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Enciclopedia delle scienze sociali
di Angelo Pichierri
sommario: 1. Classi medie e modelli dicotomici di stratificazione.
2. Le classi medie nella struttura di classe dei paesi
industrializzati. 3. La tradizione marxista. 4. La tradizione
weberiana. 5. La mobilità sociale: proletarizzazione e
imborghesimento. 6. La mobilitazione politica: classi medie e
fascismo. 7. Strategie di chiusura, privazione relativa, gruppi
d'interesse. □ Bibliografia.
1. Classi medie e modelli dicotomici di stratificazione
L'espressione 'classe media' diventa di uso comune nel XIX secolo
come sinonimo di 'borghesia imprenditoriale', per indicare
cioè la classe che per reddito, prestigio e potere occupa una
posizione intermedia tra l'aristocrazia e il proletariato. Col
progressivo peggioramento della posizione relativa della vecchia
classe dominante, e la sua sostituzione a opera della nuova classe
imprenditoriale, l'espressione 'classe media', il suo sinonimo 'ceto
medio' e i loro plurali passano a indicare quei gruppi sociali che,
non appartenendo né alla borghesia né al proletariato,
si collocano tra i due occupando una dimensione rilevante della
stratificazione sociale.
Per scontato che possa sembrare, è necessario notare fin
dall'inizio che parlare di classi medie implica che: a) si
considerino le classi come attori rilevanti nella struttura sociale;
b) si faccia riferimento a due classi estreme rispetto alle quali
una o più altre occupano una posizione di mezzo.
Da queste osservazioni ne derivano altre a volte paradossali,
relative al rapporto tra il concetto di classe media e le teorie
sociologiche della struttura di classe, e in particolare quelle di
tali teorie che usano schemi dicotomici.
I concetti di classe e di struttura di classe non coincidono con
quello di stratificazione sociale, con cui sono se mai in un
rapporto da specie a genere. L'espressione 'stratificazione sociale'
fa riferimento a diversi modelli di classificazione delle
diseguaglianze sociali strutturate: gli strati che questi
individuano non sono attori sociali collettivi nel senso in cui lo
sono le classi. La contrapposizione tra teorie della stratificazione
sociale e teorie delle classi è ancora più evidente
quando le seconde usano schemi dicotomici, che dividono la
società tra governanti e governati, ricchi e poveri, quelli
per cui si lavora e quelli che lavorano (v. Ossowski, 1957, cap. 2).
Ora, se da una parte l'espressione 'classe media' fa implicitamente
riferimento a un qualche modello dicotomico (e non pluralisticamente
articolato) di struttura di classe (e non di stratificazione
sociale), dall'altra parlare di classe media fa compiere un passo in
direzione di modelli di stratificazione, che generalmente prevedono
una pluralità di strati. In questi modelli ogni strato,
tranne i due estremi, è in qualche modo 'medio'. Accade
così che, sebbene la dicotomia sia il presupposto della
medietà, in ogni interpretazione dicotomica della struttura
di classe le classi medie abbiano un ruolo secondario, disturbante,
transitorio: lo si vedrà in particolare a proposito
dell'opera di Marx.
Che il concetto di classe media sia contraddittoriamente ma
inestricabilmente legato a interpretazioni di tipo dicotomico
è provato anche dalla sua scarsa presenza e dalla sua scarsa
rilevanza nei modelli di tipo funzionalistico, anch'essi in genere
pluralistici. Anche negli schemi di tipo funzionalistico è
possibile individuare due classi estreme in cui reddito, prestigio e
potere sono molto più elevati o molto più bassi di
quelli di altre classi, 'medie'. Ma se l'accento è posto
sulle funzioni svolte da determinate classi, è difficile
individuare una gerarchia che renda sensato parlare di classi medie:
nell'apologo di Menenio Agrippa ogni organo del corpo umano svolge
una funzione egualmente indispensabile. Se invece l'accento è
posto sui compensi ottenuti (i sociologi hanno di solito misurato
reddito e prestigio), si ricade nella pluralità di strati che
rende difficile parlare di classi medie. Ulteriori elementi di
complicazione derivano dall'introduzione della dimensione
soggettiva. L'autoassegnazione a (l'identificazione con) una classe
presuppone intanto che l'individuo che la compie abbia una visione
strutturata della società in cui vive, nella quale le classi
siano un elemento rilevante. Ma l'autoassegnazione alla classe media
implica assai spesso forti elementi normativi, una visione non
conflittuale della società, fiducia nelle autorità
tradizionali. Anche a prescindere dalle obiezioni metodologiche che
di solito si possono rivolgere alle surveys che prevedono domande su
questo tema, è quindi quantomeno imprudente dedurre
proposizioni sulla strutturazione reale dell'ineguaglianza sociale,
in una data società, dall'autoassegnazione di classe dei
soggetti interessati, ritenendo, ad esempio, che la crescita del
numero delle persone che si considerano classe media corrisponda
davvero alla crescente unificazione della situazione di lavoro e di
mercato di una vasta parte della popolazione.
Su alcuni di questi problemi torneremo nei capitoli successivi, per
discutere le diverse soluzioni teoriche che sono state per essi
proposte.
Ma prima converrà dedicare qualche rapido cenno alle
caratteristiche empiriche e all'evoluzione delle classi medie.
Parleremo in genere di 'classi medie' al plurale: l'espressione
'classe media' è diventata estremamente generica a partire
dal momento in cui, non designando più la borghesia
imprenditoriale, ha cominciato a designare gruppi così
diversi come i contadini e i liberi professionisti, gli artigiani e
i burocrati. Dati i limiti di questo articolo, il campo di
osservazione sarà costituito dai paesi capitalistici
industrializzati, nell'ambito dei quali il concetto è stato
elaborato e prevalentemente usato.
2. Le classi medie nella struttura di classe dei paesi
industrializzati
Dopo le rispettive rivoluzioni industriali, in ognuno dei paesi
capitalistici oggi 'avanzati' la struttura di classe è
caratterizzata dalla presenza delle due fondamentali classi degli
imprenditori e degli operai industriali. Non sempre e non subito
queste due classi diventano rispettivamente dominante e
maggioritaria. Il fatto che esse siano comunque le classi
caratteristiche della nuova formazione sociale fa sì che le
altre classi debbano essere in qualche modo definite in rapporto a
esse.
Il grosso delle altre classi può esser fatto rientrare nella
piccola borghesia 'relativamente autonoma' e nella piccola borghesia
'impiegatizia' (v. Sylos Labini, 1974). Della prima fanno parte i
lavoratori autonomi, proprietari dei loro mezzi di produzione, che
non impiegano, o impiegano in misura minima e occasionale, lavoro
salariato: coltivatori diretti, commercianti, artigiani. Della
seconda fanno parte gli impiegati pubblici e privati. Esistono poi
gruppi sociali più difficilmente classificabili, come i
liberi professionisti, il clero, i militari. Ognuna di queste classi
ha avuto un'evoluzione diversa.Allo spostamento di popolazione
attiva dall'agricoltura all'industria e ai servizi ha ovviamente
fatto riscontro, in tutti i paesi capitalistici industrializzati,
una drastica diminuzione del numero dei coltivatori diretti. In Gran
Bretagna la riduzione degli addetti all'agricoltura precede e
accompagna la rivoluzione industriale; in un paese late-comer come
l'Italia i coltivatori diretti erano ancora il 22,5% della
popolazione attiva nel 1881, e sono il 7,6% nel 1983; in Francia
l'evoluzione è assai simile; negli Stati Uniti i dati sono
ancora abbastanza simili nel 1890, ma la successiva riduzione
è assai più drastica (v. Sylos Labini, 1986).
La permanenza o meno di una vasta classe contadina (e di una classe
di grandi proprietari terrieri) nel corso del processo di
industrializzazione è gravida di conseguenze non solo per la
struttura di classe, ma anche per il sistema politico.
Nell'interpretazione che dà B. Moore (v., 1966) delle
"origini sociali della dittatura e della democrazia", i contadini
vengono regolarmente strumentalizzati ai fini di soluzioni politiche
autoritarie di destra, quando non costituiscono la base di massa di
una rivoluzione comunista. Solo in Gran Bretagna e negli Stati Uniti
- paesi in cui, per ragioni diverse, i contadini non sono più
stati un soggetto rilevante dopo la rivoluzione industriale - la
democrazia parlamentare si è affermata in maniera solida.Per
la seconda componente della piccola borghesia autonoma, i
commercianti, la tendenza secolare è quella della
stabilità o addirittura della crescita. La crescita è
clamorosa in Italia, dove i commercianti passano tra il 1881 e il
1983 dal 2,5 al 10,4% (v. Sylos Labini, 1986).
Nel caso dei coltivatori diretti come nel caso dei piccoli
commercianti, l'evoluzione quantitativa della classe è
fortemente condizionata dalle decisioni del potere politico: lo
Stato interviene a più riprese per correggere una tendenza
alla contrazione determinata dal mercato. È il caso delle
bonifiche e dei programmi di riforma agraria che promuovono la
proprietà contadina nell'Italia fascista e nell'Italia
repubblicana; è il caso del complesso e costosissimo sistema
di aiuti all'agricoltura della Comunità Economica Europea,
che mantiene sul mercato produttori (non soltanto piccoli) di beni
destinati all'immagazzinamento permanente e alla distruzione. Per
quanto riguarda i commercianti, in tutti i paesi europei il loro
numero è stato influenzato dall'atteggiamento più o
meno permissivo assunto dal potere politico nei confronti della
grande distribuzione. In Italia, per un lungo periodo di storia
unitaria, la possibilità stessa di diventare commerciante
dipese da una decisione del potere politico locale, attraverso
l'istituto della 'licenza'. Recentemente la norma che ha reso
obbligatorio per i piccoli commercianti l'uso dei registratori di
cassa ha mostrato ancora una volta come l'adozione di un solo
provvedimento legislativo possa influire in tempi brevi sulle
dimensioni e la composizione di una classe.I casi citati mostrano
chiaramente come la persistenza della piccola borghesia tradizionale
non sia spiegabile in termini puramente economici. Le spiegazioni
sociologiche più interessanti rimandano all'azione del potere
politico, che protegge i ceti in declino per le funzioni che essi
svolgono nel contenimento della disoccupazione, nel controllo dei
lavoratori marginali, nella produzione di consenso (v. Berger, 1974;
v. Pizzorno, 1980).
La distinzione tra piccola borghesia tradizionale e piccola
borghesia moderna non passa solo attraverso le dimensioni
dell'impresa: esistono grandi imprese gestite con criteri del tutto
tradizionali e piccole imprese innovative. Ciò appare
particolarmente importante nel caso della terza componente della
piccola borghesia relativamente autonoma, gli artigiani, la cui
evoluzione sembra più direttamente determinata dal mercato e
dalle caratteristiche della struttura industriale. In termini
generali si può parlare: a) di una riduzione del numero degli
artigiani nella prima fase del processo di industrializzazione,
quando un gran numero di microimprese vengono eliminate dalla
concorrenza delle grandi e un gran numero di artigiani si
proletarizzano in senso stretto, passano cioè nelle file del
lavoro salariato; b) di tendenze contraddittorie nella fase
'fordistica' caratterizzata dalla grande fabbrica e dal lavoro a
catena, in presenza però di una fitta rete di sub-fornitori e
di 'nuovi artigiani' che svolgono attività di manutenzione e
riparazione; c) di un recente aumento delle piccole imprese e dei
lavoratori autonomi nella fase in cui al fordismo subentra la
'specializzazione flessibile' (v. Sabel, 1982). Quantificare queste
affermazioni è però assai problematico, date le
difficoltà di definizione, classificazione e quindi
comparabilità che l'uso del termine 'artigiano' comporta. Lo
stesso vale per 'piccolo imprenditore', 'lavoratore autonomo', o per
l'inglese self-employed, non a caso non traducibile alla lettera in
italiano. La legislazione di diversi paesi prevede una particolare
normativa per artigiani diversamente definiti: ad esempio, in Italia
in base al numero dei dipendenti e alla partecipazione del titolare
al processo produttivo, nella Repubblica Federale di Germania in
base al settore di appartenenza e al tipo di bene prodotto. Gli
artigiani si collocano in un continuum a un estremo del quale
troviamo il lavoratore autonomo che opera senza dipendenti, in una
situazione che può configurare forme di lavoro dipendente
mascherato (come nel caso in cui l'artigiano ha un unico cliente) e
può prevedere periodici passaggi al lavoro dipendente (come
accade in settori così diversi come l'edilizia e la
produzione di software). Lungo il continuum si incontrano poi i
piccoli imprenditori titolari di imprese in cui lavorano dei
salariati: ma è difficile decidere in astratto quando
un'impresa cessa di esser piccola per diventare media o grande, e
quando un piccolo borghese diventa borghese.
La percezione e la valutazione della piccola impresa hanno
rapidamente attraversato, specialmente in Italia, fasi
contraddittorie non sufficientemente giustificabili con l'evoluzione
dell'oggetto dell'indagine. Negli anni cinquanta e sessanta
l'attenzione degli studiosi, ma anche quella degli operatori
politici e sindacali, era prevalentemente assorbita dalla grande
impresa, nonostante il fatto che, anche negli anni del 'miracolo
economico', la maggior parte dei lavoratori industriali fossero
impiegati presso imprese piccole e medie, la cui crescita numerica
indicava rilevanti processi di mobilità ascendente. Alla fine
degli anni sessanta la 'scoperta' del mondo della piccola impresa
coincise con la sua interpretazione in termini di arretratezza o
come risultato di una strategia di decentramento attuata dalle
grandi imprese, volta a creare 'reparti staccati' dove i lavoratori
potessero essere meglio controllati e sfruttati. Dalla metà
degli anni settanta la consapevolezza del fatto che, almeno dal
punto di vista dell'occupazione, le piccole imprese avevano retto
alla crisi meglio delle grandi e la crescente notorietà dei
successi economici dei 'distretti industriali' dell'Italia
centrorientale, caratterizzati da reti di piccole imprese dinamiche
e innovative, provocarono valutazioni spesso indiscriminatamente
positive dei vantaggi economici e sociali della piccola dimensione.
Gli impiegati pubblici - gruppo sociale già chiaramente
identificabile, anche se non particolarmente numeroso, al momento
della formazione degli Stati nazionali - aumentano progressivamente
con l'estendersi delle funzioni dello Stato e in particolare, nel XX
secolo, con l'espandersi del sistema educativo e delle
attività caratteristiche dello Stato assistenziale. Nel corso
degli ultimi cent'anni circa la loro percentuale sul totale della
popolazione attiva passa dal 4,1 al 15,8% in Italia; dal 5,4 al
20,4% in Francia; dal 6 al 21% nel Regno Unito; dal 7 al 17,4% negli
Stati Uniti (v. Sylos Labini, 1986).
Gli sviluppi del Welfare State successivi alla seconda guerra
mondiale sono stati spesso interpretati con modelli di "carattere
'dicotomico-evoluzionista', in cui il termine a quo - costituito dal
mercato, con le sue modalità selettive ed i suoi limiti di
soddisfacimento dei bisogni sociali - viene corretto e superato dal
termine ad quem - un Welfare State sviluppato ed esteso" (v. Paci,
1982, p. 346). Nel caso della protezione sociale come in quello di
una serie di servizi, sembra invece più utile ragionare in
termini di mix tra Stato, mercato e 'terzo settore' (famiglia,
comunità, associazioni volontarie), le cui variazioni possono
dare esiti non unilineari per quanto riguarda l'evoluzione
quantitativa del pubblico impiego.
Gli impiegati privati, in particolare dell'industria, sono un gruppo
quantitativamente assai ristretto durante la prima fase del processo
di industrializzazione. Proprio in relazione al loro basso numero si
è spesso sottolineato il loro ruolo di stretti collaboratori
e rappresentanti dell'imprenditore; ma ricerche recenti hanno
mostrato almeno per un caso nazionale, quello della Germania, quanto
vaga fosse la linea di separazione tra colletti bianchi e colletti
blu ancora alla fine del XIX secolo, in netto contrasto con la
situazione di pochi decenni dopo (v., Kocka, 1981). Sempre secondo
le stime di Sylos Labini (v., 1986) per l'ultimo secolo, gli
impiegati privati passano in Italia dallo 0,6 al 10,2%; in Francia
dal 5,7 al 18,4%; nel Regno Unito dal 3,3 al 23,9%; negli Stati
Uniti dal 14,7 al 49,1%.Assai rilevante appare, nell'industria, il
fenomeno definito come 'burocratizzazione delle imprese' (v. Bendix,
1956, cap. 4) o come 'impiegatizzazione' (v. Gambetta, 1978). Si
tratta della tendenza all'aumento percentuale dei lavoratori non
manuali sul totale dei lavoratori industriali, oggi chiarissima, ma
già visibile nella prima metà del XX secolo: negli
Stati Uniti gli impiegati passano tra il 1889 e il 1947 dal 7,7 al
21% dei lavoratori industriali; in Francia, tra il 1901 e il 1936,
dall'11,8 al 14,6%; in Gran Bretagna, tra il 1907 e il 1948,
dall'8,6 al 20%; in Germania, tra il 1895 e il 1933, dal 4,8 al 14%
(v. Bendix, 1956). Alla fine degli anni sessanta la percentuale
degli impiegati sul totale dei dipendenti dell'industria è
dell'11,3% in Italia, del 25% nella Repubblica Federale di Germania,
del 24,1% in Francia, del 27,5% in Olanda, del 19% in Belgio, del
24,2% in Gran Bretagna (v. Gambetta, 1978). Dati di questo genere
costituiscono un elemento importante dello sfondo delle teorie della
proletarizzazione degli impiegati (v. cap. 5).
Anche a prendere con cautela le stime fin qui citate, e le categorie
cui esse si riferiscono, la crescente rilevanza quantitativa e
funzionale delle classi medie risulta evidente. Oltre che da ragioni
puramente intellettuali, l'interesse per questi gruppi sociali
è stato dettato dal desiderio di spiegare e prevedere il loro
comportamento politico, risultato decisivo in più di una
circostanza storica. In particolare, come vedremo, l'analisi delle
caratteristiche e del comportamento delle classi medie è
stata un passaggio obbligato delle interpretazioni sociologiche del
fascismo (v. Saccomani, 1977).
3. La tradizione marxista
Come è stato più volte osservato, nell'opera di Marx
il concetto di classe, sebbene centrale, non è definito con
precisione né trattato sistematicamente. A maggior ragione
questo vale per le classi medie e per la loro posizione nella
struttura di classe. In quella che S. Ossowski chiama "la sintesi
marxiana", la piccola borghesia "viene definita applicando
contemporaneamente due criteri, ciascuno dei quali separatamente
costituisce una base per una demarcazione dicotomica delle classi
sociali" (v. Ossowski, 1963; tr. it., p. 87). La prima dicotomia
è quella tra classi che posseggono e classi che non
posseggono gli strumenti di produzione; la seconda è quella
tra classi lavoratrici e classi non lavoratrici. La piccola
borghesia è composta da coloro che posseggono propri mezzi di
produzione e li adoperano personalmente; in una versione più
restrittiva il secondo criterio comporta che non si utilizzi in
alcun modo lavoro salariato. La definizione, come si vede, riguarda
le classi medie tradizionali e non la nuova classe media
impiegatizia, che costituirà in seguito per i marxisti un
difficile problema teorico e pratico. Ossowski fa poi notare la
presenza (marginale) in Marx di un'interpretazione delle classi
medie fondata su uno schema di gradazione, in cui la collocazione di
classe varia al variare dell'ammontare del capitale e delle
dimensioni dei mezzi di produzione, e la presenza (rara, ma non
marginale) di uno schema funzionalistico di origine smithiana
(proprietari di sola forza lavoro, proprietari di capitale,
proprietari fondiari) in cui non c'è posto per classi
intermedie.
Nell'opera di Marx coesistono quindi schemi interpretativi diversi,
da cui è possibile ricavare una struttura a più
classi. Lo stesso Marx, in opere come Il 18 brumaio, ricava dalla
'struttura stabile' dicotomica una 'struttura mobile' articolata,
attraverso l'uso di variabili politiche, organizzative,
istituzionali (v. Pizzorno, 1980, p. 68). La dicotomia tra
capitalisti e proletari resta tuttavia fondamentale, soprattutto
perché indica la direzione dell'evoluzione storica, nel corso
della quale le classi medie sono destinate a scomparire
progressivamente. Sta qui l'origine delle teorie della
proletarizzazione, con le quali tanti marxisti cercheranno in
seguito di spiegare e prevedere l'evoluzione della vecchia e della
nuova classe media. Come sottolinea efficacemente Giddens, in Marx
il modello 'astratto' o 'puro' di struttura di classe è
sempre dicotomico. "Le classi medie sono o classi transitorie o
segmenti delle classi fondamentali": classi transitorie e segmenti
di classe complicano il modello dicotomico, ma è questo che
si afferma progressivamente, con la loro eliminazione (v. Giddens,
1973, cap. 1).
I termini essenziali del dibattito sulle classi medie in campo
marxista si profilano chiaramente già alla fine del secolo
scorso. 'Revisionisti' come Bernstein, David, Kampffmeyer -
confutati dagli 'ortodossi' Kautsky, Pannekoek, Lenin - anticipano
molte delle obiezioni rivolte a Marx dalla sociologia contemporanea
(v. Fetscher, 1964; tr. it., vol. II, p. 278). La previsione della
progressiva proletarizzazione delle classi medie e della progressiva
polarizzazione della struttura e del conflitto di classe si scontra
con la persistenza delle classi medie tradizionali e soprattutto con
la crescita della nuova classe media degli impiegati e dei tecnici,
cui Marx aveva dedicato solo rapidissimi cenni. Il comportamento di
questi gruppi sociali diventa potenzialmente determinante nei
conflitti sindacali e politici: il movimento socialista si pone il
problema dell'alleanza con le (nuove) classi medie, e i suoi
intellettuali si pongono il problema della loro collocazione nella
struttura di classe, nella convinzione che l'individuazione di tale
collocazione, e degli interessi 'oggettivi' che essa comporta,
permetta di prevederne il comportamento politico.
Nella definizione della collocazione di classe della piccola
borghesia impiegatizia sono state regolarmente usate altre due
dicotomie: la prima, fondata sull'osservazione e sul senso comune,
è quella tra lavoro manuale e lavoro intellettuale o, in modo
più neutro, non manuale; la seconda, tipica della tradizione
marxista, è quella tra lavoro produttivo e lavoro
improduttivo.In una classificazione particolarmente rigorosa e
restrittiva (v. Poulantzas, 1974, parte III) - e come tale presa a
bersaglio favorito da un critico neoweberiano (v. Parkin, 1979, cap.
2) - le due dicotomie vengono combinate distinguendo tra lavoro
salariato a) produttivo intellettuale, b) produttivo manuale, c)
improduttivo intellettuale, d) improduttivo manuale. Solo il lavoro
produttivo manuale caratterizza la classe operaia, mentre gli altri
tre tipi individuano diverse componenti della piccola borghesia.
La distinzione tra lavoro produttivo e lavoro improduttivo è
stata al centro di una lunga controversia teorica, che non possiamo
qui ricostruire e che ha lasciato seri dubbi sulla sua fondatezza.
Inoltre, essa si è rivelata inutile al fine della spiegazione
e della previsione degli atteggiamenti e comportamenti politici dei
gruppi sociali che pretendeva di individuare.
Commentando tentativi di questo genere, Parkin ha scritto che
"indipendentemente dal rigore scientifico e dalla precisione con cui
sono definite le categorie tassonomiche, sembra che i principali
gruppi sociali continuino ad agire nella più palese
indifferenza rispetto a tali categorie" (v. Parkin, 1979; tr. it.,
p. 22). La critica di Parkin non si limita a questo, e considera del
tutto incoerenti i tentativi di marxisti come Poulantzas e Carchedi
di introdurre nell'analisi delle classi variabili politiche e
ideologiche, perché i conflitti politici "non corrispondono
mai ai confini del modello delle classi" (ibid., p. 23). Affermare
che non vi sia mai corrispondenza tra posizione di classe e
comportamento politico sembra francamente eccessivo. È vero
però che, come mostrano l'osservazione e la ricerca empirica,
la formazione di identità collettive e i comportamenti che ne
conseguono dipendono da variabili talmente diverse che la posizione
di classe non sembra un predittore privilegiato.
D'altro canto, in un'opera ricca, articolata, e anche internamente
contraddittoria come quella di Marx, non mancano appigli per una
definizione delle classi in cui gli aspetti soggettivi e culturali,
da una parte, e le forme della rappresentanza degli interessi,
dall'altra, abbiano un peso rilevante. È il caso del passo
frequentemente citato sui contadini francesi: "Nella misura in cui
milioni di famiglie vivono in condizioni economiche tali che
distinguono il loro modo di vita, i loro interessi e la loro cultura
da quelli di altre classi e li contrappongono a esse in modo ostile,
esse formano una classe. Ma nella misura in cui tra i contadini
piccoli proprietari esistono soltanto dei legami locali, e
l'identità dei loro interessi non crea tra di loro una
comunità, una unione politica su scala nazionale e una
organizzazione politica, essi non costituiscono una classe" (v.
Marx, 1852; tr. it., pp. 208-209).Una prospettiva di questo genere
risulta però compiutamente sviluppata solo con Max Weber.
4. La tradizione weberiana
Nell'analisi weberiana delle classi presenti nella formazione
sociale capitalistica compaiono, tra le classi medie, la piccola
borghesia tradizionale e i colletti bianchi (v. Weber, 1922; tr.
it., vol. I, p. 302). Dei secondi viene chiaramente riconosciuta la
crescente importanza, e la progressiva erosione della prima viene
attribuita al suo passaggio nelle file dei lavoratori manuali
altamente specializzati e dei lavoratori non manuali, più che
alla 'proletarizzazione'.
Se l'individuazione concreta delle classi non si discosta molto da
quella marxista, i criteri che Weber propone per l'individuazione di
gruppi sociali rilevanti (classe, ceto, partito) portano a risultati
più articolati di quelli della tradizione marxista, e da essi
divergenti. Il criterio della 'capacità di mercato' apre la
possibilità di disarticolare la classe media impiegatizia in
una quantità di gruppi professionali. L'affermazione che la
formazione di identità collettive può fondarsi su
elementi diversi da quelli su cui si fondano le classi apre la
strada alla possibilità di individuare nella piccola
borghesia (vecchia e nuova) una pluralità di attori
collettivi. Dopo Weber il sociologo non può più
parlare indifferentemente di 'classi medie' e 'ceti medi'. Il ceto,
raggruppamento sociale fondato "sull'onore e sulla condotta di
vita", può essere interno alla classe o tagliare
trasversalmente più classi: quanto e più della classe
è capace di mobilitazione per il perseguimento di obiettivi
materiali o simbolici (v. Parkin, 1982, cap. 5).
Weber afferma che quasi ogni "caratteristica esteriormente
determinabile" può essere assunta da un gruppo per fondarvi
strategie di chiusura nei confronti di altri (v. Weber, 1922; tr.
it., vol. I, pp. 340 ss.). Il concetto di 'strategie di chiusura',
ricavabile da un capitolo di Economia e società diverso da
quello dedicato alle classi e ai ceti, è al centro di una
promettente analisi neoweberiana delle classi medie. Secondo Parkin
(v., 1974) la distinzione fondamentale tra borghesia e proletariato
sta nelle strategie di chiusura prevalentemente adottate, esclusione
e solidarismo; è il passaggio dall'uno all'altro tipo di
chiusura che segna la frattura fondamentale nell'ordine della
stratificazione. Naturalmente, strategie di esclusione si
riscontrano anche tra i lavoratori manuali, ma con alcune importanti
differenze. Le professioni cercano di stabilire un 'monopolio
legale' sull'offerta di certi servizi, diventando in tal modo
"gruppi legalmente privilegiati"; il raggiungimento di questo status
è assai più raro nel caso dei mestieri manuali (v.
Parkin, 1979; tr. it., p. 50). Tipiche strategie di esclusione
utilizzate dalle classi medie sono il credentialism (richiesta
vincolante di titoli di studio) e appunto la professionalizzazione.
Assai frequente è il caso di "strategie duali" (usurpazione
verso l'alto, esclusione verso il basso): ad esempio le
"semiprofessioni" (insegnanti, social workers, infermieri, ecc.),
non essendo riuscite a garantirsi la completa chiusura e il
controllo legale sull'accesso che caratterizzano le professioni,
ricorrono anche alle tattiche proprie del solidarismo operaio
(ibid., cap. 6).
Il concetto di strategie di chiusura, nell'elaborazione di Parkin,
appare del tutto compatibile con i risultati di alcune tra le
più interessanti ricerche sul comportamento di gruppi
d'interesse della classe media impiegatizia, sia che lo usino
esplicitamente (v. Baldissera, 1988), sia che usino apparati
concettuali di altro genere (v. Barbagli, 1974; Boltanski, 1979): i
maestri elementari italiani negli anni venti, i quadri francesi
negli anni trenta, i quadri italiani negli anni ottanta sono
altrettanti casi esemplari.
5. La mobilità sociale: proletarizzazione e imborghesimento
Le classi, a differenza degli ordini e delle caste, sono gruppi
sociali aperti, l'uscita dai quali e l'entrata nei quali è
giuridicamente possibile. L'esistenza di processi anche intensi di
mobilità sociale, orizzontale e verticale, caratterizza e
trasforma continuamente la struttura di classe delle società
capitalistiche a partire dalla loro formazione: alcuni dei flussi di
mobilità più rilevanti hanno come punto di arrivo o di
partenza le classi medie, o si svolgono al loro interno. La
proletarizzazione è definibile come "il passaggio dalla
condizione di piccolo produttore indipendente, in un qualsiasi ramo
di attività economica - artigianale, industriale, agricola,
commerciale - alla condizione di lavoratore salariato, o proletario,
alle dipendenze di un'azienda o di un privato, causa l'avvenuta
perdita dei mezzi di produzione" (v. Gallino, Proletarizzazione,
1978). Come fa notare lo stesso autore, il termine è
però stato frequentemente e impropriamente usato per indicare
diversi processi di perdita di status.
La proletarizzazione, nel significato corretto del termine, è
storicamente alla base della formazione del proletariato, e flussi
di mobilità provenienti dalle classi medie tradizionali (in
particolare contadine) alimentano il proletariato industriale per
tutto il processo di industrializzazione, spesso coincidendo con la
mobilità geografica dei soggetti interessati. Processi di
questo genere non sono rilevanti solo quantitativamente: la
provenienza sociale dei suoi membri ha importanti conseguenze sulle
caratteristiche psicologiche e sociali di una classe, sul suo
comportamento politico, ecc., come dimostrano ad esempio le ricerche
sugli operai di origine agricola (v. Touraine e Ragazzi, 1961).
Il termine 'proletarizzazione' è stato spesso - in genere
impropriamente - usato nella discussione teorica e nella ricerca
empirica relativa alla 'nuova classe media' impiegatizia. Nel
tentativo di "definire questo gruppo che non è un gruppo,
questa classe che non è una classe, questo strato che non
è uno strato" (v. Dahrendorf, 1957; tr. it., p. 101), lo si
è di volta in volta considerato come estensione della classe
dominante, come nuova classe, come insieme composito di frazioni di
classi diverse, come parte del proletariato (o 'in via di
proletarizzazione').
Alcune aporie caratteristiche delle teorie della proletarizzazione
degli impiegati sono chiaramente visibili in un libro che ha
esercitato un'influenza determinante negli anni settanta e ottanta.
Secondo H. Braverman (v., 1974), gli impiegati della fase del
capitalismo monopolistico sono qualcosa di totalmente diverso dai
ristretti gruppi impiegatizi del secolo scorso. L'ufficio è
tendenzialmente un luogo di lavoro manuale come la fabbrica, e
già da tempo vi vengono applicate le regole dello scientific
management; situazione di mercato e situazione di lavoro degli
impiegati e degli operai si vanno progressivamente unificando. Il
materiale empirico presentato è di una ricchezza e di un
interesse che spiegano l'attrattiva esercitata dal libro, ma non
bastano a fondarne la proposta teorica. Braverman oscilla tra il
significato della proletarizzazione come processo e l'affermazione
che gli impiegati sono stati sempre proletari; trascura settori
fondamentali, come la pubblica amministrazione; concentra
dichiaratamente l'attenzione sulle posizioni impiegatizie non
qualificate. Soprattutto, la sua analisi è inserita in una
più generale teoria della progressiva degradazione del
lavoro, che può essere falsificata, in particolare,
attraverso analisi multidimensionali della qualità del lavoro
(v. Gallino, 1983).
Le ricerche più recenti e più autorevoli sul lavoro
industriale (v. Kern e Schumann, 1984), e in particolare sul lavoro
impiegatizio (v. Baethge e Oberbeck, 1986), mostrano l'esistenza di
importanti processi di riqualificazione legati all'introduzione di
nuove tecnologie. Queste ultime producono anche effetti negativi,
come l'aumento dello stress e l'intensificazione del controllo,
effetti peraltro comuni a operai e impiegati. Questo tipo di
attenuazione della distinzione tra lavoratori manuali e non manuali,
se non conferma le tradizionali teorie della proletarizzazione (che
ipotizzavano un comune e globale peggioramento della situazione di
mercato e di lavoro) rende d'altro canto ancora più
problematica la possibilità di utilizzare il concetto di
'classe media' per i lavoratori non manuali dell'industria. Il
lavoro industriale si presenta sempre più come
attività di elaborazione di informazioni, e gli 'impiegati'
si collocano quindi lungo un continuum di compiti di diversa
complessità e autonomia (v. Rieser, 1988).
Le strategie di flessibilità delle imprese e lo sviluppo
delle tecnologie informatiche stanno inoltre rendendo più
incerta, in questo campo, la linea di separazione tra lavoro
dipendente e lavoro autonomo. I passaggi dall'uno all'altro sono
più frequenti, e più spesso reversibili; il lavoratore
autonomo ('consulente') si ritrova spesso in azienda a svolgere
mansioni di routine in nulla diverse da quelle degli impiegati; il
lavoratore dipendente può operare a domicilio su un terminale
(ibid.).
Le teorie della proletarizzazione degli impiegati hanno in genere
concentrato l'attenzione sulle trasformazioni strutturali (mercato e
lavoro), deducendone proposizioni e previsioni relative alla
coscienza sociale e al comportamento politico dei gruppi
interessati. Le teorie dell'imborghesimento della classe operaia,
popolari soprattutto nei primi anni sessanta, hanno invece
prevalentemente concentrato l'attenzione sui valori e sugli stili di
vita e di consumo, la cui evoluzione trasformerebbe gli operai in
classe media. Gli indicatori strutturali di una trasformazione di
questo genere erano così deboli che "non restava altra via,
per sostenere la tesi dell'imborghesimento, che dimostrare
l'avvenuta interiorizzazione, da parte operaia, dei valori della
classe media, in una sorta di processo di socializzazione
anticipatoria rispetto a dinamiche reali di evoluzione troppo lente"
(v. Romagnoli, 1973, p. 16).
L'ipotesi di un progressivo imborghesimento della classe operaia
'opulenta' fu radicalmente confutata dai risultati di una nota
ricerca sugli operai industriali inglesi. Gli autori pervennero alla
conclusione che permanevano ambiti di esperienza sociale tipicamente
operai; che gli operai non si sforzavano affatto di emulare
comportamenti e stili di vita borghesi; che non si poteva parlare di
assimilazione nella società borghese come tendenza in atto
né come obiettivo desiderato (v. Goldthorpe e altri, 1969;
tr. it., p. 311).
Altre ricerche, specialmente britanniche, sull'immagine della
società e sulla valutazione della gerarchia delle occupazioni
da parte degli operai, pervennero a risultati analoghi (v. Paci,
1969). È peraltro dimostrato che una parte degli operai si
considerano membri della classe media, e che questa identificazione
ha conseguenze importanti, in particolare sul comportamento
elettorale (v. Runciman, 1966).
6. La mobilitazione politica: classi medie e fascismo
Il problema della mobilitazione politica delle classi medie, e della
loro posizione negli schieramenti di classe, si pone in maniera
drammatica nel periodo tra le due guerre mondiali, segnato
dall'affermarsi di regimi fascisti in Europa. Dalla discussione
politica e dalla riflessione scientifica - spesso strettamente
intrecciate - sui rapporti tra classi medie e fascismo, sviluppatesi
innanzitutto tra i marxisti, emergono con una certa chiarezza alcuni
problemi centrali.
In primo luogo, quello della posizione delle classi medie negli
schieramenti di classe che determinano l'affermarsi del fascismo, e
della misura in cui il regime fascista tutela i loro interessi. Le
interpretazioni vanno da quella che considera la piccola borghesia
come attore principale nel processo di affermazione del regime a
quella opposta, che considera le classi medie al completo servizio
del grande capitale, da cui vengono strumentalizzate: la piccola
borghesia fornisce la 'base di massa' e il personale politico
necessario, ma resta solo uno strumento. Nel mezzo ci sono
interpretazioni più articolate, che sottolineano gli aspetti
contraddittori dell'alleanza tra piccola borghesia e grande
capitale, e la misura in cui il fascismo, pur appoggiando
essenzialmente gli interessi di quest'ultimo, dà agli
interessi della piccola borghesia voce e spazio (v. Saccomani, 1977,
cap. 2). La posizione secondo cui la piccola borghesia ha interessi
oggettivamente contrastanti con quelli del grande capitale, e
può perciò stabilire alleanze non occasionali con il
movimento operaio, è fatta propria e sviluppata nel secondo
dopoguerra soprattutto dal Partito Comunista Italiano (v. Togliatti,
1973).
Dalle analisi politiche più attente ai fatti, e dalla ricerca
storiografica e sociologica, emerge peraltro chiaramente quanto
possa esser fuorviante parlare genericamente di classe media, ceti
medi, piccola borghesia, dato che le loro diverse componenti hanno
una rilevanza e un ruolo assai differenti. La mobilitazione politica
di destra coinvolge soprattutto la piccola borghesia impiegatizia e
intellettuale, per l'effetto combinato delle difficoltà
economiche e occupazionali e delle difficoltà psicologiche,
derivanti dal ritorno alla 'vita mediocre' dopo l'esperienza della
guerra compiuta in posizioni di comando (v. Romano, 1977, parte V).
Nel tentativo di spiegare le motivazioni della mobilitazione
politica e dell'agire di classe della piccola borghesia (o meglio,
di una parte di essa e delle sue organizzazioni) in questo periodo
storico, si è attribuita grande importanza al suo
impoverimento, sottolineando il fatto che attivi nell'appoggio al
movimento fascista furono soprattutto piccoli borghesi 'spostati',
rovinati e simili. Il peggioramento assoluto della situazione della
piccola borghesia nel periodo postbellico è però assai
meno rilevante del suo peggioramento relativo, e degli acuti
sentimenti di privazione relativa suscitati dal confronto (non
sempre empiricamente fondato) con gli operai, come mostrano le poche
ricerche sociologiche su questo tema (v. Barbagli, 1974, cap. 5).
Sempre ai fini della spiegazione dell'agire di classe, una certa
attenzione è stata riservata alle ideologie, caratteristiche
della piccola borghesia, atte a promuovere il consenso nei confronti
dei regimi autoritari e fascisti. Tali ideologie hanno spesso radici
assai lontane nel tempo: per sottolinearne alcuni elementi comuni
con il liberalismo classico (avversione per la grande impresa, per
il sindacato, per l'intervento statale), che diventano reazionari ed
eversivi nella moderna società industriale, è stata
coniata la categoria di "estremismo di centro" (v. Lipset, 1960) e,
in campo marxista, quella di "anticapitalismo reazionario" (v.
Guérin, 1936).Esiste infine un filone di ricerca, iniziato
negli anni trenta, che ha studiato le radici del consenso al
fascismo della piccola borghesia attraverso l'analisi, condotta
utilizzando categorie psicanalitiche, delle strutture familiari e
dei processi di socializzazione primaria che danno luogo alla
formazione di personalità 'potenzialmente fasciste' (v.
Saccomani, 1977, cap. 3). Il concetto di 'personalità
autoritaria' viene elaborato nella più celebre e influente di
queste ricerche, peraltro assai criticata dal punto di vista
metodologico: il problema di partenza è appunto quello
dell'individuazione delle strutture della personalità che
determinano nei confronti del fascismo non "sottomissione atterrita"
ma "collaborazione attiva" (v. Adorno e altri, 1950).
Negli anni settanta, un contributo decisivo alla comprensione dei
rapporti tra classi medie e fascismo è venuto da indagini
comparative. In particolare, le ricerche di Kocka sugli impiegati
hanno messo definitivamente in crisi l'idea che i loro atteggiamenti
e comportamenti politici possano essere dedotti dalla loro posizione
nell'organizzazione del lavoro e dalle loro vicende economiche.
Esposti a mutamenti abbastanza simili nell'organizzazione del lavoro
e a una stessa crisi economica, gli impiegati americani e tedeschi
hanno infatti reagito in maniera radicalmente diversa per quanto
riguarda l'appoggio fornito a movimenti autoritari e fascisti. La
spiegazione viene ricercata da Kocka in una complessa combinazione
di fattori politici e culturali: il significato della distinzione
tra 'manuali' e 'non manuali', le caratteristiche del movimento
operaio, i tassi di mobilità, la presenza o meno di divisioni
etniche e di valori e tradizioni precapitalistici (v. Kocka, 1977).
Il lavoro di Kocka, oltre che per il suo significato teorico,
è importante come contributo alla storia sociale degli
impiegati. Tanto più importante in quanto il fatto che la
riflessione sulla mobilitazione politica delle classi medie si sia a
lungo concentrata sugli eventi drammatici e sulle crisi che hanno
accompagnato l'affermarsi di regimi fascisti, se da una parte ha
contribuito a evidenziarne alcuni aspetti fondamentali, dall'altra
ha forse distolto l'attenzione scientifica da aspetti più
quotidiani e istituzionalizzati dell'agire di queste classi. Esiste
peraltro tra i sociologi e gli studiosi di relazioni industriali una
tradizione di ricerca sui processi di sindacalizzazione dei
'colletti bianchi' o 'giacche nere', che ha prodotto da tempo opere
rilevanti (v. Lockwood, 1958), mentre più recente è
l'attenzione per i gruppi d'interesse delle classi medie
tradizionali.
7. Strategie di chiusura, privazione relativa, gruppi d'interesse
Le ricerche sulle classi medie, ormai troppo numerose e disparate
perché si possa pensare di darne conto nei limiti assegnati a
questo articolo, continuano ad avere molto spesso in comune il fatto
di essere originate dall'intenzione di spiegarne e prevederne il
comportamento politico. Ciò non vale solo per quelle di
ispirazione weberiana, o comunque teoricamente attente alla
formazione e al comportamento degli attori sociali. Anche nella
recente produzione marxista, in cui le preoccupazioni di ordine
classificatorio e tassonomico appaiono spesso soverchianti,
classificazioni e tassonomie vengono utilizzate come strumenti per
la comprensione del comportamento nei conflitti di classe.
La crescente attenzione scientifica per i gruppi sociali intesi come
attori, assieme all'erosione di alcuni dei tradizionali criteri
strutturali in base ai quali le classi medie venivano definite,
evidenziano la crescente difficoltà di utilizzare il concetto
di 'classi medie' nella ricerca empirica. D'altro canto, ammesso che
parlare di classi medie abbia ancora senso, sembra difficile negare
che buona parte dei loro comportamenti risultino pressoché
inspiegabili se non si tiene conto della collocazione di queste
classi nella divisione sociale del lavoro e dei mutamenti nei
processi di produzione e di distribuzione. I risultati in genere
fuorvianti delle teorie della proletarizzazione e
dell'imborghesimento non devono far dimenticare i problemi che esse
hanno cercato senza successo di spiegare.
Per orientarsi in un campo ormai difficilmente definibile nei
termini tradizionali, sembrano mantenere o accrescere la loro
rilevanza alcuni concetti e alcune teorie di 'medio raggio'.In primo
luogo, la teoria già illustrata delle 'strategie di chiusura'
(v. cap. 4). È proprio l'analisi dell'agire di classe che
evidenzia la fecondità di questo concetto weberiano. La
formazione di identità collettive e l'azione collettiva di
gruppi di classe media sono regolarmente avvenute contro altri
gruppi; strategie di esclusione sono state regolarmente usate ogni
volta che la situazione sembrava consentire qualche appiglio in
questa direzione; forme di sindacalizzazione di tipo operaio
ricorrono invece quando il gruppo sociale in questione appare troppo
vasto e i suoi membri troppo deboli in termini di capacità di
mercato per consentire strategie di esclusione (buona parte della
letteratura sulla sindacalizzazione dei colletti bianchi può
esser letta in questa chiave).
La possibilità di individuare le classi in termini
relazionali, invece che come soggetti dati una volta per tutte,
sembra particolarmente utile alla luce delle difficoltà che
la delimitazione delle classi medie non cessa di porre (come quella
relativa alla distinzione manuale/non manuale nell'industria).
La teoria dei gruppi di riferimento e della privazione relativa ha
dato ripetutamente buona prova nell'analisi degli atteggiamenti e
dei comportamenti delle classi medie, a determinare i quali è
spesso risultata decisiva la frustrazione nascente dal confronto con
altri gruppi. Questo strumento concettuale si è rivelato
abbastanza agile da consentire analisi assai articolate e
disaggregate senza perdere di vista la dimensione propriamente di
classe: "Qualunque persona ha una molteplicità di gruppi di
riferimento: di appartenenza, comparativi e normativi. Non solo
questi possono variare da argomento ad argomento, ma anche sullo
stesso argomento possono in teoria cambiare da un momento all'altro.
Sui grandi problemi dell'eguaglianza sociale le privazioni relative
comuni a un gruppo o a una classe saranno però abbastanza
coerenti" (v. Runciman, 1966; tr. it., p. 24).
Rispetto alla teoria che spiega il comportamento politico con
l'esistenza di una incongruenza di status, con lo stress che ne
deriva e con il tentativo di riequilibrare lo status al livello
più elevato (v. Giampaglia e Ragone, 1981), la teoria della
privazione relativa presenta il vantaggio di una maggior attenzione
al contesto culturale, resa possibile dall'individuazione non solo
dei gruppi di riferimento comparativi (quelli che posseggono il bene
di cui ci si considera privi), ma anche di quelli 'normativi' (da
cui la persona trae i suoi criteri di giudizio) e 'di appartenenza'
(quello in cui la persona si colloca ai fini del confronto). Non
è detto infatti che sempre si cerchi di ridurre
l'incongruenza di status: in certe culture, ad esempio, non si
ritiene che la ricchezza dia diritto all'influenza politica (v.
Pichierri, 1972).
Infine, alcune importanti ricerche sui gruppi d'interesse
nell'Europa occidentale hanno mostrato, proprio a proposito delle
classi medie, che la formazione di identità collettive
è il risultato di un complesso processo di interazione tra
divisione sociale del lavoro e organizzazioni di rappresentanza
degli interessi. I gruppi d'interesse "sono manifestazioni di
modelli di classe e di gruppo, ma retroagiscono anche su tali
modelli consolidandoli e talvolta determinandone la ridefinizione. I
gruppi d'interesse servono inoltre come veicoli per la trasmissione
degli interventi governativi i quali, più o meno
intenzionalmente, contribuiscono a modellare il sistema di classi e
di gruppi sia al momento del suo emergere che nelle sue
trasformazioni successive" (v. Kocka, 1981; tr. it., pp. 130-131).
Il concetto di gruppo d'interesse offre, rispetto a quello di
classe, il vantaggio di stabilire con molto maggiore immediatezza i
nessi tra interessi e comportamenti (v. Gallino, Gruppo d'interesse,
1978) e costituisce quindi un altro dei possibili strumenti
analitici da utilizzare per una ridefinizione del campo d'indagine
sempre meno adeguatamente coperto dall'etichetta di 'classi medie'.
*
di Frank Parkin
Classi e stratificazione sociale
sommario: 1. Introduzione. 2. Il modello marxista delle classi. 3.
Autorità e subordinazione. 4. La teoria funzionalistica della
stratificazione. 5. Lavoro manuale e lavoro non manuale. 6. Le
classi nella società socialista. 7. Masse ed élites.
8. Condizione etnica e stratificazione di classe. 9. Conclusioni. □
Bibliografia.
1. Introduzione
Le teorie delle classi e della stratificazione sociale hanno sempre
occupato un posto di primaria importanza nella storia delle scienze
sociali e della sociologia in particolare. In effetti, si potrebbe
sostenere che la teoria della stratificazione costituisca la base
teorica della disciplina, la pietra angolare sulla quale poggia
tutto il resto. Ciò non sorprende, dal momento che le scienze
sociali sono nate nelle società europee in un'epoca di acuto
conflitto di classe. Non è troppo azzardato ritenere che gli
sconvolgimenti politici e sociali prodotti dalle divisioni di classe
del capitalismo del XIX secolo abbiano contribuito potentemente alla
nascita delle scienze sociali. Almeno in parte, la sociologia e
l'economia si affermarono come discipline importanti per il bisogno
di spiegare, e a volte di giustificare, le disuguaglianze e le
ristrutturazioni delle classi prodotte dalla rapida transizione da
un modo di produzione agrario a uno industriale.
L'analisi della formazione delle classi rappresentò fin
dall'inizio il punto centrale della teoria della stratificazione,
che non prese in considerazione praticamente nessun'altra forma di
disuguaglianza strutturale. Le divisioni sociali di tipo etnico,
razziale, sessuale, ecc. venivano ignorate oppure subordinate alle
esigenze della teoria delle classi. L'esclusivo interesse per la
natura e le forme delle classi sociali, caratteristico dei primi
teorici della stratificazione, non ha favorito lo sviluppo della
moderna teoria sociale, che si trova di fronte a una realtà
diversa ma è comunque fortemente influenzata dai concetti e
dagli assunti dei fondatori della disciplina.
La stretta adesione alle idee dei teorici classici è tanto
più rilevante se si pensa che gli autori che hanno avuto
maggiore influenza si potrebbero contare sulle dita di una mano.
L'attuale teoria delle classi o della stratificazione deriva quasi
interamente dagli scritti di Marx ed Engels, di Max Weber e della
scuola di Mosca e Pareto. Questo non significa, naturalmente, che
molti altri tra i primi teorici non abbiano fornito osservazioni e
intuizioni valide sulla struttura e sulle forme della
disuguaglianza. Le opere di Saint-Simon, Tocqueville, Durkheim e
Sombart, per non nominare che alcuni autori, offrono molteplici
spunti sulle forze del capitalismo allora emergenti, sulla
distribuzione del prestigio sociale, sui cambiamenti di condizione
prodotti da nuove fonti di disuguaglianza, nonché sulle varie
proposte per rimarginare le ferite causate da una competizione
economica senza freni. Nondimeno, quale che possa esserne la
ragione, nessuno di questi contributi ha dato luogo a una tradizione
teorica o a un insieme di concetti che siano entrati a far parte
della corrente principale della teoria della stratificazione. Anche
gli scritti di Mosca e Pareto, pur occupandosi direttamente del
problema della riproduzione e del dominio di classe, non hanno in
realtà esercitato molta influenza sul dibattito contemporaneo
in materia, sebbene riferimenti occasionali alle loro opere siano
presenti in quel ramo specialistico degli studi politici noto come
'teoria delle élites'. Infatti, è il patrimonio di
idee trasmesso da Marx e da Weber che costituisce la base della gran
massa degli studi empirici e teorici sulla stratificazione.
Una ragione plausibile per la quale una parte tanto ampia della
sociologia classica non ha lasciato un'impronta più duratura
nella teoria della stratificazione è che i primi autori erano
fortemente interessati al drammatico passaggio da una società
agricola e rurale a una società industriale e urbana.
Nonostante le differenze terminologiche, la distinzione introdotta
da Durkheim tra solidarietà meccanica e organica, quella di
Tönnies fra Gemeinschaft e Gesellschaft, o di Maine tra status
e contratto, e così via, si riferiscono tutte a questo grande
spartiacque nella riorganizzazione economica e morale delle
società europee. La contrapposizione tra il sistema
industriale e quello preindustriale fu ritenuta così
importante da indurre a non prestare adeguata attenzione alla vasta
fenomenologia delle classi e ad altre formazioni sociali comprese in
ciascuno dei due tipi generali. La classificazione delle
società mediante il ricorso a uno dei sinonimi del termine
'preindustriale' ha comportato l'aggregazione indiscriminata di una
vasta gamma di sistemi sociali del tutto diversi fra loro, come il
tribale, lo schiavistico, il sistema di casta, quello feudale,
assolutista e dispotico. Qualcosa di simile è avvenuto in
tempi recenti per la nozione di 'società industriale' che
è stata impiegata come concetto onnicomprensivo per sistemi
così diversi come il capitalismo del welfare, la democrazia
sociale, il fascismo, il socialismo di Stato e la dittatura
militare. Nel caso della società preindustriale, non accadeva
tanto che le diverse forme di stratificazione venissero considerate
sufficientemente simili da autorizzare la loro inclusione in una
singola categoria concettuale; piuttosto, era la stessa impostazione
concettuale a impedire di riconoscere le variazioni storiche e
culturali come validi oggetti di indagine.
Né Marx né Weber caddero in questo errore. Il loro
grande interesse per la storia comparata non era accompagnato
dall'esigenza comune di cogliere la complessità e la
varietà del mondo sociale attraverso il ricorso alla semplice
dicotomia industriale/preindustriale. Paradossalmente, forse, fu il
loro rispetto, peraltro poco sociologico, nei riguardi delle
testimonianze storiche a metterli in guardia contro i limiti di tale
schematizzazione semplicistica. Comunque sia, la loro
sensibilità nei confronti della varietà delle
formazioni sociali precedenti alla nascita del capitalismo permise
alle loro analisi delle classi e della stratificazione di avere
un'influenza assai maggiore e più duratura di quelle di ogni
altro autore classico. In effetti, questa influenza è forse
più forte ora che in ogni epoca passata della storia della
disciplina.
Ciò dipende in parte dal fatto che solo tardivamente gli
studiosi americani di scienze sociali hanno riconosciuto
l'importanza dell'opera di Marx e hanno preso in esame la tradizione
marxista con la stessa serietà con cui essa è sempre
stata considerata in Europa. Fino a poco tempo fa, gli studiosi
americani o hanno ignorato completamente Marx o l'hanno considerato
come un autore di scarsa importanza. Questo giudizio negativo si
è protratto a lungo nel dopoguerra, favorito senza dubbio
dall'atteggiamento di aperto anticomunismo diffuso nella
società americana dell'epoca. Soltanto con l'attenuarsi del
clima della guerra fredda e con la nascita del movimento studentesco
radicale verso la fine degli anni sessanta il marxismo ha raggiunto
una certa rispettabilità intellettuale agli occhi dei
sociologi americani. A partire da allora, negli Stati Uniti, la
teoria della stratificazione è risultata più
congruente con quella europea di quanto fosse mai accaduto in
precedenza.
Un'ulteriore ragione che ha favorito l'avvicinamento tra
l'orientamento americano e quello europeo è da ricondurre al
declino di alcune correnti statunitensi dell'analisi delle classi
che non trovavano riscontro nella sociologia europea. Il carattere
particolare dell'orientamento americano viene chiaramente alla luce
nel dibattito sviluppatosi nell'immediato dopoguerra intorno alla
questione della 'reale' esistenza delle classi. Il problema sul
quale si incentrava la discussione era se le classi dovessero essere
intese come effettive entità sociali al pari della famiglia o
della Chiesa, o se invece dovessero essere considerate alla stregua
di mere invenzioni dell'immaginazione statistica. Coloro che
sostenevano quest'ultimo punto di vista erano colpiti dal fatto che
la distribuzione delle remunerazioni nella società americana
si disponeva lungo un continuum praticamente ininterrotto dall'alto
verso il basso, così che qualunque decisione di introdurre
delle linee di separazione tra una classe e l'altra appariva come
una procedura arbitraria e inutile. Arbitraria perché, in
mancanza di fratture oggettive nella gerarchia delle remunerazioni,
diveniva possibile tracciare un'artificiale linea di separazione
pressoché ovunque; inutile perché le classi
individuate in questo modo non avrebbero trovato corrispondenza in
alcun effettivo raggruppamento sociale contraddistinto da un
sentimento di identità comune. Come ha osservato Oliver
Cromwell Cox, uno dei primi a sostenere questo punto di vista, "lo
studioso che si addentra in questo campo alla ricerca di una classe
sociale cerca qualcosa che non esiste; la troverà soltanto
nella sua mente come una finzione intellettuale" (v. Cox, 1970, p.
306).
La difesa teorica dell'America come società senza classi ha
trovato ulteriore sostegno nell'impiego del cosiddetto modello
'multidimensionale' della stratificazione. Secondo questo modello i
criteri in base ai quali gli individui possono essere collocati in
una gerarchia sociale sarebbero troppo numerosi e diversi per dar
luogo a una coerente struttura di classe: si sosteneva che classi o
strati chiaramente delineati si riscontravano soltanto in quelle
società nelle quali i criteri di ordinamento sono
rigorosamente definiti - come nel caso dei sistemi feudali, dove il
diritto di portare armi o la proprietà terriera erano tra i
pochi principî che determinavano lo status e il privilegio
sociale. Nelle moderne società industriali, di contro, lo
status sociale complessivo dell'individuo era determinato da una
complessa gamma di criteri diversi, quali ad esempio il livello di
istruzione, l'occupazione, il reddito, l'etnia di appartenenza,
l'affiliazione religiosa, ecc. Il fatto che questi criteri fossero
relativamente indipendenti l'uno dall'altro implicava che gli
individui che avevano raggiunto una posizione elevata in un certo
ambito potevano occuparne una inferiore in un altro, di modo che nel
complesso non veniva a configurarsi una precisa struttura di
disuguaglianza. In luogo di un modello di società
stratificata emergeva l'immagine di un ordine sociale non
strutturato, altamente frammentato, composto di aggregati di
individui senza nulla in comune, se non il fatto di occupare una
posizione consimile nella gerarchia sociale.
Le origini concettuali di questo modello multidimensionale venivano
ricondotte di solito all'opera di Weber, e più precisamente a
quelle versioni riduttive delle idee weberiane che vengono
presentate come una confutazione di quelle di Marx. Il modello
multidimensionale veniva difatti presentato come un correttivo,
più spesso come un'alternativa, alla presunta concezione
materialistica della classe attribuita a Marx. La strategia
adoperata consisteva nell'enfatizzare il ruolo dei fattori di status
che operano in modo indipendente dalla classe e ne attenuano gli
effetti politici e sociali. Poiché si poteva agevolmente
dimostrare che il livello di reddito di un individuo non
corrispondeva necessariamente alla sua posizione di status, ne
conseguiva chiaramente che la definizione materialistica della
classe, e per estensione la teoria marxista in generale, era di
scarsa utilità per comprendere la realtà americana. Da
parte di innumerevoli autori si ribadì l'esistenza di ampie
difformità tra classe e status (di solito intesi
semplicisticamente come livelli di reddito e di prestigio), e di
conseguenza il fatto che il concetto di struttura di classe era
erroneo dal punto di vista teorico e sospetto da quello ideologico.
Come ha scritto Bernard Barber, "un principio fondamentale è
che la stratificazione ha un carattere multidimensionale". Coloro
che mettono in discussione questo assunto lo fanno perché,
"per motivi ideologici, pretendono di ricondurre la 'classe' a una
nozione univoca, semplice e onnicomprensiva" (v. Barber, 1968, p.
292).Il ricorso all'autorità di Weber era giustificato dal
fatto che il suo modello della stratificazione cercava di separare
una serie di variabili distinte che erano invece fuse insieme nel
concetto di classe di Marx. L'aggiunta di alcune variabili ulteriori
si poteva pertanto legittimare come una procedura in perfetta
sintonia con il ragionamento di Weber.
Che si trattasse o no del prestigio accademico conferito dal
rapporto con l'opera weberiana, i sociologi americani accolsero con
grande favore questo modo di vedere la stratificazione e lo fecero
virtualmente proprio.Secondo Milton Gordon "l'accettazione
dell'approccio multidimensionale, la sua elaborazione e il suo
ulteriore approfondimento, hanno proceduto lentamente ma con
velocità gradualmente crescente" nel periodo del dopoguerra.
"In effetti, l'intero periodo in questione [1925-1955] può
essere visto come un momento in cui i teorici delle classi sociali
si impegnarono gradualmente ma con crescente precisione nel
tentativo di operare distinzioni analitiche tra i numerosi fattori o
le variabili che possono essere comprese nella categoria di
stratificazione sociale". Gordon sostiene inoltre che "lo stesso
approccio multidimensionale può essere visto come parte di un
procedimento analitico che è fondamentale in qualunque
attività di ricerca e conoscenza scientifica: quello della
specificazione delle variabili inerenti a un determinato campo
d'indagine" (v. Gordon, 1963, pp. 15-16).
Il richiamo al presunto carattere 'scientifico' dell'approccio
multidimensionale poneva in secondo piano il fatto che la sua
affinità con l'approccio weberiano era alquanto remota. Il
Weber a cui si fa riferimento in questi contributi americani
è a malapena riconoscibile come l'autore di Economia e
società. È un Weber cui si attribuisce il ruolo di
alfiere del movimento contro il materialismo, o il determinismo
economico, o la teoria monocausale delle classi, o altre nozioni
consimili con le quali all'epoca si identificava il marxismo.
È un Weber, questo, interamente 'demarxificato' e pertanto
utilizzato come campione ideologico della società senza
classi del capitalismo americano. Invano si cercherà in
questi studi una traccia dei tipici interessi weberiani per la
burocrazia di Stato, per la proprietà, il conflitto di classe
o il mutamento rivoluzionario. Né vi è in essi la
benché minima consapevolezza dell'inequivocabile tesi
weberiana secondo la quale le 'dimensioni' della stratificazione non
debbono essere intese come un insieme di attributi individuali, ma
piuttosto come "fenomeni della distribuzione del potere all'interno
di una comunità" (v. Weber, 1922). Invece la realtà
raffigurata in molti di questi studi empirici è quella di una
società in cui la proprietà è svanita, le
classi sono scomparse, lo Stato dissolto.
Questo travisamento dell'opera weberiana non trova riscontro nelle
teorie europee della stratificazione, forse perché gli
studiosi europei non hanno mai avuto dubbi sull'esistenza formale di
un sistema di classi. Quando si è fatto ricorso a qualcosa di
simile a un modello multidimensionale, come nell'analisi delle
società dell'Est europeo condotta da Wlodmierz Wesolowski, si
è rimasti assai più fedeli allo spirito dell'opera
weberiana. Wesolowski ritiene che la transizione dal capitalismo al
socialismo di Stato abbia portato alla 'de-composizione' del sistema
di stratificazione. Nella Polonia prebellica, ad esempio, vi era un
elevato grado di congruenza tra il livello materiale e quello di
status delle classi. Quanti percepivano redditi elevati godevano
quasi sempre di uno status elevato, mentre i gruppi a reddito
inferiore si collocavano nelle più basse posizioni di status.
Con il passaggio al socialismo, tuttavia, si verifica una
decomposizione, per cui la situazione materiale non corrisponde
più allo status. Numerosi gruppi di operai specializzati, ad
esempio, ottengono salari equivalenti e perfino superiori a quelli
dei colletti bianchi, sebbene questi ultimi godano di un maggior
prestigio sociale. Wesolowski sottolinea come la de-composizione del
sistema di stratificazione possa dar luogo a forti attriti sociali.
Gruppi professionalmente qualificati manifestano il loro
risentimento per il fatto di avere un livello di remunerazione non
superiore, e talvolta inferiore, a quello di numerose categorie di
lavoratori manuali. Allo stesso modo, questi ultimi esprimono
scontento per la discrepanza esistente tra i loro elevati guadagni e
lo scarso prestigio sociale di cui godono (v. Wesolowski, 1979).T
ensioni analoghe si verificarono in Cecoslovacchia negli anni
sessanta. La 'primavera di Praga' rappresentò, tra l'altro,
un attacco al sistema egualitario da parte dei colletti bianchi,
come pure un tentativo di introdurre riforme economiche conformi al
modello dell'economia di mercato; riforme che avrebbero garantito
loro maggiori benefici materiali, assai più adeguati al loro
status sociale (v. Parkin, 1971). Il modello multidimensionale
può, dunque, rappresentare un utile strumento per evidenziare
il rapporto esistente tra gli aspetti materiali e quelli di status
delle classi e per l'esame delle sue possibili implicazioni
politiche.
Come abbiamo già osservato, gli studiosi europei hanno quasi
unanimemente ammesso l'esistenza di una struttura di classe. E
tuttavia vi è profondo disaccordo circa la natura di questa
struttura e l'apparato concettuale che meglio permette di
analizzarla. Stanislaw Ossowski ha notato che i modelli della
stratificazione impiegati sia dai sociologi che dai profani possono
essere raggruppati in tre grandi categorie: dicotomici, graduali e
funzionali.
I modelli dicotomici fanno riferimento a un rapporto tra due classi
principali, che assume di solito un carattere conflittuale. In
questo modello non v'è spazio per una terza classe, se non
durante le fasi di transizione. In alcune versioni di questo modello
il conflitto tra le due classi è visto come irriducibile e
come fonte di profonda instabilità politica. In altre
versioni il conflitto è visto come una caratteristica
permanente del sistema, ma a tal punto entrato a far parte della
consuetudine da non rappresentare una reale minaccia politica.
Il modello di tipo graduale presenta la stratificazione come un
ordinamento composto di almeno tre, ma talvolta più, classi o
strati. Sebbene il conflitto possa nascere a vari livelli del
sistema, esso non è tale da creare un clima politico di
ostilità permanente. In questo modello gli interessi di
status sono più rilevanti di quelli di classe.Il modello
funzionalista rappresenta la società come un insieme armonico
di parti ineguali, ciascuna delle quali concorre con il proprio
contributo al benessere generale. Padroni e servi hanno entrambi un
ruolo importante, ciascuno di essi con i propri doveri e
responsabilità. E poiché tanto gli strati elevati che
quelli inferiori svolgono i compiti loro assegnati al meglio delle
loro possibilità, il risultato globale è il consenso
generale e la reciprocità degli interessi (v. Ossowski,
1957).
Ossowski ritiene che il più diffuso di questi tre modelli,
tanto nella percezione comune della disuguaglianza che nelle sue
rappresentazioni sociologiche, sia quello dicotomico. Questa
dicotomia può essere espressa in una pluralità di
forme: come un conflitto tra governanti e governati, tra ricchi e
poveri, tra padroni e operai, tra abbienti e non abbienti, e
così via. Sebbene il modello dicotomico si sia dimostrato
particolarmente attraente per i sociologi, esso è stato
nondimeno utilizzato in modi assai diversi. Inoltre - cosa ancor
più importante - non esiste un consenso generalizzato sui
criteri che debbono essere impiegati per definire la linea di
demarcazione tra le due classi principali. Per i seguaci di Marx la
contraddizione tra capitale e lavoro costituisce la causa ultima
della divisione in classi all'interno della società borghese;
per altri la principale divisione passa per una diversa coppia di
opposti: tra lavoro manuale e lavoro non manuale, tra
autorità e subordinazione, oppure tra élites e masse.
Ciascuno dei modelli rappresentati da questi termini raffigura il
sistema di classe in modo dicotomico e conflittuale, che non
è dissimile dallo schema di Marx; e tuttavia ciascuno di essi
cerca in modi diversi di offrire un'alternativa alla distinzione tra
capitale e lavoro. Esaminiamoli uno per uno.
2. Il modello marxista delle classi
Per Marx il 'difetto strutturale' della società capitalistica
sta nelle contraddittorie esigenze del capitale e del lavoro. Coloro
che possiedono i mezzi di produzione e coloro che vendono la loro
forza lavoro sono portatori di interessi inconciliabili che
provocheranno da ultimo il crollo del sistema. Marx considera il
capitalismo come un sistema sociale caratterizzato da un
fondamentale difetto di struttura, che non è riducibile agli
atteggiamenti e ai comportamenti degli attori sociali. I capitalisti
cercano di sfruttare i lavoratori non perché sono malvagi o
avidi, ma perché il sistema di cui fanno parte impone loro di
agire in questo modo. I capitalisti che agissero diversamente
andrebbero rapidamente in rovina. Allo stesso modo, i lavoratori
cercano di intraprendere un'azione collettiva a difesa dei loro
interessi, perché la logica della loro situazione li obbliga
a seguire questa strada. Sono dunque gli imperativi intrinseci al
capitalismo in quanto sistema produttivo che danno origine a classi
antagonistiche. I valori e le motivazioni personali hanno poco a che
fare con ciò.
Anche se si sostituisse un dato insieme di capitalisti e di operai
con uno completamente diverso, questi si comporterebbero esattamente
nello stesso modo.Marx, tuttavia, non sempre considera le classi
sociali come semplici agenti la cui condotta è determinata da
forze che sfuggono al loro controllo. Spesso egli passa a un diverso
livello di analisi, nel quale si dà pieno rilievo ai fattori
psicologici e sociali nella formazione delle classi. Ciò
è particolarmente evidente nella sua disamina delle
condizioni nelle quali una classe 'in sé' diviene una classe
'per sé'. Vale a dire, delle condizioni nelle quali il
proletariato prende coscienza del suo destino collettivo come classe
sociale ed è preso da un fervore rivoluzionario.
Marx riteneva, a ragione, che la massiccia concentrazione operaia
all'interno delle fabbriche capitalistiche costituisse un elemento
importante per lo sviluppo della coscienza di classe. I contadini,
di contro, non potevano pervenire a un'identità di classe e a
una coscienza politica, nonostante il comune sfruttamento a cui
erano sottoposti, in quanto erano dispersi e isolati l'uno
dall'altro. Essi erano, dice Marx con un'espressione famosa, come
"un sacco di patate": singole unità che non avrebbero mai
potuto fondersi in un'unica entità. Marx dunque riconosceva
pienamente che lo sfruttamento di per sé non era sufficiente
a creare una classe nel pieno senso di una collettività
sociale caratterizzata da una prospettiva comune e da uno scopo
politico condiviso. Tuttavia occorre riconoscere che egli non
dubitò mai seriamente che il capitalismo avrebbe
spontaneamente dato vita ai presupposti sociali e psicologici
indispensabili alla trasformazione del proletariato urbano in
un'attiva forza rivoluzionaria. Era in questo senso che egli
definiva i capitalisti come becchini di se stessi.
La teoria marxiana della coscienza e dell'azione rappresenta un
tentativo molto convincente di spiegare la struttura del conflitto
di classe nell'Europa del XIX secolo. Essa consente di spiegare
adeguatamente questo conflitto endemico e spesso violento come
risultato dell'intrinseco antagonismo tra la classe capitalistica e
il proletariato. Ma sebbene la teoria costituisca uno strumento
efficace per comprendere il processo di radicalizzazione del
proletariato di fabbrica, il suo assunto fondamentale, secondo il
quale il conflitto tra le due grandi classi della storia condurrebbe
inevitabilmente a una resa dei conti e infine al trionfo della
classe operaia, si rivela erroneo. La teoria di Marx costituisce, in
effetti, una brillante previsione del sorgere di quella che Lenin in
termini denigratori chiamava la "coscienza sindacale"; ossia di
quell'organizzazione collettiva dei lavoratori intesa a ottenere una
quota maggiore dei frutti del capitalismo, piuttosto che a produrre
la distruzione del sistema. La teoria non permette di spiegare
perché lo sviluppo della coscienza di classe debba, per
così dire, 'congelarsi' a livello di una milizia di tipo
sindacale e non piuttosto sfociare in un esito rivoluzionario.
Non sorprende che questo apparente fallimento del proletariato
nell'assumere il ruolo storico che Marx gli aveva assegnato abbia
dato luogo a un'ampia riflessione teorica da parte dei suoi seguaci.
Lenin fu tra i primi ad apportare delle modifiche alla teoria,
sostenendo che il proletariato non sarebbe mai stato in grado di
realizzare, senza aiuti esterni, la trasformazione cruciale della
coscienza sindacale in una piena coscienza di classe. Il tipo di
aiuto che egli aveva in mente era quello fornito da un partito
d'avanguardia composto di rivoluzionari di professione - organismo,
questo, completamente assente dallo schema marxiano. Abbandonato a
se stesso, il proletariato non avrebbe mai potuto acquisire una
reale coscienza politica del proprio destino, poiché era
troppo profondamente influenzato da idee borghesi. Solo il partito
d'avanguardia era in grado di sottrarsi all'ideologia borghese e di
generare un'ideologia rivoluzionaria di cui in seguito avrebbe
potuto appropriarsi la classe operaia. Per Lenin, una classe 'in
sé' non poteva trasformarsi spontaneamente in una classe 'per
sé'. Egli, naturalmente, non si spingeva fino all'eresia di
sostenere che Marx aveva torto a pensarla diversamente; ma
evidentemente è questo il significato implicito della sua
teoria e, ciò che più importa, della sua pratica
politica.
Contributi più recenti alla teoria marxista delle classi si
sono soffermati sul tema della coscienza e dell'ideologia nel
tentativo di spiegare il persistente fallimento del proletariato
occidentale nel sovvertire il sistema capitalistico. Gli scritti di
Louis Althusser e dei suoi allievi hanno esercitato una notevole
influenza a questo riguardo. La spiegazione avanzata da Althusser
riguardo al carattere non rivoluzionario della classe operaia
è costituita in effetti dall'interpretazione di alcune idee
sostenute molto prima da Lukács e da Gramsci. Sia l'uno che
l'altro, ciascuno a suo modo, ritenevano che lo strumento principale
attraverso il quale lo Stato capitalistico esercitava il controllo
sul proletariato era passato dalla coercizione alla manipolazione
ideologica. La borghesia controllava le menti dei lavoratori tramite
il sottile ricorso all'indottrinamento e alla propaganda, in modo
tale che difficilmente essa aveva necessità di ricorrere a
più oppressivi strumenti di controllo.
Inoltre Gramsci sosteneva che, oltre a esercitare una 'egemonia'
ideologica, lo Stato borghese forniva al tempo stesso al
proletariato diritti e vantaggi apprezzabili, quali libertà
civili e garanzie giuridiche che attenuavano gli effetti più
duri del capitalismo e conferivano al sistema una certa dose di
legittimità anche agli occhi degli sfruttati. Questi fattori
contribuivano a celare i mali del modo di produzione capitalistico e
impedivano ai lavoratori di prendere coscienza dell'alternativa
socialista.
Il lavoro di Althusser si sviluppa lungo queste linee. Secondo il
filosofo francese il capitalismo moderno resta politicamente stabile
perché, malgrado le sue contraddizioni e le sue crisi, la
lotta di classe si è spostata dal piano materiale a quello
normativo. Il capitalismo cerca di preservare se stesso creando un
complesso di istituzioni intese a mistificare il proletariato. Si
tratta dei cosiddetti 'apparati ideologici di Stato', ovvero di
istituzioni sociali come le scuole e le università, i mass
media, la famiglia, la Chiesa, i partiti borghesi o
socialdemocratici e i sindacati. Ciascuno di questi apparati
contribuisce a suo modo all'egemonia ideologica della borghesia
prevenendo la formazione di una coscienza di classe tra gli operai
(v. Althusser, 1969).
I seguaci di Althusser hanno anche tentato di emendare la teoria
marxista delle classi attraverso una profonda revisione del concetto
di 'proletariato'. Più precisamente, essi hanno proposto di
ridefinire la linea di confine tra la borghesia e il proletariato in
modo da distinguere più chiaramente l'essenza politica di
quest'ultimo. Questa ridefinizione si impone, essi sostengono,
perché la vecchia distinzione tra lavoro e capitale non
è sufficiente come modello delle divisioni di classe
all'interno del capitalismo monopolistico. Una delle ragioni
principali di questo fatto è l'eccezionale espansione in
epoca recente dei colletti bianchi e dei gruppi professionali. Tale
sviluppo ha reso altamente problematica la nozione di 'classe
operaia'. La grande maggioranza dei colletti bianchi vende la
propria forza lavoro e in questo senso appartiene al proletariato.
Eppure è evidente che la massa degli impiegati non si
identifica col proletariato né agisce politicamente
all'unisono con la classe operaia tradizionale. Stando così
le cose, si rende indispensabile una definizione più
raffinata della classe operaia odierna. In altri termini, i marxisti
hanno bisogno di trovare una soluzione a ciò che Nicos
Poulantzas ha definito il "problema del confine" (v. Poulantzas,
1974).
La soluzione che Poulantzas propone è quella di ripristinare
la negletta distinzione marxiana tra lavoro produttivo e lavoro
improduttivo quale criterio dell'appartenenza di classe. Per lavoro
produttivo si intende un'attività che produce plusvalore;
lavoro improduttivo, invece, è l'attività che non
dà luogo a plusvalore. Così, un tassista occupato
presso un'impresa privata svolge un lavoro produttivo perché
genera plusvalore per i suoi datori di lavoro e viene sfruttato nel
processo produttivo. Un tassista che lavora in proprio, invece,
svolge un lavoro improduttivo dal momento che non produce alcun
surplus e non è sfruttato. La sua prestazione non è
diversa tecnicamente da quella fornita da un domestico; entrambe
comportano un onere contro un reddito e come tali non recano alcun
contributo all'accumulazione del capitale. Su un piano alquanto
più elevato la categoria del lavoro improduttivo comprende
non solo coloro che erogano servizi contro reddito, ma anche coloro
che sono occupati nel settore statale e i cui redditi sono pagati
con le imposte. Il prelievo fiscale è estratto dai salari dei
lavoratori produttivi o dal plusvalore sotto forma di tasse sui
profitti, così che in effetti il lavoro degli impiegati dello
Stato, come quello dei domestici, costituisce una prestazione di
servizi contro reddito.
Occorre chiarire subito che molti marxisti occidentali
respingerebbero questo tentativo di ripristinare la distinzione tra
lavoro produttivo e improduttivo come elemento determinante delle
divisioni di classe. Dopotutto, vi è scarsa evidenza empirica
che questa distinzione puramente formale abbia un qualche valore
esplicativo; in nessuna società capitalistica si è
prodotto un conflitto di interessi tra membri della classe
lavoratrice differenziata in questo modo, ed è assai
probabile che gli stessi lavoratori sarebbero sorpresi
nell'apprendere l'esistenza di un tale antagonismo. Inoltre, la
definizione della classe lavoratrice sulla base dei rigidi criteri
proposti da Poulantzas ha come conseguenza quella di ridurre questa
classe a una quota affatto minoritaria della popolazione. Come lo
studioso marxista americano Erik Wright ha mestamente osservato,
l'applicazione rigorosa di questi criteri al proletariato americano
lo ridurrebbe a una entità insignificante. "È
difficile immaginare - egli scrive - che un vitale movimento
socialista possa svilupparsi in un paese a capitalismo avanzato nel
quale meno di una persona su cinque è un operaio" (v. Wright,
1976, p. 23). C'è qualcosa di ironico nel fatto che una
teoria, avanzata tra l'altro per confutare il punto di vista
borghese secondo il quale la classe operaia è storicamente
condannata, debba essa stessa concludersi con delle affermazioni che
portano a un risultato del tutto analogo.
3. Autorità e subordinazione
L'elemento centrale nel modello marxista classico delle classi
è il possesso della proprietà sotto forma di capitale;
è attraverso la proprietà che di fatto la borghesia
domina e controlla il proletariato. Un critico influente di questa
concezione è il sociologo tedesco Ralf Dahrendorf, il quale
ha proposto un modello alternativo in cui è l'autorità
piuttosto che la proprietà il fattore determinante delle
divisioni di classe. Secondo Dahrendorf l'errore fondamentale di
Marx è stato quello di confondere la parte con il tutto,
ossia di non vedere che la proprietà capitalistica non
è che una specifica forma di autorità;
l'autorità stessa costituisce la forma generale del dominio
di classe e la principale origine del conflitto di classe. In altre
parole, la distinzione sociale fondamentale non è tra coloro
che posseggono i mezzi di produzione e coloro che vendono la loro
forza lavoro, bensì tra quanti comandano e quanti
obbediscono. Il possesso dell'autorità conferisce comuni
interessi di classe a coloro che detengono il potere, allo stesso
modo in cui la mancanza di autorità conferisce comuni
interessi di classe a coloro che occupano posizioni subordinate (v.
Dahrendorf, 1957).
Il modello di Dahrendorf si ispira all'analisi weberiana della
burocrazia che mette in evidenza il potere inerente all'esercizio di
una carica indipendentemente dal possesso della proprietà.
Poiché i burocrati possono sviluppare autonomamente degli
interessi di classe, e poiché la burocrazia costituisce un
aspetto inevitabile di ogni società complessa, la divisione
in classi è destinata a sorgere comunque, quale che sia la
natura del sistema politico. La proprietà privata potrebbe
essere abolita con un semplice tratto di penna da parte del
legislatore, ma l'autorità non potrebbe mai essere eliminata
per decreto. Qualunque ipotesi di una società senza classi
pertanto non è che un pio desiderio.Una delle conseguenze che
derivano dal considerare l'autorità come fattore determinante
della divisione di classe è quella di dissolvere la nozione
stessa di classe sociale in quanto fenomeno la cui ampiezza coincide
con quella della società. Una classe subordinata, secondo
Dahrendorf, esiste all'interno di qualunque organizzazione
burocratica, sia essa una impresa industriale, un sindacato, una
prigione, un ospedale, una università, o altro. In ciascun
caso esiste una linea di demarcazione o un confine tra coloro che
comandano e coloro che obbediscono. Ciò implica l'esistenza
di una pluralità di classi subordinate, istituzionalmente
isolate l'una dall'altra, piuttosto che di una singola classe dotata
di una identità e di una coscienza comuni.
L'immagine che ne deriva è più simile al ritratto che
Marx dà della classe contadina come "un sacco di patate" che
non a quella di una collettività sociale. Nello schema di
Marx coloro che sono privi di proprietà costituiscono una
classe nel pieno senso sociale del termine perché l'apparato
politico e giuridico dello Stato li opprime, in qualunque ambito
della società essi si trovino. Nello schema di Dahrendorf,
invece, i subordinati costituiscono una classe solo in un senso
parziale e limitato, perché i suoi membri sono in grado di
affrancarsi dal loro stato di subordinazione nel momento stesso in
cui abbandonano il luogo fisico nel quale vigono le regole
dell'autorità e dell'obbedienza. Un operaio, per esempio,
cessa di essere un membro della classe subordinata non appena esce
dai cancelli della fabbrica; da quel momento egli è libero di
assumere altri ruoli, compresi quelli investiti di autorità.
La subordinazione costituisce pertanto una condizione temporanea, il
che non vale evidentemente per il proletariato di Marx. Secondo Marx
il proletariato non ha alcuna possibilità di sfuggire alla
propria condizione di sfruttamento poiché la proprietà
capitalistica e i rapporti di mercato invadono ogni angolo della
società, non soltanto la fabbrica. La classe è
perciò universalmente diffusa come forma di vita collettiva,
mentre per Dahrendorf essa si manifesta come una serie di
sottogruppi frammentati, troppo diversi tra loro per dar luogo a una
comune situazione di classe.
Dahrendorf non è il solo dei grandi teorici a ridimensionare
il ruolo della proprietà privata nel sistema di
stratificazione del moderno capitalismo. L'influente sociologo
americano Talcott Parsons assume una posizione anche più
estrema. Non vi è alcuna possibilità di equivoco
riguardo alla sua affermazione che "nel recente dibattito sulla
classe, condotto al di fuori dei canoni marxiani, il riferimento
specifico alla proprietà dei mezzi di produzione è
virtualmente scomparso" (v. Parsons, 1970, p. 22). L'evidente favore
con cui Parsons considera questo stato di cose deriva dalla sua
convinzione che il declino del concetto sia dovuto alla dissoluzione
stessa della proprietà in quanto fattore significativo del
mantenimento della diseguaglianza di classe. Egli ritiene che
ciò sia avvenuto in parte a seguito della separazione tra
proprietà e controllo all'interno della grande impresa
moderna, in parte perché "il reddito familiare deriva sempre
più dall'attività di lavoro piuttosto che dalla
proprietà, fenomeno che, in termini di status, investe non
solo gli strati inferiori dei lavoratori salariati ma anche i
vertici della scala occupazionale". Dato che "non è
più possibile parlare di una classe 'capitalistica'
proprietaria sostituitasi alla primitiva classe 'feudale' di
possidenti", Parsons ritiene che si debba "separare il concetto di
classe sociale dal suo rapporto storico sia con la parentela che con
la proprietà in quanto tale" (p. 23).
La principale ragione invocata per giustificare l'esclusione della
proprietà dall'analisi delle classi è che nella
società capitalistica moderna quasi tutti sono in una certa
misura proprietari. Il termine 'proprietà', secondo Parsons,
come per molti altri sociologi, non è che un sinonimo di
'possesso'. Vale a dire un'entità trasferibile da un attore
all'altro, un'entità che può passare di mano
attraverso un processo di scambio. Ora, se la proprietà
è semplicemente un determinato tipo di possesso, ne segue che
ognuno nella società è in qualche misura proprietario.
In questa prospettiva, non può esservi una netta divisione
tra proprietari e non proprietari, ma solo differenze di grado tra
chi possiede molto e chi possiede poco. Il possesso di un pozzo
petrolifero o di una flotta navale conferisce ai loro proprietari
diritti e obblighi in tutto simili a quelli che derivano dal
possesso di uno spazzolino da denti o di un paio di scarpe. Le leggi
sulla proprietà non possono pertanto essere interpretate come
leggi di classe, dal momento che giuridicamente tutte le forme di
possesso sono uguali.Il desiderio manifesto di eliminare la
proprietà dalla moderna teoria delle classi sembra una
conseguenza pressoché naturale della concezione
funzionalistica della società.
Teorici del funzionalismo come Parsons ritengono che il capitalismo
moderno sia caratterizzato dal declino dei criteri di tipo
ascrittivo e dalla nascita di criteri meritocratici per mezzo dei
quali gli individui vengono premiati in virtù dei loro sforzi
e dei risultati acquisiti. In questo schema la persistenza dei
diritti di proprietà rappresenta una seria anomalia, in
quanto l'ereditarietà del patrimonio familiare non implica
quelle qualità e quegli sforzi che sono ritenuti i soli mezzi
legittimi per conquistare una posizione. Da una prospettiva di tipo
funzionalistico la proprietà continua a sopravvivere come una
sorta di 'ritardo culturale', un bizzarro residuo di un'età
ormai tramontata.
4. La teoria funzionalistica della stratificazione
La concezione di Parsons presenta una notevole affinità con
la cosiddetta teoria funzionalistica della stratificazione,
elaborata da Kingsley Davis e Wilbur Moore. Secondo questa teoria la
stratificazione sociale è una necessità universale.
Tutti i sistemi sociali hanno determinate esigenze funzionali, che
debbono essere soddisfatte perché essi risultino efficienti e
produttivi. Tutte le posizioni cruciali debbono essere occupate
dagli individui più capaci e dotati, cosicché è
indispensabile introdurre determinati meccanismi sociali al fine di
garantire che le persone più brillanti siano attratte dai
ruoli più importanti. La stratificazione sociale è
esattamente il meccanismo che realizza questo scopo. Una
diseguaglianza strutturale si produce a causa della necessità
di offrire i compensi più elevati a coloro che occupano le
posizioni più importanti in termini funzionali. Incentivi
materiali e sociali diventano essenziali per poter fornire una
motivazione sufficiente a individui di talento, nonché per
dare ad essi una ricompensa per la lunga preparazione a cui devono
assoggettarsi e per le pesanti responsabilità che si chiede
loro di assumere. Senza questi incentivi differenziali non
necessariamente le persone migliori si farebbero avanti per occupare
le posizioni più importanti. In un sistema in cui ci fosse
una perfetta eguaglianza, le posizioni di vertice potrebbero
agevolmente essere ricoperte dalle persone meno capaci, a detrimento
dell'intera società.
La questione che si pone è come decidere quali siano le
posizioni di maggior importanza funzionale e, dunque, meritevoli dei
compensi più elevati. Davis e Moore suggeriscono, a tale
proposito, due criteri: a) l'unicità funzionale; b)
l'indispensabilità, ovvero la misura in cui altre posizioni
all'interno della divisione del lavoro dipendono dalla posizione
considerata. Così, un pilota d'aereo è unico dal punto
di vista funzionale, nel senso che egli soltanto possiede la
capacità di pilotare l'aeroplano. Lo steward di bordo non
potrebbe svolgere questo compito, ma il pilota potrebbe agevolmente
compiere le mansioni dello steward. Un esempio di
indispensabilità è quello del comandante militare. Un
numero assai maggiore di persone dipende dalle decisioni di un
generale dell'esercito di quante non dipendano dalle decisioni di un
caporale; allo stesso modo, più persone dipendono dalle
decisioni di un caporale che non da quelle di un soldato semplice.
Questi tre gradi militari si pongono dunque in ordine decrescente di
importanza funzionale, e i corrispondenti livelli di compenso
saranno regolati in conformità. Davis e Moore sostengono che
le differenze nei livelli di importanza funzionale conducono
inevitabilmente alla stratificazione sociale e che, inoltre, la
stratificazione costituisce un sistema razionale per utilizzare le
capacità umane nel modo più efficace.
La teoria funzionalistica è stata oggetto di numerose e
pesanti critiche. Melvin Tumin ha sostenuto che l'importanza
funzionale relativa delle diverse posizioni non può essere
stabilita tanto facilmente quanto ritengono Davis e Moore. Per
esempio, è a dir poco dubbio se il pilota d'aereo possa
operare efficacemente senza il supporto del personale di terra e dei
tecnici che, secondo Davis e Moore, sono meno importanti dal punto
di vista funzionale. Allo stesso modo potremmo chiederci se il
generale dell'esercito possa agire efficacemente senza i propri
caporali e soldati semplici. Nella società moderna le diverse
posizioni all'interno della divisione del lavoro sono strettamente
interdipendenti, cosicché ciascuna di esse può essere
del tutto efficace soltanto con la cooperazione delle altre.
Chiedersi quale posizione sia funzionalmente più importante
di altre equivale a chiedersi quale delle gambe di un tavolo sia
più importante per tenerlo in piedi.
Inoltre, la teoria funzionalistica trascura l'influenza del mercato
sul livello di remunerazione delle occupazioni, a prescindere dalla
loro importanza sociale o funzionale. Attori del cinema, cantanti
pop, divi del calcio e celebrità televisive ricevono compensi
spettacolari ma sarebbe un'ingenuità presumere che il loro
contributo alla società sia più importante di quello
fornito da lavoratori modestamente remunerati come minatori, vigili
del fuoco, insegnanti e infermieri. Il mercato si rivela piuttosto
indifferente all'importanza funzionale delle occupazioni.
Mentre Davis e Moore giudicano la stratificazione sociale come un
aspetto positivo della società, dal momento che contribuisce
a massimizzare le risorse umane, alcuni critici ritengono che essa
sia in effetti disfunzionale. Le divisioni di classe, in
particolare, danno luogo a forme di differenziazione sociale e
culturale che spesso impediscono l'impiego ottimale delle
capacità. Bambini dotati degli strati sociali inferiori
spesso non possono realizzare le proprie potenzialità a causa
dei limiti della sottocultura della classe a cui appartengono. Oltre
a ciò, coloro che occupano le posizioni di vertice tentano
solitamente di erigere delle barriere sociali in modo da prevenire
possibili invasioni dal basso. Da questo punto di vista, la
stratificazione sociale conduce allo spreco di capacità e
risorse umane e non a un loro uso più efficiente.Wesolowski
ha rilevato inoltre che gli incentivi materiali e di status (e
quindi le disuguaglianze) non sono gli unici stimoli capaci di
attrarre gli individui verso le posizioni chiave. Il potere o
l'autorità che di norma sono connessi a queste posizioni
vengono generalmente considerati di per se stessi come un compenso.
In altri termini, l'esercizio del potere comporta una soddisfazione
personale sufficiente per motivare gli uomini ad aspirare alle
posizioni più elevate, e questa motivazione persisterebbe
anche in assenza di incentivi materiali.
La teoria di Davis e Moore, infine, non è in grado di dar
conto dell'importanza della proprietà privata nella
società moderna. Se la ricchezza materiale è vista
esclusivamente come una ricompensa necessaria allo svolgimento dei
compiti più essenziali, allora qual è la funzione
sociale della ricchezza ereditata? I figli e le figlie dei
più ricchi possono godere delle ricompense più
generose senza svolgere alcun compito socialmente utile. Essi non
hanno bisogno di dimostrare alcun particolare talento, se non quello
di scegliersi oculatamente i genitori. In questa prospettiva sembra
che la teoria funzionalistica della stratificazione rappresenti una
comoda ideologia per la classe proprietaria.
5. Lavoro manuale e lavoro non manuale
Data l'immagine che i funzionalisti hanno della società come
un insieme caratterizzato da armonia sociale e integrazione morale,
è più che comprensibile che la proprietà sia
esclusa dalle loro analisi della stratificazione. Questa omissione,
tuttavia, è meno giustificabile nel caso di quelle teorie che
non adottano una visione consensualistica della stratificazione
sociale. La più diffusa di queste teorie nella sociologia
occidentale contemporanea è quella che pone il confine tra le
classi nella distinzione tra occupazioni manuali e non manuali.
Nessun'altra definizione delle classi ha dimostrato di essere
altrettanto adattabile agli studi e alle indagini di sociologia
empirica; l'analisi di aspetti della vita sociale quali il
comportamento elettorale, la struttura della famiglia, i modelli di
consumo, i risultati scolastici, l'affiliazione religiosa, e simili,
utilizza in effetti correntemente la distinzione tra lavoro manuale
e lavoro non manuale per evidenziare le differenze di classe.
L'origine di questa teoria deve essere cercata in quei problemi in
cui si sono imbattuti i sociologi all'inizio del secolo, allorquando
si sono trovati di fronte alla nascita dei nuovi gruppi dei colletti
bianchi. Questi gruppi si estendevano a spese delle tradizionali
categorie operaie, il che suscitò numerose discussioni e un
grande interesse da parte degli intellettuali socialisti,
naturalmente preoccupati di stabilire la coscienza di classe e
l'orientamento politico dei nuovi strati intermedi. Il dibattito su
questo tema ebbe inizio tra le file del Partito Socialdemocratico
Tedesco e si associava all'aspra controversia sul 'revisionismo'.
Successivamente esso fu ripreso da due studiosi tedeschi, Hans
Speier ed Emil Lederer, impegnati nell'analisi sociologica dei ceti
impiegatizi (Angestellten). In entrambi i casi l'intento era il
medesimo: quello di stabilire in che misura, nel quadro del processo
di trasformazione dalla condizione di 'colletti blu' a quella di
'colletti bianchi', la classe lavoratrice muti anche le proprie
pratiche politiche e sociali. Il perdurante interesse per questo
tema, che negli anni venti e trenta si inseriva nel dibattito
più generale sulla Verbürgerlichung, è
documentato dal fatto che esso riemerse negli anni sessanta nelle
vesti del dibattito sull'embourgeoisement. Mentre nel primo caso il
problema era quello della possibile inclusione dei colletti bianchi
nella classe operaia, nel secondo veniva analizzato il tema
dell'assorbimento dei colletti blu nella classe media. In entrambi i
casi si assumeva che la natura stessa delle occupazioni, le loro
caratteristiche lavorative, le loro remunerazioni sia materiali che
non pecuniarie, ecc., costituissero elementi cruciali nella
strutturazione degli atteggiamenti e dei comportamenti di classe. La
semplice mancanza della proprietà non era sufficiente a
determinare la classe sociale; le differenze all'interno della
divisione del lavoro, in particolar modo quelle tra occupazioni
manuali e non manuali, erano molto più decisive.
Weber aveva notato in precedenza come l'onnicomprensivo concetto
marxiano di 'lavoro salariato' fosse troppo ampio e generico per
cogliere le complesse articolazioni del concetto di classe. Egli
riteneva che le diverse categorie nell'ambito della divisione del
lavoro avessero situazioni di mercato affatto diverse, a seconda del
variare dei livelli di specializzazione, di qualificazione e di
potere contrattuale in generale. Il modello delle classi basato
sulla distinzione tra lavoro manuale e lavoro non manuale
rappresenta in effetti una formalizzazione dell'analisi weberiana,
benché si debba osservare che Weber non impiegò questa
distinzione in modo sistematico. È probabile che egli si
rendesse conto che questo modello comportava un uso improprio delle
sue idee, dal momento che esso contrasta con alcuni dei suoi
concetti fondamentali relativi alla stratificazione.
Può sembrare sorprendente che i sociologi non abbiano mai
sottoposto questo modello delle classi a un severo esame critico,
nonostante i suoi ovvi limiti. Uno di questi limiti è che
esso non è in grado di evidenziare la natura conflittuale dei
rapporti di classe, anche se molti dei sociologi che lo utilizzano
in genere non concepiscono i rapporti di classe in termini non
conflittuali. È certamente vero che nell'ambito
dell'industria la divisione tra lavoro manuale e non manuale
corrisponde approssimativamente alla linea di demarcazione tra le
classi, in particolare in quelle situazioni in cui anche i livelli
più bassi dei colletti bianchi si identificano più con
la dirigenza che con i lavoratori manuali. Tuttavia esiste un'ampia
gamma in continua espansione di impieghi nella burocrazia dello
Stato e nelle amministrazioni locali, nonché all'interno
delle diverse professioni del terziario, che non stanno affatto in
opposizione alla forza lavoro manuale. Generalmente nella tipica
burocrazia statale non esiste alcuna forza lavoro manuale. Se i
lavoratori non manuali nel settore pubblico allargato non si trovano
in opposizione diretta con i lavoratori manuali sul posto di lavoro,
si potrebbe forse sostenere che il conflitto si sposta a livello
nazionale. Ma, di nuovo, non è molto convincente sostenere
che vi sia un'opposizione fondamentale tra, diciamo, minatori,
ferrovieri e portuali, da un lato, e infermieri, insegnanti e
assistenti sociali dall'altro. Senza dubbio esiste scarsa evidenza
empirica del fatto che queste due ampie categorie si siano
organizzate su linee tra loro antagonistiche. Semmai, è vero
il contrario; le associazioni sindacali dei colletti bianchi hanno
mostrato una crescente tendenza a mettere da parte il loro
tradizionale senso di superiorità di status sui sindacati
operai e ad allearsi con questi in modo da avere un maggior potere
contrattuale. Quando sia i lavoratori manuali che quelli non manuali
sono formalmente rappresentati nell'ala industriale del movimento
sindacale, come avviene in molti paesi, sarebbe perlomeno una
incongruenza teorica considerarli schierati su fronti opposti nella
divisione di classe.
La ragione per la quale i raggruppamenti di colletti bianchi di
livello medio e inferiore vengono considerati parte integrante della
classe media è che, entro la sfera dell'industria privata,
essi si sono generalmente schierati con i gruppi superiori
dell'organizzazione, piuttosto che con quelli inferiori. Nel settore
pubblico o statale, d'altra parte, non solo spesso non esiste alcuna
categoria subordinata di lavoratori manuali sulla quale esercitare
il comando, ma l'identificazione con i quadri superiori è
assai meno agevole quando la gerarchia dell'autorità si
estende verso l'alto perdendosi nell'amorfo organismo statale.
Inoltre gli impiegati del settore pubblico non hanno di regola
alcuna opportunità di trasferire le loro capacità
tecniche e i loro servizi a un altro datore di lavoro come accade
per i colletti bianchi impiegati nel settore privato. Tutti i
miglioramenti retributivi e di condizioni di lavoro debbono essere
negoziati con un imprenditore monopolistico, che tra l'altro deve
attenersi a un bilancio strettamente controllato. Tutto ciò
contribuisce a produrre una situazione di conflitto latente o
potenziale tra i lavoratori non manuali e lo Stato in veste di
datore di lavoro: una situazione non dissimile da quella che di
frequente esiste tra dirigenti e lavoratori manuali nell'industria
privata. Quando i servizi pubblici e assistenziali cadono sotto la
scure dei tagli di spesa governativi, le risposte collettive dei
lavoratori non manuali colpiti da questi provvedimenti costituiscono
l'esatta replica di scioperi, dimostrazioni di protesta e altre
espressioni consimili che un tempo si pensava fossero prerogativa
esclusiva dei lavoratori manuali. Il modello delle classi fondato
sulla contrapposizione tra lavoro manuale e non manuale deve ancora
adattarsi a questi cambiamenti.
Un'ulteriore caratteristica di questo modello è che l'analisi
si incentra sulle diseguaglianze di classe che derivano
esclusivamente dalla divisione del lavoro. Non vi è posto in
esso per la proprietà privata e per le sue conseguenze. Nato
come un tentativo di articolare l'onnicomprensivo concetto di
'lavoro salariato', evidenziando le diversità della struttura
occupazionale, il modello fondato sull'opposizione lavoro
manuale/lavoro non manuale è riuscito a eliminare il concetto
gemello di 'capitale' dal vocabolario delle classi. Il potere e i
privilegi che derivano dalla proprietà di ricchezza e
capitale sono analiticamente distinti da quelli che provengono dalla
divisione del lavoro. Una teoria delle classi che prenda in
considerazione solo quest'ultima è indubbiamente squilibrata.
In quanto si ammetta che il possesso della proprietà genera
interessi di classe, il presupposto implicito è che questi
interessi siano grosso modo in linea con quelli della classe dei
lavoratori non manuali, o almeno dei suoi livelli più
elevati. Da un punto di vista empirico è possibile che le
cose vadano spesso in questo modo, ma è alquanto difficile
spiegare teoricamente questa convergenza di interessi nel quadro
logico di un modello fondato esclusivamente sulla divisione del
lavoro. Il fatto che quanti posseggono ricchezze ereditate o un
capitale possano fare causa comune con quanti godono di redditi
elevati, che traggono soltanto dalla vendita delle proprie
prestazioni lavorative, costituisce un aspetto interessante e
problematico del capitalismo, che merita di essere spiegato. Un
problema del genere non può nemmeno essere formulato in un
modello di classe nel quale il concetto di proprietà è
assente. I sostenitori del modello fondato sulla distinzione tra
lavoro manuale e non manuale possono anche proclamarsi eredi
intellettuali di Weber, ma sembrano aver dimenticato che
quest'ultimo aderiva alla posizione di Marx quando sosteneva
tassativamente che " 'proprietà' e 'assenza di
proprietà' sono le categorie fondamentali di tutte le
situazioni di classe" (v. Weber, 1922).
L'accordo tra Weber e Marx su questo punto non deve, tuttavia, far
dimenticare le profonde divergenze tra le loro posizioni. Se Weber
riconosceva l'importanza cruciale dei rapporti di classe e di
proprietà, riteneva però che altri fattori non fossero
meno importanti. Egli concepiva la stratificazione come sintesi di
tre distinti elementi: le classi, i gruppi di status e i partiti,
ciascuno dei quali dava luogo a una specifica forma di
diseguaglianza. Le classi si formano, secondo Weber, a seguito di
due congiunte condizioni sociali: il possesso della proprietà
e la vendita di prestazioni lavorative nel mercato. Quando il
sistema distributivo poggiava su fattori distinti dalla
proprietà privata e dalle forze del mercato, le classi
sociali non potevano costituirsi. Schiavi e servi, ad esempio, non
formavano delle classi sociali perché il loro sfruttamento
derivava dal ricorso alla coercizione fisica e non dal contratto di
lavoro salariale. Essi costituivano piuttosto dei gruppi di status
(Stände).
Quando la classe sociale è definita come un prodotto del
mercato, nasce il problema di stabilire dove termina una classe e
dove comincia l'altra. Ovviamente, vi è un ampio ventaglio di
situazioni di mercato che risultano dalla divisione del lavoro.
Coloro i quali vendono le proprie prestazioni lavorative possono
trovarsi in condizioni di vantaggio o svantaggio in molteplici modi.
Alcuni gruppi potranno esigere retribuzioni adeguate alle loro
specializzazioni esclusive o qualificazioni; altri potranno disporre
di un potere contrattuale in ragione della posizione strategica che
occupano all'interno del processo produttivo. Il mercato è un
luogo in cui tutte le categorie professionali si trovano
indirettamente in competizione fra loro; ognuno cerca di ottenere la
fetta più grande di una torta limitata; una porzione maggiore
per alcuni implica necessariamente una porzione minore per altri. Il
modello o l'immagine evocati da questo meccanismo sono quelli di una
società frammentata in una serie innumerevole di divisioni e
, e non quelli di una società divisa tra una classe dominante
e una classe subordinata.
Weber sostiene che le classi sono composte da vari gruppi le cui
opportunità di mercato e possibilità di vita sono in
gran parte simili. Ma egli non propone nessun criterio definito per
stabilire il confine tra le classi, né per determinare il
numero delle classi rivali. L'immagine risultante è piuttosto
quella dell'hobbesiano omnium bellum contra omnes, dal momento che
ciascun gruppo combatte la propria battaglia nell'anarchia del
mercato. Sebbene Weber faccia frequenti riferimenti alle categorie
marxiane delle classi - l'aristocrazia, i contadini, la borghesia,
il proletariato - egli non propone alcuna definizione formale
relativamente alla loro composizione.I gruppi di status
(Stände), il secondo dei tre aspetti della stratificazione, si
differenziano dalle classi per il fatto di derivare la loro
importanza dal prestigio sociale e non dal possesso materiale. Weber
fu tra i primi a sottolineare che i compensi simbolici o di status
non sempre vanno di pari passo col potere economico. Vi possono
sempre essere delle discrepanze, come nel caso degli aristocratici
decaduti o dei bramini che vivono in povertà; allo stesso
modo, le famiglie arricchite da poco sono spesso oggetto di
disprezzo da parte di quelle di più antico lignaggio. Ma
anche quando ricchezza e prestigio sociale si equivalgono, il
rapporto causale tra loro non ha necessariamente la medesima
direzione. Talvolta il prestigio sociale deriva dal possesso della
ricchezza, talaltra costituisce piuttosto un trampolino per
accedervi. Disparità tra posizioni di classe e posizioni di
status hanno più probabilità di sorgere nella
società capitalistica, in quanto i rapporti di mercato
risultano regolati da considerazioni affatto impersonali. Il
mercato, come afferma Weber, "nulla sa dell'onore". L'ordine basato
sullo status, d'altro canto, ha un senso esattamente opposto. La
stratificazione in base allo status è determinata da fattori
quali il prestigio e gli stili di vita e non dalla mera acquisizione
economica e dal nudo potere economico (v. Weber, 1922).
Weber tende a vedere i gruppi di status come corpi alquanto
combattivi. Sebbene essi siano fondati su basi diverse da quelle
delle classi sociali, sono ugualmente capaci di mobilitarsi per il
perseguimento di fini materiali. Dove i gruppi di status formano
anche delle comunità morali, caratterizzate da un forte senso
della propria identità, essi possono avere una percezione
più chiara dei loro interessi comuni rispetto ai membri di
una classe sociale. Ciò può contribuire a fare di
questi gruppi una formidabile forza nella lotta per la ripartizione
delle risorse; una forza che molto spesso serve a contrastare o ad
annientare l'azione delle classi sociali. È difficile che una
classe sociale divisa al suo interno in base alle differenze di
status possa agire come un'entità collettiva unitaria.Il
terzo elemento della stratificazione è il partito. Weber
adopera questo termine per indicare pressoché qualunque tipo
di organizzazione politica capace di condizionare in modo
indipendente la distribuzione delle risorse. In linea di principio
il sistema di stratificazione può essere organizzato in
diversi modi a seconda degli ideali politici del partito che detiene
il potere. Gli Stati dominati dai partiti di sinistra tentano, in
genere, di imporre un sistema di distribuzione diverso da quello che
vige negli Stati dominati dai partiti di destra. In altri termini,
il sistema di stratificazione può entro certi limiti essere
manipolato dall'intervento politico. Classi e gruppi di status
possono all'occorrenza influenzare un partito collaborando alla
formulazione dei programmi politici, ma possono a loro volta esserne
influenzati quando il partito in questione assume il potere statale.
Il partito rappresenta, pertanto, l'aspetto della stratificazione
che più strettamente si identifica con l'autorità di
cui è investito lo Stato.
La tesi fondamentale di Weber è che la stratificazione
sociale non è riducibile semplicemente a fattori economici e
materiali, per quanto questi siano importanti. Le divisioni di
classe sono sempre attenuate dai gruppi di status e dalle
istituzioni politiche, che operano spesso in senso contrario a
queste divisioni. L'effetto esercitato dai gruppi di status e dai
partiti consiste nel temperare il clima politico di un mero
conflitto di classe, o deviandolo entro canali che nulla hanno a che
vedere con la classe o trasformandolo in un processo regolamentato e
di routine. È soprattutto per questa ragione che Weber
giudicava con manifesto scetticismo la fiduciosa previsione di Marx,
secondo la quale le due grandi classi del capitalismo sarebbero
andate sempre più divaricandosi, fino a costituire 'due campi
armati' che avrebbero condotto alla guerra civile e al sovvertimento
rivoluzionario del sistema. Malgrado il permanere delle
diseguaglianze di classe, il capitalismo ha dimostrato di possedere
una ben maggiore elasticità, e ciò, in larga misura,
per le ragioni delineate da Weber.
6. Le classi nella società socialista
Da quanto precede si può concludere che le teorie della
stratificazione sociale sono sorte come un tentativo di spiegare il
sistema di diseguaglianze prodotto dalla società
capitalistica. La nascita delle società socialiste ha creato
non poche difficoltà a queste teorie e ha ispirato nuove
prospettive intese a cogliere le realtà specifiche del
socialismo di Stato. La teoria marxista delle classi, in
particolare, ha incontrato gravi difficoltà nel tentativo di
spiegare il sistema di potere e diseguaglianza sorto all'interno di
società che si fondavano dichiaratamente sui principî
marxisti. Quasi tutti i teorici marxisti erano disposti ad ammettere
che l'Unione Sovietica, la Cina, i paesi dell'Est europeo, Cuba, il
Vietnam, la Corea del Nord, e altri, erano società
stratificate; ma non tutti ammettevano necessariamente che la
stratificazione assumesse in quei paesi caratteristiche di classe.
La teoria marxista classica sosteneva che le classi sono destinate a
sparire con l'abolizione della proprietà privata, veleno
mortale annidato nel cuore del capitalismo. Le società
socialiste, avendo consegnato la proprietà dei mezzi di
produzione nelle mani della collettività, diventavano
perciò stesso, per definizione, società senza classi.
Determinati tipi di diseguaglianza erano ugualmente presenti sotto
il nuovo regime, ma la divisione in classi non esisteva
perché mancava lo sfruttamento.
La premessa di fondo di questa tesi era che le diseguaglianze
prodotte dalla proprietà privata dessero luogo a
insoddisfazioni e malcontenti ben più gravi di quelli che
sorgono quando è presente la proprietà collettiva. I
conflitti tra capitale e lavoro nella società borghese non
possono essere risolti nel quadro del sistema. Nelle società
socialiste, invece, le diseguaglianze tra diversi gruppi sociali,
quali operai, contadini e intelligencija, non erano ritenute tali da
dar luogo a classi e conflitti di classe, bensì a ciò
che Stalin definiva "strati non antagonistici". Stalin manifestava
in effetti disprezzo nei confronti dell'idea che il socialismo fosse
un sistema egualitario. Egli sosteneva che l'eguaglianza non era che
una nozione piccolo-borghese, e negli anni trenta intraprese una
violenta campagna ideologica contro l'uravnilovka o 'livellamento'.
Se in Unione Sovietica, sotto Lenin, la struttura dei redditi aveva
mostrato un considerevole grado di egualitarismo, all'epoca di
Stalin essa divenne assai più differenziata. I dirigenti di
fabbrica venivano remunerati molto meglio dei loro lavoratori
manuali, sia in termini salariali che di premi di
produttività. Anche all'intelligencija fu riservato un
trattamento privilegiato, secondo una tendenza che si è
mantenuta anche successivamente. Colletti bianchi e tecnocrati hanno
goduto di compensi di gran lunga superiori a quelli dei colletti blu
e dei contadini. A prescindere dai vantaggi garantiti da redditi
più elevati e da alloggi migliori, l'intelligencija godeva in
misura sproporzionata di molti altri benefici derivanti
dall'appartenenza al Partito Comunista. Di nome partito della classe
operaia, il Partito Comunista in URSS e nei paesi dell'Est europeo
era dominato dall'intelligencija; operai e contadini rappresentavano
una minoranza in rapido declino (v. Parkin, 1971).
L'appartenenza al Partito Comunista nella società socialista
comportava vantaggi che non trovavano corrispondenza nella
società capitalistica. La tessera del partito poteva
consentire a un singolo di tirare le fila di una comunità
locale, di ottenere un alloggio migliore, di acquistare gli scarsi
beni di importazione, di compiere viaggi all'estero, e soprattutto
di accrescere le proprie prospettive di carriera. Senza la tessera
del partito, nessuno poteva aspirare a ottenere i posti meglio
remunerati e di maggiore responsabilità; poiché
competenze e qualificazioni dovevano associarsi
all'affidabilità politica, le posizioni chiave erano
assegnate solo ai membri della cosiddetta nomenklatura. I privilegi
dei colletti bianchi si estendevano finanche alla possibilità
di trasmettere i vantaggi sociali ai loro discendenti.
L'ereditarietà della proprietà, così come
esiste in Occidente, era virtualmente assente nella società
socialista, ma i privilegiati potevano garantire il futuro dei loro
figli mediante un accorto uso del sistema educativo. Numerosi studi
empirici hanno dimostrato che i figli di famiglie di professionisti
e tecnocrati raggiungevano livelli di rendimento superiori a quelli
dei figli di famiglie operaie e contadine, sia nella scuola che
all'università. È provato che il modello di selezione
di classe nell'accesso ai livelli di istruzione più elevati
non era molto diverso da quello esistente nell'Occidente
capitalistico. Forse l'intelligencija dei paesi socialisti non
disponeva di capitale materiale da trasmettere ai propri
discendenti, ma era sufficientemente dotata di ciò che
Bourdieu ha chiamato 'capitale culturale' per assicurare la propria
riproduzione sociale attraverso la discendenza.
All'altro estremo della scala sociale, gli studi sulla
mobilità condotti in Unione Sovietica e nei paesi dell'Europa
dell'Est hanno mostrato che coloro che provenivano da famiglie
operaie avevano maggiori probabilità di divenire essi stessi
operai. In Ungheria, ad esempio, oltre il 70% dei maschi figli e
nipoti di contadini o operai erano diventati a loro volta contadini
o operai. I sociologi sovietici hanno rilevato dati analoghi circa
la 'riproduzione di classe' in URSS. L'elevato livello di
assenteismo e la scarsa produttività che caratterizzavano i
lavoratori di molte società socialiste stavano a indicare che
il senso di 'alienazione' non era affatto inconsueto in questi
paesi, nonostante l'assenza della proprietà privata. In
effetti, per alcuni aspetti i lavoratori erano più alienati
nella società socialista che non in Occidente; la nascita di
movimenti di opposizione su scala nazionale in Polonia e in
Ungheria, per non considerare che gli esempi più evidenti,
era la prova di una disaffezione di massa che si pensava fosse una
prerogativa esclusiva del proletariato in regime capitalistico.
L'ampiezza della diseguaglianza nella società socialista, e
in particolare gli svantaggi di cui soffrivano gli operai in
rapporto all'intelligencija e alla burocrazia del partito, indusse
alcuni teorici marxisti a equiparare questo sistema a un sistema di
stratificazione in classi non molto diverso dal capitalismo.
L'intellettuale iugoslavo Milovan Djilas, marxista e leader
rivoluzionario, fu uno dei primi a riconoscere la natura classista
dell'Unione Sovietica e, per estensione, degli altri Stati
socialisti basati su quel modello (v. Djilas, 1957). Egli riteneva
che il concetto di proprietà non dovesse essere inteso solo
alla stregua di un mero titolo giuridico. Coloro che detenevano il
controllo dei mezzi di produzione e dell'allocazione delle risorse
dovevano essere considerati de facto come 'possessori' di
proprietà. In ultima analisi, sosteneva Djilas, ciò
che più conta non è chi ha il possesso della
proprietà giuridica di fabbriche e uffici, bensì chi
possiede il diritto di assumere e licenziare i lavoratori,
nonché chi ha il diritto di decidere la distribuzione del
prodotto. Nella società socialista, secondo Djilas, era sorta
una "nuova classe" formata da coloro che controllavano l'accesso
alle risorse dello Stato e che pertanto sfruttavano il resto della
comunità.
Da questo punto di vista, la "nuova classe" delle società
socialiste aveva un ruolo analogo a quello della borghesia in un
sistema capitalistico. Non diversa fu la posizione assunta dallo
studioso marxista francese Charles Bettelheim, il quale riteneva che
le società di tipo sovietico non potessero essere considerate
realmente socialiste dal momento che non erano state capaci di
realizzare la transizione dal modo di produzione capitalistico a
quello socialista. Questa tesi era pienamente compatibile con la
concezione marxista ortodossa delle classi poiché non si
basava solo sulla diseguaglianza sociale. Essa si incentrava
sull'organizzazione della produzione anziché sulla
distribuzione, e dunque chiamava in causa il processo politico
attraverso il quale aveva luogo lo sfruttamento. Non si trattava
solo del fatto che in un sistema socialista la classe dominante si
appropriava di una quota sproporzionata di beni e di risorse, ma
piuttosto del fatto che essa e soltanto essa decideva come il
surplus dovesse essere ripartito. In una società
effettivamente senza classi sarebbero stati gli stessi produttori a
determinare l'organizzazione della produzione e la distribuzione del
surplus. Nella società socialista, invece, il proletariato
non era meno sfruttato che nel capitalismo.
I teorici marxisti delle classi hanno incontrato qualche
difficoltà anche nel definire la posizione della burocrazia
di Stato nel socialismo. Trockij, forse il critico dello stalinismo
che ha avuto maggior risonanza, sosteneva che, malgrado tutti i suoi
difetti, l'Unione Sovietica restava pur sempre uno Stato proletario
privo di classi fintantoché il capitale privato non fosse
stato reintrodotto. Le deformazioni erano provocate unicamente dal
partito e dalla burocrazia statale, che monopolizzavano il potere e
soffocavano ogni iniziativa proveniente dal basso. Su un punto,
tuttavia, Trockij restava fermo: sul fatto che la burocrazia non
dovesse essere vista come una classe dominante, perché, a
differenza della borghesia, essa non possiede i mezzi di produzione.
Per Trockij, a quel che sembra, per quanti abusi politici potessero
verificarsi, per quanto violenta potesse essere la repressione dei
lavoratori o ampio il divario tra i loro redditi e quelli dei
leaders del partito, la società restava nondimeno uno Stato
dei lavoratori fintanto che esisteva il possesso collettivo dei
mezzi di produzione (v. Trockij, 1937).
Il problema della burocrazia nella società socialista
continuò da allora a tormentare il marxismo. La teoria non
poteva ammettere che la burocrazia potesse diventare una classe
dominante senza scardinare i suoi dogmi fondamentali. Se si
riconosceva apertamente che gli interessi di classe possono
cristallizzarsi attorno a un gruppo burocratico in modo affatto
indipendente dalla proprietà delle risorse produttive,
l'analisi marxista sarebbe stata pressoché indistinguibile da
quella weberiana. Weber non avrebbe avuto alcuna difficoltà a
descrivere la burocrazia dello Stato socialista come una classe
dominante, dal momento che era ben consapevole delle
potenzialità oppressive di tutte le forme di autorità
burocratica.
Egli aveva anzi predetto che il socialismo sarebbe divenuto un
sistema più oppressivo del capitalismo proprio perché
la burocrazia socialista avrebbe usurpato l'autorità di cui
si supponeva dovesse essere investita la classe operaia. Il dilemma,
per i marxisti occidentali, era che se si ammetteva la
stratificazione in classi della società socialista allora
l'elaborata teoria intesa a dimostrare il carattere specificamente
oppressivo del capitalismo risultava sconvolta. Se, invece, si
accettava la versione ufficiale del marxismo sovietico, secondo la
quale la società socialista contemporanea era priva di
classi, ciò non costituiva di certo una buona propaganda per
il socialismo, tenuto conto di quanto si sapeva sull'arretratezza
economica e sulla rigidità politica di questo sistema.
Perché allora la classe operaia occidentale avrebbe dovuto
intraprendere il difficile e rischioso compito di sovvertire il
capitalismo solo per realizzare un sistema nient'affatto migliore,
anzi, probabilmente, peggiore dello stesso capitalismo?
7. Masse ed élites
L'immagine del socialismo come società senza classi non fu
delineata soltanto dagli apologeti di questo sistema, ma anche dai
suoi più accaniti detrattori. Per questi ultimi l'assenza
delle classi non era tanto un sogno quanto un incubo. Intellettuali
come Raymond Aron e Hannah Arendt descrissero le società di
tipo sovietico come una sorta di totalitarismo, una forma di
stratificazione nella quale un'élite politica fortemente
coesa si contrapponeva a una massa disorganizzata.
L'onnipotenza e l'onnipresenza dell'apparato di partito erano
talmente schiaccianti da annullare tutti i gruppi sociali
indipendenti che si situavano tra la famiglia e lo Stato. A causa
del diffuso timore per la polizia segreta e per altri organi dello
Stato, era difficile che potessero sorgere nella popolazione
sentimenti e atteggiamenti tipici della classe. Le differenze di
origine sociale, di reddito, di istruzione, ecc., diventavano
insignificanti di fronte a più immediate preoccupazioni.
Tutti erano uguali sotto il terrore rosso. Oltretutto, si sosteneva,
la stratificazione di classe nella società socialista non era
impedita dai soli effetti atomizzanti della coercizione; il partito
tentava anche attivamente di prevenire la formazione di classi, dal
momento che le classi sociali, al pari di altri gruppi spontanei,
avrebbero minacciato il suo monopolio del potere. Come scrisse
Robert Feldmesser, "il partito doveva far sì, nel lungo
periodo, che ogni persona si sentisse individualmente e
continuamente messa alla prova, che status e compensi rimanessero
contingenti ed effimeri. La minaccia più grave per il partito
era che potesse svilupparsi, entro un gruppo o una classe, un
sentimento di identificazione o di solidarietà". In
particolare, il partito avrebbe tentato di prevenire la nascita di
una 'classe manageriale', dal momento che questa avrebbe potuto
divenire una potente forza autonoma affrancata dalle direttive
dell'apparato di partito (v. Feldmesser, 1961, p. 581).
Tutto ciò avrebbe dato origine a una società non
stratificata in classi secondo il modello convenzionale; la
divisione fondamentale era invece quella tra l'élite del
partito e una massa amorfa e indifferenziata. Si trattava di un tipo
di stratificazione in cui all'individuo erano negati quei supporti
psicologici e sociali propri di un gruppo indipendente. Le persone
erano alla deriva sociale, senza radici e demoralizzate, il che le
rendeva tanto più adatte a essere manipolate
dall'élite politica.
Da questo punto di vista la stratificazione di classe appariva un
sistema sociale positivo e umano. Le classi si affermano soltanto
dove lo Stato e la società civile sono ben distinti,
consentendo così alle leggi naturali del mercato di creare
divisioni economiche e sociali altrettanto naturali. Là dove
lo Stato assorbe la società civile, esso impone un sistema
artificioso di allocazione delle risorse determinato più da
criteri ideologici che dalla mano invisibile e impersonale del
mercato. Vale a dire che l'ordine della stratificazione è una
creazione politica intenzionale, che riflette gli atteggiamenti e
gli orientamenti politici di volta in volta diversi
dell'élite del partito. Classi sociali vere e proprie possono
nascere soltanto, per così dire, dal basso; non possono
essere imposte dall'alto come parte di un qualche grandioso progetto
ideologico. Vere classi possono sorgere soltanto in una situazione
di libertà. L'assenza delle classi è un chiaro indice
di assenza di libertà.
8. Condizione etnica e stratificazione di classe
Fino a non molto tempo fa, qualunque discussione sul tema della
stratificazione sociale poteva agevolmente prescindere dal problema
etnico senza per questo risultare incompleta, anche se sarebbe stato
opportuno prendere in considerazione taluni aspetti delle divisioni
razziali. Non sarebbe stato possibile, invece, fare lo stesso
discorso per quanto concerne diseguaglianze e divisioni fondate su
differenze non appartenenti alla sfera delle caratteristiche
fisiche. Per gli studiosi europei di scienze sociali, in
particolare, l'omogeneità etnica e razziale ha costituito il
presupposto dell'analisi dei rapporti di classe. Gli autori classici
della teoria sociale condividevano in larga parte l'idea che le
identità ascrittive, come la razza, la lingua, la religione e
la cultura, fossero destinate a scomparire per l'influenza
omologante della moderna società industriale. Sussisteva la
diffusa convinzione che il graduale assorbimento nella
società civile di gruppi precedentemente esclusi avrebbe
indebolito le rigide fedeltà 'tribali' tradizionali, tipiche
dei sistemi agrari.La riluttanza a prendere in seria considerazione
le differenze etniche e culturali potrebbe trovare, almeno in parte,
giustificazioni di ordine teorico. Una delle caratteristiche tipiche
della differenziazione e del conflitto etnico è costituita
dall'assoluta varietà di forme che essi assumono nelle
diverse realtà sociali. In alcune società si tratta
del conflitto razziale tra bianchi e neri; in altre si ha una
contrapposizione tra cattolici e protestanti, o tra musulmani e
cristiani; in altre ancora tra gruppi linguistici distinti e
così via.
Queste divisioni emergono in situazioni specifiche di determinate
società, ed esistono, se esistono, ben pochi antecedenti
storici comuni in grado di spiegarle tutte. Ciò è
dovuto forse al fatto che la condizione etnica, a differenza della
condizione di classe, non può essere considerata come una
caratteristica intrinseca e generale della società
capitalistica. In effetti si tratta di un aspetto affatto
contingente, nel senso che è perfettamente possibile
costruire un modello tipico di capitalismo che escluda del tutto i
fattori etnici. Poiché la condizione etnica non è
stata considerata un elemento distintivo del sistema sociale - ossia
una sua caratteristica universale e necessaria - l'esigenza di
incorporare i fatti relativi alla razza, alla religione, alla lingua
e alla cultura nella teoria della classe non è stata mai
realmente presa in considerazione. Come ha osservato David Lockwood,
la strategia comunemente seguita è stata quella di trattare
l'esistenza delle divisioni etniche come un fattore che 'complica'
l'analisi delle classi. In altri termini, la condizione etnica
è stata vista come un fatto sociale in grado di disturbare o
di modificare il modello tipico delle classi, ma non le è
stato attribuito lo stesso rilievo teorico accordato alla classe,
né è stata considerata come un fenomeno sui generis
(v. Lockwood, 1970).
Così, uno dei retaggi più negativi degli autori
classici è stato quello di non aver preparato la moderna
teoria della stratificazione ad affrontare l'attuale rinascita dei
conflitti e delle identità etniche. Pressoché tutte le
società industriali avanzate hanno avuto occasione di
sperimentare qualche forma di revival etnico e di conflitto tra
comunità; quelle che non hanno conosciuto questi fenomeni
assumono sempre più la caratteristica di casi devianti. Il
conflitto etnico rappresenta oggi un aspetto normale della
società moderna, non meno del conflitto di classe.
Gli studi sulla stratificazione etnica hanno dovuto affrontare due
problemi tra loro collegati. In primo luogo quello di rendere conto
della contemporanea presenza, all'interno di società del
tutto diverse, di conflitti affatto indipendenti, specie in quelle
società in cui tali antagonismi erano rimasti per lungo tempo
latenti. In secondo luogo quello di spiegare la connessione, se
connessione vi è, tra il conflitto etnico e il modello
più familiare del conflitto di classe. Un articolato
approccio a questo problema è stato proposto da Nathan Glazer
e Daniel Moynihan. Essi considerano la condizione etnica non come un
fattore che richiede di essere spiegato all'interno di un più
ampio contesto di classe, ma piuttosto come un elemento che ha
soppiantato la classe come principale forma di diseguaglianza e
conflitto. Glazer e Moynihan sostengono che, in passato, "il rilievo
attribuito ai rapporti di proprietà ha oscurato i rapporti
etnici"; ora sarebbe invece "la proprietà ad assumere un
ruolo subordinato, mentre l'elemento etnico pare essere diventato
una delle cause fondamentali della stratificazione" (v. Glazer e
Moynihan, 1975, pp. 16-17). Una delle ragioni principali portate a
sostegno di questa tesi è che la natura dell'azione
collettiva intrapresa dai gruppi etnici ha subito un profondo
cambiamento in questi ultimi anni.
Originariamente questi gruppi erano impegnati in azioni di
retroguardia per la conservazione culturale tramite la gestione di
proprie scuole, la pubblicazione di propri giornali, l'istituzione
di club a essi riservati, ecc. Ora, invece, essi hanno adottato uno
stile più combattivo incentrato su attività dirette
espressamente a modificare la ripartizione delle remunerazioni a
favore dei loro membri. Non si tratta semplicemente del fatto che
questi gruppi etnici hanno assunto funzioni e strategie politiche in
tutto simili a quelle delle classi sociali organizzate; essi sono in
un certo senso divenuti più efficaci delle classi nella
mobilitazione delle loro forze per il perseguimento di fini
collettivi. Secondo Daniel Bell, uno dei principali sostenitori di
questa tesi, la nuova classe operaia del moderno capitalismo ha
perso molta della sua capacità di agire come entità
collettiva. Si è allontanata dalla storia, dall'ideologia e
dai simboli del vecchio movimento operaio, lasciando a esso soltanto
gli scopi più limitati della rivendicazione economica. Nel
vuoto morale che si è prodotto si sono affacciati i gruppi
etnici, i quali, a differenza del proletariato, possono fornire ai
loro membri un senso di identità, uno scopo; e dunque
rispondono a quel bisogno di dignità collettiva che ispira
l'azione politica tra i diseredati (v. Bell, 1975). Il presupposto
plausibile di questo ragionamento è che, in periodi di
intenso conflitto di classe, non resta molto altro 'spazio sociale'
per l'emergere di tipi diversi di conflitto. Di contro, quando il
conflitto di classe è in fase calante, l'occasione è
propizia perché altre forze sociali si facciano avanti, e tra
queste i gruppi etnici. Questo implica, ovviamente, che il conflitto
etnico potrebbe nuovamente regredire se l'antagonismo di classe
dovesse farsi più acuto.
Questo approccio al problema verrebbe decisamente rifiutato da
teorici della stratificazione che si muovessero nel solco della
tradizione marxista. Essi non ammetterebbero che le divisioni di
classe siano state soppiantate dalle divisioni etniche, né
che i gruppi etnici possiedano maggiori capacità di azione
collettiva del proletariato. I marxisti tendono ancora a vedere il
conflitto etnico come un esempio di astuzia borghese tesa a seminare
confusione e scompiglio nella classe operaia. Le divisioni etniche,
linguistiche e confessionali all'interno del proletariato vengono
considerate come espressioni di 'falsa coscienza', come una
condizione temporanea che indebolisce l'impegno nella lotta di
classe, ma che è destinata a essere superata con l'acuirsi
della crisi del capitalismo (v. Parkin, 1979).
La tesi secondo la quale il conflitto etnico costituisce un aspetto
specifico della società capitalistica è stata messa in
seria difficoltà dall'esplosione di conflitti tra
comunità diverse negli Stati socialisti. I gravi conflitti
verificatisi tra gruppi etnici rivali in URSS, Iugoslavia e Bulgaria
stanno a indicare che la società borghese non detiene affatto
il monopolio dei conflitti tra comunità. È
significativo, inoltre, che negli Stati socialisti i movimenti di
opposizione di tipo etnico abbiano mostrato una capacità di
mobilitazione maggiore dei gruppi d'opposizione basati sulle classi.
Ciò sembrerebbe confermare la tesi di Glazer e Moynihan e di
Bell circa la superiore potenzialità politica dei movimenti
etnici rispetto al movimento operaio. Pressoché tutti i
movimenti etnici presenti negli Stati socialisti hanno avuto una
marcata impronta nazionalistica. Le loro rivendicazioni non erano
volte a ottenere unicamente una quota maggiore delle risorse
sociali, quanto piuttosto una maggiore autonomia politica o
addirittura l'assoluta indipendenza dallo Stato vigente. Una delle
possibili conclusioni che possiamo trarre da questi eventi è
che la politica perseguita dai gruppi etnici si spiega meglio
facendo riferimento al concetto di nazionalismo che non alla teoria
della stratificazione sociale. In ogni caso, là dove è
presente una forte componente territoriale, le interpretazioni della
questione etnica, avanzate di norma in termini di diseguaglianza
sociale e materiale, difficilmente riescono a cogliere il
particolare carattere dell'azione collettiva attraverso la quale un
gruppo sociale tenta di conquistarsi lo status di gruppo separato e
indipendente.
9. Conclusioni
La principale conclusione che può trarsi dalle riflessioni
che precedono è che la stratificazione sociale non può
essere discussa e analizzata in modo completamente avalutativo. Il
problema di decidere se una determinata società sia o non sia
una società di classe e, in caso affermativo, di che tipo di
stratificazione in classi si tratti, non può essere risolto
appellandosi ai 'fatti'. I medesimi fatti sociali si prestano a
interpretazioni diverse, a seconda del modello di stratificazione
adottato. Un modello di tipo funzionalistico disporrà i fatti
sociali relativi alla diseguaglianza in modo diverso da un modello
weberiano o marxista.
Anche entro le ampie coordinate della teoria weberiana e marxiana si
riscontrano significative varianti interpretative. I weberiani non
sono affatto concordi tra loro circa la natura di classe della
società capitalistica; in modo analogo i marxisti hanno
espresso disaccordo circa l'esistenza delle classi nella
società socialista contemporanea. Le classi, a quel che
sembra, appaiono o scompaiono con il semplice movimento di una
bacchetta magica concettuale. Ora le vedi, e poco dopo scompaiono.
Ciò non deve necessariamente destare scoraggiamento. Se non
è possibile raggiungere l'obiettività, lo studioso
della stratificazione sociale è nondimeno sollecitato a usare
buon senso e capacità di giudizio nel valutare i meriti delle
teorie rivali. Controversie e rivalità sono destinate a
permanere in un ambito così delicato dal punto di vista
morale e politico come l'analisi delle classi. Ciò
costituisce il segno dell'importanza del tema e la ragione del suo
perenne fascino.