Arrigo VII
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Enrico VII di Lussemburgo (tedesco Heinrich; chiamato da Dante
Arrigo; Valenciennes, 1275 – Ponte d'Arbia, 24 agosto 1313) fu conte
di Lussemburgo, re di Germania dal 1303, re dei Romani e imperatore
del Sacro Romano Impero dal 1312 alla morte. Egli fu il primo
imperatore della Casa di Lussemburgo. Durante la sua breve carriera
rafforzò la causa imperiale in Italia, divisa dalle lotte
partigiane tra le fazioni guelfa e ghibellina, e ispirò i
componimenti di lode di Dino Compagni e Dante Alighieri. Tuttavia,
la sua morte prematura impedì il compimento del lavoro della
sua vita.
Biografia
Dalla Contea all'Impero
I sette principi elettori eleggono Enrico imperatore. Codex Balduini
Trevirensis, 1340, Archivio di Stato di Coblenza, parte 1 C No. 1
fol. 3b
Enrico, figlio del conte Enrico VI di Lussemburgo, morto nel 1288
nella battaglia di Worringen, e di Beatrice d'Avesnes, fu educato,
per influenza della madre francese, alla corte di Parigi.
Divenne signore di proprietà relativamente piccole in una
zona periferica e prevalentemente di lingua francese del Sacro
Romano Impero. Era sintomatico della debolezza dell'Impero il fatto
che, durante il suo governo come Conte di Lussemburgo,
accettò di diventare un vassallo francese, cercando la
protezione di Filippo il Bello (1294). Governò in modo
efficace, soprattutto nel mantenimento della pace in dispute feudali
locali e cercò di attuare una politica indipendente e di
espansione del territorio: nel 1292 aveva sposato Margherita di
Brabante, dalla quale avrebbe avuto tre figli, ma anche l'inimicizia
tra le due case.
Enrico venne coinvolto nella politica del Sacro Romano Impero con
l'assassinio di re Alberto I del 1º maggio 1308. Quasi
immediatamente, il re Filippo il Bello di Francia cominciò a
cercare ostinatamente sostegno per suo fratello, Carlo di Valois,
nella elezione a futuro re dei Romani. Convinto di avere l'appoggio
del papa francese Clemente V, il suo progetto di portare l'impero
nell'orbita della casa reale francese sembrava favorevole, e
cominciò a diffondere generosamente denaro francese nella
speranza di corrompere gli elettori tedeschi. Anche se Carlo di
Valois aveva l'appoggio di Enrico II, arcivescovo di Colonia,
sostenitore francese, molti non erano desiderosi di vedere una
espansione del potere francese, e meno di tutti Clemente V. Il
principale rivale di Carlo sembrava essere Rodolfo, conte palatino
di Baviera. Considerate le sue origini, sebbene fosse un vassallo di
Filippo il Bello, Enrico non era vincolato da legami nazionali, e
questo era un aspetto della sua idoneità come candidato di
compromesso tra gli elettori che erano infelici sia con Carlo che
con Rodolfo. Il fratello di Enrico, Baldovino, arcivescovo di
Treviri, conquistò un certo numero di elettori, tra cui
Enrico di Colonia, in cambio di alcune concessioni sostanziali. Di
conseguenza, Enrico abilmente negoziò la sua ascesa alla
corona, fu eletto con sei voti a Francoforte il 27 novembre 1308 e
successivamente fu incoronato ad Aquisgrana il 6 gennaio 1309.
Nel luglio 1309, papa Clemente V, dalla sua nuova sede in Avignone,
confermò l'elezione di Enrico e inizialmente concordò
personalmente di incoronarlo imperatore nella Candelora del 1312,
essendo stato il titolo vacante dopo la morte di Federico II. Enrico
in cambio, giurò protezione al Papa, e accettò di
difendere i diritti della Santa sede, di non attaccare i privilegi
delle città dello Stato Pontificio e di andare in crociata,
una volta incoronato imperatore. Il 15 agosto 1309, Enrico VII
annunciò la sua intenzione di recarsi a Roma, inviò i
suoi ambasciatori in Italia per preparare il suo arrivo, e quindi di
conseguenza le sue truppe sarebbero state pronte a partire entro il
10 ottobre 1310. Ma Enrico, appena incoronato re, ebbe problemi
locali da affrontare prima di poter ottenere la corona imperiale.
Gli fu chiesto di intervenire in Boemia da una parte della
nobiltà boema e da alcuni ecclesiastici importanti e
influenti, infelici del regime di Enrico di Carinzia: fu convinto a
sposare suo figlio Giovanni, conte di Lussemburgo, a Elisabetta, la
figlia di Venceslao II e così legittimare, a dispetto degli
Asburgo, la sua pretesa alla corona boema. Prima di lasciare la
Germania, cercò quindi di migliorare le relazioni con gli
Asburgo, confermandoli nei loro feudi imperiali (ottobre 1309); in
cambio, Leopoldo d'Asburgo accettò di accompagnare Enrico
nella sua spedizione italiana e di fornire anche delle truppe.
Enrico riteneva necessario ottenere l'incoronazione imperiale da
parte del papa, sia a causa delle umili origini della sua casa, sia
a causa delle concessioni che era stato costretto a fare per
ottenere la corona tedesca. Egli inoltre considerava le corone
d'Italia e di Arles, come un necessario contrappeso alle ambizioni
del re di Francia. Per garantire il successo della sua spedizione
italiana, Enrico entrò in trattative con Roberto, re di
Napoli a metà del 1310, con la intento di sposare sua figlia,
Beatrice, al figlio di Roberto, Carlo, Duca di Calabria: si sperava
così di ridurre in Italia le tensioni che contrapponevano gli
anti-imperiali Guelfi, che guardavano al Re di Napoli per la
leadership, e i pro-imperiali ghibellini. I negoziati, però,
furono interrotti a causa di eccessive richieste monetarie di
Roberto e per l'interferenza del re di Francia, Filippo, che non
gradiva una tale alleanza.
La discesa in Italia
Mentre questi negoziati erano in corso, Enrico iniziò la sua
discesa nel nord Italia nel mese di ottobre 1310, mentre suo figlio
maggiore Giovanni rimaneva a Praga come vicario imperiale. Nel corso
della traversata delle Alpi e della pianura lombarda, nobili e
prelati di entrambe le fazioni guelfe e ghibelline si affrettarono a
salutarlo, mentre Dante diffuse una lettera pregna di ottimismo
indirizzata ai governanti e al popolo di Firenze. Decenni di guerra
e di lotte aveva visto in Italia la nascita di decine di
città-stato indipendenti, ognuna nominalmente guelfa o
ghibellina, sostenuta dalla nobiltà urbana a sostegno di un
sovrano potente (come Milano), o dalle emergenti classi mercantili
incorporate in uno stati repubblicano (come Firenze). All'inizio non
dimostrò alcun favoritismo per nessuna delle parti, sperando
che la sua magnanimità sarebbe stata ricambiata da entrambe
le parti; tuttavia, insistette sul fatto che i governanti attuali di
tutta le città-stato italiane avevano usurpato i loro poteri,
che le città dovevano tornare sotto il controllo immediato
dell'Impero, e che gli esuli dovevano essere richiamati. Infine
costrinse le città a rispettare le sue richieste. Anche se
Enrico ricompensò la loro sottomissione con titoli e feudi,
questo atteggiamento causò una forte risentimento che crebbe
nel corso del tempo. Questa era la situazione che il re dovette
affrontare quando arrivò a Torino nel novembre del 1310, alla
testa di 5.000 soldati, di cui 500 cavalieri.
Dopo un breve soggiorno ad Asti, dove intervenne negli affari
politici della città con grande costernazione dei guelfi
italiani, Enrico procedette verso Milano, dove fu incoronato re
d'Italia con la Corona Ferrea il 6 gennaio 1311. I Guelfi toscani si
rifiutarono di partecipare alla cerimonia e così ebbe inizio
la preparazione all'opposizione ai sogni imperiali di Enrico. Come
parte del suo programma di riabilitazione politica, Enrico
richiamò dall'esilio i Visconti, i governanti estromessi da
Milano. Guido della Torre, che aveva cacciato il Visconti da Milano,
si oppose e organizzò contro l'imperatore una rivolta che fu
spietatamente repressa, mentre i Visconti riacquistavano il potere e
Matteo Visconti veniva nominato vicario imperiale di Milano, e suo
cognato, Amedeo di Savoia, vicario generale in Lombardia. Queste
misure, oltre a un prelievo di massa imposto alle città
italiane, portò le città guelfe a rivoltarsi contro
Enrico e determinò un'ulteriore resistenza quando il sovrano
cercò di far valere i diritti imperiali su quelle che erano
diventate terre comunali e provò a sostituire i regolamenti
comunali con le leggi imperiali. Tuttavia, Enrico riuscì a
ripristinare una parvenza di potere imperiale in alcune parti del
nord Italia, in città come Parma, Lodi, Verona e Padova.
Allo stesso tempo ogni resistenza dei comuni del nord Italia veniva
soppressa senza pietà. La prima città a subire l'ira
di Enrico fu Cremona, dove la famiglia Torriani e i loro sostenitori
si erano rifugiati: cadde il 26 aprile 1311 e le mura della
città furono rase al suolo. Enrico poi impiegò quattro
mesi di tempo nell'estate 1311 nell'assedio di Brescia, che gli fece
ritardare il suo viaggio a Roma. L'opinione pubblica cominciò
a rivoltarsi contro Enrico; la stessa Firenze si alleò con le
comunità guelfe di Lucca, Siena e Bologna e si impegnò
in una guerra di propaganda contro il re. Questo comportò
anche che papa Clemente V, sotto la pressione crescente da re
Filippo di Francia, comincia a prendere le distanze da Enrico e ad
abbracciare la causa dei guelfi italiani che si erano rivolti al
papato per ottenere sostegno.
Nonostante la peste e le diserzioni, Enrico riuscì a ottenere
la resa di Brescia nel settembre 1311, poi passò per Pavia
prima di arrivare a Genova, dove di nuovo cercò di mediare
tra le fazioni in lotta all'interno della città. Durante il
suo soggiorno nella città, sua moglie Margherita di Brabante
morì. Inoltre, mentre era a Genova scoprì che il re
Roberto di Napoli aveva deciso di opporsi alla diffusione del potere
imperiale nella penisola italiana e aveva ripreso la sua
tradizionale posizione di capo della parte guelfa, che vedeva
scierate Firenze, Lucca, Siena e Perugia. Enrico provò ad
intimidire Roberto ordinandogli di presenziare alla sua
incoronazione imperiale e di giurare fedeltà per i suoi feudi
imperiali in Piemonte e Provenza. Mentre gran parte della Lombardia
era in aperta ribellione contro Enrico, con rivolte tra il dicembre
1311 e il gennaio 1312, in Romagna il re Roberto rafforzava la sua
posizione. Tuttavia, i sostenitori imperiali riuscivano a occupare
Vicenza e ricevevano un'ambasciata da Venezia, che offriva
l'amicizia della loro città. Dopo aver trascorso due mesi a
Genova, il sovrano continuò in nave verso Pisa, dove fu
ricevuto con entusiasmo dagli abitanti, ghibellini e nemici
tradizionali di Firenze. Qui ancora una volta iniziò a
negoziare con Roberto di Napoli, prima di decidere di entrare in
un'alleanza con Federico III di Sicilia, per rafforzare la sua
posizione e mettere pressione sul re angioino. Poi lasciò
Pisa per andare a Roma per essere incoronato imperatore, ma sulla
sua strada dovette scoprire che Clemente V non aveva intenzione di
incoronarlo lì.
La guerra contro Firenze e Napoli
Enrico si avvicinò alle mura di Roma, mentre la città
era in uno stato di confusione: la famiglia Orsini aveva abbracciato
la causa di Roberto di Napoli, mentre i Colonna erano schierati con
gli imperiali.
Il 7 maggio, le truppe tedesche si fecero strada attraverso il Ponte
Milvio ed entrarono in Roma, ma fu impossibile scacciare le truppe
angioine dalla roccaforte del Vaticano. La famiglia Colonna
controllava stabilmente la zona attorno alla basilica di San
Giovanni in Laterano, Santa Maria Maggiore ed il Colosseo; Enrico fu
costretto a svolgere la sua incoronazione il 29 giugno 1312 presso
il Laterano. La cerimonia fu effettuata da tre cardinali ghibellini
che si erano uniti a Enrico lungo il suo cammino attraverso
l'Italia. Roberto di Napoli, nel frattempo, aumentava le sue
richieste all'imperatore: voleva che suo figlio Carlo fosse nominato
vicario imperiale di Toscana e che Enrico partisse da Roma entro
quattro giorni dalla sua incoronazione. Ma Enrico rinunciava a
impegnarsi, come papa Clemente V gli aveva chiesto, di cercare una
tregua con Roberto di Napoli e anzi minacciava di attaccare il Regno
di Napoli, dopo aver concluso un trattato con il rivale di Roberto
al trono di Sicilia, Federico d'Aragona.
Ma il caos nella città di Roma costrinse Enrico ad
allontanarsi e, seguendo il consiglio dei ghibellini toscani, si
recò ad Arezzo. Qui, nel settembre 1312, emise una sentenza
contro Roberto di Napoli, in quanto vassallo ribelle, mentre da
Carpentras, vicino ad Avignone, Clemente V non era disposto a
sostenere pienamente l'imperatore. Ma prima che Enrico potesse
organizzarsi per attaccare Roberto di Napoli, dovette avere a che
fare con i fiorentini. A metà settembre, si avvicinò
molto rapidamente alla città toscana: era ovvio che la
milizia della città e la cavalleria guelfa non potevano
competere con l'esercito imperiale in una battaglia aperta. Siena,
Bologna, Lucca e altre città inviarono uomini per aiutare
nella difesa delle mura. Così ebbe inizio l'assedio di
Firenze: l'imperatore disponeva di circa 15.000 fanti e 2.000
cavalieri, contro 64.000 difensori. Firenze fu in grado di mantenere
aperta ogni porta, tranne quella che dalla parte dell'imperatore
assediante, e mantenne tutte le sue rotte commerciali funzionanti.
Per sei settimane Enrico batté le mura di Firenze e alla fine
fu costretto ad abbandonare l'assedio. Tuttavia, entro la fine del
1312, aveva soggiogato gran parte della Toscana e avevano trattato i
suoi nemici sconfitti con grande indulgenza.
Nel marzo del 1313, l'imperatore tornò nella sua roccaforte
di Pisa, e da qui accusò formalmente di tradimento Roberto di
Napoli che finalmente aveva deciso di accettare la carica di
capitano della lega guelfa. Mentre indugiava a Pisa, in attesa di
rinforzi provenienti dalla Germania, attaccò Lucca, un nemico
tradizionale di Pisa. Dopo aver ottenuto più denaro che
poteva da Pisa (circa 2 milioni di fiorini), Enrico iniziò la
sua campagna contro Roberto di Napoli l'8 agosto 1313. I suoi
alleati italiani erano restii a unirsi a lui e così il suo
esercito era composto di circa 4.000 cavalieri, mentre una flotta
era pronta ad attaccare il regno di Napoli dal mare.
Il suo primo obiettivo fu la città guelfa di Siena, che cinse
d'assedio, ma nel giro di una settimana fu colpito dalla malaria.
Mentre si stava rapidamente indebolendo, lasciò Siena il 22
agosto e si rifugiò nella piccola città di Serravalle,
non lontano da Ponte d'Arbia, presso Siena, dove morì il 24
agosto 1313. La leggenda vuole che fosse stato avvelenato da un
sacerdote tramite un'ostia durante il rito della comunione presso il
convento di Buonconvento. Nel punto esatto in cui morì
è stata eretta una piccola cappella, situata sul percorso
della vecchia via Cassia. Quando il tracciato fu cambiato, la chiesa
venne abbattuta e spostata sul ciglio della strada, dove è
ancora oggi visibile.
Il suo corpo fu portato a Pisa. Enrico non aveva nemmeno 40 anni
quando morì e le speranze per un effettivo potere imperiale
in Italia, morì con lui.