e alla cultura nella teoria della classe non è stata mai realmente presa in considerazione. Come ha osservato David Lockwood, la strategia comunemente seguita è stata quella di trattare l'esistenza delle divisioni etniche come un fattore che 'complica' l'analisi delle classi. In altri termini, la condizione etnica è stata vista come un fatto sociale in grado di disturbare o di modificare il modello tipico delle classi, ma non le è stato attribuito lo stesso rilievo teorico accordato alla classe, né è stata considerata come un fenomeno sui generis (v. Lockwood, 1970).

Così, uno dei retaggi più negativi degli autori classici è stato quello di non aver preparato la moderna teoria della stratificazione ad affrontare l'attuale rinascita dei conflitti e delle identità etniche. Pressoché tutte le società industriali avanzate hanno avuto occasione di sperimentare qualche forma di revival etnico e di conflitto tra comunità; quelle che non hanno conosciuto questi fenomeni assumono sempre più la caratteristica di casi devianti. Il conflitto etnico rappresenta oggi un aspetto normale della società moderna, non meno del conflitto di classe.

Gli studi sulla stratificazione etnica hanno dovuto affrontare due problemi tra loro collegati. In primo luogo quello di rendere conto della contemporanea presenza, all'interno di società del tutto diverse, di conflitti affatto indipendenti, specie in quelle società in cui tali antagonismi erano rimasti per lungo tempo latenti. In secondo luogo quello di spiegare la connessione, se connessione vi è, tra il conflitto etnico e il modello più familiare del conflitto di classe. Un articolato approccio a questo problema è stato proposto da Nathan Glazer e Daniel Moynihan. Essi considerano la condizione etnica non come un fattore che richiede di essere spiegato all'interno di un più ampio contesto di classe, ma piuttosto come un elemento che ha soppiantato la classe come principale forma di diseguaglianza e conflitto. Glazer e Moynihan sostengono che, in passato, "il rilievo attribuito ai rapporti di proprietà ha oscurato i rapporti etnici"; ora sarebbe invece "la proprietà ad assumere un ruolo subordinato, mentre l'elemento etnico pare essere diventato una delle cause fondamentali della stratificazione" (v. Glazer e Moynihan, 1975, pp. 16-17). Una delle ragioni principali portate a sostegno di questa tesi è che la natura dell'azione collettiva intrapresa dai gruppi etnici ha subito un profondo cambiamento in questi ultimi anni.

Originariamente questi gruppi erano impegnati in azioni di retroguardia per la conservazione culturale tramite la gestione di proprie scuole, la pubblicazione di propri giornali, l'istituzione di club a essi riservati, ecc. Ora, invece, essi hanno adottato uno stile più combattivo incentrato su attività dirette espressamente a modificare la ripartizione delle remunerazioni a favore dei loro membri. Non si tratta semplicemente del fatto che questi gruppi etnici hanno assunto funzioni e strategie politiche in tutto simili a quelle delle classi sociali organizzate; essi sono in un certo senso divenuti più efficaci delle classi nella mobilitazione delle loro forze per il perseguimento di fini collettivi. Secondo Daniel Bell, uno dei principali sostenitori di questa tesi, la nuova classe operaia del moderno capitalismo ha perso molta della sua capacità di agire come entità collettiva. Si è allontanata dalla storia, dall'ideologia e dai simboli del vecchio movimento operaio, lasciando a esso soltanto gli scopi più limitati della rivendicazione economica. Nel vuoto morale che si è prodotto si sono affacciati i gruppi etnici, i quali, a differenza del proletariato, possono fornire ai loro membri un senso di identità, uno scopo; e dunque rispondono a quel bisogno di dignità collettiva che ispira l'azione politica tra i diseredati (v. Bell, 1975). Il presupposto plausibile di questo ragionamento è che, in periodi di intenso conflitto di classe, non resta molto altro 'spazio sociale' per l'emergere di tipi diversi di conflitto. Di contro, quando il conflitto di classe è in fase calante, l'occasione è propizia perché altre forze sociali si facciano avanti, e tra queste i gruppi etnici. Questo implica, ovviamente, che il conflitto etnico potrebbe nuovamente regredire se l'antagonismo di classe dovesse farsi più acuto.

Questo approccio al problema verrebbe decisamente rifiutato da teorici della stratificazione che si muovessero nel solco della tradizione marxista. Essi non ammetterebbero che le divisioni di classe siano state soppiantate dalle divisioni etniche, né che i gruppi etnici possiedano maggiori capacità di azione collettiva del proletariato. I marxisti tendono ancora a vedere il conflitto etnico come un esempio di astuzia borghese tesa a seminare confusione e scompiglio nella classe operaia. Le divisioni etniche, linguistiche e confessionali all'interno del proletariato vengono considerate come espressioni di 'falsa coscienza', come una condizione temporanea che indebolisce l'impegno nella lotta di classe, ma che è destinata a essere superata con l'acuirsi della crisi del capitalismo (v. Parkin, 1979).

La tesi secondo la quale il conflitto etnico costituisce un aspetto specifico della società capitalistica è stata messa in seria difficoltà dall'esplosione di conflitti tra comunità diverse negli Stati socialisti. I gravi conflitti verificatisi tra gruppi etnici rivali in URSS, Iugoslavia e Bulgaria stanno a indicare che la società borghese non detiene affatto il monopolio dei conflitti tra comunità. È significativo, inoltre, che negli Stati socialisti i movimenti di opposizione di tipo etnico abbiano mostrato una capacità di mobilitazione maggiore dei gruppi d'opposizione basati sulle classi. Ciò sembrerebbe confermare la tesi di Glazer e Moynihan e di Bell circa la superiore potenzialità politica dei movimenti etnici rispetto al movimento operaio. Pressoché tutti i movimenti etnici presenti negli Stati socialisti hanno avuto una marcata impronta nazionalistica. Le loro rivendicazioni non erano volte a ottenere unicamente una quota maggiore delle risorse sociali, quanto piuttosto una maggiore autonomia politica o addirittura l'assoluta indipendenza dallo Stato vigente. Una delle possibili conclusioni che possiamo trarre da questi eventi è che la politica perseguita dai gruppi etnici si spiega meglio facendo riferimento al concetto di nazionalismo che non alla teoria della stratificazione sociale. In ogni caso, là dove è presente una forte componente territoriale, le interpretazioni della questione etnica, avanzate di norma in termini di diseguaglianza sociale e materiale, difficilmente riescono a cogliere il particolare carattere dell'azione collettiva attraverso la quale un gruppo sociale tenta di conquistarsi lo status di gruppo separato e indipendente.

9. Conclusioni

La principale conclusione che può trarsi dalle riflessioni che precedono è che la stratificazione sociale non può essere discussa e analizzata in modo completamente avalutativo. Il problema di decidere se una determinata società sia o non sia una società di classe e, in caso affermativo, di che tipo di stratificazione in classi si tratti, non può essere risolto appellandosi ai 'fatti'. I medesimi fatti sociali si prestano a interpretazioni diverse, a seconda del modello di stratificazione adottato. Un modello di tipo funzionalistico disporrà i fatti sociali relativi alla diseguaglianza in modo diverso da un modello weberiano o marxista.

Anche entro le ampie coordinate della teoria weberiana e marxiana si riscontrano significative varianti interpretative. I weberiani non sono affatto concordi tra loro circa la natura di classe della società capitalistica; in modo analogo i marxisti hanno espresso disaccordo circa l'esistenza delle classi nella società socialista contemporanea. Le classi, a quel che sembra, appaiono o scompaiono con il semplice movimento di una bacchetta magica concettuale. Ora le vedi, e poco dopo scompaiono.

Ciò non deve necessariamente destare scoraggiamento. Se non è possibile raggiungere l'obiettività, lo studioso della stratificazione sociale è nondimeno sollecitato a usare buon senso e capacità di giudizio nel valutare i meriti delle teorie rivali. Controversie e rivalità sono destinate a permanere in un ambito così delicato dal punto di vista morale e politico come l'analisi delle classi. Ciò costituisce il segno dell'importanza del tema e la ragione del suo perenne fascino.