Garòfalo, Raffaele

 

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Penalista italiano (Napoli 1851 - ivi 1934). Magistrato, raggiunse il grado di primo presidente della Corte di cassazione. Senatore dal 1909. Fu uno dei fondatori della scuola positiva di diritto penale, le cui teorie sistemò in una nuova scienza da lui chiamata criminologia. L'opera, con tale titolo, in cui egli espose la sua dottrina (1885; 2a ed. 1891), è, con quelle di C. Lombroso e di E. Ferri, tra le più notevoli del nuovo indirizzo scientifico. Altre opere: Studi recenti di penalità (1878); Di un criterio positivo della penalità (1880); Contro la corrente! Pensieri sulla proposta abolizione della pena di morte (1888); Ancora sulla pena capitale (1933).

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DBI

Nacque a Napoli il 18 nov. 1851 da Giovanni, di un'antica famiglia di origine catalana, e da Carolina Zezza di Zapponeta.

Terminati nel 1872 gli studi di giurisprudenza, nel 1874 entrò in magistratura rimanendo a Napoli, dapprima presso la procura distrettuale, poi presso la procura generale della Corte di cassazione. Nel corso dello stesso anno fu temporaneamente applicato al ministero di Grazia e Giustizia dove studiò la letteratura giuridica francese e, soprattutto, quella tedesca.

Il G. mostrò di apprezzare la teoria, sostenuta anche da P.S. Mancini, che commisurava la gravità dei reati in base all'impulso, ovvero alla causa, che determina l'azione piuttosto che in rapporto alla sussistenza della premeditazione. Pochi anni dopo, pubblicò la traduzione di Das Verbrechen des Mordes und die Todesstrafe di F. von Holtzendorff (Berlin 1875) con il titolo L'assassinio e la pena di morte (Napoli 1877), dedicandola al Mancini allora ministro guardasigilli. Nell'introduzione evidenziò, come parte più scientificamente rigorosa del volume, il capitolo in cui l'autore - analogamente a quanto il Mancini aveva insegnato dalla cattedra di diritto e procedura penale dell'Università di Roma - fondava la determinazione della gravità del reato sui moventi morali, superando il criterio basato sulla premeditazione in quanto giudicava inammissibile la conclusione per cui un omicidio premeditato si sarebbe dovuto considerare comunque più grave di uno non premeditato, quali che fossero stati i motivi determinanti il fatto nell'uno e nell'altro caso.

Concluso l'incarico presso il ministero, dall'anno successivo il G. passò, con il grado di aggiunto, al tribunale civile di Napoli, intraprendendo stabilmente la carriera nella magistratura, anche se non abbandonò mai l'attività di studio e di ricerca. In questo ambito egli è tradizionalmente accostato a E. Ferri e a C. Lombroso tra i fondatori della scuola positiva del diritto criminale, materia di cui, nel 1891 presso l'Università di Napoli, ottenne la libera docenza, insieme con quella di procedura penale.

Sul Ferri e sul Lombroso il G. vantava, tuttavia, una priorità cronologica per aver pubblicato, nel 1877 sul Giornale napoletano (III, 5, f. 3), Della mitigazione dei reati di sangue e, poco più tardi, Di un criterio positivo della penalità (Napoli 1880). In quest'ultima opera - espressamente accostata, nell'introduzione, alla dottrina positivistica del francese A. Fouillée - il criterio di determinazione della pena viene rapportato alla temibilità del colpevole desumibile dai reati commessi, i quali costituiscono la risultante di una gravità criminosa oggettiva, graduata sull'allarme sociale prodotto dal fatto, e di una gravità soggettiva, incardinata alla tendenza del soggetto delinquente a commettere successivamente altri reati. Il G. superava così i criteri tradizionali che valutavano i delitti sul fondamento della oggettiva interrelazione tra il danno prodotto e la misura della pena, in parte influenzato dalla concezione della pena di G.D. Romagnosi come controspinta tanto più energica quanto più violento fosse stato l'impeto al delitto, ma subordinandola alla ricerca della gravità relativa del delitto in rapporto sia alla personalità del delinquente, sia all'osservazione scientifica dei fatti e all'indagine statistica.

L'impostazione positivistica rimane alla base dei numerosi scritti che il G. dedicò a questioni particolari di diritto penale, come quella della riparazione: Riparazione alle vittime del delitto, Torino 1887; Se e quali provvedimenti siano da suggerire per meglio assicurare la riparazione dei danni derivati dal reato e per indennizzare le vittime degli errori giudiziari (relazione al III Congresso giuridico nazionale di Firenze), Firenze 1891, e La indennità alle vittime dei reati (estratto dall'Enciclopedia giuridica italiana), Milano 1901.

In essi il G. configurava la riparazione come figura ausiliaria della pena proponendo per i reati lievi, in sostituzione delle pene carcerarie di brevissima durata, la condanna al pagamento di un'indennità sotto forma di ammenda a favore dell'offeso e prevedendo energici mezzi coattivi per il pagamento, sia preventivi, come il sequestro conservativo dei beni o l'iscrizione d'ufficio dell'ipoteca sui beni immobili, sia esecutivi, come la vendita dei beni a favore dell'offeso o la ritenuta sul salario da versare in un'apposita cassa a cura dei datori di lavoro. La riparazione alle vittime del reato finiva, quindi, per rivestire una funzione sociale accanto alla pena che, però, mal si conciliava con la tradizionale distinzione tra azione penale, posta a tutela dell'interesse collettivo, e azione per danni sul cui oggetto può intervenire anche una rinuncia del danneggiato o una transazione.

Nel 1889 il G., ormai presidente del tribunale civile di Napoli, pubblicò, insieme con L. Carelli, lo studio Dei recidivi e della recidiva nel Completo trattato teorico e pratico di diritto penale (a cura di P. Cogliolo, IV, Milano 1888, pp. 781-943), in cui, come parte integrante della teoria della pena, prendeva in esame il caso di successive condanne riportate da un medesimo soggetto, colpevole di reati diversi, in quanto dimostrativo del persistere della tendenza criminosa nell'autore delle azioni penalmente rilevanti.

Al riguardo mostrava di non condividere la sistematica del codice Zanardelli che si riferiva alla "recidiva", mentre meglio sarebbe stato per il G. ritornare alla intitolazione "dei recidivi" del corrispondente capo del codice del 1859. In quelle pagine, infatti, egli tacciava la nozione di recidiva di astrattezza e di reverenza alla scuola classica del diritto penale, in quanto, nel giudizio, la reiterazione dei reati avrebbe dovuto essere considerata insieme con la valutazione della personalità dell'autore come espressione della tendenza a delinquere.

Il G. sostenne con fermezza l'applicazione del massimo rigore nella repressione dei reati e partecipò da fervente conservatore al dibattito sulla eliminazione della pena capitale dall'ordinamento italiano che precedette l'emanazione del codice Zanardelli.

Con la pubblicazione dello scritto Contro la corrente (Napoli 1888) intese derivare dall'antropologia e dalla psicologia criminale le ragioni del mantenimento della pena di morte: considerò l'istinto di pietà congenito nell'uomo e attinente solo in minima parte all'educazione, derivandone l'anormalità psichica di coloro che non mostrassero turbamento per il dolore inflitto ad altri. Classificò tali soggetti come una tipologia della razza su cui non era possibile intervenire attraverso l'educazione e che, dunque, non poteva essere emendata. La pena di morte veniva perciò considerata l'unico strumento repressivo veramente idoneo a preservare la società civile e a essa il G. attribuì altresì una funzione eugenetica di eliminazione degli individui psichicamente anormali, limitando, tuttavia, la necessità del ricorso alla soppressione del reo ai casi di omicidi qualificati da eccezionale crudeltà e nei quali, a prescindere dall'indagine sulla premeditazione, era comunque dato di riscontrare l'anormalità psichica di chi li avesse commessi.

In questa chiave giudicò inesatto il convincimento di quella criminologia che riteneva di poter individuare il tipo delinquente dai caratteri fisici esterni e - nell'insistere sulla necessità di affrancare il piano dell'indagine dallo studio dell'anatomia - sostenne la necessità di porre la psicologia criminale al primo posto nell'ambito dell'antropologia criminale.

Nell'inverno del 1896, mentre era procuratore del re a Castiglione delle Stiviere, ritornò a prestare servizio presso il ministero di Grazia e Giustizia, stavolta come capo dell'ufficio legislativo.

Nello stesso anno portò a compimento la sua opera più nota, Criminologia. Studio sul delitto, sulle sue cause e sui mezzi di repressione (Torino 1885; 2ª ed. ibid. 1896), nella quale emergeva una nozione di imputabilità ormai totalmente distaccata dalla responsabilità morale individuale in favore di un'impostazione deterministica, basata sull'osservazione psicologica e antropologica del delinquente e delle circostanze esterne al reato.

La carriera del G. in magistratura raggiunse i più alti gradi: consigliere della Corte di cassazione di Roma nel 1902 e presidente di sezione della corte d'appello di Napoli l'anno seguente; avvocato generale presso la Cassazione di Roma nel 1911, quindi presidente di sezione della stessa nel 1913. Il 23 dic. 1915 fu nominato procuratore generale presso la Corte di cassazione di Torino, passando poi con lo stesso incarico a Napoli dal 24 dic. 1919. Qui il 1° maggio 1920 divenne primo presidente, fino al 31 genn. 1922 quando fu collocato a riposo a domanda per raggiunti limiti di età. Il G. era stato nominato senatore il 4 apr. 1909.

In Senato, il 15 dic. 1914, si pronunciò per la neutralità dell'Italia; in altri suoi discorsi trattò temi eminentemente giuridici, concernenti questioni non solo di diritto criminale - come il discorso pronunciato nella tornata del 5 giugno 1929, poi pubblicato (Sulla criminalità e la legislazione penale, Roma 1929), ma anche di diritto civile - ad esempio il discorso tenuto il 12 giugno dello stesso anno, anch'esso poi uscito in volume (L'equità di un aumento dei canoni enfiteutici, ibid. 1929). Conservatore, profondamente avverso al socialismo, aveva aderito al fascismo fin dai suoi esordi.

Il G. morì a Napoli il 18 apr. 1934.