Bergson HenriLouis


EEG, vol. 2 pp. 263264

di Sergio Moravia

(Parigi 1859-1941)

Filosofo francese. Dopo aver studiato matematica e filosofia alla Scuola normale, si dedicò all'insegnamento in vari licei di Parigi; nel 1891 sposò una cugina di M. Proust. Insegnò successivamente al Collegio di Francia, mentre gli rimase preclusa, per l'ostilità accademica, la Sorbona. Nel 1928 ricevette il premio Nobel per la letteratura. Gli ultimi anni della sua vita furono caratterizzati da un avvicinamento al cattolicesimo, al quale egli preferì tuttavia non convertirsi ufficialmente per non tradire, nei momenti in cui andava crescendo l'ondata antisemita, le proprie origini ebraiche.

Nelle sue prime opere, Saggio sui dati immediati della coscienza (1889) e Materia e memoria (1896), l'analisi dei temi trattati è condotta in larga misura su un piano empirico-sperimentale, sulla base di una rilevante conoscenza delle indagini psicologiche più progredite e col proposito dichiarato di approfondire certi aspetti delle dottrine positivistiche ed evoluzionistiche contemporanee.

Ma le conclusioni di tale analisi risultano di fatto assai critiche nei confronti delle concezioni psicoantropologiche allora dominanti. Il positivismo e l'evoluzionismo hanno ridotto l'essere umano a mera realtà naturale e la sua vicenda interiore a una temporalità di tipo esclusivamente quantitativo. Bergson giunge invece a ritenere che l'essenza dell'uomo sia un dinamismo evolutivo di natura non già materiale bensì spirituale.

Centro specifico dell'uomo è la coscienza. Essa vive non già secondo i ritmi temporali misurati dalle scienze esatte, bensì secondo una «durata» dotata di caratteristiche sue proprie e irriducibili, che le categorie intellettuali e il linguaggio scientifico tendono a deformare, riconducendole a ordini di fenomeni qualitativamente diversi. Ora, l'istituzione di questa diversità tra il piano della coscienza e il piano dei dati naturali implica un'impostazione radicalmente nuova non solo delle indagini psicologiche (si vedano a questo proposito le analisi bergsoniane della differenza tra percezione e ricordo, tra ricordo puro e ricordoimmagine ecc.), ma anche di determinati problemi filosofici.

Così, in Materia e memoria Bergson ha riesaminato la classica questione delle relazioni tra spirito e corpo, criticando le tradizionali soluzioni monistiche e parallelistiche; e, ancora, ha reimpostato su nuove basi i rapporti fra soggetto e oggetto, respingendo sia la dottrina idealistica sia quella realistica e rivalutando in qualche modo le tesi del «senso comune».

Allo scopo di superare talune difficoltà connesse alle sue dottrine precedenti e di generalizzare la portata di queste, Bergson pubblicò nel 1907 L'Evoluzione creatrice, un'opera che nonostante i suoi limiti ha esercitato una profonda influenza sul pensiero contemporaneo. Il proposito generale di Bergson è di delineare un'interpretazione della natura e dell'uomo fondata sulla nozione di vita. Secondo Bergson, tutta la realtà procede da uno «slancio vitale» (non comprensibile con i limitati strumenti del sapere scientifico), il quale si oggettiva nelle più diverse determinazioni fenomeniche secondo un disegno, unitario ma al tempo stesso estremamente articolato e multiforme, che non sembra aver mai fine giacché infinita è la carica dinamica di tale slancio.

Di questo grandioso dinamismo cosmico Bergson si sforza di enucleare le linee di tendenza, riconducendo a esse tutti i fenomeni e le situazioni della realtà naturale. Così, per esempio, la suddivisione tra piante e animali (coi loro rispettivi caratteri particolari) è dovuta alla prima «biforcazione» fondamentale dello slancio vitale. Tutta la struttura evolutiva delle specie viventi è fatta derivare dalle diverse oggettivazioni di tale slancio, che a livello generale si manifesta nei due caratteri (distinti ma anche connessi) dell'istinto e dell'intelligenza.

Anche nell'uomo operano tali caratteri. Se l'intelligenza (esprimentesi nel sapere scientifico) gli è necessaria per conoscere e trasformare la realtà, l'istinto (innalzato a intuizione) appare il solo strumento che consente di cogliere l'individualità delle cose (arte) e l'essenza dell'impulso vitale (filosofia, metafisica).

Nell'ultima grande opera della sua vita, Le due fonti della morale e della religione (1932), Bergson ha in qualche modo applicato i suoi principi al campo eticoreligioso, sottolineandovi la presenza di uno slancio spirituale che tende (per ragioni interne ed esterne) a oggettivarsi e a irrigidirsi in strutture eticosociali chiuse e in forme religiose statiche, ma che può e deve sapere andare avanti, verso esperienze eticosociali aperte e verso forme religiose dinamiche.

Degli scritti minori va almeno ricordato il saggio Il riso (1900), in cui Bergson cerca di interpretare unitariamente le molteplici forme del comico, individuando nel riso un «lieve castigo sociale» contro gli automatismi che bloccano la fluidità del vivente.

Il pensiero di Bergson ebbe vasta influenza in diversi campi: nell'ambito della critica su Thibaudet e Ch. Du Bos; in letteratura su Péguy e, in parte, su Proust; in religione sul modernismo e, successivamente, su Teilhard de Chardin; in sede politica, infine, il bergsonismo influenzò le Riflessioni sulla violenza (1906) di G. Sorel.

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Enciclopedia filosofica Bompiani vol. 2

di V. Mathieu

N. a Parigi il 18 ott. 1859, da famiglia israelitica di origine polacca, m. a Auteuil (Parigi) il 4genn. 1941.

Sommario:

I. Vita.

II. Formazione.

III. Il «Saggio».

IV. La memoria.

V. La metafisica e l'intuizione.

VI. L'evoluzione.

VII. Estetica, morale e religione.

VIII. Il metodo della filosofia.

IX. Scritti minori.

X. Interpretazioni e influsso.

I. Vita. Studiò al liceo Condorcet, distinguendosi nelle discipline classiche e, ancor più, nelle matematiche. Ritrovò da sé la soluzione «piana» del problema dei tre cerchi proposto da Pascal e suscitò l'ammirazione degli specialisti con la soluzione del problema proposto al Concours general del 1877, pubblicata negli «Annales de Mathématique». Nel 1878 fu ammesso all'Ecole Normale: vi acquistò fama di ingegno originale e (un po' volutamente) brillante. Nel 1881 ottenne la licenza in matematica e in lettere, e il secondo posto all'agregation in filosofia. Insegnò nei licei di Angers (1881), ClermontFerrand (1883, dove fu pure, a partire dall'anno accademico 188485, incaricato di conferenze universitarie), al Collège Rollin e, finalmente, all'Henri IV di Paris (1889). Sposò in quegli anni (1891) Louise Neuburger, una cugina di Marcel Proust.

Dal 1897 al 1900 fu professore all'Ecole Normale, e in seguito al Collège de France, dove succedette a Charles Leveque, poi a Gabriel Tarde sulla cattedra di filosofia moderna. La Sorbona gli rimase invece inaccessibile, per l'ostilità degli ambienti accademici tradizionali. Il suo insegnamento, particolarmente nel secondo decennio del 1900, ebbe una risonanza enorme. A partire dal 1921 dovette, per ragioni di salute, cominciare a farsi sostituire da Le Roy, che gli succedette definitivamente nel 1924.

Membro dell'Institut dal 1901, Bergson fu eletto all'accademia di scienze morali e politiche, e nel 1914, all'accademia di Francia; ebbe, nel 1928, il premio Nobel per la letteratura. Negli anni della prima guerra mondiale svolse un'intensa attività di conferenze a favore dell'Intesa e fu incaricato di una missione diplomatica presso il presidente Wilson, la quale non fu forse senza influenza sull'entrata in guerra degli Stati Uniti. Quando, in seno alla Società delle Nazioni, si costituì un comitato per la cooperazione intellettuale, Bergson ne fu il presidente.

Questa parentesi si chiuse già nel 1925, per il suo stato di salute. Negli ultimi anni, le sue meditazioni lo avvicinarono sempre più alla chiesa cattolica: in un passo del suo testamento (8 febbr. 1937), dichiara che si sarebbe convertito, se non avesse sentito avvicinarsi da ogni parte una terribile ondata di antisemitismo che lo induceva a non abbandonare i perseguitati.

II. Formazione. La formazione di Bergson fu essenzialmente positivistica. Alla Normale insegnavano OlléLaprune e Boutroux, e si dava largo posto, come nelle altre scuole superiori francesi, alle dottrine kantiane, e anche a quelle dei principali prosecutori di Kant; ma Bergson preferiva lo studio degli inglesi, particolarmente di Spencer. Egli stesso, in La pensée et le mouvant, Paris 1934 (p. 2), dice dell'attrazione esercitata su di lui da quella filosofia che «mirava a prendere l'impronta delle cose e a modellarsi sui fatti».

L'intento primitivo di Bergson fu di liberare la dottrina spenceriana dell'evoluzione dalle debolezze che l'inficiavano, approfondendo le idee ultime della meccanica. Ma la constatazione che il tempo reale, vissuto non può entrare nelle formule della scienza, perché questa si interessa solo a ciò che è passibile di misura, e la misura (consistendo nel provare quante volte una cosa stia in un'altra) non può riguardare che lo spazio, indusse Bergson a modificare il suo programma e a darsi allo studio di tutti quei modi d'essere (a cominciar dalla nostra vita interiore) che sfuggono alla misura e alla scienza, e richiedono una forma di conoscenza diversa. La concezione positivistica della filosofia veniva così abbandonata: non più una sintesi delle varie scienze o una visione approfondita dei risultati scientifici, ma un modo di conoscere a sé.

La «filosofia dell'intuizione», conoscenza di un oggetto particolare attraverso un metodo particolare adatto ad esso, nacque da questo distacco dal positivismo. Bergson conservava, di quest'ultimo, l'esigenza di aderire ai fatti (per cui Le Roy parlerà di «nuovo positivismo»); ma, appunto per questo, voleva che la realtà interiore non fosse studiata con uno strumento atto invece ad afferrare un aspetto del reale diverso e, per molti lati, opposto.

III. Il «Saggio». Il primo frutto di questo nuovo filosofare si ebbe con la tesi francese di dottorato, preparata a Clermont: Essai sur les données immédiates de la conscience (Paris 1889, tr. it. di F. Sossi, Saggio sui dati immediati della coscienza, Milano 2002). Secondo una buona abitudine imparata dalla scienza, e che Bergson non abbandonerà mai, il Saggio riguarda un argomento ben specifico: la libertà nei suoi rapporti con il tempo, ma, come accadrà anche in seguito, l'esame di questo argomento specifico viene a inquadrarsi in un orizzonte più vasto, sia per i suoi presupposti sia per i suoi risultati. La scoperta del modo d'essere della vita interiore, irriducibile a quello delle cose su cui ha presa la scienza, era troppo recente e importante per non rimanere al centro dell'attenzione: sicché i due capitoli introduttivi del Saggio, che ne trattano, nascondono un po', con la loro importanza, lo scopo principale dell'opera, relegato nel cap. 3. Anche il titolo originario di Temps et liberté (conservato nelle traduzioni tedesca e inglese) cedette a quello più comprensivo sotto cui il Saggio è noto in Francia e in Italia.

Il rapporto deterministico causa-effetto non ha senso, se applicato alla vita profonda dell'io: questo il punto a cui vuole arrivare Bergson. Per raggiungerlo, si propone di fissare i caratteri della vita interiore, mostrando quanto differiscano da quelli delle cose per le quali il rapporto deterministico è valido. Bergson tende così a isolare il più possibile l'interno dall'esterno, e ciò spiega il suo dirigersi contro tutti quei concetti in cui interno ed esterno paiono combaciare. Di questi, il primo è la nozione di intensità d'uno stato psichico. Essa, pur riferendosi a uno stato interiore, sembra essere una grandezza passibile, secondo alcuni, di rnisura. Ma Bergson mostra che ciò che noi sentiamo interiormente è sempre pura qualità, che solo per associazione con un concomitante fenomeno esterno traduciamo in una Pseudograndezza: così, diverse «intensità d'illuminazione» di una superficie bianca sono, in realtà, bianchi qualitativamente diversi; ma, dato che noi passiamo dall'uno all'altro nello stesso momento in cui la sorgente luminosa si avvicina o si allontana rispetto alla superficie, interpretiamo quel mutare di qualità come il variare continuo e misurabile di una grandezza.

Dimostrazioni analoghe sono date per le intensità di sentimento, sforzo muscolare, attenzione ecc. Infine si mostra che la psicofisica di Fechner e di Delboeuf, le quali, con un arbitrario sviluppo della legge di Weber, pretendevano di misurare la «quantità di sensazione», riposano su un circolo vizioso.

Un secondo concetto in cui quantità esteriore e stato d'animo interiore sembrano compenetrarsi è il tempo, inteso comunemente come una grandezza misurabile. Bergson procede, anche nei suoi riguardi, a una dissociazione. Nel tempo vissuto, o durata, c'è bensì una certa molteplicità, ma è una molteplicità di qualità, che non ha nulla a che fare egli dice con la molteplicità numerica. Quest'ultima implica l'esternità spaziale di un elemento rispetto all'altro, poiché per contare più oggetti è necessario considerarli come omogenei, astraendo dalle loro differenze; ed entità omogenee possono distinguersi solo per una reciproca esternità. La molteplicità qualitativa, invece, non richiede esternità (appunto perché le qualità sono già in sé diverse), né ha bisogno di svilupparsi in uno spazio. Il tempo vissuto è una molteplicità siffatta, pura eterogeneità qualitativa, senza esteriorità di momento a momento, e il cosiddetto tempo misurabile è un «concetto bastardo» ottenuto mettendo insieme la variabile indipendente t della fisica (che, in realtà, è un rapporto spaziale puro e semplice) con la durata vissuta.

Bergson può ora passare non già a provare l'esistenza della libertà, che si rivela alla coscienza immediatamente, ma a smontare gli argomenti con cui i deterministi pretendono di confutarla. Se nel profondo del nostro io esistessero stati d'animo distinti, l'uno fuori dall'altro, si potrebbe pensare che un desiderio, poniamo, determini una volizione; che la rappresentazione di un motivo determini un'azione, e così via. Ma poiché nel profondo dell'io tutto si compenetra con tutto, dire che l'io è determinato ad agire da un certo motivo è lo stesso come dire che si determina da sé, ossia che è libero. Liberi saranno dunque (anche se rari) gli atti che scaturiscono dal profondo dell'io. Se, quando s'intavola una discussione sulla libertà, chi sostiene le parti del determinismo pare sempre prevalere, ciò accade unicamente perché il linguaggio e il nostro stesso pensiero spazializzano tutto ciò che toccano; così, anziché sulla vita interiore . qual è veramente, ci si trova sempre a discutere intorno a una traduzione spaziale falsante, su cui gli schemi del determinista hanno facile presa, essendo nati, appunto, da un mondo di cose spaziali.

L'obiezione più grave che fin da allora si fece a Bergson e che può considerarsi ancor oggi valida è che la libertà dell'Essai si confonde con la spontaneità pura e semplice. L'obiezione trova il suo fondamento nel fatto che Bergson prese in considerazione l'origine dell'atto libero, trovata nel profondo dell'io, ma non le condizioni in cui esso concretamente si esplica nel mondo esterno. L'intero Saggio manca, d'altra parte, di stabilire una relazione positiva tra il profondo e il superficiale, tra l'interno e l'esterno. Il termine interiore, nato per contrapposizione all'esteriore, finisce per assorbire in sé ogni contrapposizione e ogni realtà. L'opera successiva, come indica lo stesso titolo, cercherà di correggere questa tendenza.

IV. La memoria. Il problema che Bergson si propone in Matière et mémoire (Paris 1896) è la funzione del cervello nel processo del ricordare. Egli combatte la tesi di coloro che vorrebbero localizzare nel cervello la memoria come tale, o, più generalmente, fanno della vita psichica qualcosa che si svolge parallelamente a un complesso di fenomeni fisicosomatici esattamente corrispondente. Bergson concepisce la materia come un insieme tutto connesso di immaginimovimenti: nega la tesi idealistica, secondo cui tale insieme dovrebbe essere relativo a un qualche soggetto, ma anche la tesi realistica, secondo cui la materia dovrebbe essere in sé qualcosa di diverso da ciò che si rivela nella nostra coscienza.

La materia è fatta di immagini coscienti esistenti in sé, ma la cui coscienzialità, per un perfetto equilibrarsi di azione e reazione, si annulla, come quando due luci, interferendo, danno luogo a un'oscurità. Il carattere cosciente dei movimenti-immagine si rivela solo quando essi attraversano certi organismi viventi (animali) che, per esser dotati d'una certa spontaneità di reazione, rompono l'equilibrio reciproco che rende opaca la materia. In tali organismi, e particolarmente nell'uomo, il cervello ha la funzione di aprire al movimento, che gli giunge dall'esterno sotto forma di sensazione, moltissime vie possibili attraverso le quali esso può uscire al modo di reazione motrice: ha la funzione, cioè, di permettere una scelta. Anche nella memoria il cervello non ha altra funzione che quella di smistare movimenti, e al ricordo non offre altro che uno schema generico che gli permette di riprendere corpo in una percezione presente, cioè di riattualizzarsi.

Lo studio delle malattie della memoria, e soprattutto delle afasie (condotto da Bergson su tutta la letteratura allora esistente), permette di stabilire, infatti, che una lesione cerebrale non distrugge il ricordo, ma solo la possibilità della sua riattualizzazione. Il passato rimane sempre tutto: esso non si conserva nel cervello ma in sé, automaticamente, ed è questa la memoria pura, per cui tutto ciò che è stato cosciente potrebbe, se soltanto fosse utile, ritornare alla mente. Il sistema nervoso contiene invece la memoria abitudine, fatta non di ricordi, ma di «meccanismi motori», montati dalla ripetizione di un medesimo atto. La nostra attenzione si concentra, generalmente, sull'azione che stiamo compiendo (attenzione alla vita); tuttavia a volte può anche portarsi su un piano diverso, abbandonandosi a un rammemorare disinteressato, e, in questo caso, spaziare su un campo di ricordi via via più vasto, che potrebbe perfino comprendere l'intera esistenza passata.

Il cap. 4 e le conclusioni di Matière et mémoire mirano a stabilire un passaggio continuo tra spirito e materia, interno ed esterno, ricordo e percezione. La materia, estensione interconnessa di qualità sensibili, è anch'essa durata, eppure una durata estremamente distesa e diluita: è, poniamo, un succedersi rapidissimo nel tempo di vibrazioni che si equivalgono l'una all'altra. La nostra percezione cosciente contrae un numero enorme di tali movimenti elementari in una qualità singola (p. es., di vibrazioni luminose in una sensazione di colore) e si trova, perciò, a un livello di durata più tesa; quanto più si scende nel profondo del nostro spirito, tanto più la tensione aumenta e l'omogeneità dei movimenti diminuisce.

V. La metafisica e l'intuizione. Un importante scritto del 1903, l'Introduction à la métaphisique (in «Revue de Métaphysique et de Morale», 11 [ 1903], PP 136, tr. it. di V. Mathieu, Introduzione alla metafisica, Bari 1957), sviluppa questo concetto d'una gamma continua di durate, tra le più distese e uniformi, proprie della materialità, e le più intensamente qualitative, che nato dall'avanti anziché a tergo, e, in entrambi i casi, non vi sarebbe realmente sviluppo e novità.

L'unità di funzione di organi complicatissimi si giustifica invece assai bene supponendo, alla loro radice, un principio semplice e indiviso. Poniamo che una mano invisibile abbia lasciato un'impronta nella limatura di ferro: alcuni, i meccanicisti, cercheranno di spiegare la forma unitaria dell'impronta con azioni meccaniche delle particelle tra loro, altri, i finalisti, pretenderanno che a tali azioni abbia presieduto un piano capace di coordinarle. In realtà, l'organicità del risultato è dovuta unicamente alla semplicità dell'atto che l'ha prodotto. Così per la vita. Essa è la manifestazione di uno slancio vitale semplice, e la sua unità è quella di una vis a tergo, non di un progetto che l'evoluzione tenda ad attuare. Lo slancio vitale, semplice in sé, si suddivide e si complica per venire a capo della materia in cui si insedia. In certi punti questa lo irretisce e ne arresta il movimento in specie relativamente fisse, in altri, l'evoluzione prosegue, accrescendo la differenziazione.

Lo schema evolutivo non è quello di una linea continua di progresso, bensì una molteplicità di linee divergenti. Una prima scissione si ha tra i vegetali, che per mezzo della funzione clorofilliana immagazzinano energia potenziale, e gli animali, che si valgono di quell'energia per svilupparla in movimento. Negli animali, poi, due principali linee divergenti portano l'una verso gli artropodi, gli insetti e, particolarmente, gli imenotteri, l'altra verso i vertebrati, particolarmente l'uomo. Sulla prima tende ad assumere il massimo sviluppo l'istinto, che è la facoltà di utilizzare immediatamente strumenti organici; sulla seconda l'intelligenza, capace di foggiare essa stessa strumenti (inorganici) per i propri fini. Sicché, mentre l'istinto inevitabilmente si fissa, l'intelligenza può divenire come accade nell'uomo uno strumento di liberazione, perché rimane in qualche modo sganciata dai propri oggetti. Il primo ha il vantaggio di un contatto più immediato, ma cieco, con il principio della vita, la seconda d'una maggiore adattabilità, che permette di proseguire indefinitamente il movimento evolutivo. La funzione strumentale dell'intelligenza spiega il suo esser rivolta alla schematicità esteriore, alla spazialità matematica, alla materia: essa, infatti, ha per scopo l'utilizzazione pratica dell'inorganico.

Bergson traccia così una genesi ideale dell'intelligenza, parallela a quella della materia e, con questo parallelismo, spiega il successo che l'intelligenza ha nel dominare, attraverso la scienza, la materia. L'ordine matematico che regna nel mondo materiale non è qualcosa di positivo, che si sovrapponga a un caos primigenio, ma un semplice arresto, un'interruzione dello slancio. Il disordine non è una condizione originaria, bensì l'interferire dell'ordine vitale con il geometrico, il presentarsi dell'uno quando noi desidereremmo l'altro. Arrestandosi lo slancio creatore, automaticamente ciò che rimane è materialità in ordine geometrico. È facile osservare che, per un altro verso, Bergson presuppone la materia all'arresto: lo slancio si arresta e si frantuma appunto contro l'ostacolo della materia. Ma, da un punto di vista più alto, la materia stessa che lo slancio trova dinanzi a sé e che cerca, con la vita, di padroneggiare e di trascinare in avanti viene ad essere un prodotto dello slancio.

Qual è, poi, il significato di questo movimento che cerca di farsi luce attraverso le scorie dei propri arresti? Non ha senso porre ad esso uno scopo. esso dà significato a tutto, e non trae significato da altro. Né ci si può chiedere perché esista qualcosa piuttosto che niente: il nulla esiste solo nella nostra mente, ed è sempre posteriore al qualcosa, derivando da una posizione e sostituzione, di ciò che si è posto, con altro. Con questi fondamenti, Bergson lancia un «colpo d'occhio sulla storia dei sistemi» da Platone a Spencer, criticandoli, sostanzialmente, come prodotti dell'«intelligenza». Storicamente, però, l'analisi lascia molto a desiderare, specialmente nell'interpretazione della filosofia greca.

VII. Estetica, morale e religione. Poiché l'evoluzione cosmica sfocia nell'umanità, sola tra le specie viventi sulla terra che lo sforzo per dominare la materia non abbia bloccato, era naturale, dopo L'évolution créatrice, aspettarsi un'opera che considerasse l'attività con cui l'uomo prosegue l'azione creativa. Bergson stesso ci narra che rimase a lungo incerto se quest'opera dovesse riguardare l'estetica o la morale, perché in un campo e nell'altro l'uomo è, in qualche modo, creatore. Bergson aveva avuto contatto con l'esperienza estetica fin dal primo Saggio dove, per descrivere la «durata reale», si era servito, tra l'altro, del modo in cui viviamo in profondità lo svilupparsi di un'opera d'arte, p. es. di una melodia. Il fondersi, nella durata, dei contorni netti e precisi delle cose, interpretati come divisioni artificiali a scopo pragmatico, fanno pensare, in questa descrizione, a quello che sarà il flou di certa scultura o decorazione del periodo liberty, alla musica di un Debussy o, quanto meno, alla pittura impressionistica: in contrasto con quello che è lo stile di scrittore di Bergson medesimo, e con la sua dichiarata esigenza di «precisione» di pensiero (e, quindi, anche di linguaggio).

Successivamente, la teoria della memoria evocativa contrapposta alla memoria meccanica può giustificare la poetica del cugino acquisito di Bergson, Marcel Proust, anche se quest'ultimo ricusò sempre di aver scritto «romanzi bergsoniani». In realtà, il maggior contributo di Bergson alla teoria dell'arte può considerarsi la sua stessa dottrina dell'intuizione, capace di trasfondere in complessi organici di immagini, non meno che di pensieri, l'essenza profonda, indivisibile e, come tale, ineffabile della realtà. In questo l'arte è accostata da Bergson medesimo alla filosofia. L'artista, come del resto il filosofo, si esprime non tanto per mezzo del linguaggio, quanto piuttosto nonostante il linguaggio, che è come il corpo rispetto all'anima, la materia che può appesantire e frenare lo «slancio» vitale creatore, ma può anche, in caso di riuscita fortunata, «lasciarlo passare».

Questi pensieri, però, non si organizzarono in uno scritto destinato specificamente all'estetica, perché Bergson preferì indirizzare le sue riflessioni al campo morale. L'opera in argomento si fece attendere per parecchi lustri, e uscì nel 1932 col titolo Les deux sources de la morale et de la religion (Paris 1932). Morale e religione sono, infatti, le attività con cui l'uomo si avvicina maggiormente allo slancio creatore, fino a coincidere, almeno in parte, con esso.

Occorre però distinguere: c'è una morale chiusa, che la società instilla nei suoi membri ai fini della propria conservazione; e questa è una morale abitudinaria, difficile da acquisire, ma praticata poi quasi automaticamente, che vige soltanto tra i membri della comunità. C'è, per contro, una morale aperta, slancio di carità che non conosce confini e si estende, tendenzialmente, a tutta l'umanità, anzi, a tutto il creato. Le due fonti della morale sono, così, la pressione sociale e lo slancio d'amore. Dall'una all'ailtra morale non si passa con un graduale allar' gamento dell'oggetto (famiglia, patria, umanità), ma con un salto: la loro differenza è qualitativa. La prima è voluta direttamente dalla natura, la seconda è un erompere immediato dello slancio da cui la stessa natura ha origine. Ciò non toglie che, in pratica, esse si compongano insieme, e la prima presti alla seconda un po' del suo carattere obbligatorio, e la seconda alla prima un po' del suo slancio.

Così pure c'è una religione statica, che è un complesso di favole, o miti, con cui l'umanità cerca di proteggersi dagli effetti dannosi che le procurerebbe l'esercizio dell'intelligenza (egoismo, timore di fallire, timore della morte ecc.). E c'è, incommensurabile con la prima, una religione dinamica, che si realizza attraverso l'opera di esseri privilegiati, i quali giungono a riporre se stessi nell'intimo del movimento creatore e trascinano poi, con l'esempio, il resto dell'umanità. Bergson chiama misticismo questa religione, considerandola però come eminentemente attiva, non contemplativa. La sua compiuta realizzazione si ha con il cristianesimo e le grandi personalità dei suoi santi. Le

Osservazioni finali mostrano, in questa religione superiore, la possibilità di riscattare l'uomo dalla schiavitù del lavoro meccanico. La tecnica dovrebbe essere, di per sé, uno strumento di liberazione e servire a sbloccare l'uomo dalla necessità d'impegnare tutte le proprie energie per procurarsi i mezzi di sussistenza: se, negli ultimi secoli, essa ha avuto un effetto contrario ed è divenuta fine a se stessa, ciò è accaduto perché nell'uomo è venuto meno lo spirito di semplicità, e la ricerca del piacere si è sostituita a quella della gioia creativa. Ora (per la legge della «doppia frenesia»), il pendolo può oscillare in senso inverso: un ritorno alla vita semplice è possibile attraverso la mistica, che dovrà fornire un «supplemento d'anima» al corpo dell'uomo, sproporzionatamente ingrandito dalla tecnica. Solo così potrà svilupparsi «la funzione essenziale dell'universo, che è una macchina per formare degli dei».

VIII. Il metodo della filosofia. Con Les deux sources si conclude l'opera di Bergson: le sue meditazioni, pur proseguendo ininterrotte, assumono in seguito un carattere più intimo e personale, e non danno più luogo a pubblicazioni. Partito dall'analisi introspettiva della nostra vita psicologica, Bergson era giunto alla considerazione dell'attività mistica, con cui l'uomo si fa, in qualche modo, compartecipe della creazione divina: le altre attività creative dell'uomo non furono più fatte oggetto di un'indagine particolare. Les deux sources, tuttavia, nel mostrare come la creazione scaturisca da un'emozione profonda, portano l'esempio dell'emozione artistica, e approfondiscono così quella concezione dell'arte che nell'Essai e nello scritto sul comico (v. infra) era rimasta su un piano piuttosto psicologistico.

Quanto alla filosofia, se da un lato essa è concepita come una conoscenza precisa di un aspetto del reale, «atta a progredire e a perfezionarsi indefinitamente come la scienza» (lettera al Figaro del 28 febbr. 1914), per un altro verso, in quanto penetra, sotto la superficie, nel profondo con «colpi di sonda nella durata pura», si avvicina all'arte. Si potrebbe perfino dire che «la filosofia è un genere di cui le diverse arti sono le specie» (intervista pubblicata nel Paris journal dell'11 die. 1910), in quanto sono modi diversi di portare alla luce il profondo. I caratteri di questa «filosofia dell'intuizione» sono illuminati particolarmente dal volume che, sotto il titolo La pensée et le mouvant (Paris 1934), raccoglie, oltre all'Introduction à la métaphysique, citata, vari scritti sul metodo. Essi sono tutti anteriori a Les deux sources, pur essendo uscito il volume nel 1934. Il loro tema essenziale è la contrapposizione del metodo intuitivo, in cui il tutto precede le parti e le genera da sé, al metodo intellettivo, che procede per composizione di elementi preesistenti: il primo è il metodo della creazione, il secondo della fabbricazione.

I due scritti introduttivi, del 1922, contestano le accuse di antintellettualismo mosse alla filosofia bergsoniana: l'intelligenza ha un campo conoscitivo proprio, la materia estesa, e serve, inoltre, a rendere comunicabile l'intuizione soltanto. Ma non bisogna ridurre il pensiero a una «riflessione sulla parola», che è la mera forma intellettuale ed esteriore in cui esso si esprime. Le possible et le réel (in «Nordisk Tidskrift», nov. 1930, tr. it. di F. Sossi, Il possibile e il reale, in «Aut Aut», 204 (1984), pp. 313), scritto a cui Bergson annetteva particolare importanza, afferma che il possibile è idealmente posteriore al reale, di cui rappresenta una «proiezione virtuale» (come l'immagine d'uno specchio) nel passato. Le cose non sono possibili prima di essere (la possibilità dell'Amleto non poteva esser vista prima che Shakespeare scrivesse la tragedia); e questo è come dire che il reale è novità assoluta o creazione. Da ricordare ancora L'intuition philosophique, conferenza tenuta al congresso di Bologna del 1911, dove, sugli esempi di Spinoza e di Berkeley, si mostra lo sviluppo di un sistema complesso di pensiero dall'assoluta semplicità di un'idea.

IX. Scritti minori. Dalla contrapposizione dell'Essai tra meccanicità e vita deriva Le rire (due articoli pubblicati prima in «Revue de Paris» [ 1899] e raccolti poi in volume, Paris 1900). Considerando il riso come un «lieve castigo sociale» per un'innocua meccanicità del comportamento umano, Bergson rivela una concezione tipicamente francese del comico, più ristretta di ciò che, dal romanticismo in poi, si pensa come ironia o umorismo.

Vari saggi e conferenze su argomenti gravitanti intorno a Matière et mémoire sono raccolti in L'energie spirituelle (Paris 1919). Il problema dell'aldilà è considerato positivamente in La conscience et la vie (Paris 1911), in quanto Matière et mémoire ha stabilito che il corpo è un semplice strumento dell'anima. Durée et simultanéité, un volumetto del 1922 (II ed. ampliata con tre appendici, Paris 1923), prende in esame la teoria della relatività speciale di Einstein e, contro le interpretazioni filosofiche che ne erano state date, difende l'unicità del tempo reale. i tempi einsteiniani relativi al movimento del sistema a cui sono riferiti sono tutti immaginari, meno uno, quello volta per volta relativo al sistema di chi esegue effettivamente le osservazioni: essi servono unicamente a metter d'accordo, sul piano matematico, i risultati dei calcoli, ma non a stabilire la natura del tempo. Lo scritto non manca di osservazioni acute, ma, reso debole da un equivoco interpretativo, non fu più ristampato.

Da ricordare ancora: la tesi latina di dottorato, Quid Aristoteles de loco senserit (Paris 1889, tr. fr. in «Études bergsoniennes», 1949), i corsi inediti al Collège de France, l'articolo La philosophie frangaise nel volume collettivo La science franose (Paris 1925), alcune conferenze inedite, e lettere, edite in parte in riviste e giornali. Tre volumi di Ecrits et paroles sono stati raccolti da R.M. MosséBastide (Paris 195759).

X. Interpretazioni e influsso. Il bergsonismo è contrasto tra due opposte tendenze: un immanentismo monistico, per cui ogni realtà si schiaccia nella durata, l'evoluzione si riassorbe nello slancio, il mistico si identifica con Dio ecc.; e un dualismo costruito in vista della spiegazione dei fenomeni, per cui un io superficiale si contrappone al profondo, la materia allo slancio vitale, la morale chiusa a quella aperta, e così via. Gli interpreti vicini al cattolicesimo, pur riconoscendo quanto Bergson ha fatto per superare il positivismo, vedono in lui soprattutto l'aspetto monistico (J. de Tonquédec, Sur la philosophie bergsonienne, Paris 1935; F. Olgiati, La filosofia di H. Bergson, Torino 1914), sebbene non manchi chi cerca di valorizzarne lo spiritualismo (J. Chevalier, Bergson, Paris 1948 (1926J; A.D. Sertillanges, Avec Henry Bergson, Paris 1941).

La letteratura bergsoniana si divide quasi tutta tra le opere di critici, spesso illustri (Benda, Santayana), che vedono in Bergson soprattutto gli aspetti più contingenti, e quelle di sostenitori interpreti spesso acuti e brillanti (Thibaudet, Jankélévitch, Deleuze), che tendono però ad arrestarsi alle medesime difficoltà poste dal pensiero bergsoniano. Una scuola bergsoniana vera e propria non è nata: in compenso l'influenza di Bergson, anche in campi diversi dalla filosofia, è stata enorme, specialmente in Francia e nei paesi anglosassoni: molto gli devono, tra gli altri, E. Meyerson, W. James, A.N. Whitehead. Molto studiato e apprezzato è stato Bergson in Italia; assai meno nei paesi tedeschi. Nella seconda parte del sec. XX la popolarità di Bergson è andata declinando. Le sue obiezioni a una memoria tutta contenuta nel cervello sono state ignorate dalle scienze cognitive. In compenso l'evoluzionismo si è aperto al concetto di un'inventiva della natura, e la genetica si è vista costretta ad abbandonare l'ipotesi di un modo di operare «atomistico» dei geni. Motivi plotiniani che, a un certo punto, Bergson riconobbe nel proprio pensiero (in particolare, la critica alla teoria aristotelica delle «tracce mnestiche») sono stati invece valorizzati.

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Wikipedia

HenriLouis Bergson (Parigi, 18 ottobre 1859 – Auteuil, 4 gennaio 1941) è stato un filosofo francese. La sua opera superò le tradizioni ottocentesche dello Spiritualismo e del Positivismo ed ebbe una forte influenza nei campi della psicologia, della biologia, dell'arte, della letteratura e della teologia. Fu insignito del Premio Nobel per la letteratura nel 1927.

Nacque a Parigi in rue Lamartine, non lontano dall'Opéra. Discendeva da un'importante famiglia ebrea, con sangue inglese nel ramo materno. La sua famiglia visse a Londra per alcuni anni dopo la sua nascita ed egli familiarizzò presto con la lingua inglese. Prima di compiere nove anni, i suoi genitori passarono la Manica e si stabilirono in Francia; Henri fu naturalizzato cittadino della Repubblica. La vita di Bergson fu quella tranquilla e senza grandi eventi di un professore francese; i maggiori punti di riferimento in essa sono la pubblicazione dei suoi quattro principali lavori: il primo nel 1889, l'Essai sur les données immédiates de la conscience (Saggio sui dati immediati della coscienza), quindi Matière et Memoire (Materia e Memoria) nel 1896, L'Evolution créatrice (L'evoluzione creatrice) nel 1907 e infine Les deux sources de la morale et de la religion (Le due sorgenti della Morale e della Religione) nel 1932.

Istruzione e carriera

«Le opinioni alle quali teniamo di più sono quelle di cui più difficilmente potremmo rendere conto.» (Henri Bergson, Saggio sui dati immediati della coscienza)

A Parigi dal 1868 al 1878 Bergson frequentò il liceo Fontaine, ora conosciuto come liceo Condorcet. Durante quegli anni vinse un premio per un suo lavoro scientifico e un altro, quando era diciottenne, per la soluzione di un problema matematico. Questo successe nel 1877: la sua soluzione fu pubblicata l'anno seguente negli Annales de Mathématiques. Esso è di qualche interesse essendo il suo primo lavoro pubblicato. Dopo qualche esitazione sulla sua carriera, se questa dovesse svilupparsi nel campo scientifico o negli studi umanistici, egli decise per la seconda opzione e a diciannove anni entrò nella famosa École Normale Supérieure (ove conobbe e divenne amico di Pierre Janet ed ebbe come maestro il filosofo Léon OlléLaprune). Qui conseguì il diploma di LicenceèsLettres, a questo seguì il concorso per professore associato di filosofia nel 1881. Lo stesso anno ricevette un incarico da insegnante al liceo di Angers, la vecchia capitale dell'Anjou. Due anni dopo si stabilì al liceo Blaise Pascal di ClermontFerrand, capitale del dipartimento del PuydeDôme.

In Durata e Simultaneità polemizzò con alcune elaborazioni filosofiche specie di ambiente francese sui risultati ottenuti da Albert Einstein nella teoria della relatività. Einstein ha dimostrato che il tempo è relativo al sistema di riferimento e più è elevata la velocità di un sistema rispetto all'osservatore, più il tempo in tale sistema rallenterà dal punto di vista dell'osservatore. Bergson sosteneva che il tempo non è una retta di tanti punti contigui, ma un istante che cresce su se stesso sovrapponendosi agli altri.

L'anno successivo al suo arrivo a ClermontFerrand, Bergson diede esempio delle sue capacità nelle scienze umanistiche pubblicando una eccellente edizione di estratti da Lucrezio, con uno studio critico del testo e della filosofia del poeta (1884), un'opera le cui ripetute riedizioni sono prova sufficiente della sua importanza nel promuovere lo studio dei classici presso i giovani francesi. Oltre a insegnare e a tenere lezioni universitarie nella regione dell'Auvergne, Bergson trovava il tempo per gli studi personali e la stesura di opere originali. Era impegnato con il suo Essai sur les données immediates de la conscience. Questo trattato fu consegnato, insieme a una breve tesi in latino su Aristotele, per il diploma di DocteurèsLettres, a cui fu ammesso dalla Università di Parigi nel 1889. L'opera fu pubblicata nello stesso anno da Felix Alcan, l'editore parigino, nella sua collana La Bibliothèque de philosophie contemporaine. Bergson dedicò questo volume a Jules Lachelier, allora Ministro della Pubblica Istruzione, che era un ardente discepolo di Félix Ravaisson e autore di una piuttosto importante opera filosofica: Du fondement de l'Induction (Sul fondamento della Induzione, 1871). Lachelier tentava di "sostituire ovunque la forza all'inerzia, la vita alla morte e la libertà al fatalismo."

Nel primo capitolo del Saggio sui dati immediati della coscienza Bergson polemizza con le psicologie di marca positivistica, che misuravano l'intensità di una sensazione sulla base dell'intensità dell'eccitazione periferica. La misurazione dell'intensità era il frutto dell'intrusione di categorie spaziali: quello che veniva misurato era secondo Bergson funzione del numero di muscoli coinvolti nella reazione. Sulle stesse basi –spiega Bergson nel II capitolo – viene costruito il concetto di "tempo" omogeneo misurabile, a cui Bergson contrappone una durata interiore che è accrescimento qualitativo continuo, dunque refrattario ad ogni forma di misurazione. Questa durata ha come tratto essenziale il vissuto affettivo che la caratterizza, e riesce a realizzare l'apparente paradosso del cambiamento continuo nella conservazione. Da questa durata che cementa l'identità personale, nasce nel terzo capitolo l'atto libero, al di là delle ricostruzioni logiche posticce in cui esso veniva intrappolato sia dai seguaci del determinismo che dagli apparenti difensori della libertà. Bergson si era allora stabilito a Parigi; dopo aver insegnato per qualche mese al Collegio Municipale, noto come il College Rollin, ricevette un incarico al liceo HenriQuatre, dove rimase per otto anni.

Nel 1896 pubblicò la sua seconda grande opera, intitolata Matière et Mémoire. Questa opera, piuttosto difficile ma brillante, investiga la funzione del cervello, intraprende una analisi della percezione e della memoria, portando a una attenta considerazione dei problemi sulla relazione tra corpo e mente. Bergson passò anni di ricerca prima di pubblicare ognuna delle sue tre grandi opere. Questo è specialmente vero per Matière et Memoire, dove egli mostra una familiarità molto profonda con la notevole quantità di ricerche mediche che erano state compiute in quegli anni, per la quale alla Francia è giustamente attribuito un rilevante merito. In Materia e memoria insiste sul valore pratico della scienza; pur permanendo una antitesi fra interiorità ed esteriorità, la coscienza e il mondo sono legati l'una all'altro. Il tentativo di Bergson di andare oltre sia il realismo sia l'idealismo si concretizza nella definizione della percezione come di una forma di coscienza inglobante sia il soggettivo che l'oggettivo. L'immagine si pone come saldatura fra la materia e la memoria.

Materia e memoria si articola in quattro capitoli. Nel primo capitolo, Bergson mostra come la percezione pura, isolata dagli apporti della memoria, si riduca a un taglio del tutto teorico sulla realtà, secondo le linee convenzionali della nostra possibilità di azione. A questo punto (II e III capitolo), Bergson analizza il rapporto concreto fra percezione e memoria, passando in rassegna un'impressionante mole di dati sperimentali. L'interazione fra il dato afferente e la proiezione dei ricordi su di esso si configura come un circuito, in cui il dato viene arricchito di apporti interiori che ne personalizzano la percezione. Alla fine, il criterio pragmatico dell'utilità è responsabile dell'evocazione di un determinato ricordo, che non è mai puro ma è "impregnato" di percezione. Il dualismo fra percezione estensiva e ricordo spirituale si risolve nell'ultimo capitolo in una metafisica dei differenti livelli di realtà, che è la teoria della percezione secondo la contrazione a differenti ritmi di durata dell'universo. Bergson approda dunque ad una concezione vibratoria e ondulatoria della materia in evidente contiguità con gli esiti della fisica del tempo, che viene poi contratta dalla nostra memoria in chiave pragmatica. Un'altra conclusione importante concerne la vita spirituale che trascende i limiti del corpo e quindi, conseguentemente, della percezione e dell'azione, vincolate esse stesse al corpo.

Nel 1898 Bergson divenne Maître de conférences presso la sua Alma Mater, l'Ecole Normale Supérieure, e fu in seguito promosso al ruolo di professore. L'anno 1900 lo vide professore al Collège de France, dove accettò la cattedra di filosofia greca, succedendo a Charles L'Eveque. Al Primo Congresso Internazionale di Filosofia, tenutosi a Parigi dal 1 al 5 agosto 1900, Bergson lesse un breve, ma importante, articolo Sur les origines psychologiques de notre croyance à la loi de causalité (Sulle origini psicologiche della nostra credenza alla legge della causalità).

Nel 1901 Felix Alcan pubblicò un lavoro che era precedentemente apparso nella Revue de Paris, intitolato Le rire (Il riso), una delle più importanti produzioni minori di Bergson. I principali meccanismi di produzione del comico vi vengono indagati nell'ottica del ritrovamento di tratti meccanici e ripetitivi laddove ci si aspettava grazia, sveltezza e unicità vivente e vitale. Ogni comportamento umano può essere posto in relazione al riso; si ride a fin di bene, per correggere ed educare, ma anche spinti dalla cattiveria, per umiliare e sottomettere. Nel profondo del riso si celano tracce di egoismo, di amaro e di tragico. Questo trattato sul significato del "comico" era basato su una lezione che aveva tenuto tempo prima nell'Auvergne. L'analisi di questo lavoro è essenziale per la comprensione delle opinioni di Bergson sulla vita; notevoli sono i suoi passi a proposito del ruolo dell'artistico nella vita. L'artista riesce ad avere una conoscenza disinteressata di una fetta di realtà proprio in virtù della sua distrazione dalla vita pratica.

Nel 1901 Bergson venne eletto alla Académie des Sciences morales et politiques e divenne un membro dell'Istituto. Nel 1903 fu pubblicato dalla Revue de metaphysique et de morale un suo articolo molto importante intitolato Introduction à la metaphysique (Introduzione alla Metafisica), che è utile come prefazione allo studio delle sue tre opere maggiori. Alla morte di Gabriel Tarde, l'eminente sociologo, nel 1904, Bergson gli successe alla Cattedra di Filosofia Moderna. Dal 4 all'8 settembre di quell'anno era a Ginevra ad assistere al Secondo Congresso Internazionale di Filosofia, dove tenne relazioni su Le Paralogisme psychophysiologique, o, per citare il suo nuovo titolo, Le Cerveau et la Pensée: une illusion philosophique (Il Cervello e il Pensiero: una illusione filosofica). Una malattia gli impedì di visitare la Germania per assistere al Terzo Congresso Internazionale di Filosofia tenutosi a Heidelberg.

Il suo terzo grande lavoro, L'Evolution créatrice, apparve nel 1907, ed è senza dubbio il più conosciuto e il più discusso. Costituisce uno dei contributi più profondi e originali alla riflessione filosofica sulla teoria della evoluzione. "Un livre comme L'Evolution créatrice, " osserva Imbart de la Tour, "n'est pas seulement une oeuvre, mais une date, celle d'une direction nouvelle imprimée à la pensée." (Un libro come L'Evoluzione Creatrice non è solo un'opera ma anche una data, quella di una nuova direzione impressa al pensiero). Nel 1918, Alcan, l'editore, aveva già pubblicato ventuno edizioni, tenendo una media di due edizioni all'anno per dieci anni. A seguito della pubblicazione di quest'opera, la popolarità di Bergson aumentò enormemente, non solo negli ambienti accademici ma anche fra il grande pubblico dei lettori generici. Il testo presenta l'evoluzione come una creazione continua senza una teleologia, in analogia con la durata personale. Senza la creazione la vita e l'universo sarebbero già finiti o finirebbero in futuro. L'evoluzione è creatrice perché oltrepassa il meccanicismo ed il cattivo finalismo. Lo "slancio vitale" sarebbe la forza che muove la vita, come adattamento dinamico all'ambiente, in una dialettica fra la vita e le forme in cui la cristallizzazione in una specie definita è sempre una sconfitta per il movimento della vita. Notevole la critica ai concetti e alle idee di "nulla" e "disordine", considerati fra i responsabili dell'incomprensione per la vita così concepita, da parte dell'intelligenza concettuale. L'uomo deve trasformare se stesso, evolversi oltre di sé per scorgere la vetta morale e religiosa.

Bergson arrivò a Londra nel 1908 e rese visita a William James, il filosofo americano di Harvard, che era più anziano di Bergson di diciassette anni e che era attivo nel richiamare l'attenzione del pubblico angloamericano sul lavoro del professore francese. Questo fu un interessante incontro e troviamo le impressioni di James su Bergson nelle sue Lettere, sotto la data del 4 ottobre 1908. "Un uomo così modesto e senza pretese ma intellettualmente un tale genio! Ho il più fermo sospetto che la tendenza che egli ha messo a fuoco finirà col prevalere, e che la presente epoca sarà una sorta di punto di svolta nella storia della filosofia." Fin dal 1880 James aveva scritto un articolo in francese per il periodico La Critique philosophique, di Renouvier e Pillon, intitolato Le Sentiment de l'Effort. Quattro anni dopo apparvero due suoi articoli sulla rivista Mind: "Che cos'è una Emozione?" e "Su qualche Omissione della Psicologia Introspettiva". Di questi articoli i primi due furono citati da Bergson nella sua opera del 1889, Les données immédiates de la conscience. Negli anni seguenti 189091 furono pubblicati i due volumi dell'opera monumentale di James, I princìpi della psicologia, nella quale fa riferimento a un fenomeno patologico osservato da Bergson. Alcuni autori, considerando esclusivamente queste date e trascurando il fatto che l'indagine di James era in corso fin dal 1870 (di cui era stata tenuta traccia di tanto in tanto con vari articoli che culminarono con I princìpi), hanno erroneamente datato le idee di Bergson come antecedenti a quelle di James.

Si è ipotizzato che Bergson debba le idee base del suo primo libro all'articolo del 1884 di James, "Su qualche Omissione della Psicologia Introspettiva", che non cita e non mette tra i riferimenti. Questo articolo si occupa della concezione del pensiero come flusso di coscienza, che l'intelletto distorce organizzandolo in concetti. Bergson ribatté a questa insinuazione negando che egli avesse alcuna conoscenza dell'articolo di James quando scrisse Les données immédiates de la conscience. Sembra che i due pensatori abbiano progredito in modo indipendente quasi fino alla fine del secolo. Le loro posizioni intellettuali sono più lontane di quanto spesso si pensi. Entrambi sono riusciti ad attrarre consenso molto oltre la sfera puramente accademica, ma solo nel loro reciproco rifiuto, in definitiva, dell'"intellettualismo" c'è una vera consonanza. Sebbene James fosse leggermente più avanti nello sviluppo e nell'enunciazione delle sue idee, confessò di essere stato spiazzato da molte delle idee di Bergson. Certamente James trascurava molti degli aspetti più profondamente metafisici del pensiero di Bergson, che non si armonizzavano con il proprio, e erano anzi in palese contraddizione. Oltre a questo, Bergson non era un pragmatico —per lui l'"utilità", lungi dall'essere una verifica della verità, è piuttosto l'inverso, un sinonimo di errore.

Nonostante ciò, William James salutò Bergson come un alleato. Nel 1903 egli scrisse: "Ho riletto i libri di Bergson e non ho letto nulla da anni che abbia così eccitato e stimolato i miei pensieri. Sono sicuro che quella filosofia abbia un grande futuro, rompe i vecchi schemi e porta le cose in una soluzione in cui possono ritrovarsi nuovi cristalli". Gli omaggi più notevoli che tributò a Bergson furono quelli nelle Hibbert Lectures (Un Universo Pluralistico), che James tenne al Manchester College di Oxford, poco dopo aver incontrato Bergson a Londra. Egli faceva notare l'incoraggiamento che aveva ricevuto dal pensiero di Bergson e esprimeva la fiducia che aveva nel "potersi appoggiare all'autorità di Bergson". L'influenza di Bergson lo portò a "rinunciare al metodo intellettualista e alla nozione corrente che la logica è una misura adeguata di ciò che può o non può essere". Lo indusse inoltre a "abbandonare la logica, fermamente e irrevocabilmente" come metodo, poiché aveva scoperto che "la realtà, la vita, l'esperienza, la concretezza, l'immediatezza, usate la parola che volete, va oltre la nostra logica, la sommerge e la circonda".

Naturalmente, queste osservazioni, che apparvero in un libro nel 1909, orientarono molti lettori inglesi e americani a indagare la filosofia di Bergson. Questo era reso difficile dal fatto che i suoi più importanti lavori non erano stati tradotti in inglese. James, tuttavia, incoraggiò e aiutò Arthur Mitchell nella sua preparazione della traduzione inglese di L'Evolution créatrice. Nell'agosto 1910 James morì. Era sua intenzione, se fosse vissuto abbastanza per vedere il completamento della traduzione, di proporla al pubblico di lettori inglesi con una nota in prefazione di apprezzamento. Nell'anno seguente la traduzione fu completata e questo portò a un ancora più grande interesse verso Bergson e il suo lavoro. Per coincidenza, in quello stesso anno (1911), Bergson scrisse, per la traduzione francese del libro di James, "Pragmatism", una prefazione di sedici pagine, intitolata Vérité et Realité. In essa espresse simpatia e apprezzamento per il lavoro di James, associati a certe importanti riserve.

In aprile (dal 5 all'11) Bergson seguì il Quarto Congresso Internazionale di Filosofia svoltosi in Italia, a Bologna, dove tenne un brillante discorso su L'Intuition philosophique. In risposta agli inviti ricevuti, tornò ancora in Inghilterra nel maggio di quell'anno e rese diverse altre successive visite all'Inghilterra. Queste visite furono sempre eventi speciali e furono segnate da importanti dichiarazioni. Molti di questi contengono contributi significativi al pensiero e gettarono nuova luce su molti passaggi delle sue tre grandi opere: Trattato sui Dati Immediati della Coscienza, Materia e Memoria, e l'Evoluzione Creatrice. Sebbene fossero in genere affermazioni necessariamente brevi, esse erano più recenti dei suoi libri e così mostrarono come questo acuto pensatore potesse sviluppare e arricchire il suo pensiero e approfittare di simili opportunità per chiarire al pubblico inglese i princìpi fondamentali della sua filosofia.

Nella primavera del 1911 Bergson visitò la University of Oxford, dove tenne due lezioni intitolate La Perception du Changement (La Percezione del Cambiamento), che furono pubblicate in francese nello stesso anno dalla Clarendon Press. Bergson aveva il dono di una esposizione lucida e concisa, quando l'occasione lo richiedeva, e queste lezioni sul cambiamento formarono un ottimo riassunto o breve trattato sui princìpi fondamentali del suo pensiero e fornirono agli studenti o al pubblico dei lettori generici una eccellente introduzione allo studio dei suoi più ponderosi volumi. Oxford rese onore al suo notevole visitatore conferendogli il titolo di Dottore. Due giorni dopo egli tenne la "lezione Huxley" alla Università di Birmingham, prendendo come argomento La Vita e la Coscienza. Questa apparve in seguito su The Hibbert Journal (Ottobre 1911), e, riveduta successivamente, costituì il primo trattato nella raccolta L'Energie spirituelle. In ottobre egli fu di nuovo in Inghilterra, dove ricevette una accoglienza entusiasta, e tenne al University College London quattro lezioni su La Nature de l'Ame. Nel 1913 visitò gli Stati Uniti, su invito della Columbia University di New York, e tenne lezioni in diverse città statunitensi, dove fu accolto da un vasto pubblico di ascoltatori. Nel febbraio, alla Columbia University, tenne lezione sia in francese che in inglese, vertendo su Spiritualité et Liberté e sul Metodo della Filosofia. Di nuovo in Inghilterra nel maggio dello stesso anno, accettò la presidenza della Society for Psychical Research, tenendo presso la Società il discorso: Fantômes des Vivants et Recherche psychique (Fantasmi dei Viventi e Ricerca psichica). Nel frattempo la sua popolarità aumentava e traduzioni delle sue opere iniziarono ad apparire in diverse lingue: inglese, tedesco, italiano, danese, svedese, ungherese, polacco e russo.

Nel 1914 i suoi concittadini gli tributarono l'onore di eleggerlo membro della Académie française. Divenne inoltre presidente della Académie des Sciences morales et politiques e infine ufficiale della Légion d'honneur e ufficiale della Instruction publique. Bergson ebbe seguaci di diversi generi, in Francia movimenti come il Neocattolicesimo o il modernismo da una parte e il sindacalismo dall'altra, si sforzarono di assorbire e di fare proprie, per i loro scopi anche di propaganda, alcune delle idee centrali del suo insegnamento. L'importante organo teorico sindacalista, "Le Mouvement socialiste", suggerì che il realismo di Karl Marx e PierreJoseph Proudhon è ostile a ogni forma di intellettualismo e che, quindi, i sostenitori del socialismo marxista avrebbero dovuto accogliere bene una filosofia come quella di Bergson. Altri autori si sforzarono di trovare consonanze tra la Cattedra di Filosofia del Collège de France con gli obiettivi della Confederation Générale du Travail. Si affermò che c'è armonia tra il flauto della meditazione filosofica personale e la tromba della rivoluzione sociale. Mentre i rivoluzionari sociali stavano cercando di ottenere il massimo dalle idee di Bergson, molte autorità del pensiero religioso, particolarmente i teologi più liberali di ogni credo, cioè in Francia i Modernisti e il Partito Neocattolico, mostrarono un profondo interesse per i suoi scritti e molti di loro cercarono di trovare nelle sue opere incoraggiamento e stimolo. La Chiesa cattolica tuttavia arrivò a bandire tre libri di Bergson ponendoli all'Indice dei libri proibiti (Decreto del 1º giugno 1914). Nel 1914, le Università scozzesi organizzarono l'esposizione, da parte di Bergson, delle famose Lezioni Gifford e un corso di insegnamento fu previsto per la primavera e un altro per l'autunno. Il primo corso, consistente in undici lezioni, dal nome Il Problema della Personalità, fu tenuto alla Università di Edimburgo nella primavera di quell'anno. Il corso di lezioni previsto per l'autunno fu invece abbandonato a causa dello scoppio della guerra. Bergson, tuttavia, non rimase in silenzio durante il conflitto. Tenne invece diversi discorsi rendendosi parte attiva della propaganda di guerra ("bourrage de crane") di cui Barrès si era reso campione.

Nella guerra, Bergson vide il conflitto dello spirito e della materia, o della vita e del meccanismo, principi che egli identificava rispettivamente con gli schieramenti francese e tedesco; così asservì le dottrine centrali della propria filosofia all'ideologia nazionalista. Questo aspetto della sua carriera non verrà, giustamente, risparmiato da filosofi quali Politzer (ne La fine di una parata filosofica. Il bergsonismo) e, più tardi, Sartre e MerleauPonty (La guerre a eu lieu, nel primo numero de Les temps modernes, 1945). Risale al 4 novembre 1914 l'articolo La force qui s'use et celle qui ne s'use pas (La forza che si consuma e quella che non si consuma), che apparve ne Le Bulletin des Armees de la Republique Française. Un discorso presidenziale tenuto nel dicembre 1914 alla Académie des sciences morales et politiques aveva come titolo La Significance de la Guerre. Bergson contribuì alla pubblicazione da parte del The Daily Telegraph in onore del Re del Belgio, del Libro di Re Alberto (Natale 1914). Nel 1915 fu sostituito nel ruolo di presidente della Académie des Sciences morales et politiques da Alexandre Ribot, e fece dunque un discorso sull'evoluzione dell'Imperialismo tedesco. Nel frattempo trovò il tempo di soddisfare la richiesta del Ministro della Pubblica Istruzione di realizzare un resoconto della filosofia francese che fu presentato all'Esposizione Universale di San Francisco nel 1915. Bergson fece un gran numero di viaggi e conferenze in Europa e America durante la guerra. Era lì quando la Missione Francese con a capo René Viviani fece una visita nell'aprile e nel maggio del 1917, che fece seguire l'entrata in guerra dell'America. Il libro di Viviani La Mission française en Amérique (1917), contiene un'introduzione di Bergson.

All'inizio del 1918 egli fu ufficialmente accolto dalla Académie française, prendendo il suo posto tra i "Quaranta immortali" come successore di Emile Ollivier, l'autore della vasta e notevole opera storica L'Empire libéral. Una sessione fu tenuta in gennaio in suo onore durante la quale tenne un discorso su Ollivier. Poiché molti scritti di Bergson per le riviste francesi non erano facilmente accessibili, egli acconsentì alla richiesta di suoi amici che questi articoli fossero riuniti e pubblicati in due volumi. Il primo di questi era in programma quando scoppiò la guerra. Il volume apparve solo alla fine delle ostilità, nel 1919. Esso ha come titolo L'Energie spirituelle: Essais et Conférences (L'Energia Spirituale: Trattati e Lezioni). Il volume si apre con la Lezione Huxley del 1911, Vita e Coscienza, in una forma rivista e sviluppata, con il titolo di Coscienza e Vita. Vi sono manifestati i segni dell'interesse crescente di Bergson per l'etica sociale e per l'idea di una vita futura di sopravvivenza personale. È inclusa anche la lezione tenuta di fronte alla Society for Psychical Research così come quella tenuta in Francia, L'Ame et le Corps, che contiene la sostanza delle quattro lezioni londinesi sull'Anima. Il settimo e ultimo articolo è una ristampa della famosa lezione di Bergson al Congresso di Filosofia a Ginevra nel 1904, Le paralogisme psychophysiologique (Il paralogismo psicofisiologico), che ora è pubblicato come Le Cerveau et la Pensee: une illusion philosophique. Altri articoli sono sul Falso Riconoscimento, sui Sogni, e sullo Sforzo Intellettuale. Il volume fu molto ben accolto e servì a riunire ciò che Bergson scrisse sulla forza mentale e sulla sua visione della "tensione" e "distensione" in quanto applicate alla relazione tra materia e mente. Nel giugno 1920 l'Università di Cambridge gli rese l'onore del titolo di Dottore in Lettere.

Per poter dedicare tutto il suo tempo alla nuova grande opera che stava preparando sull'etica, la religione e la sociologia, Bergson ebbe una dispensa dai suoi doveri legati alla Cattedra di Filosofia Moderna al Collège de France. Mantenne la cattedra ma non tenne più lezioni; in questo fu sostituito dal suo allievo prediletto Edouard Le Roy. Vivendo con la moglie e la figlia in una modesta casa in una via tranquilla vicino alla Porte d'Auteuil a Parigi, Henri Bergson vinse il Premio Nobel per la letteratura nel 1927. Nonostante soffrisse a partire dal 1925 di reumatismi paralizzanti, a causa dei quali dovette abbandonare gradualmente alcuni dei suoi molti incarichi, pubblicò nel 1932 e nel 1934 due nuovi grandi lavori: Les Deux Sources de la morale et de la religion (Le due Fonti della religione e della Morale) e 'La 'Pensée et le mouvant (Il Pensiero e il Movimento), che estesero le sue teorie filosofiche ai campi della morale, della religione e dell'arte. A una società chiusa basata sull'obbedienza all'autorità e cementata dalla credenza dei dogmi della religione statica, Bergson contrappone una società aperta che è continuo superamento della forma cristallizzata, e si estende all'intera umanità animata dalla spinta mistica d'amore della religione dinamica. Essa non è mai raggiungibile, ma resta come un asintoto orientativo. La distinzione fra società chiusa e società aperta verrà ripresa, pur con le dovute distinzioni, da Karl Popper nell'opera "La società aperta e i suoi nemici".

Nonostante la malattia fisica egli mantenne saldi i propri valori fondamentali fino alla fine della sua vita; di particolare rilievo morale fu la sua scelta di rinunciare a tutte le cariche e onori che gli erano stati precedentemente attribuiti piuttosto che accettare di essere un'eccezione alle leggi antisemitiche imposte dal governo di Vichy. Inoltre, sebbene desiderasse convertirsi al Cattolicesimo, vi rinunciò per solidarietà con i suoi correligionari ebrei verso i quali era cominciata in Germania la persecuzione nazista. Infatti, nel suo testamento, redatto nel 1937, il filosofo scriveva: "Le mie riflessioni mi hanno portato sempre più vicino al cattolicesimo dove vedo l'inveramento completo del giudaismo. Mi sarei convertito se non avessi visto prepararsi da anni l'immane ondata d'antisemitismo che s'infrangerà sul mondo. Ho voluto restare fra quelli che saranno domani perseguitati". Per sua richiesta, fu un prete cattolico a recitare le preghiere al suo funerale. Henri Bergson è sepolto nel cimitero di Garches, HautsdeSeine.

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da www.filosofico.net

A cura di Diego Fusaro

"Il mio stato d'animo, avanzando sulla via del tempo, si arricchisce continuamente della propria durata: forma, per così dire, valanga con se medesimo. Se la nostra esistenza fosse costituita di stati separati, di cui un Io impassibile dovesse far la sintesi, non ci sarebbe per noi durata: poiché un Io che non muti non si svolge, come non si svolge uno stato psichico che resti identico a se stesso finchè non venga sostituito dallo stato successivo. Infatti, la nostra durata non è il susseguirsi di un istante ad un altro istante: in tal caso esisterebbe solo il presente, il passato non si perpetuerebbe nel presente e non ci sarebbe evoluzione né durata concreta. La durata è l'incessante progredire del passato che intacca l'avvenire e che, progredendo, si accresce. E poichè si accresce continuamente, il passato si conserva indefinitamente. " (L'evoluzione creatrice)

Henri Bergson nasce da famiglia ebrea e resterà ebreo fino alla fine, anche se meditò spesso di convertirsi al cristianesimo, senza mai però farlo, perché in quegli anni, in cui la Germania nazista stava sterminando milioni di ebrei, convertirsi al cristianesimo avrebbe voluto dire abiurare e la gente avrebbe facilmente creduto che il vero motivo di tale gesto fosse appunto di evitare le persecuzioni. Una delle prime opere che egli scrive, dal titolo anonimo ma dai contenuti dirompenti, è il Saggio sui dati immediati della coscienza " (1889): si tratta di un'opera di remota ascendenza cartesiana, in quanto l'uomo viene inteso come luogo in cui convivono lo spirito e l'anima, ma, nonostante quest'analogia con il celebre pensatore francese del Seicento, la soluzione che Bergson prospetta al problema del rapporto spirito/anima è tutta in favore dell'anima, a dispetto dell'equilibrio ipotizzato da Cartesio stesso.

Ad un periodo più maturo risale l'opera più famosa di Bergson, intitolata L'evoluzione creatrice (1907): in essa, il pensatore francese dà un'immagine vitalistica dell'evoluzionismo di stampo darwiniano, riconoscendo l'evoluzione delle specie, ma respingendo la tesi canonica secondo cui essa avviene deterministicamente in base alla selezione naturale: l'evoluzione di cui si fa portavoce Bergson è, piuttosto, un'evoluzione vitale, spirituale e creatrice di novità (sullo sfondo troviamo le concezioni "congentistiche" di Boutroux) ed è in quest'opera che il filosofo si allontana maggiormente dalle tesi cartesiane, arrivando addirittura a negare che la materia esista autonomamente. La formazione di Bergson è, in origine, scientifica: ed egli si allontanerà, dunque, dalla scienza non perché impreparato in quel campo, ma, al contrario, perché preparatissimo e consapevole dei limiti propri della scienza.

Nel 1928 gli fu conferito il premio Nobel per la letteratura: fu uno dei pochi filosofi a riceverlo, proprio perché, tradizionalmente, lo scopo della filosofia è di esprimere concetti, non di dilettare i lettori; la vittoria di Bergson del premio Nobel è particolarmente significativa perché legata, in qualche misura, all'impostazione del suo pensiero: fin dalla sua prima opera (il Saggio sui dati immediati della coscienza ), egli sostiene che, per una conoscenza del mondo spirituale, l'atteggiamento proprio della scienza è del tutto inadeguato. In essa, però, Bergson vede ancora lo strumento migliore per indagare il mondo fisico: in opere successive, le negherà anche questa funzione, dichiarandola pertanto incapace di cogliere l'essenza profonda che permea la realtà. Ai tempi del Saggio sui dati immediati della coscienza , egli non ha ancora chiuso con la scienza e le riconosce la capacità di investigare sulla realtà fisica, quasi ritagliandola, per meglio analizzarla: tuttavia, ad essa è preclusa la facoltà di proiettare la propria indagine nel mondo spirituale, poiché per Bergson la coscienza è un flusso continuo che non può essere né colto né analizzato da una scienza che separa e ritaglia. Sarà invece molto più portata per quest'indagine la letteratura, la quale in effetti riesce a seguire il flusso della coscienza: tutt'al più, ci si potrà avvalere di una filosofia che si serva dello stile ampio e piacevole proprio della letteratura, non di quell'argomentare impassibile e arido impiegato da Kant e da Hegel. E non è un caso che Bergson fosse parente di Proust: quest'ultimo, intriso delle concezioni filosofiche di Bergson, propone (soprattutto in Alla ricerca del tempo perduto ) una letteratura intesa come forma per indagare il flusso della coscienza; e se Proust fa uso di una letteratura che assume gli obiettivi della filosofia, Bergson si serve invece di una filosofia che assume lo stile della letteratura e in virtù di ciò gli viene conferito il premio Nobel.

Il Saggio sui dati immediati della coscienza ha come argomento centrale, proprio come Alla ricerca del tempo perduto di Proust, il tempo e si configura pertanto come una ricerca di esso; in altri termini, Bergson si propone di andare alla ricerca dei dati immediati della coscienza, depurandoli da tutto ciò che ad essi si sovrappone, per poterli così cogliere nella loro immediatezza. La grande scoperta che fa Bergson in quest'opera è l'eterogeneità qualitativa dei dati di coscienza rispetto alla realtà esteriore e, in questa fase del suo pensiero, egli non fa altro che riproporre quella netta contrapposizione, di sapore cartesiano, tra mondo esteriore e mondo interiore: mentre il mondo esteriore viene interpretato attraverso lo spazio, quello interiore ha come sua dimensione il tempo e da ciò si capisce bene che cosa intenda dire Bergson quando parla di "immediatezza dei dati della coscienza". Egli, infatti, sottolinea come troppo spesso interpretiamo erroneamente anche l'interiorità in forma spaziale, ovvero come commettiamo l'errore di sovrapporre il concetto di tempo a quello di spazio: si tratta pertanto, dice Bergson, di ritornare ai dati immediati della coscienza per coglierli nella loro purezza, cioè nella dimensione temporale, depurandoli dagli elementi spaziali a cui ci siamo erroneamente abituati per via del rapporto che abbiamo con il mondo esterno. E' ormai nostra abitudine, infatti, " spazializzare il tempo " , inquinando in tal modo la conoscenza interiore: si tratterà dunque di cogliere nuovamente l'interiorità nella sua dimensione genuinamente temporale.

Ed è a questo punto che Bergson contrappone il "tempo spazializzato" a quella che lui definisce "durata reale" , che altro non è se non il tempo che scorre nella nostra coscienza, il tempo autentico; e per fare un'analisi dell'interiorità, non è possibile impiegare il linguaggio rigoroso della scienza e così Bergson si distacca dalla tradizione cartesiana che cercava di emulare in tutto e per tutto il linguaggio e la conoscenza scientifica: infatti, egli osserva, i concetti scientifici e quelli filosofici ad imitazione della scienza, tendono a ritagliare la realtà, sono strumenti adottati per inquadrarla in modo rigoroso, ma questo procedimento è possibile solo per il mondo esterno, proprio perché esso si colloca nello spazio e solo ciò che si colloca nello spazio può essere ritagliato, cioè diviso in parti ciascuna delle quali sia rigorosamente separata dalle altre. Ma per il tempo e per ciò che si colloca in esso (ossia l'interiorità della coscienza) ciò è inattuabile e per questo motivo Bergson ricorre ad un linguaggio scintillante di immagini, convinto che i concetti non siano del tutto in grado di tratteggiare una realtà indivisibile quale è appunto quella interiore: dove non arrivano i concetti, ci potranno aiutare le immagini e così si spiega il linguaggio letterario che è valso il Nobel a Bergson. Le immagini a cui egli ricorre sono quella della valanga e quella del gomitolo: arrotolando il filo di lana su se stesso, cresce il gomitolo e, man mano che cresce, c'è sempre nuovo filo che si aggiunge, senza però che quello che c'era già sparisca: resta nascosto, anzi racchiuso dal filo che si aggiunge e il gomitolo nella sua interezza non potrebbe esistere senza il filo racchiuso in precedenza. In modo analogo, la valanga nasce nel momento in cui si stacca della neve e comincia a rotolare accumulando sempre più neve, senza che quella presente in origine venga persa.

Secondo Bergson, la memoria, la coscienza e il tempo autentico ("durata reale") assomigliano al gomitolo e alla valanga, poiché nel tempo reale (cioè quello della coscienza) non vi è nulla che si perda mai veramente. E infatti, se il termine "reale" viene impiegato per sottolineare la contrapposizione con il tempo "falso" dello spazio, il vocabolo "durata" suggerisce il concetto di tempo, ma anche l'idea del permanere; ed è esattamente ciò che accade al gomitolo e alla valanga, che " concrescono " senza perdere i pezzi iniziali. Si tratta pertanto, fuor di metafora, di uno scorrere del tempo in cui il passato viene continuamente accumulato, il che fa sì che nel vero tempo i tempi successivi non siano mai propriamente omogenei tra loro e proprio in questo si distinguono dallo spazio. Le parti dello spazio, infatti, sono assolutamente omogenee tra loro, uno spazio non si distingue qualitativamente da un altro; invece col tempo tutto è diverso: e Bergson ci chiede di fare un esperimento mentale per renderci conto. Immaginiamo di essere chiusi in una stanza priva di finestre e di osservare un oggetto posto su un tavolo per un minuto e poi per un altro minuto: le osservazioni, intese oggettivamente, sono tra loro uguali, visto che non è cambiato nulla dal primo al secondo minuto; potremmo perfino dire che, dal punto di vista oggettivo del mondo esterno, sono omogenee come le porzioni di spazio; tuttavia, se riflettiamo meglio sull'esperienza, ci accorgiamo che se scrutiamo l'oggetto per un minuto e poi per un altro succede magari che, avendo colto nel primo minuto gli aspetti superficiali dell'oggetto, nel secondo possiamo cogliere i dettagli, oppure nel primo minuto eravamo animati da curiosità, nel secondo eravamo invece annoiati. Tutto ciò significa che il secondo minuto dell'esperienza è qualitativamente diverso rispetto al primo e lo è perché il primo c'è già stato, perché cioè il primo minuto è presente anche nel secondo. Pertanto, se gli spazi diversi si escludono a vicenda, i tempi successivi, invece, non escludono quelli precedenti, ma li recuperano come con il gomitolo o con la valanga, tutto resta presente e si arricchisce continuamente, sicchè il secondo momento è ricco di tutto quello precedente. E così nell'esteriorità sembrava non essere successo nulla, mentre nell'interiorità è avvenuto eccome qualcosa: ogni istante successivo è ricco di tutti gli istanti precedenti e la "durata" implica il permanere e dunque sembrerebbe che per Bergson sia centrale il passato, ma in realtà non è così.

E' vero che da un lato egli mette in luce come nella durata reale in ogni istante successivo sia presente il tempo passato, ma è anche vero che ogni fase del tempo è come se spingesse e penetrasse in quella successiva, come se ogni momento si sforzasse per entrare in quello successivo, cosicchè il passato è conservato nella sua interezza ma è come se spingesse verso il futuro, il che suggerisce a Bergson l'idea di "spontaneità". E' curioso come egli, in origine, volesse intitolare il Saggio sui dati immediati della coscienza in un altro modo, più precisamente "Problema della libertà": il problema della libertà, strettamente connesso con quello della spontaneità, è infatti centrale nell'opera. L'idea del passato che spinge verso il futuro suggerisce infatti che nulla sia determinato rigorosamente, ma che sussista quello che Bergson chiamerà, in opere successive, "slancio vitale", una sorta di forza creatrice sempre in grado di produrre qualcosa di nuovo. Per meglio distinguere il tempo reale da quello spazializzato, egli ricorre ad un'altra immagine: immaginiamo di sciogliere una zolletta di zucchero in un bicchier d'acqua; mentre il tempo trascorre, vi sarà un'attesa interiore, ovvero il tempo verrà vissuto interiormente, mentre, nota Bergson, il tempo spazializzato è quello impiegato dalla scienza: egli, con un esempio calzante, fa l'esempio dell'astronomo che fa calcoli per prevedere un'eclissi che si verificherà dopo un sacco di anni: nella testa dell'astronomo, ciò che l'astro farà da quel momento per i prossimi cinquecento anni viene compattato e compresso in poche frazioni di secondi; il tempo con cui l'astronomo sta lavorando non è reale, poiché il tempo reale (quello con cui attendiamo che la zolletta si sciolga) non è comprimibile, ha bisogno di una durata per svolgersi, un'attesa che si attua inevitabilmente nella coscienza. Per capire meglio può essere utile fare ricorso ad un'altra immagine, di sapore cartesiano: immaginiamo che vi sia un genio maligno che comprime al contempo tutti gli eventi della natura, cosicchè tutti gli eventi accelerano contemporaneamente e nella stessa misura. In questo caso, noi non saremmo più in grado di misurare il tempo, o meglio, non ci accorgeremmo di nessun cambiamento, dato che lo misuriamo in base ad una serie di coincidenze: per dire che sono lo 9 e 20 dico che sul mio orologio le lancette sono in una determinata posizione, poi le vedo in 'altra posizione e dico che sono le 9 e 30 e avrò constatato in due momenti diversi la corrispondenza tra due situazioni spaziali (le lancette), non temporali. Ora, se tutto accelerasse contemporaneamente, io farei la stessa misurazione e otterrei il medesimo risultato, però, dice Bergson, questo vale solo per il tempo spazializzato, in quanto, in qualche modo non concettualmente analizzabile, nella mia coscienza percepirei che il tempo è cambiato, che c'è stato bisogno di meno tempo perché avvenisse quella cosa a me nota.

Da ciò si evince benissimo la distinzione tra il tempo "falso" dello spazio e quello "reale" della coscienza, in cui vige la spontaneità , cioè lo spingere per penetrare nel futuro, quasi una specie di slancio vitale che sfugge ad ogni determinismo e comporta appunto la spontaneità, sinonimo di libertà. E sotto questo profilo, è curioso notare come Bergson respinga la contrapposizione tradizionale tra meccanicismo e finalismo, da sempre considerati antitetici: il pensatore francese si pone da un punto di vista nuovo e afferma espressamente che il meccanicismo e il finalismo sono le due facce della stessa medaglia e tale medaglia è il determinismo. Il meccanicismo è, naturalmente, una forma di determinismo in quanto prescrive che tutto avvenga in modo deterministicamente prevedibile attraverso rapporti di causa/effetto; il finalismo, dal canto suo, prevede che l'azione sia orientata verso un fine, per cui l'architetto che progetta la casa mira ad un disegno preciso fin dall'inizio; ne consegue che anche nel finalismo, come nel meccanicismo, tutto è già rigorosamente determinato fin dall'inizio.

Caduta la contrapposizione tra i due, Bergson afferma che la maniera corretta per interpretare la realtà interiore non è né il finalismo né il meccanicismo, bensì la spontaneità: la si deve cioè intendere come un flusso di coscienza in cui non si possono ritagliare pezzi (dal momento che ogni momento è presente anche in quello successivo) e in cui nulla è già determinato e tutto spinge e, quindi, crea continuamente in una forma che schizza via da ogni determinazione (e da ciò traspare l'influenza contingentista di Boutroux). E la nostra vita, dice Bergson, è come una frase, con le sue virgole, le sue parentesi e i suoi due punti: il punto finale è costituito dalla morte; e proprio come in una frase, anche nella vita basta inserire una virgola per far cambiare non solo ciò che viene dopo, ma anche tutto ciò che c'era prima. A questo punto del discorso di Bergson, abbiamo l'individuazione di due ambiti diversi della realtà, uno esterno, costituito da cose materiali che si collocano nello spazio, l'altro interno e che si colloca nel tempo; il primo è oggetto di studio da parte della scienza e, più in generale, dell'intelligenza che, lavorando nello spazio, tende a ritagliare le cose (il che è più che legittimo, se fatto solo ed esclusivamente nello spazio) e anche quando pare che sia presente il tempo, in realtà hanno sempre e solo a che fare con lo spazio: e non è un caso che la scienza tenda a rappresentare graficamente il tempo come linea retta, ma è una rappresentazione imprecisa, giacchè le parti di una linea sono contemporanee e i vari punti che la costituiscono sono staccati dagli altri, mentre nella durata reale ogni istante è presente anche in quello successivo.

Nella coscienza, la scienza e l'intelligenza cedono il passo alla metafisica e all'intuizione: l'intuizione ci permette di cogliere direttamente i dati immediati della coscienza, la durata reale, il flusso della coscienza, e addirittura la spontaneità (e quindi la libertà) di ciò che avviene all'interno, in antitesi al determinismo che impera all'esterno. E Bergson fin qui è ancora molto cartesiano, poiché ammette la distinzione, propria di Cartesio, tra mondo materiale e mondo spirituale e riconosce l'esistenza di una facoltà (l'intuizione) che consente di creare una disciplina particolare (la metafisica) che studia l'interiorità; ad essa Bergson contrappone il mondo materiale, collocato nello spazio e inquadrabile dall'intelligenza e dalla scienza: in sostanza, Bergson ammette l'esistenza di due mondi diversi con due scienze diverse. Poi, però, in " Materia e memoria " (1896) si pone il problema del rapporto tra questi due mondi (il sottotitolo dell'opera recita in modo significativo: "Saggio sulla relazione tra il corpo e lo spirito") e, infine, in " L'evoluzione creatrice ", si sbarazza di uno dei due mondi, più precisamente, sulle orme di Leibniz, di quello materiale, e arriva a dire che al di sotto della realtà materiale vi è un principio spirituale e vitalistico simile a quello dell'interiorità.

" Materia e memoria " parte dal concetto di "immagine": Bergson, rispetto alle tradizionali alternative dell'idealismo e del materialismo, sceglie una via intermedia, dal momento che lui è partito dai dati immediati della coscienza ed essi non suggeriscono né l'ipotesi idealistica né quella materialistica. Infatti, per gli idealisti non vi sono realtà indipendenti dal nostro atto di percepirle e per i materialisti, invece, ad esistere sono propriamente solo le cose materiali: ma la nostra coscienza, nota Bergson, ci dice che esiste qualcosa di indipendente da noi (a dispetto della tesi idealista), che vediamo e percepiamo, però (e qui affiora l'influenza di Cartesio) non ci dice che quel qualcosa che esiste indipendentemente dall'essere da noi percepito esista materialmente (checchè ne dicano i materialisti); in altri termini, abbiamo sensazioni di colore, di sapore, ecc, e siamo convinti che esse siano dotate di esistenza autonoma, ma il dato di coscienza non ci testimonia affatto che siano entità materiali, sicchè sia l'idealismo sia il materialismo si spingono al di là di quel che ci è testimoniato dalla coscienza. Essa, infatti, si limita a dirci che c'è qualcosa fuori di noi, senza tuttavia darci altre informazioni in merito. Questa realtà intermedia fra il nonesistere autonomamente e l'esistere come realtà materiale Bergson la chiama " immagine ": noi abbiamo immagini della realtà che esistono autonomamente, cosicchè quando vedo un libro ho la certezza (perché è la coscienza a dirmelo) che esso sia dotato di esistenza effettiva, ma che sia costituito da materia è una dottrina filosofica che esula dalla testimonianza della coscienza: " per immagine intendiamo una determinata esistenza che è più di ciò che l'idealista chiama una rappresentazione, ma meno di ciò che il realista chiama una cosaun'esistenza che si trova a metà strada tra la cosa e la rappresentazione " ("Materia e memoria", Prefazione alla VII edizione). E Bergson, con una considerazione fortemente schopenhaueriana, fa notare che la prima immagine che abbiamo è l'immagine del nostro corpo, la cui funzione è di selezionare le altre immagini; e con quest'affermazione si perviene al nucleo di "Materia e memoria", nel tentativo di risolvere l'annoso problema del rapporto che intercorre tra l'anima e il corpo. Bergson conduce, a tal proposito, un'analisi clinica di alcuni casi di amnesia dovuti ad incidenti: all'epoca, si cominciava a notare che a determinati danni fisici riportati da certe parti del cervello corrisponde la perdita della memoria di determinate "aree"; ovviamente, ciò accreditava l'ipotesi che vi fosse uno stretto legame tra il cervello come base materiale e le funzioni psichiche, ipotesi che suggeriva la validità della psicofisiologia.

E Bergson, nella sua indagine, si rivela un pensatore poliedrico, pronto a concentrare la sua attenzione su saperi anche non propriamente filosofici: dalla sua indagine tecnica egli evince che la funzione del cervello non è di essere un magazzino della memoria, per cui è scorretto dire che ad un danno materiale del cervello corrisponde un danneggiamento anche del contenuto; viceversa, il contenuto della memoria resta integro, e ad essere danneggiata è la capacità del cervello di fare da filtro nei confronti del materiale della memoria. Ne consegue che per Bergson la memoria in quanto tale è indipendente dal cervello , sicchè il cervello, alla stregua del corpo, seleziona le altre immagini, fa da filtro tra mondo interiore della coscienza e mondo esteriore: immaginiamo di avere un piano e un cono rovesciato la cui punta poggia su tale piano. Il cono rappresenta la coscienza umana, il piano la realtà: la mente (che si identifica con la memoria, in quanto è somma di ricordi) ha un contenuto vastissimo, ma, per così dire, tocca la realtà in un solo punto: ad esempio, mentre sto parlando chiudo tutti i molteplici passaggi che mettono in contatto la mente (il cono) e la realtà (il piano) e lascio solo una fessura, attraverso la quale la mia coscienza entra in contatto con la realtà. Tutto il resto della mente viene invece nascosto, fatta eccezione, appunto, per ciò di cui parlo in quel momento, e ad avvalorare il discorso bergsoniano (in cui serpeggiano le concezioni freudiane) è l'esistenza di alcune patologie che fanno sì che la mente non riesca più a controllare i ricordi.

E' infatti necessario che la mente, in entrata e in uscita, sia a contatto con la realtà solo in un punto e spetta appunto al cervello tenere nascosto tutto il restante contenuto mentale e Bergson è convinto di essere riuscito a dimostrare questa tesi dall'analisi dei casi di amnesia. E se ciò è vero, egli nota, allora la memoria non è riducibile al cervello, ma ha una sua dimensione autonoma e spirituale, mentre il cervello è un puro e semplice meccanismo che filtra: e i casi di amnesia non fanno altro che mettere in luce come sia stato danneggiato tale meccanismo con cui la nostra mente si rapporta col mondo esterno. A questo punto può essere interessante riprendere il rapporto bergsoniano con Proust: per entrambi i pensatori, nella memoria non vi è nulla che si perda, a patto che si faccia una distinzione tra l'avere memoria e il rammemorare. Infatti, se è vero che abbiamo sempre memoria di tutto, a tal punto che non è scorretto affermare che la mente è memoria e che tutte le nostre esperienze sono custodite in essa (come il filo nel gomitolo), è anche vero che per rammemorare si deve far sì che la punta del cono tocchi il piano, ovvero che la mente entri in relazione con la realtà: ma anche se a toccare il piano è solo la punta del cono, ciononostante il resto del cono non sparisce e da ciò deriva la convinzione bergsoniana e proustiana che debbano esistere modi per far emergere anche ciò che sembra scivolato nell'oblìo, sparito dalla memoria. Celebri, a tal proposito, sono le pagine in cui Proust racconta di quando gli viene offerto del the con dei biscotti caratteristici e comincia a provare sensazioni particolarissime, in quanto, attraverso i sapori e gli odori, gli torna alla memoria di quando li aveva già mangiati in passato; ora, secondo Bergson e Proust, questo ricordo era presente nella memoria, ma non poteva emergere finchè non fosse stato sollecitato: e non è certo lo sforzo razionale che può far sì che i ricordi vengano a galla, visto che la memoria, come abbiam visto, ha a che fare con quelle realtà fluide e volatili che sono le sensazioni, coglibili dall' intuizione .

E infatti Bergson, fin dal "Saggio sui dati immediati della coscienza", contrappone l'intelligenza, riguardante il mondo esterno, propria della scienza e cristallizzata nel linguaggio, all'intuizione, sulla quale si costruisce la metafisica, capace invece di attingere al flusso della coscienza, di cogliere l'essenza dall'interno della vita psichica; tuttavia Bergson, nelle ultime fasi del suo viaggio filosofico (soprattutto in "L'evoluzione creatrice") tenderà sempre più a vedere qualcosa di analogo alla coscienza nell'intero cosmo, più precisamente arriverà a ravvisare un principio comune, uno slancio vitale che governa l'evoluzione del mondo vivente. E con queste considerazioni egli, da dualista, diverrà monista: nel "Saggio sui dati immediati della coscienza" aveva riscontrato un'insanabile frattura tra mondo spirituale e mondo fisico; ora, con "Memoria e materia", ha ridotto il corpo ad un' "immagine" e, infine, con "L'evoluzione creatrice", arriverà ad ammettere un unico principio valido per l'intera realtà, superando così il dualismo anima/corpo e pervenendo ad una forma di monismo, cioè alla convinzione che la realtà sia, in fin dei conti, una sola. Pertanto non avrà più senso parlare di due realtà differenti (anima e corpo) e di due strumenti diversi per conoscerli (l'intelligenza e l'intuizione): essendo respinta l'esistenza della materialità, la distinzione tra intelligenza e intuizione viene stravolta nel suo significato, sicchè non indagano più due realtà diverse, bensì indagano in due modi diversi l'unica realtà esistente. L'intelligenza (e quindi la scienza) non avrà alcuna funzione conoscitiva, come già aveva prospettato Schopenhauer, giacchè non è in grado di cogliere la realtà nella sua vitalità, ma, ciononostante, le verrà riconosciuta una valenza pratica, in quanto permette di dominare concettualmente la realtà, facendocela vedere come un insieme di "cose" immerse nello spazio e, in tal modo, permettendoci di manipolarla. Sarà invece l'intuizione a fornire una conoscenza valida e metafisica, penetrando nel profondo della realtà.

L'intuizione, dice Bergson in "L'evoluzione creatrice", nasce da una sintesi di intelligenza ed istinto, una sintesi cioè degli aspetti migliori dell'umanità e dell'animalità. "

L'evoluzione creatrice " è un testo il cui tema portante è ben riassunto nel titolo: l'argomento centrale è l'evoluzione del mondo animale, ma non è darwinianamente intesa in modo meccanicistico, bensì viene letta come il frutto di uno slancio vitale ed è proprio in questa prospettiva che Bergson respinge la tradizionale contrapposizione tra meccanicismo e finalismo, intendendoli come due facce della stessa medaglia deterministica. L'intera realtà è, invece, il frutto di uno slancio vitale, creativo e spontaneo, che sfugge ad ogni forma di determinabilità: nell'interiorità scopriamo un flusso, dice Bergson, e, attraverso un processo quasi analogico di ascendenza schopenhaueriana, possiamo tranquillamente affermare che questo processo investe non solo la coscienza (come si credeva nel "Saggio sui dati immediati della coscienza"), ma tutta quanta la realtà; in particolare, osserva il filosofo francese, la durata reale ha come caratteristica il fatto che il passato spinge nel presente e nell'avvenire con il risultato che nella durata reale non si può immaginare di capovolgere il tempo. Infatti, una volta che il tempo si è sviluppato, si è arricchito di nuovi momenti, sicchè non è più possibile smontare e tornare indietro, dal momento che non si tratta di semplici pezzi aggregati insieme, ma, come si capiva dall'esempio del gomitolo, ogni istante ha in sé tutti quelli precedenti. E Bergson, in "L'evoluzione creatrice", fa notare che tutto ciò è anche vero per il mondo vivente, non solo per la coscienza: se una certa tradizione ha letto gli animali (e La Mettrie perfino gli uomini) come macchine, Bergson afferma ora che è impensabile smontare e rimontare un animale come se fosse una macchina, proprio perché, come il tempo della coscienza, così anche quello della vita appare irreversibile, non si può giocare su di esso. Poi, esaminando ulteriormente il mondo fisico, con un processo analogico di matrice schopenhaueriana, Bergson ritiene di poter estendere il discorso a tutto il cosmo: la durata reale, scoperta nel "Saggio sui dati immediati della coscienza" e inizialmente ravvisata solo nella coscienza, viene ora concepita come chiave di lettura del mondo vivente e, in ultima analisi, dell'intero universo, cosicchè in Bergson il dualismo cede definitivamente il passo al monismo. Infatti, la coscienza e la materia, coi loro due tempi (la durata reale e il tempo spazializzato) e con i loro due strumenti (l'intuizione e l'intelligenza), non vengono più contrapposte, in quanto anche la materia è permeata da quell'unico principio vitale che Bergson chiama " slancio vitale ". Esso corrisponde in parte alla volontà di Schopenhauer: è anch'esso un principio unico che soggiace all'intera realtà, e con esso Bergson spiega l'evoluzione del mondo vivente.

Tuttavia, ancor prima di addentrarsi in questo problema, ne sorge un altro: se ammettiamo un unico principio ed esso è spirituale, come si spiega la materia? Per capirlo può essere utile far riferimento a due immagini bergsoniane che si richiamano e si chiarificano a vicenda: immaginiamo di affondare la mano in un recipiente pieno di limatura di ferro; le nostra dita si allargano e spingono le varie particelle fino ad un certo punto, finchè la resistenza della limatura blocca la mano. La mano rappresenta lo slancio vitale, la limatura, invece, la materia: l'immagine sta a significare che lo slancio vitale, penetrando nella materia, la spinge in direzioni diverse finchè esso non si esaurisce di fronte alla resistenza fatta dalla materia stessa: secondo Bergson è esattamente in questo modo che procede l'evoluzione; gli esseri viventi, cioè, contengono in sé lo slancio vitale, ma sono pur sempre esseri animali incarnati nella materia, e così si può dire che ogni essere vivente è il risultato della spinta data in una certa direzione dall'unico slancio vitale, che di fronte alla materia si divide e in qualche caso spinge più in là, in qualche altro caso si ferma prima. E ogni specie vivente è il risultato di una spinta dello slancio vitale che si è spinto fin dove ha potuto e poi si è arenato.

Ovviamente, si tratta di un'interpretazione dell'evoluzionismo assai diversa rispetto a quella di Darwin, in quanto è carica di spiritualismo e presuppone quasi una lotta perenne tra slancio vitale e materia inerte che lo frena: e Bergson stesso si distacca da Spencer e dalla sua concezione evoluzionistica perché, ai suoi occhi, eccessivamente meccanica. Oltre a giustificare il fatto che le specie animali sono tra loro diverse (in alcune lo slancio vitale si è spinto più in là, in altre si è arrestato prima), l'immagine della mano e della limatura spiega anche la differenza tra individuo e individuo: più lo slancio vitale va in alto e più riesce ad emergere nella sua natura più propriamente spirituale. E così nelle forme vegetali l'identità spirituale è quasi ingabbiata, come se lo slancio vitale non fosse riuscito a penetrare molto nella materia: negli animali e ancora di più nell'uomo, esso si è spinto oltre qualitativamente e quantitativamente. L'immagine della mano e della limatura, però, lascia irrisolto un problema non da poco: spiega come avviene l'evoluzione senza però giustificare la materia. Occorre pertanto fare riferimento ad un'altra immagine bergsoniana: quella dei fuochi d'artificio. Lo slancio vitale è un fuoco d'artificio che sale verso l'alto ma prima o poi esaurisce la sua spinta e tende a ricadere al suolo; ad esaurirsi, però, non è lo slancio (poiché è infinito), bensì sono i singoli frammenti che si spengono e che nel momento in cui tendono a ricadere vengono ancora tenuti su per un po' dal flusso che continua a giungere dal basso.

La materia, in questa nuova prospettiva, non è più un qualcosa di esterno e autonomo dentro cui lo slancio vitale deve farsi strada, come sembrava nell'immagine della limatura: viceversa, è lo stesso slancio vitale che, spirituale nella sua essenza, nel momento in cui esaurisce la sua forza tende a manifestarsi come materia. Essa è pertanto l'insieme dei resti dello slancio vitale e con questa concezione Bergson si avvicina in modo impressionante alla teoria leibniziana secondo cui le "monadi" più passive si estrinsecano materialmente; l'antico Plotino in persona, del resto, aveva detto che dove l'essere si esaurisce, lì c'è la materia. Ritornando ai fuochi d'artificio di Bergson, l'istante in cui le scintille sono tenute ancora un po' in aria dalle altre, questa è la vita dei singoli individui e delle specie: ciascuno di noi è, in altri termini, un corpo vivificato dallo slancio vitale e l'esistenza altro non è se non un brandello lasciato per strada dallo slancio, cosicchè noi siamo un corpo materiale che piano piano si spegne. La vita, così, è, secondo la definizione pirandelliana, un flusso continuo che cerchiamo di arrestare, di fissare in forme stabili. E la vitalità affiora anche nella risata, sulla quale Bergson conduce un'analisi nel saggio Il riso : in questo saggio sul significato del comico, egli si concentra su tre aspetti della comicità: 1) è legata a un fattore umano (se cado faccio ridere; se vedo un paesaggio non mi suscita ilarità, un animale può essere comico se vi ravviso somiglianze con una caricatura dell'uomo); 2) è legata all'insensibilità (non si può ridere di una persona che genera pietà; il comico non si rivolge al cuore ma all'intelligenza pura); 3) ridere ha natura sociale (è sempre il riso di un gruppo o si immagina di condividerlo con altri magari immaginari).

La cosa curiosa, sottolinea Bergson, è che lo slancio vitale si articola in ramificazioni fondamentali: una prima ramificazione può essere scorta tra il mondo vegetale e quello animale e in quest'ultimo, a sua volta, troviamo un nuovo bivio tra due grandi percorsi evolutivi caratterizzati, rispettivamente, da due modi molto raffinati, anche se diversi, di manifestazione dello slancio vitale. Si tratta della ramificazione tra vertebrati e artropodi (insetti, crostacei, ecc): la differenza tra i due percorsi evolutivi risiede nel fatto che il percorso dei vertebrati spinge sempre più verso l'emergere della coscienza e dell'intelligenza e culmina nell'uomo, mentre il percorso degli artropodi non è orientato verso lo sviluppo della coscienza, bensì verso quello dell'istinto, uno strumento altrettanto raffinato per risolvere i problemi. L'istinto, però, non è caratterizzato dalla coscienza: gli insetti, infatti, fanno cose complicatissime (pensiamo alle ragnatele) ma le fanno istintivamente, senza averne coscienza.

Questi due strumenti, l'istinto e l'intelligenza, hanno i loro pregi e i loro difetti: il pregio dell'intelligenza consiste nell'essere cosciente e, proprio in quanto cosciente, essa è anche più duttile, riflette dall'esterno sui problemi e adatta ad essi le soluzioni; l'istinto, invece, non è cosciente, ma è immediato, governa le cose dall'interno, e infatti il ragno non progetta coscientemente la tela, ha una sorta di certezza interiore che lo induce ad agire in quel modo e Bergson nota come l'istinto può portare a grandi cose, ma anche a grandi errori. Questa distinzione tra intelligenza e istinto è particolarmente rilevante perché nell'uomo, che costituisce il vertice dei vertebrati, l'origine comune diversificatasi tra vertebrati e artropodi si ricongiunge, dato che l'uomo è dotato di intelligenza ma, se lo desidera, può recuperare la dimensione dell'istinto e fonderla con quella dell'intelligenza, dando vita all'intuizione, una specie di intelligenza istintiva che fa sì che si abbia la certezza immediata e interiore dell'istinto e la coscienza propria dell'intelligenza.

" Le due fonti della morale e della religione " (1932) è l'opera che conclude il discorso bergsoniano sull'evoluzione creatrice: l'evoluzionismo, dopo aver prodotto l'uomo, non si ferma, ma procede nelle realizzazioni culturali umane e, proprio come nelle evoluzioni dei viventi, anche in questo nuovo ambito troviamo elementi più evoluti e altri più "arenati". In altre parole, all'uomo è dato scegliere se far proseguire nel suo corso lo slancio vitale o se bloccarlo dentro di sé: ciò traspare dalla contrapposizione (che sarà ripresa da Popper) tra "società chiuse" e "società aperte". La società chiusa è quella autoritaria, in cui l'uomo è spinto con forza ad identificarsi nella società e nei suoi rigidi valori; quella aperta, invece, è la società in cui ci si apre all'umanità e si promuove la libertà degli individui, creando (un po' come aveva detto Nietzsche) dei nuovi valori da anteporre ai vecchi. Dalle società chiuse si sviluppano le "religioni statiche", quelle cioè istituzionalizzate, che tendono a favorire un atteggiamento dogmatico e chiuso degli individui; in seno alle società aperte, invece, nascono le "religioni dinamiche" (che Bergson di gran lunga preferisce rispetto a quelle statiche): esse, in sostanza, si identificano con il misticismo che, per sua natura, sfugge all'istituzionalizzazione.

Non c'è da stupirsi che Bergson nutra simpatia per il misticismo, soprattutto se teniamo presente che, fin dal "Saggio sui dati immediati della coscienza", egli cercava di scorgere nell'uomo una vivace spontaneità, tentativo proseguito in "L'evoluzione creatrice", quando trovava in un unico principio la chiave di lettura dell'intera realtà: è naturale che la religione che più lo affascina sia il misticismo, che esprime l'essenza libera dell'uomo e lo metto in contatto diretto con quel flusso vitale che scorre in profondità. E, con un'immagine stupenda, in "L'evoluzione creatrice", Bergson sostiene che " l'umanità intera, nello spazio e nel tempo, è come uno sterminato esercito che galoppa al fianco di ciascuno di noi, avanti e dietro a noi, in una carica travolgente capace di rovesciare tutte le resistenze e di superare moltissimi ostacoli, forse anche la morte ". Anch'egli si pone, come molti suoi contemporanei, il problema della tecnica e la concepisce come un prolungamento del corpo umano, in quanto grazie ad essa l'uomo è agevolato nelle sue attività: e in un'epoca in cui il corpo si è gonfiato a dismisura, si rende necessario anche un " supplemento di anima ", espressione con la quale Bergson sottolinea come le responsabilità siano infinitamente cresciute, come a dire che, aumentato il corpo, anche l'anima deve adeguarsi. In precedenza abbiamo riscontrato analogie tra il pensiero di Bergson e quello di Schopenhauer, in particolare abbiamo intravisto una notevole vicinanza tra lo slancio vitale e la volontà schopenhaueriana: tuttavia, è bene notarlo, se il discorso di Schopenhauer è fortemente venato di pessimismo, tant'è che egli arriva a proporre l'annullamento della volontà, quello di Bergson, invece, è vivacemente colorato di ottimismo e può essere inquadrato in quel filone vitalistico, sorto in opposizione al Positivismo e al suo culto della ragione e dei dati di fatto, in cui rientra anche quello di Nietzsche. La prospettiva di Nietzsche, però, era una sorta di ottimismo tragico, poiché il sostanziale ottimismo che la informava nasceva dal nichilismo e dalla tragicità dell'esistenza; tutto questo in Bergson manca. Egli, al contrario, è un ottimista nel vero senso della parola e, non a caso, pensò anche di convertirsi al cattolicesimo, che, fra tutte le religioni, è forse quella più conciliante con il mondo.