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Nacque a Vicenza il 25 marzo 1842 da Teresa Barrera e da Mariano,
che esercitò su di lui un'influenza notevole e persistente,
com'è documentato da alcuni personaggi dei suoi romanzi
ispirati alla figura paterna, primo fra tutti il Franco Maironi di
Piccolo mondo antico. Nel 1848 il padre fu, con il fratello don
Giuseppe, tra i membri del Comitato provvisorio che dirigeva la
lotta di resistenza della città contro gli Austriaci,
manifestando entrambi, in questa occasione come poi nelle vicende
successive della stagione risorgimentale, la loro vocazione liberale
mai disgiunta da una salda e convinta adesione al cattolicesimo.
Durante il periodo della guerra il F. si trasferì, con la
madre e la sorella, a Rovigo e quindi a Oria, in Valsolda, luogo di
origine della famiglia materna e sfondo prediletto, poi, dei suoi
versi come di molte ambientazioni romanzesche.
Tornato a Vicenza e finite a otto anni le scuole elementari, ebbe
come precettore lo zio sacerdote, don Giuseppe, raffigurato
successivamente in Piccolo mondo modemo e ricordato in Il mio primo
maestro (in S. Rumor, Don Giuseppe Fogazzaro, Vicenza 1902): una
delle personalità della cerchia familiare, insieme col padre
e la sorella del padre suor Maria Innocente, da cui raccolse sempre
insegnamenti e indicazioni di vita. A quattordici anni entrò
al liceo di Vicenza, dove incontrò G. Zanella che lo
indirizzò allo studio della letteratura italiana ed europea,
un campo di interessi che catturò l'attenzione del giovane
F., affascinato dalla lettura di H. Heine e F.-A-R. de
Chateaubriand, come, poco dopo, di Victor Hugo. Nel 1858, terminati
gli studi superiori, si iscrisse, per volontà del padre (che
volle trasferirsi insieme con lui), alla facoltà di
giurisprudenza dell'università di Padova.
Alla scarsa inclinazione per il diritto si uni, a rendere quanto mai
modesti e distratti i suoi studi universitari, una malattia che lo
colpì quasi subito e che si trascinò per circa un
anno, durante il quale continuò le sue amate letture
letterarie, scoprendo allora e invaghendosi di V. Hugo.
Nel novembre 1860, Mariano Fogazzaro decise di trasferirsi con la
famiglia a Torino per consentire al figlio di frequentare
l'università, ma anche per allontanarsi in volontario esilio,
dal Veneto ancora sotto il dominio austriaco. Nel capoluogo
piemontese il F. riprese gli studi giuridici, condotti sempre con
scarsissimo entusiasmo e applicazione arrivando tuttavia a laurearsi
nel 1864. Rimanevano prediletti gli interessi letterari che si
tradussero nei primi tentativi di composizione poetica. Sono infatti
di questi anni alcune odi e inni raccolti in un quaderno e poesie
d'occasione: Una ricordanza del lago di Como, Vicenza 1863 (nozze
Scola - Patella), Albo veneziano, ibid. 1865 (nozze Clementi -
Marchesini), A mia sorella, ibid. 1868 (nozze Fogazzaro - Danioni),
Najadi, ibid. 1871 (nozze Casalini - Barrera). Il padre tuttavia
insisteva perché intraprendesse la carriera forense; il F. si
impiegò perciò, appena laureato, presso uno studio
legale a Torino e, poi, presso un altro studio di Milano, dove la
famiglia si era nel frattempo (1865) trasferita.
Qui conobbe e frequentò un gruppo di giovani letterati e
intellettuali come E. Praga, C. Mancini, C. e A. Boito. Pur non
condividendo il F. pressoché nulla delle aspirazioni e delle
tensioni di questo ambiente, coltivò numerose amicizie,
consolidando soprattutto con A. Boito un rapporto di stima e di
solidarietà che rimase intatto per tutti gli anni della loro
vita.
Nel 1866 sposò, nonostante le riserve del padre (che proprio
quell'anno fu eletto deputato nel collegio di Marostica, mandato che
mantenne fino al 1873), la contessa Margherita di Valmarana; nel
1868, dopo aver superato l'esame di procuratore, prese la decisione
di abbandonare definitivamente l'attività forense. Tornato a
Vicenza, dove nacque la prima figlia Teresa (1869), cominciò
ad abbozzare un romanzo, di cui scrisse le prime pagine, utilizzate
poi per l'inizio di Malombra; nel 1870 iniziò a tenere per i
successivi dodici anni, insieme con la moglie, un diario, nel quale
i due coniugi registravano gli elementi significativi della loro
vita familiare e soprattutto del rapporto con i figli (è del
1875 la nascita di Mariano e del 1881 di Maria). Intanto, accanto a
qualche conferenza (Discorso tenuto al teatro Olimpico per la
dispensa dei premi agli alunni delle scuole serali civiche e rurali,
Vicenza 1870; Dell'avvenire del romanzo in Italia, ibid. 1872) il
suo interesse era concentrato sulla scrittura in versi: andava
infatti elaborando il poemetto in endecasillabi sciolti Miranda, che
pubblicò (Firenze 1874, con successive integrazioni in
Poesie, Milano 1908) con il finanziamento del padre, che si era
finalmente convinto dell'autenticità della sua vocazione.
Il volumetto, sottoposto all'attenzione dei critici e dei letterati
più noti del momento dallo stesso F. e da suo padre, raccolse
apprezzamenti ma anche molte riserve. F. De Sanctis ne scrisse: "Ci
ho trovato dei bei. motivi psicologici, ma poca ricchezza e poca
serietà nel loro sviluppo e nelle loro gradazioni",
concludendo: "questi difetti organici producono una monotonia che
giunge talora sino alla stanchezza e all'ineloquenza, un difetto
d'espressione, un soverchio di muta concentrazione che può
nutrire una scena, ma non una poesia così lunga" (lettera al
padre del F., in Gallarati Scotti, p. 53). Si tratta di una novella
in versi scandita in un prologo, due libri ed un epilogo; la parte
centrale è coperta dal racconto, nel primo libro, del giovane
poeta Enrico che ripercorre la breve vicenda sentimentale che lo ha
legato a Miranda, candida e sensibile fanciulla, da lui abbandonata
per ansia di affermazione e per il fascino di una straniera, Diana,
prototipo delle donne esotiche e fatali che compariranno spesso nei
romanzi successivi. Nel secondo libro il racconto malinconico e
mesto è condotto dalla giovane protagonista, avviata alla
malattia e quindi alla morte, nonostante il ritorno del pentito
Enrico. La derivazione dalla tradizione romantica della novella in
versi è evidente nel tipo della protagonista,
personalità sensibile e delicata, che ha molto dello spirito
dell'autore, come nelle scelte linguistiche ed espressive, modulate
più su tonalità prosastiche che propriamente poetiche,
sicché, alcuni anni dopo, G.P. Lucini parlò di "lunare
squallidezza del verso prosastico ... poemetto ricomposto sulle
brume bavaresi, sopra una spiritualità, cui l'isterismo
inlievita" (Il Resto del carlino, 19 marzo 1911, poi in E. Ghidetti,
Le idee e le virtù di A. F., Padova 1974, p. 76).Di due anni
posteriori furono i versi raccolti in Valsolda (Milano 1876),
dedicati ai paesaggi, agli ambienti, alle figure della terra tanto
amata dal poeta. Passate quasi inosservate alla prima uscita, queste
poesie riscossero - ristampate con altre - un notevole successo (in
Poesie disperse, Torino 1887, poi in Poesie), dopo che ormai il F.
aveva conquistato la notorietà con i primi romanzi.
Vi si riconoscono le molte letture dei poeti del romanticismo
europeo (H. Heine, F. Schiller, P.B. Shelley, A. Platen) insieme con
la tradizione poetica italiana. Ma va notato che già emergono
le idee cardine della concezione dell'arte che accompagnerà
tutta la carriera letteraria del F.: il profondo legame che lo univa
a quelle terre e che sostanzia la sua scrittura non solo nel senso
geografico-ambientale, ma anche e soprattutto in quanto è il
motore dell'immaginazione, della fantasia, della stessa spinta alla
scrittura, come si vedrà ancor più chiaramente nella
narrativa in prosa. Già qui è l'atteggiarsi di questa
natura che induce il poeta a evocazioni liriche trasposte in un
linguaggio che consapevolmente aspira ai moduli della musica,
pervaso dal senso del sogno, del mistero, della religiosità
che comprende l'uomo e gli ambienti naturali in una dimensione che
qualche critico ha definito di panteismo mistico.
Del resto il F. si applicò a tradurre in versi l'effetto
prodotto dalla musica in quattro composizioni dal titolo Versioni
dalla musica: R. Schumann (Op. 68), pubbl. in Nabab, 1885; L. van
Beethoven (Op. 27), in Cronaca bizantina, VII (1885); Martini
(Gavotta), in Fanfulla della domenica, 30genn. 1887, e ancora
Schumann, in La Vita italiana, 10 dic. 1894. A dimostrazione
esplicita di un'attitudine tenacemente coltivata e della quale sono
abbondanti le tracce anche nei romanzi, come segnale di un modo
peculiare di descrivere e di comunicare che fonda sull'evocazione,
sull'impressione prodotta da eventi, da immagini e da emozioni
riafferrate dal già trascorso. Sicché anche le figure
che qui compaiono, come poi molti personaggi di contorno che
popolano i romanzi, risultano ispirate dalla medesima intenzione di
ritratto che orienta l'occhio sui monti, sulle vallate, sul lago,
sulla natura insomma, proiezione, come gli uomini, dì Dio.
Perché il F., nato e cresciuto in una famiglia sentitamente e
rigorosamente cattolica, aveva attraversato negli anni universitari
e poi ancora per circa un decennio, un periodo di vera e propria
crisi della fede che sì realizzò in un allontanamento
di fatto dalle ragioni più intime della pratica religiosa,
senza però rotture traumatiche, né dilemmatiche.
Data al 1873, in coincidenza con la conclusione di Miranda, il
ritorno pieno alla fede, determinato, a suo dire, dalla lettura di
un libro., La philosophie du credo di Auguste-Alphonse Gratry,
così come a produrre la crisi era stato un altro libro, Les
contemplations di V. Hugo.
Certo è che, di là dalle dichiarazioni pubbliche ("Oh,
io sono cattolico, rigido, severo, convinto. Alla mia fede non
concedo dubbi od oscillazioni", intervista a U. Ojetti, in Alla
scoperta dei letterati, Milano 1895, p. 39), il F. visse la fede
sempre come una conquista da confermare e ribadire continuamente
piuttosto che come un saldo e indiscusso punto di arrivo. tanto che
traspare spesso nella sua scrittura privata e si intuisce nelle
pieghe della sua scrittura pubblica il senso di colpe commesse e di
estrema precarietà dello status raggiunto sul piano
intellettuale e sentimentale, in una proiezione di attivismo, di
produttività vissuta sempre come un dovere. In questo senso
l'approdo pieno, esplicito ed esibito alla religiosità
cattolica rappresenta un forte ancoraggio per il F. ansioso sempre
di individuare zone di pensiero e di emotività, nonché
di intervento attivo, intorno alle quali raccogliere le
manifestazioni esterne della propria vita. Sicché non
è per caso che la riflessione sul romanzo preceda la concreta
fattualità narrativa e che questa sia accompagnata poi dalla
insistente e puntigliosa ricerca di una conciliazione tra la scienza
e la fede, sul piano teologico e morale. Il fatto è che le
stesse considerazioni del F., come quelle citate, autorizzano a
collegare anche il suo forte impegno sul versante teorico e
ideologico al desiderio di rendere più solida la propria
professione cattolica coll'estenderne piuttosto le aree di
intervento, che con le forme diverse di interiorizzazione
soggettiva.
Nel 1872 aveva pronunciato all'Accadernia olimpica di Vicenza un
discorso, Dell'avvenire del romanzo in Italia (pubblicato lo stesso
anno, poi in volume, a cura di P. Nardi, Vicenza 1928), nel quale
riconosceva appunto il romanzo come la forma letteraria capace di
raggiungere il pubblico più vasto, esercitando perciò
l'influenza maggiore nel campo delle idee: "Maestro di tutte le
seduzioni, possiede tutte le maschere, parla tutti i linguaggi, da
quello dei gentiluomini a quello del trivio" (p. 25); dove
già si leggono le opzioni linguistiche ed espressive del F.
narratore. Ma proprio per le capacità sincretiche che il
romanzo per sua natura possiede ("l'epica, la lirica, la satira si
trovano intrecciate nel romanzo", p. 26), non è necessario e
anzi è controproducente la sottomissione della narrazione a
una tesi precostituita, poiché: "lo credo all'assoluta
indipendenza dell'arte. L'arte non è ancella di nessuno. Non
si puo imporre all'artista uno scopo espressamente educativo cui
egli subordini il suo amore supremo, dolcezza e tormento dell'anima,
l'arte" (p. 62). Di qui un romanzo di idee, sostanziato da ritratti
d'ambiente e di caratteri che contenga "l'esame profondo di se
stesso e dell'oscuro dramma che le passioni ed i casi svolgono nel
mistero di ogni anima, l'esame acuto di coloro fra i quali si vive"
(p. 45); ma che unisca anche comico e patetico, secondo la lezione
manzoniana assimilata e riletta dal Fogazzaro.
La riflessione sull'arte accompagna l'attività letteraria del
F. presentando alcune modificazioni di accento e di intenzione,
soprattutto quando negli anni Ottanta e Novanta vanno affermandosi
le ragioni del romanzo naturalista prima e della presenza
dannunziana, sempre più invadente. Sicché il F.
sposterà le sue considerazioni sempre più in direzione
della responsabilità etica dell'arte ("Sento che l'arte
obbedisce a un'indicazione tacita della nuova scienza e combatte
veramente sul fronte della razza quando da ogni animalità
inferiore trae lo spirito umano all'accesa ricerca, sia pur faticosa
e dolorosa, di quella bellezza complessa che più è
pura di animalità, che compenetra in una luce indissolubile
la bellezza intellettuale e la bellezza morale", Per un recente
raffronto delle teorie di s. Agostino e di Darwin circa la
creazione, in Atti del R. Ist. veneto di scienze, lettere ed arti,
s. 7, 111 [1891], poi in Ascensioni umane) verso la raffigurazione,
a fini edificanti, di "tipi superiori in formazione". Quello che
rimane costante, tuttavia, ed è l'elemento più
importante, è la sua convinzione di una sostanza
spiritualmente superiore dell'arte, la quale sola può opporre
idealità a materialità, se e in quanto ispirata
aì sanì e nobilitanti principi della
religiosità cattolica. Su questa base si costruì la
sua presenza sulla scena letteraria e culturale dell'Italia
postunitaria, nonché la sua fortuna quale "capo di tutta una
resurrezione neomistica nell'arte e nella letteratura" (U. Ojetti,
Alla scoperta..., p. 36). Scriverà Croce (1903): "Alla fama
di Fogazzaro non hanno concorso ragioni puramente letterarie,
perché egli si presenta, oltre che con parole di artista, con
un intero sistema di idee religiose, metafisiche, etiche, politiche,
estetiche" (in La letteratura della nuova Italia, IV, Bari 1964, p.
134).
Molte di queste idee ritroviamo nel primo romanzo, Malombra (Milano
1881), la cui stesura occupò il F. per circa un decennio,
intrecciandosi ai versi, per lo più d'occasione (La tua nuova
casa. Versi, per le nozze Piovene - Valmarana, Milano 1873;
Felicissime nozze Burato - Chiarini, Vicenza 1876; In morte di
Emilia Valle, ibid. 1880), a novelle (poi raccolte in Fedele e altri
racconti, Milano 1887), a scritti giornalistici (Un poeta perduto:
Francesco Saggini, in Il Convegno, II [1873]; Per la morte di
Eugenio Napoleone. Ode di G. Carducci, in Giornale della provincia
di Vicenza, 12 ag. 1879), a discorsi, come quello già citato
sul romanzo.
Il Nardi ha ricostruito e documentato su carte inedite il percorso
tormentato che impegnò il F. nella scrittura del romanzo,
variando titolo, nomi dei personaggi, situazioni, nelle successive
elaborazioni prima della definitiva; ancora più rilevante la
documentazione sui risvolti autobiografici che presenta la figura
del protagonista, Corrado Silla, "un autoritratto idealizzato"
secondo Gallarati Scotti (p. 79) che considerava l'intero romanzo
come "la storia poetica della sua giovinezza" (p. 77). Che in
questo, come del resto negli altri romanzi, il F. abbia trasposto
molto di sé, è indubbio, pur essendo in fondo alquanto
irrilevante ai fini della valutazione di queste prove letterarie,
caratterizzate piuttosto da una forte determinazione alla
rappresentazione di tipologie in qualche modo esemplari, in senso
psicologico e soprattutto ideologico. Qui i tre protagonisti,
Corrado Silla, Marina di Malombra ed Edith sono definiti e agiti
nella interdipendenza non tanto delle situazioni e delle vicende,
quanto appunto di una certa tipologia astratta. Alla demoniaca,
inquietante, torbida Marina fa da complemento la dolce e pura Edith
alla quale Silla si sente legato senza riuscire tuttavia a sfuggire
al fascino implacabile della giovane nipote del conte Cesare
d'Ormengo, convinta di essere la reincarnazione di una antenata
sottoposta a crudeli sofferenze in seguito ad un amore contrastato
dalla famiglia. La antiteticità, che è anche
complementarità, dei due personaggi femminili (che richiama
certe invenzioni scapigliate, come la Fosca di I.U. Tarchetti)
traspare dalle parole della prefazione all'edizione francese del
romanzo (Parigi 1898, poi in Minime, Milano 1901, pp. 238 s.), dove
il F. scriveva, a proposito di Marina: "Elle était pour moi
la femme qui ne rassemble à aucune autre et je l'avais
pétrie d'orgueil pour l'inexprimable plaisir de la dompter",
mentre la fisionomia di Edith scaturisce "de la terreur d'un abime:
Edith n'est qu'une réaction de la conscience et du sentiment
réligieux". Questo spiega bene il carattere astratto e
stilizzato di entrambi i personaggi: lati opposti ed estremi
dell'immagine che il F. aveva e voleva trasmettere della donna che
si ritroveranno nelle protagoniste dei romanzi successivi, ma
attenuati e fusi in un solo carattere, intinti in un senso di
spiritualità superiore: "Io credo al femminile eterno, a un
sesso misterioso delle anime, a unioni ben diverse dalle nozze umane
ma strette per lo stesso principio e forse con lo stesso fine, di
una sublime generazione, di un continuo ascendere anche nel numero
come nella misura verso l'Infinito. Credo e spero e sogno
così", lettera alla sua corrispondente di quegli anni, Ellen
Starbuck, con la quale stabilì un rapporto sentimentale e
intellettuale che esercitò un'influenza profondissima sulla
sua vita e sulla sua arte (8 marzo 1884, in Gallarati Scotti, p.
129). L'esito tragico del racconto, il suicidio di Marina che si
inabissa nel burrone dopo aver provocato la morte dello zio e di
Silla, è il suggello di una vicenda che è segnata dal
gusto romantico dell'esotico, dell'anonnale, del suggestivo; un
gusto che deriva fondamentalmente dal plafond di letture e di
passioni letterarie che avevano animato la sua giovinezza e che qui
nettamente prevale; mentre poi si affinerà, iscrivendosi
sotto il segno, profondo e costante nell'ispirazione fogazzariana,
del filtro della memoria che plasma e organizza la materia del
racconto, proiettandola in una dimensione lontana da ogni intenzione
realistica. Di là dalla scelta letteraria e culturale
antinaturalistica, è la fantasia del F. che è mossa
dall'evocazione, dal ricordo, dalla suggestione dei contorni sfumati
dalla distanza: "... [contemplando] i colli e il lago, ho pensato ad
Annibale come se i cavalli numidi e gli elefanti e la fanteria
africana fosse passata [sic] di lì l'anno scorso. Il fatto
è che io non riportavo la battaglia al tempo in cui avvenne;
ma al tempo in cui vi leggeva con emozione il racconto da
piccinetto, e di quella commozione la memoria è vicinissima a
me" (inedito in Nardi, 1929, p. 43). Qui è il nocciolo
dell'attitudine del F. alla scrittura letteraria, un mezzo per
richiamare, rievocare le emozioni di esperienze passate; qui anche
la radice di quella vena di torbida sensualità che fu
avvertita dai primi critici e recensori, con riprovazione nella
parte clericale e con apprezzamento dagli altri, un'inclinazione che
è sottoposta a spinte contraddittorie sicché nota bene
il Nardi, "la sensualità ne risulta, non intensificata per
costrizione, ma impoverita per attenuazione e per sottrazione"
(ibid., p. 118). Il fatto è che i dilemmi, i contrasti tra
spirito e senso in cui il F. si dibatteva e che trasferiva ai suoi
personaggi non sono mai stati vissuti da lui fuori
dell'"immaginazione", della coscienza, non sono mai diventati
esperienze realmente subite. "Ella si è spaventata leggendo
quei capitoli di Malombra raffrontandoli con le ultime parole della
mia lettera. Si tratta per me di lotte, di cadute puramente
interiori. La mia volontà, che non ha sempre saputo dominare
il pensiero, è rimasta però, dalla mia prima
giovinezza in poi, padrona delle mie azioni, di quello che
appartiene alla vita esteriore. Ma anche nella vita interiore come
sono dolorose le sconfitte dello spirito! Come egli ne resta stupito
e muto!" (lettera a E. Starbuck, 20 ag. 1883, in Gallarati Scotti,
p. 80). Da questo tipo di sensibilità da "esercizio
spirituale", deriva quel tanto di astratto nei caratteri e nelle
situazioni che gli fu spesso rimproverato, insieme con la
tonalità torbida, ambigua che pervade stati d'animo e
ambienti naturali, in una corrispondenza spesso di schietto sapore
romantico.
Certo è che Malombra fissa gli ingredienti di base degli
intrecci fogazzariani: il contrasto amore-colpa, la follia, il
divieto, la conclusione catartica, ai quali di volta in volta si
aggiungono altri elementi e una varietà di figure di
contorno. Perché l'altra componente, sistematicamente
mescolata dal F. al corpo della narrazione principale consiste nel
tratteggio di caratteri, tipi, a volte macchiette di sapore comico,
che bilanciano e contornano le figure dominanti dei protagonisti.
Scriveva il F. (nella Préface, cit., ora in Scene e prose
varie, a cura di P. Nardi, Milano 1945, pp. 303 s.): "Il y a dans
Malombra un certain nombre de personnages très réels
qui ont fait souche et dont les fils e les petit-fils se
promènent dans mon ceuvre, un peu partout. Ce sont des
personnages comiques à la physionomie étrange et aux
allures bizarres. En les reproduisant, j'ai fait surtout œuvre
d'observateur, car il a été mon bonheur, ou mon
malheur, selon qu'on voudra, de rencontrer dès mes premiers
pas dans la vie beaucoup d'étres tout à fait
singuliers et d'un comique touchant à l'invraisemblable".
Idee queste già annunciate nel discorso del 1872, alle quali
il F. rimase fedele, convinto assertore della mescolanza di comico e
patetico, su una linea che da Manzoni conduce al bozzettismo
otto-novecentesco di molta nostra letteratura minore.
Subito dopo la pubblicazione di Malombra, confortato dai giudizi
raccolti, il F. iniziava la stesura di un nuovo romanzo che lo
impegnò fino all'11 marzo 1884 (lettera a E. Starbuck, in
Gallarati Scotti, p. 99). Nel 1885 veniva stampato Daniele Cortis
(Torino), così presentato dallo stesso F.: "Io tratto in
questo romanzo l'amore e la politica nel modo più impopolare
del mondo; glorificando una specie d'amore che non si usa
più, che si mette in ridicolo, esprimendo delle idee
politiche che hanno forse fautori segreti ma che nessuno osa
sostenere apertamente per paura delle fischiate" (lettera a E.
Starbuck, 12 nov. 1883, ibid., p. 125). Pilastri del romanzo sono
infatti la tentazione della passione amorosa e la passione politica,
la volontà di lottare per l'affermazione delle proprie idee
religiose e appunto politiche: entrambi i fronti calati nella figura
del protagonista, Daniele Cortis, nel quale sono ravvisabili, come
sempre, alcuni tratti che il F. voleva esternare di se stesso.
Il Nardi, passando in rassegna i sette protagonisti dei romanzi
fogazzariani, osserva: "Certo, l'anima del F., con le sue
contraddizioni e pertanto con le sue debolezze e le sue
complicazioni è soffiata in questi sette involucri
fantastici. E basta stabilire il parallelo tra biografia e romanzi,
per accorgersi della proiezione e dei riflessi della storia interna,
e bene spesso anche esterna, dell'autore in quella dell'unico eroe
svariante e progrediente per entro i sette or ricordati" (p. 194).
La vicenda di Daniele Cortis si svolge tra il 28 giugno 1881 e il 18
apr. 1882, in una fase della vita italiana dominata dalla coscienza
diffusa negli ambienti politici e intellettuali di un oscuramento
delle ragioni ideali su cui si era retto lo slancio risorgimentale,
una stagione dunque in cui cominciavano ad apparire i primi segni di
quella deprecatio temporum che andrà rafforzandosi ed
estendendosi fino agli anni della prima guerra mondiale, assumendo
coloriture diverse, ma accomunando comunque opinioni e schieramenti
anche opposti nella percezione di un inarrestabile decadimento dei
costumi e delle sorti della vita civile. Benché il F. non
abbia mai condiviso una visione pessimistica e anzi, come si
vedrà, si sia fatto alfiere di una concezione saldamente
progressista dello sviluppo storico e sociale, concordava tuttavia
nella diagnosi corrente sul pesante immiserimento del clima morale e
politico. Daniele Cortis è così il portatore di una
posizione ideologica che, nella piena tradizione liberale cavouriana
di rispetto delle autonomie reciproche della Chiesa e dello Stato, a
livello istituzionale, intravede la svolta positiva nella ripresa di
intervento della Chiesa, dei suoi valori, della sua carica ideale.
"Io credo [sono parole di Daniele Cortis] che vi è in questo
fermento democratico, qualche lievito rubato al cristianesimo: io
vedo nel mio pensiero un luminoso e possibile ideale di democrazia
cristiana, molto diverso da quel dispotismo di maggioranze egoiste,
avide di godimento, che minaccia le libertà moderne". A cui
sono da accostare queste considerazioni dello stesso F.: "Le
convinzioni mie profonde dalle quali parto sono queste: che la
distribuzione attuale dei beni nella società è iniqua
e che quindi in fondo agli errori e agli eccessi del socialismo vi
è un fondo di ragione; che senza un'azione larga, profonda,
diretta del cristianesimo, la trasformazione sociale a cui andremo
incontro sarà terribile, empierà il mondo di sangue e
di rovina" (lettera a E. Starbuck, 16 febbr. 1884, in Gallarati
Scotti, p. 151).
Si è considerato spesso questo romanzo il concentrato delle
idee politiche del F., il suo "manifesto politico" lo ha definito C.
Salinari che vi rintraccia i capisaldi della posizione fogazzariana
pienamente interna all'area cattolico-liberale, su un versante
ideologico moderato che "informa la personalità del F. in
tutti gli aspetti del suo comportamento umano e informa il suo gusto
di scrittore, il modo stesso in cui egli, anche senza proporselo
deliberatamente, costruisce le vicende dei suoi romanzi e i suoi
personaggi e il suo stile" (Miti e coscienza del decadentismo
italiano, Milano 1960, p. 227); sicché per Salinari
c'è una linea di assoluta continuità, su questo filo,
tra i primi e gli ultimi romanzi, tra il Daniele Cortis fervido
propagandista di una soluzione politica e il Benedetto protagonista
de Il santo che abbandona la vita mondana e politica per ritrovarsi
soltanto nella dimensione religiosa. La piena consonanza delle sue
idee politiche e letterarie con lo spirito della borghesia italiana
spiegherebbe (per primo lo ha sostenuto e argomentato analiticamente
G. Trombatore) il grande successo dei suoi romanzi che inizia
proprio con Daniele Cortis (tre ediz. in Italia nel 1885),
traduzioni in svedese 1886, inglese '87 e '90, tedesco '88, olandese
'91, francese '95, danese '99, polacco 1910). Senonché, il
percorso fogazzariano appare tutt'altro che lineare e continuo;
giacché se quell'ideologia sostiene una sua precisa e forte
intenzione, entra però spesso in contraddizione con altre
istanze e tensioni altrettanto pervasive, per lo più non
sufficientemente dominate e risolte. Resta che, oggi, i motivi, se
ce ne sono, dell'interesse che ancora può suscitare l'opera
del F. non risiedono affatto nella sua ideologia, bensì nelle
forme contrastate e frastagliate che assumono tutte le linee del suo
pensare e sentire, calate in personaggi, ambienti e situazioni.
Così come avviene appunto in Daniele Cortis, dove, accanto e
insieme al filone ideologico e politico, si svolge il tema
dell'amore come rinuncia, una delle costanti fogazzariane, qui
sviluppato attraverso il legame sentimentale tra l'adolescente
Daniele e sua cugina Elena, troncato bruscamente dall'infelice
matrimonio di lei con il barone siciliano di Santa Giulia e
destinato a riesplodere quando i due si incontreranno di nuovo,
senza che si possa neppure ipotizzare qualcosa di diverso dalla
rinuncia all'amore per il dovere. Nella cornice raffinata ed
elegante di ville, giardini, colli e fiumi veneti, si materializza
il sentimento che unisce profondamente i due protagonisti che va
crescendo ed esaltandosi, tanto più in quanto destinato a
sciogliersi in un più alto e spirituale connubio. E tratto
dominante, qui come in genere nei suoi romanzi, è il segno
della eccezionalità sotto il quale si iscrivono le vicende e
i personaggi, sicché si è potuto individuare in
Daniele Cortis il prototipo del superuomo, sviluppato poi ampiamente
dal D'Annunzio (si veda E. Ghidetti, p. 2).
La rinuncia non volontaria, in questo caso, ma, come in Miranda,
determinata dalla morte, è ancora al centro del romanzo
successivo, Il mistero del poeta (uscito dapprima sulla Nuova
Antologia e quindi in volume, Milano 1888), in cui è
rievocato il suo legame con Ellen Starbuck, trasfigurato nell'unione
fra il poeta, voce narrante del romanzo, e la dolcissima Violet.
L'aspirazione del F. a rappresentare le virtù dell'amore
vissuto come strumento di nobilitazione spirituale, attraverso
l'unione mistica delle anime che esclude ogni carattere terrestre e
materiale, aveva trovato espressione in un discorso pronunciato al
Circolo filologico di Firenze il 18 marzo '87, Un'opinione di A.
Manzoni (Firenze 1887, poi in Discorsi, Milano 1898), nel quale
appunto il F. si proponeva di confutare l'affermazione manzoniana
che ci fosse anche troppo amore nel mondo perché valesse la
pena di trattarne nei libri; l'argomentazione addotta rimanda
esplicitamente a quel connubio amore-morte con cui il F. voleva
esprimere il senso della superiore spiritualità incarnata dai
protagonisti del Mistero del poeta "Il tuo amore è la mia
colonna di fuoco ... ; tu sei già nella mia mente quale sarai
un giorno, superiore alle debolezze mortali e penetrata di
divinità, potente e benefico spirito", 30 dic. 1887,
Frammenti di un quaderno di confessioni, in Gallarati Scotti, p.
187).
Secondo un'indicazione del Gallarati Scotti, il F. cominciò a
ideare nel 1885 il romanzo che è considerato il suo migliore,
Piccolo mondo antico, lavorandovi per il successivo decennio (fu
pubblicato nel 1895 a Milano). Un periodo che lo vide impegnato
nella vita pubblica, ricoprire numerose cariche in enti municipali e
religiosi (ibid., p. 163), tenere conferenze, commemorazioni,
discorsi (raccolti in Discorsi, 2 ed. accr., ibid. 1905; in Minime,
Milano 1901, che comprende anche liriche variamente pubblicate in
rivista negli anni precedenti, 2 ed. con aggiunte, ibid. 1908; e in
Utime, ibid. 1913) e scrivere ancora novelle, fiabe, racconti
(dapprima su riviste, poi, in parte, raccolti in Racconti brevi,
Roma 1894, rist. con ampl. col nuovo titolo Idillii spezzati -
Racconti brevi, Milano 1901), pezzi critici e giornalistici; ma che
lo vide intervenire soprattutto ripetutamente nel dibattito
accesissimo intorno al darwinismo e all'evoluzionismo, occupando una
posizione, almeno in Italia, originale e di un certo rilievo.
La prima uscita pubblica su questo tema risale al 1891, presso
l'Istituto veneto di scienze, lettere ed arti di Venezia, con la
già citata dissertazione sul tema Per un recente raffronto
delle teorie di s. Agostino e di Darwin circa la creazione, cui
seguì l'anno dopo Per la bellezza di un'idea, letta
all'Ateneo veneto (in Rassegna nazionale, XIV [1892]), quindi (1893)
L'origine dell'uomo e il sentimento religioso, letta alla
Società per l'istruzione della donna (in Rassegna nazionale,
XV [1893]); va aggiunto il discorso letto a Parigi nella salle des
Mathurins, Le grand poéte de l'avenir (1898, in Revue bleue,
s. 3, XXV [1898]) e, nello stesso anno, Il progresso in relazione
alla felicità, al Collegio romano di Roma (in Rassegna
nazionale, XX [1898]), Scienza e dolore al R. Ist. veneto di scienze
lettere ed arti (ibid.). Tutti questi testi furono poi riuniti in
Ascensioni umane, insieme a Pro libertate: lettera aperta al prof.
L. M. Billia (in Nuovo Risorgimento, IV [1893], 2). Attraverso
questi scritti si concretizza il tentativo fogazzariano di
conciliare la teoria evoluzionista, distinta dal darwinismo, con la
dottrina cattolica, secondo una prospettiva che, come ha mostrato P.
Rossi (Introd. alla riediz. di Ascensioni umane, Milano 1977),
apparteneva ad un'area alquanto estesa della cultura europea e
americana, impegnata ad elaborare una posizione intermedia tra
l'oscurantismo clericale che rifiutava pregiudizialmente ogni
ipotesi evoluzionista ed il materialismo darwinista che
implicitamente metteva in crisi qualunque concezione religiosa
sull'origine e lo sviluppo del mondo vivente.
Il F., muovendosi all'interno di questa tendenza conciliatrice,
andò elaborando un suo pensiero che, se manca indubbiamente
di organicità e di rigore, è tuttavia testimonianza di
una volontà di intervento attivo che non limitava il dovere
dello scrittore alla produzione letteraria e artistica, ma anzi ne
coglieva il valore più profondo nell'assunzione di
responsabilità ideologiche e pienamente culturali. L'idea di
un "evoluzionismo senza Darwin" (Rossi, p. 35) si concretizza nel F.
in una visione teleologicamente progressista, governata da quello
spiritualismo diffuso che gli fece attribuire "la fama di pioniere
della reazione spiritualistica al positivismo" (Nardi, 1929, p. 71)
e indusse M. Serao (conosciuta nel '93, in occasione della
conferenza su L'origine dell'uomo) a rivolgergli l'invito di
promuovere e diffondere "un senso più alto e più
nobile della vita interiore". La concezione del F. che "si limita in
realtà a sostituire un creazionismo evoluzionista al
tradizionale creazionismo fissista" (Rossi, p. 32), scaturiva
più che dalla riflessione e dalla ricerca intellettuale,
dalla suggestione, anche questa volta, di letture: prima di tutto di
A. Rosmini e poi di M. Blondel, di L. Laberthonnière e,
soprattutto, di J. Le Conte (La evoluzione e le sue relazioni col
pensiero religioso), a proposito del quale scriveva: "Le idee
sorgenti dal libro si svolgevano, si compievano rapide nella mia
mente, ed ecco, sul declinar della vita, una bellezza sensibile del
Vero superiore al sensi, del Vero puramente intellettuale, saliva e
si spiegava per la prima volta nell'anima mia"; dove va sottolineato
quel nesso bellezza-verità-morale-religione che il F.
considerava fondante per la propria dimensione intellettuale. Dei
resto domina ogni visione fogazzariana, anche su questo terreno, il
senso dell'ineffabile e del misterioso, come della rivelazione,
della fede. In sostanza il modo dì sentire e di vivere i
problemi teologici, ideologici e morali non è affatto
distinto e dissimile dal versante direttamente letterario: sono gli
stessi termini e riferimenti a operare.
Considerato all'interno di questo quadro, si comprende meglio come
Piccolo mondo antico possa essere considerato il suo romanzo
più riuscito; in quanto vi si amalgamano in modo più
equilibrato e oggettivato quelle componenti sparse per tutti i suoi
scritti, letterari e non, che, isolate e spesso esasperate di segno,
non sorreggono in altri casi una sufficiente elaborazione
strutturale e formale. Certo è che i due protagonisti, Franco
Maironi e la moglie Luisa, risultano di gran lunga i più
convincenti del panorama ritrattistico fogazzariano; e forse uno dei
motivi della pienezza del personaggio di Franco consiste nell'avere
qui il F. preso a modello non se stesso, e nell'aver proiettato
indietro la vicenda, in una stagione non direttamente vissuta da
lui, ma rievocata tutta dai libri e dai racconti familiari. Qui
anche la questione linguistica ed espressiva che aveva impegnata la
sua attenzione fin dal discorso sul romanzo del '72, trova, a
giudizio unanime della critica, una soluzione positiva e
convincente.
Nello stesso anno in cui era uscito il romanzo che doveva
consolidare la sua fama anche internazionale, subì la
gravissima perdita del figlio Mariano, morto di tifo; ma altri
avvenimenti vanno ricordati, soprattutto per l'influenza che
esercitarono sulla sua attività. Nel 1887 era morto il padre
(evento richiamato nell'episodio della morte del signor Marcello in
Leila); durante l'estate dello stesso anno aveva incontrato Iole
Moschini Biaggini, un'altra donna di cui subirà la grande
suggestione ("L'anima mia ha avuto oggi uno spasimo, un grido per la
felicità terrestre. Quanta ne potremmo avere anche senza aver
tutto. Ma no, bisogna rinunciare col cuore, slanciarsi al di
là della vita colla immaginazione", Frammenti da un quaderno
di confessioni, in Gallarati Scotti, p. 185), alla quale si
ispirò per il personaggio di Jeanne Dessalle di Piccolo mondo
moderno; l'anno successivo iniziò la corrispondenza con mons.
G. Bonomelli (durata quasi ininterrottamente fino al 1911), che gli
fu preziosa guida spirituale.
Nel 1896 fu designato senatore del Regno (ma solo quattro anni
più tardi, il 14 giugno. la nomina divenne effettiva); nel
1898 si reco per la prima volta a Parigi su invito di E. Rod e F.
Brunetière e l'anno seguente in Belgio. Nello stesso 1898
uscì il volume Poesie scelte, in cui aveva raccolto la sua
migliore produzione in versi. Intanto lavorava a una prosecuzione di
Piccolo mondo antico, nell'idea di una trilogia che si sarebbe
conclusa con Il santo (Milano 1905). Dopo un'anticipazione, apparsa
sul Bene di Milano (dicembre 1899), Piccolo mondo moderno fu
pubblicato in volume nel 1901 (ibid.).
"I contorni irreali dati dal tono di fiaba a Piccolo mondo antico
svaniscono in Piccolo mondo moderno e gli elementi dell'arte del F.
ritornano a mescolarsi in forma ibrida e anche caotica" (Piromalli,
1962, p. 3015). La linea su cui si muove, infatti, come anche il
successivo Il santo, lo collega piuttosto all'impianto di Daniele
Cortis, al procedere della vicenda narrata sul filo di una passione
amorosa vissuta dal debole e insicuro protagonista come continua
tentazione dei sensi, accanto a un impegno mondano e politico che
non basta a soddisfame le ansie.
Ancora una volta, dopo la parentesi di Piccolo mondo antico, si
tratta di un romanzo-confessione che, in quanto tale, secondo la
poetica fogazzariana, scivola sensibilmente verso il romanzo a tesi.
Piero Maironi, figlio di Franco e Luisa, è legato dal
matrimonio con la figlia dei suoi tutori, marchesi Scremin, caduta
subito dopo le nozze in una profonda follia; Piero è anche
sindaco della cittadina veneta (che allude a Vicenza) per il partito
clericale, con il quale però egli non condivide
sostanzialmente alcun tratto. Il nocciolo della storia consiste
nell'incontro di Piero con Jeanne Dessalle che - anch'essa
infelicemente sposata - lo coinvolge in un rapporto sentimentale che
lo turba profondamente, giacché risveglia la sua
sensualità in contrasto con l'aspirazione ad una
spiritualità ascetica.
L'oscillazione tra il desiderio della donna e il richiamo del dovere
e della religione (impersonata da don Giuseppe Flores in cui il F.
volle ritrarre il fratello del padre, don Giuseppe) si arresta negli
ultimi capitoli, quando Piero, ricondotto alla pienezza della fede
della moglie morente, per l'occasione rinsavita, riesce a sfuggire
al torbido legame in virtù del fatto che "la fortuna di Piero
fu di non aver mai amato veramente Jeanne Dessalle. Fra loro vi era
inconciliabile differenza di idee"; che è la rassicurante
conclusione con cui il F. tentava di riscattare il sospetto di
immoralità che la vicenda poteva suscitare, come puntualmente
fu sottolineato con grande scandalo all'uscita del romanzo. Fa da
cornice ai casi dei due protagonisti il consueto ritratto tra
ironico e partecipe della piccola comunità cittadina, con la
miriade di personaggi di contorno, ben allineati a rappresentare, in
alto e in basso, nel comico e nel "sublime", la stratificazione
sociale e culturale del mondo fogazzariano; nella cornice, di nuovo,
sono tratteggiati i paesaggi delle colline venete, le ville, i
chiostri, le chiese che sono lo sfondo perenne della fantasia e
della scrittura del F., mossa e realizzata su una percezione del
mondo naturale che è in perfetta sintonia con il mondo
interiore, dominati entrambi da quell'estetismo di pieno gusto fin
de siècle che riveste ogni azione e ogni descrizione; ed
è senza dubbio qui una delle ragioni del grande successo di
pubblico dei suoi romanzi, all'epoca.
Nei quattro anni che intercorrono tra questo romanzo e Il santo, il
F. approfondiva e allargava il suo interesse per il movimento
europeo di riforma della Chiesa e del cattolicesimo, entrando in
contatto con le opere e le personalità di spicco del
modernismo, cui fu spesso accomunato: da M. Blondel a L.
Laberthonnière, A. Loisy, G. Tyrrel, come poi da T. Gallarati
Scotti ad A. Casati. La partecipazione del F. a questo moto di
rinnovamento fu intensa e profonda, com'è testimoniato anche
dalle poesie religiose che andava scrivendo fino dagli anni
giovanili e che riflettono il suo percorso spirituale (a parte
quelle pubblicate nelle diverse raccolte già ricordate,
è stata riprodotta dal Nardi, nel vol. XI delle Opere
complete, la scelta di liriche che il F. andava facendo dal 1883,
con il titolo Il libro dell'amore immortale).
Sul terreno sempre dell'impegno morale e propagandistico, seppure
spostato in direzione più "popolare", si collocano i
tentativi di scrittura drammaturgica nei quali, per incitamento
dell'amico G. Giacosa, si cimentò e che si conclusero con
l'insuccesso totale. Si tratta di El garofolo rosso. Spunti
drammatici (su La Lettura, I [dic. 1901], rappr. il 9 febbr. 1902 al
teatro Manzoni di Milano), Il ritratto mascherato (rappr. 26 febbr.
1902 al teatro Goldoni di Venezia, pubbl. su La Lettura, II [marzo
1902]), Nadejde. Azione drammatica in due parti (Almanacco italiano,
Firenze 1903), tutte e tre raccolti sotto il titolo Scene (Milano
1903, che non aggiungono molto al profilo dello scrittore.
Quando comparve Il santo (Milano 1905), essendo nel frattempo
succeduto Pio X a Leone XIII su una linea rigidamente conservatrice,
lo scalpore che i romanzi del F. avevano sollevato si tramutò
in provvedimenti punitivi dell'autorità ecclesiastica: il
romanzo (come avverrà poi per Leila) fu proibito con decreto
del 4 apr. 1906 della congregazione dell'Indice. Il F. fece subito e
pubblicamente atto di sottomissione, pur ritenendo Il santo una
sorta di manifesto del rinnovamento religioso.
Il protagonista (per la figura il F. si ispirò al gesuita G.
Tyrrel), è ancora Piero Maironi, divenuto nel frattempo frate
col nome di Benedetto, che vive in un convento a Subiaco, dove
è attivo anche un cenacolo di riformatori, nei quali sono
trasparentemente ritratte le personalità di spicco del
movimento modernista. Nell'atmosfera di fervore religioso ricompare
Jeanne Dessalle, orinai libera dal vincolo matrimoniale, essendo nel
frattempo morto il marito; tra i due si riaccende la passione e
nell'anima di Piero riesplode il contrasto tra la vocazione mondana
e quella religiosa. Qui Jeanne, più di tutte le altre donne
fogazzariane e diversamente che in Piccolo mondo moderno, è
l'incarnazione della tentazione che induce a perdersi, ma anche a
mettersi alla prova, consentendo l'accesso, attraverso il pericolo,
a una superiore spiritualità. Piero resiste alla tentazione e
- mentre Jeanne scompare - inizia una vita di santità, al
servizio dei poveri, dei deboli, dei malati (che spesso guarisce),
in un'atmosfera spirituale intrisa della nuova religiosità,
osteggiata dalle gerarchie ecclesiastiche e dagli ambienti
clericali. Nell'incontro del frate con il papa, che rappresenta il
momento cruciale del romanzo, il F. ha voluto conciliare il
contrasto delle nuove idee con la funzione e la figura papale; il
pontefice si mostra infatti molto più aperto e sensibile del
suo apparato che continua a intrigare contro Piero,
contemporaneamente attaccato anche dal mondo politico e
istituzionale. Il finale vede i due protagonisti ritrovarsi ma in
una dimensione ormai tutta e solo spirituale: Piero morente è
assistito e soccorso da Jeanne finalmente conquistata dalla fede.
La ricchezza dei temi e degli ambienti ritratti dà conto
della volontà del F. di usare questo romanzo come luogo di
coagulo di tutte le sue idee religiose e morali; un'intenzione
simile nuoce alla fisionomia dei personaggi, ridotti troppo spesso a
funzioni di una tesi precostituita, privi di verosimiglianza e di
pienezza psicologica, tanto più in quanto immersi nel
consueto clima di morbido sensualismo che dovrebbe accentuare, per
contrasto, la nobiltà delle scelte spirituali.
Un segno indiretto ma non per questo meno significativo
dell'influenza profonda, sul terreno specificamente letterario,
esercitata sul F. dalla contemporanea narrativa naturalista e
verista, sta nell'aver legato i suoi ultimi quattro romanzi in una
sorta di ciclo, esplicito per i primi tre e più sfumato per
Leila (Milano 1910), ma ugualmente ben visibile. Il
personaggio-nesso è Massimo Alberti, un discepolo del santo,
che si innamora di Leila, in una storia che richiama molto spesso la
figura del santo, ma si svolge fondamentalmente in chiave di
commedia ("siamo in pieno teatro borghese tardo-ottocentesco",
Piromalli, 1962, p. 3014), dove torna il comico, le macchiette di
contorno, in contrappunto al tono lirico ed ispirato della vicenda
principale. Pensato esplicitamente per allontanarsi dal tema
centrale de Il santo ("La religione vi avrà parte e vi
ritornerà il nome di Benedetto, ma di modernismo non vi
sarà l'ombra, non vi sarà l'ombra di questioni
pericolose; di Benedetto si dirà che in argomenti teologici
ha potuto errare e che ammonito si sarebbe sottomesso; le più
belle figure del romanzo saranno cattolici all'antica; ma
sarà glorificata la carità e stimmatizzato il
fariseismo" (lettera a G. Bonomelli, in Gallarati Scotti, p. 491),
il romanzo fu accolto con molta freddezza dalla critica che vi volle
vedere, pure negli schieramenti ideologici diversi e opposti, una
sorta di ritrattazione, una mossa dettata unicamente da
opportunismo.
Ciò contribuì ad amareggiare gli ultimi mesi di vita
del F. che si spense il 7 marzo 1911 a Vicenza.
Aveva mantenuto fino alla fine il suo impegno pubblico con i
discorsi, le conferenze, le commemorazioni, gli interventi
giornalistici; soprattutto aveva continuato a partecipare al
dibattito vivissimo intorno al movimento riformatore cattolico,
assumendo di fatto un ruolo di guida spirituale anche nei confronti
delle proposizioni moderniste. Benché i suoi prodotti
letterari risultassero ormai sempre più marginali in una
temperie che vedeva trionfare D'Annunzio e un estetismo più
raffinato e meditato, accanto ad istanze letterarie e culturali
nuove, la sua figura rimase a rappresentare una zona di cultura
dichiaratamente di tendenza e consapevolmente provinciale che si era
espressa all'incrocio di forti movimenti di pensiero come anche di
ampi rinnovamenti di gusto letterario e artistico, tentando di
calare in quel contesto le istanze soggettive del suo modo di
sentire e di vivere la letteratura e la vita della cultura.
*
Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
Piccolo mondo antico è un romanzo scritto da Antonio
Fogazzaro nel 1895.
Generalmente considerato il suo capolavoro, è la quarta delle
opere scritte dall'autore; ad essa seguiranno altri tre romanzi che
rappresentano il seguito della vicenda: Piccolo mondo moderno, Il
santo, Leila.
Il racconto è diviso in tre parti, così suddivise:
* sei capitoli nella prima parte
* tredici capitoli nella seconda parte
* due capitoli nella terza parte.
Ambientazione
Il racconto è ambientato in Valsolda, una località in
provincia di Como, posta sulle sponde del lago di Lugano, un luogo
in cui Fogazzaro trascorse parte della sua vita. Molti passaggi del
romanzo sono quindi autobiografici, a cominciare dalla descrizione
della casa dello zio Piero ad Oria, che in realtà è
quella materna dello scrittore, per finire con quelle dei
personaggi, molti dei quali sono stati ispirati da figure veramente
esistite, non necessariamente in quel periodo.
Chiaro il periodo storico nel quale si sviluppa la vicenda,
cioè la seconda metà dell'Ottocento, sullo sfondo
della lotta dei patrioti del Lombardo-Veneto contro il dominio
austriaco. La vicenda prende piede nel 1850, quando non si sono
ancora spenti gli echi delle rivolte del 1848 e della loro
repressione, e si conclude nel febbraio 1859, alla vigilia della
seconda guerra di indipendenza che darà il via al compimento
dell'unità d'Italia.
Dai riferimenti temporali è possibile stabilire che la storia
si sviluppa in un arco temporale di circa dieci anni, dalla cena del
risotto e tartufi in casa della Marchesa alla morte dello zio Piero.
Vi sono però dei salti temporali; per esempio lo scrittore,
dopo aver narrato il matrimonio di Franco e Luisa, introduce la loro
figlia, Maria, che ha già tre anni.
Lo sfondo storico è sempre presente e si trovano quindi
notevoli contrasti fra liberali e "austriacanti", come in effetti
doveva essere nella realtà. D'altra parte anche il contesto
sociale è molto ben centrato nelle descrizioni dei
personaggi, dei loro pensieri e delle loro preoccupazioni.
Trama
Il romanzo si apre con la descrizione di una cena in casa della
Marchesa Orsola Maironi, durante la quale il nipote Franco mostra il
suo temperamento acceso, polemizzando con foga contro chi difende il
governo austriaco. Luisa Rigey è una popolana valsoldese che
abita a Castello. I due ragazzi si innamorano, ma la nonna di Franco
è contraria all'unione, a causa della condizione non nobile
di Luisa. Per questo minaccia il nipote di non lasciargli
l'eredità se deciderà di sposarla. Il ragazzo, di
animo forte, idealista (scrive poesie e musiche), reagisce ai
divieti della Marchesa con orgoglio: aiutato da alcuni uomini
fidati, tra cui lo zio Piero, impiegato del governo austriaco,
organizza un matrimonio in segreto, sotto la benedizione della madre
di Luisa, Teresa Rigey, ammalata e prossima alla morte.
Venuta a sapere del matrimonio, la nonna disereda il nipote.
Tuttavia il professor Gilardoni svela a Franco che non è vero
che suo nonno sia morto senza lasciare testamento: gli mostra
infatti una copia autentica del documento nel quale Franco è
nominato erede universale. La Marchesa, a suo tempo, aveva creduto
di distruggere tutte le copie ed è ignara dell'esistenza di
quest'ultima. Franco però non se la sente di intentare una
causa contro la potente nonna e prega il professore di distruggere
il testamento, senza rivelare l'accaduto a Luisa.
Il matrimonio nei primi tempi procede bene, nonostante le
difficoltà economiche: i ragazzi possono contare sull'aiuto
dello zio Piero, nella cui casa di vacanza vanno a vivere. Nel 1852
nasce loro una bambina, Maria, che sarà soprannominata
"Ombretta", perché così si chiama l'eroina di una
arietta d'opera (tratta da La pietra del paragone di Gioachino
Rossini) che lo zio le canta spesso.
Dopo una perquisizione della loro casa, Franco viene arrestato dalla
polizia austriaca, ma è subito rilasciato, in quanto si
è trattato di un'azione puramente intimidatoria. In effetti,
durante la perquisizione non si trova nulla di compromettente, se
non alcune monete del governo provvisorio di Lombardia (1849) e uno
scudo di Carlo Alberto, oltre al fodero di una sciabola del periodo
napoleonico. Tuttavia questo materiale è sufficiente per
un'incriminazione: su richiesta della nonna, Franco non subisce
conseguenze, mentre lo zio Piero viene licenziato dal governo in
quanto funzionario infedele all'Austria.
Il licenziamento dello zio causa un peggioramento delle condizioni
economiche: ciò è fonte di preoccupazioni tra gli
sposi, i quali ogni tanto si trovano in disaccordo in virtù
del loro carattere diverso: passionale, idealista e tendenzialmente
ottimista quello di Franco, più riflessivo e cupo quello di
Luisa, che è credente e fiduciosa nella giustizia divina
anche se sempre meno convinta della sua fede in Dio. Ella vorrebbe
che il marito si impegnasse maggiormente nel mettere in pratica le
proprie idee "liberali", mentre Franco ritiene che il suo dovere
primario sia quello di rimanere accanto alla famiglia.
Questi lievi contrasti sono destinati ad accrescersi allorché
il professor Gilardoni, che si reca dalla Marchesa mostrandole la
copia del testamento che non ha distrutto, contrariamente al volere
di Franco, svela a Luisa dell'esistenza di questo documento: Luisa
vorrebbe servirsi del testamento, mentre Franco è contrario,
ritenendolo disonorevole per la nonna.
Per mostrare a Luisa il suo attaccamento alla famiglia ma anche il
suo amore per l'Italia, Franco nel 1855 parte per Torino, dove trova
lavoro in un giornale ed entra in stretto contatto con gruppi di
patrioti. In autunno una tragedia colpisce duramente la coppia: la
figlioletta Maria "Ombretta" annega nel lago. La morte della bimba,
avvenuta quando Luisa non è in casa perché corsa ad
affrontare a muso duro la Marchesa, rischia di spezzare il legame
tra i due. Luisa si ritiene responsabile, appare fuori di sé,
sembra non riconoscere Franco, tornato precipitosamente da Torino.
Luisa non sembra più amarlo, presa solo dal ricordo della sua
Ombretta: si reca anche tre volte al giorno al cimitero, perde
definitivamente la fede in Dio e chiede al professor Gilardoni (che
nel frattempo si è sposato) di fare delle sedute spiritiche
per rievocare lo spirito della bimba.
Franco dal canto suo, benché molto addolorato, non comprende
appieno il mutismo della moglie, il distacco da lui e si prepara a
tornare a Torino, anche perché è ormai ricercato dalla
polizia austriaca. Nel frattempo la Marchesa, avendo sognato
Ombretta che la incolpa della propria morte e pentita per la tentata
distruzione del testamento, fa sapere al nipote di volerlo
risarcire. Ma Franco rifiuta ogni riconciliazione quando si accorge
che la nonna non è mossa da generosità verso lui, ma
dalla paura della dannazione eterna e dunque mira soprattutto a
salvare se stessa.
La lontananza tra Franco e Luisa dura vari anni, anche perché
Franco è braccato dalla polizia austriaca, in quanto
considerato un pericoloso patriota. I due si rivedono infine nel
febbraio 1859 all’Isola Bella, sul lago Maggiore quando Franco,
arruolato nell'esercito piemontese, si prepara a partire per la
guerra contro l'Austria (sarà la seconda guerra di
indipendenza, nella quale il Regno di Sardegna avrà come
alleata la Francia). Luisa però è stata a lungo
indecisa se incontrare il marito: dopo quasi quattro anni è
ancora sconvolta dalla morte della figlia e crede che nel suo cuore
non possa esistere spazio per l'amore. Ma lo zio le rimprovera il
suo atteggiamento assurdo e la sprona a pensare ad un'altra
Ombretta. Luisa, sebbene scandalizzata da queste parole, capisce che
è suo dovere andare da Franco. Anche lo zio, ormai malato,
partecipa all'incontro, volendo rivedere il nipote forse per
l'ultima volta.
Sul lago Maggiore, la freddezza di Luisa contrasta con l'amore di
Franco e il suo entusiasmo patriottico; la presenza dello zio,
inoltre, rende il ragazzo felice. Passeggiando, gli sposi rievocano
i bei momenti dell'inizio del loro amore e Franco riesce a fare
sentire alla moglie l'autenticità del suo sentimento. Luisa
allora, come tornata di colpo alla realtà, si rende conto di
amarlo ancora e di non poter essere fredda con un uomo che forse
presto morirà in battaglia (cosa che succederà, come
si scoprirà in Piccolo mondo moderno). I due passano la notte
assieme e al mattino si salutano: Franco parte per raggiungere il
suo reggimento, cantando con i suoi commilitoni, mentre Luisa,
commossa, sente cominciare in sé una nuova vita. Più
tardi lo zio, dopo aver assistito alla riconciliazione tra i due,
muore serenamente ammirando il paesaggio del lago Maggiore.