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(al secolo Giacomo della Chiesa). Papa (Genova 1854-Roma 1922).
Avvocato (1875), sacerdote (1878), sostituto alla segreteria di Stato
(1901), arcivescovo di Bologna (1907-14) e cardinale (1914), venne
eletto papa nello stesso anno. Fu il papa della pace e di essa fece il
motivo fondamentale della sua vasta attività pastorale, facendo
echeggiare il suo paterno invito ancora alla vigilia del conflitto
(“Tutto è salvato con la pace, tutto è perduto con la guerra”) e
prestandosi con sollecitudine ad alleviare tante sventure quando il suo
appello alla pace rimase inascoltato. Intervenne infatti personalmente
e tramite l'Opera dei prigionieri (istituzione da lui diretta), a
favore dei prigionieri di guerra, dei detenuti politici, delle
popolazioni invase.
A tutta questa immensa opera si aggiungeva l'intensa attività
diplomatica volta a far “cessare l'inutile strage”. Dopo la guerra la
carità di questo papa raggiunse ancora profughi, affamati e bisognosi
di gran parte d'Europa.
Il frutto di quest'opera fu palese nell'alto credito che la Santa
Sede seppe riacquistare presso i diversi Stati (durante il pontificato
di Benedetto XV furono raddoppiate le rappresentanze diplomatiche in
Vaticano), ma soprattutto presso le popolazioni, che avevano sentito il
calore spirituale della carità del papa.
Intensa fu pure la sua opera per la riunione delle Chiese d'Oriente
(istituzione della congregazione per le Chiese orientali), per
l'espansione missionaria (enciclica Maximum illud del 1919), per
l'organizzazione dei seminari.
Con la costituzione apostolica Providentissima Mater,
Benedetto XV promulgò il codice di diritto canonico (1917); mantenne la
condanna del modernismo, ma ne attenuò i rigori, fu incline alla
soluzione della Questione romana (colloqui Orlando-Ceretti, 1919),
diede la sua approvazione alla fondazione del Partito Popolare Italiano
(1919), celebrò numerose canonizzazioni, in particolare quella di Santa
Giovanna d'Arco, che si rivelò anche un saggio atto politico,
permettendo la ripresa delle relazioni tra la Santa Sede e il governo
francese.
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Enciclopedia dei Papi
di Gabriele De Rosa
Giacomo Della Chiesa nacque a Genova il 21 novembre 1854 dal
marchese Giuseppe, di antica famiglia originaria dai duchi di
Spoleto, e da Giovanna Migliorati, discendente di un casato
nobiliare che aveva dato alla Chiesa il papa Innocenzo VII.
Frequentò il ginnasio nell'Istituto Danovaro e Giusso, presso
cui ottenne la licenza. Entrò, quindi, come esterno al
seminario arcivescovile di Genova, dove studiò per il liceo.
Il Della Chiesa rivelò la sua vocazione allo stato
ecclesiastico a un prozio, il cappuccino Giacomo da Genova, figlio
del marchese Antonio Raggi, di profondo spirito francescano. Ancora
universitario, partecipò alle prime attività
dell'Azione Cattolica. Conseguita la laurea in legge, entrò
il 16 novembre 1875 nel collegio Capranica di Roma, di cui era
allora rettore monsignor Francesco Vinciguerra. Seguì i corsi
di teologia alla Gregoriana, dove ebbe come maestri il padre Camillo
Mazzella e il padre Antonio Ballerini. Ricevette gli ordini sacri il
21 dicembre 1878. Passò, quindi, all'Accademia dei Nobili
Ecclesiastici, presso cui si laureò nel 1880. Nel gennaio del
1881 conobbe Mariano Rampolla del Tindaro, allora segretario della
Congregazione degli Affari Straordinari, che più tardi lo
volle suo segretario particolare in Spagna, dove era stato mandato
come nunzio da Leone XIII.
Mariano Rampolla fu l'intelligente interprete e realizzatore di
quella politica di Leone XIII mirante a restituire alla Santa Sede
una posizione di prestigio e di autorevolezza mondiale, dopo gli
anni di isolamento del pontificato di Pio IX. Egli preparò il
terreno favorevole all'offerta di arbitrato avanzata da Bismarck a
Leone XIII per comporre la vertenza tra la Germania e la Spagna,
sorta in seguito all'occupazione da parte tedesca delle isole
Caroline.
Nel Concistoro del 14 marzo 1887 Rampolla fu elevato alla porpora e
due mesi dopo nominato segretario di Stato. Il Della Chiesa divenne
minutante alla Segreteria di Stato: qui, anche assolvendo a compiti
modesti, ebbe modo di seguire da vicino l'attenta e abile scuola
diplomatica del Rampolla, sempre ispirata al grande disegno leoniano
di restaurazione mondiale dell'autorità della Santa Sede.
Il Della Chiesa a poco a poco divenne una delle figure più
note in Vaticano, a contatto con ecclesiastici, con diplomatici, con
giornalisti di tutto il mondo, dispiegando presto sensibilità
giuridica e storica, maturità di giudizio politico e finezza
diplomatica. Uomo anche di grande pietà, come attestò
il padre Ehrle, il grande erudito, prefetto della Biblioteca
Vaticana: "Egli era uno zelante e attivo membro dell'Associazione
dei sacerdoti che nelle lunghe e quiete notti consolano nelle ore di
adorazione il Salvatore nel SS. Sacramento. Quando veniva il suo
turno, allora si affrettava di sera tardi alla chiesa, dopo il lungo
lavoro della Segreteria di stato, faceva per alcune ore la sua
adorazione: poco dopo la mezzanotte celebrava la santa Messa: dopo
di che un brevissimo riposo gli bastava per poter poi alla solita
ora entrare primo alla Segreteria" (F. Ehrle, p. 215).
Il 23 aprile 1901 il Della Chiesa fu promosso sostituto alla
Segreteria di Stato. Scomparso Leone XIII, fu chiamato da Pio X a
succedere al cardinale Svampa come arcivescovo di Bologna. Il 25
maggio 1914 fu compreso da Pio X tra i cardinali del suo ultimo
Concistoro. A successore di Pio X, fra il 31 agosto e il 3
settembre, oramai nel tragico infuriare del conflitto europeo, i
cardinali, riuniti in conclave, elessero papa l'arcivescovo di
Bologna, cardinale Giacomo Della Chiesa, l'allievo e amico fedele
del Rampolla, che prese il nome di Benedetto XV in omaggio al
predecessore nella cattedra di S. Petronio e di S. Pietro, Prospero
Lambertini. A segretario di Stato il nuovo papa chiamò il
cardinale Domenico Ferrata e, dopo la morte di questo, il cardinale
Pietro Gasparri, l'autore del Codex iuris canonici, pubblicato nel
1917, opera egregia per equilibrio e limpidezza giuridica.
Discepolo anche il Gasparri di Leone XIII, giurista solido, fornito
di un'eccezionale capacità nel maneggio degli affari
diplomatici più complessi, ricco di senso realistico e di
concretezza, fu, insieme col cardinale Bonaventura Cerretti, il
più valido collaboratore di Benedetto XV. C'è chi
ritiene il Gasparri diplomatico della stoffa e dell'ingegno di un
Consalvi, altri lo definì il Giolitti della Chiesa. Di lui
Giuseppe De Luca scrisse acutamente: "La sua politica, se è
lecito un'impressione di profano, è l'ultima politica europea
di tipo tra veneziano e inglese, ispirata cioè dai fatti
più che dalle idee, dal diritto più che dalla
cosiddetta cultura" (Pietro Gasparri nel centenario della nascita,
"L'Osservatore Romano", 19 novembre 1952).
L'atteggiamento che B. assunse e mantenne nel corso del conflitto
mondiale, e che fu origine di tante polemiche, è già
chiaramente delineato nell'enciclica Ad Beatissimi del 1° novembre 1914.
Vera causa della "disastrosissima guerra" è per il papa la
scomparsa dagli ordinamenti statali delle norme e delle pratiche
della saggezza cristiana, "che sole guarentivano la quiete e la
stabilità delle istituzioni". I mali della società,
secondo B., erano: "la mancanza di mutuo amore fra gli uomini; il
disprezzo dell'autorità; i beni materiali fatti unico
obbiettivo dell'attività dell'uomo, quasi non ci fossero
altri beni, e molto migliori da raggiungere". Nell'enciclica si
condanna l'egoismo nazionalistico, l'odio di razza, la lotta di
classe. B. non propende per nessuna delle parti belligeranti, ma sin
dagli inizi del suo pontificato si impegna a denunciare ai capi
delle potenze belligeranti e ai popoli le cause ideologiche comuni
del conflitto, insistendo in maniera particolare su quell'elemento
della scristianizzazione della società e del rovesciamento
dei fini dell'attività dell'uomo nella pura pratica empirica
del soddisfacimento personale, contro cui aveva già fatto
sentire la sua voce Leone XIII. Al tempo stesso l'atteggiamento
assunto da B. è ormai al di fuori di quella mentalità
romantica tradizionalista, che aveva caratterizzato per lungo tempo
la vicenda del movimento cattolico papale nel secolo precedente,
secondo cui altro riparo ai mali non v'era se non nel ritorno alle
società preborghesi e alla restaurazione del principio divino
dell'autorità.
Non mancarono nemmeno allora in Italia i cattolici che ripetevano i
vecchi temi cari all'intransigentismo cattolico: difesa dell'Austria
come "baluardo all'irrompere dei nemici di Dio contro l'Europa
cristiana", la guerra come flagello scaraventato da Dio "ad
corripiendos homines", "la ribellione della società a Dio"
come causa ultima del conflitto, il conflitto come provocazione
della massoneria per cercare "di sbarazzarsi di quei regnanti" che
erano ancora "affezionati alla fede cattolica". Ma si trattava delle
interpretazioni di una minoranza, che dalla fine del pontificato di
Leone XIII in poi si era fatta sempre più sottile e che
mantenne qualche vivacità polemica sino all'intervento
dell'Italia in guerra. In genere i cattolici in Italia aderirono
alla neutralità sostenendola anche con fervore, e
allineandosi all'atteggiamento della Santa Sede di denuncia delle
origini ideologiche comuni del conflitto. Ma pure concordando con i
moniti dell'enciclica Ad Beatissimi i cattolici dettero un peso
diverso alla difesa della neutralità.
Vi furono coloro che si dichiararono neutralisti ad oltranza, come
gli "intransigenti" e i seguaci di Guido Miglioli, sia pure con
valutazioni diverse; vi furono i "neutralisti" che appoggiarono il
ministero Salandra e che si possono definire filogovernativi e
patriottici; vi fu l'Unione Popolare, ligia al messaggio di pace di
B., pronta a invitare i cattolici a compiere il loro dovere se
l'Italia fosse intervenuta nel conflitto, anche se non fu disposta
ad assumere responsabilità per l'intervento. Non mancarono le
posizioni filotripliciste anche tra le gerarchie ecclesiastiche.
Erano queste posizioni dovute alla passione, alla particolare
visione che ebbero certi uomini di Chiesa, laici e non laici, della
guerra e degli interessi della Santa Sede; ma, come si desumeva
dalle encicliche di B. e dalle messe a punto del cardinale Gasparri,
tali posizioni erano superate dalla concreta necessità
dell'istituzione ecclesiastica di assumere un atteggiamento chiaro e
realistico, attorno al quale i cattolici di tutto il mondo,
italiani, francesi, tedeschi e inglesi, non potessero nutrire dubbi.
Pertanto, l'atteggiamento di B. non avrebbe potuto essere
qualificato secondo quell'ideologia clericale che si sviluppò
in Italia nelle particolari contingenze imposte dalla questione
romana e dalla polemica ultramontana e intransigente avversa allo
Stato unitario. In tale senso la dichiarazione del cardinale
Gasparri del 28 giugno 1915 tagliava corto con le formulazioni
più gravi della politica tradizionale protestataria, la quale
aveva inclinato a fare della questione romana una questione
internazionale, una specie di ipoteca accesa dal concerto delle
potenze europee sull'unità italiana: la Santa Sede aspettava
"la sistemazione conveniente della situazione non dalle armi
straniere ma dal trionfo di quei sentimenti di giustizia, che augura
si diffondano sempre più nel popolo italiano, in
conformità del suo verace interesse".
Anche l'atteggiamento dei vescovi in Italia, pure mantenendosi
conforme in linea di massima alla condanna della guerra e delle
origini ideologiche di questa contenuta nell'enciclica di B.,
presenta sfumature assai interessanti da regione a regione.
Indubbiamente mancano le posizioni estreme che potevano riscontrarsi
tra gli "intransigenti" dell'Unità cattolica, decisamente
filoaustriacanti, e i clerico-nazionalisti. In prevalenza i vescovi
sono per la neutralità, pochi gli interventisti come
monsignor Carmelo Pujia, arcivescovo di S. Severina, o come
monsignor Alfonso Maria Andreoli, vescovo di Recanati. Ma
l'interventismo di questi vescovi è nazionalistico (gli "alti
destini" dell'Italia, il raggiungimento dei "sacri confini", "la
rivendicazione delle legittime aspirazioni della patria nostra",
ecc.) senza essere necessariamente e violentemente antiaustriaco.
Insomma, confondendo il loro linguaggio con quello del nazionalismo
moderato di Salandra, questi vescovi finirono per rovesciare
l'impostazione neotomistica sul problema della guerra nazionale, che
era stata già difesa da padre Luigi Taparelli contro Gioberti
nella nota polemica sulla nazionalità. Ma l'atteggiamento
della grande maggioranza dei vescovi, come l'arcivescovo Giorgio
Gusmini, successo a Giacomo Della Chiesa nella cattedra di S.
Petronio, non si discostò in sostanza da quello dell'Unione
Popolare, che era il nucleo centrale dell'Azione Cattolica di allora
e che aveva alla sua testa il conte Giuseppe Dalla Torre. Essi
difatti esortarono i cattolici alla obbedienza alle leggi,
collaborarono con le autorità governative locali nel
fronteggiare le esigenze e le difficoltà della vita
cittadina, dettero efficace contributo alle opere assistenziali
connesse con lo stato di belligeranza, fungendo da tramite fra lo
Stato e le popolazioni specialmente contadine (A. Monticone, I
vescovi italiani e la prima guerra mondiale, in Benedetto XV, i
cattolici e la prima guerra mondiale, pp. 627-59). In breve, senza
indulgere a forme di patriottismo nazionalistico e mantenendo ferma
la condanna della guerra di B., i vescovi per lo più non si
stancarono di invitare i cittadini alla obbedienza fiduciosa
all'autorità. Decisamente più vicina alla scuola
taparelliana e neotomistica nella questione della guerra fu, invece,
la posizione di vescovi come monsignor Nicola Monterisi, vescovo di
Monopoli, tra le figure più belle e colte dell'episcopato
meridionale, che da giovane aveva sostenuto tenaci battaglie locali
in nome della Democrazia Cristiana. Particolare considerazione
merita l'atteggiamento del vescovo di Rossano e poi di Taranto, nel
1917, monsignor Orazio Mazzella: egli ammetteva il principio della
guerra giusta per violazione di un diritto certo, di cui non si
è potuto ottenere riparazione in modo pacifico. Quindi la
guerra dell'Italia non sarebbe stata legittimata da spirito
espansionistico, ma dalla necessità di una difesa contro la
volontà aggressiva degli Imperi centrali.
L'azione di B. non si limitò al piano dottrinale della
condanna della guerra come mezzo per la soluzione dei contrasti tra
gli Stati, ma si rivolse anche al campo dell'assistenza per
alleviare le sofferenze dei feriti, per aiutare le popolazioni
colpite dalle devastazioni e i prigionieri di guerra.
Numerose le sue iniziative, a cominciare dalla proposta della tregua
di Natale 1914, che non fu accolta e che dette luogo ad un altro dei
suoi accorati appelli in occasione della risposta agli auguri
natalizi del Sacro Collegio: "Deh! cadano al suolo le armi
fratricide! Cadano alfine queste armi ormai troppo macchiate di
sangue [...] e le mani di coloro che han dovuto impugnarle tornino
ai lavori dell'industria e del commercio, tornino alle opere della
civiltà e della pace". Imponente l'organizzazione di
assistenza che la Santa Sede riuscì a realizzare nei quattro
anni del conflitto. Anzitutto lo scambio dei prigionieri di guerra
inabili ai servizi militari, in seguito a trattative e proposte
intercorse tra i governi delle potenze in lotta; lo scambio dei
detenuti civili; la ospitalizzazione in Svizzera di feriti e di
malati di tutti i paesi belligeranti. La trattativa tra la Santa
Sede e Berna fu condotta da Carlo Santucci, accreditato per questa
particolare missione dalla Segreteria di Stato presso il presidente
della Repubblica svizzera. Va ancora ricordata l'opera per
l'ospitalizzazione nella Svizzera dei prigionieri padri di quattro
figli ed in prigionia da diciotto mesi, per il rimpatrio senza
scambio dei tubercolotici prigionieri; l'azione dispiegata per i
soccorsi materiali alle popolazioni più colpite, da quelle
del Belgio a quelle polacche e del Montenegro, e poi a favore degli
Armeni e dei Maroniti del Libano, dei cristiani di Siria e dei
profughi russi.
Complessa e tenace l'attività diplomatica di B., che va dai
passi compiuti per evitare l'intervento dell'Italia nel conflitto
mondiale al suo progetto d'una pace senza vinti e senza vincitori,
senza annessioni e riparazioni. La Santa Sede si adoperò in
ogni modo per mantenere aperta la possibilità di una
trattativa e di un'intesa tra Roma e Vienna sino alla vigilia
dell'intervento dell'Italia nel conflitto.
Sin dal gennaio 1915 propose all'imperatore Francesco Giuseppe la
cessione del Trentino; d'altra parte, Vienna ricorse più di
una volta all'autorità del papa nei contatti con il governo
Salandra. Dalle memorie di Carlo Santucci sappiamo che B. non
cessò di offrire i suoi buoni uffici fino a poco prima
dell'intervento. Vienna conservò sempre qualche riserva
sull'azione del papa sia prima dell'intervento dell'Italia che nel
corso del conflitto. Pur tuttavia, B. e l'imperatore Carlo
continuarono a mantenere rapporti ancora nell'agosto del 1918.
Ma il principale atto diplomatico, che resta al centro dell'azione
del pontefice durante la prima guerra mondiale, fu senza dubbio la
nota del 1° agosto 1917 inviata alle potenze belligeranti.
La nota è breve, e, contrariamente ai precedenti messaggi del
papa, non si limita ad un appello generale alla pace, ma discende "a
proposte più concrete e pratiche", invitando i governi dei
paesi belligeranti ad accordarsi sui seguenti punti: "Diminuzione
simultanea e reciproca degli armamenti, secondo norme e garanzie da
stabilirsi, nella misura necessaria e sufficiente al mantenimento
dell'ordine pubblico nei singoli Stati; e, in sostituzione delle
armi, l'Istituto dell'arbitrato con la sua funzione pacificatrice,
secondo le norme da concertare e la sanzione da convenire contro lo
Stato che ricusasse o di sottoporre le questioni internazionali
all'arbitrato o di accettarne la decisione"; libertà di
navigazione e comunanza dei mari; reciproca condonazione dei danni e
delle spese di guerra; reciproca restituzione dei territori
attualmente occupati, quindi, "da parte della Germania evacuazione
totale sia del Belgio, con la garanzia della sua piena indipendenza
politica, militare ed economica di fronte a qualsiasi potenza, sia
del territorio francese", "dalla parte avversaria pari restituzione
delle colonie tedesche". La nota papale continuava così: "Per
ciò che riguarda le questioni territoriali, come quelle ad
esempio che si agitano fra l'Italia e l'Austria, fra la Germania e
la Francia, giova sperare che, di fronte ai vantaggi immensi di una
pace duratura con disarmo le parti contendenti vorranno esaminarle
con spirito conciliante, tenendo conto, nella misura del giusto e
del possibile, come abbiamo detto altre volte, delle aspirazioni dei
popoli, e coordinando, ove occorra, i propri interessi a quelli
comuni del gran consorzio umano. Lo stesso spirito di equità
e di giustizia dovrà dirigere l'esame di tutte le altre
questioni territoriali e politiche, nominatamente quelle relative
all'assetto dell'Armenia, degli Stati balcanici, dei paesi formanti
parte dell'antico Regno di Polonia". La nota si chiudeva con quella
definizione della guerra come "inutile strage", che doveva suscitare
tante forti polemiche: "Nel presentarle, pertanto, a Voi, che
reggete in questa tragica ora le sorti dei popoli belligeranti,
siamo animati dalla cara e soave speranza di vederle accettate, e di
giungere così quanto prima alla cessazione di questa lotta
tremenda, la quale, ogni giorno più apparisce inutile
strage". L'attenzione dell'opinione pubblica si concentrò
allora nell'espressione della guerra come "inutile strage",
espressione che, con qualche variante, ricorre più volte
nelle lettere, quasi un rapporto, che i vescovi delle diocesi il cui
territorio era coinvolto nelle azioni militari inviarono al papa sin
dai primi giorni del conflitto. Il vescovo di Padova, Luigi
Pellizzo, il 4 luglio 1917, circa un mese prima della nota, scriveva
a B.: "Ma quando avrà fine questa orribile ed inutile
carneficina?".
La nota di B. del 1° agosto 1917 era stata preceduta da due
importanti iniziative diplomatiche: la nota degli Imperi centrali
all'Intesa del 12 dicembre 1916 e l'appello del presidente degli
Stati Uniti Wilson del 18 dicembre, che mostravano una certa
tendenza in campo internazionale a trovare alcuni principi positivi
per impostare una trattativa, a cui peraltro spingevano la
staticità delle operazioni militari e la stanchezza dei
fronti interni. La Santa Sede, informata della nota delle potenze
centrali, aveva cercato di convincere Vienna e Berlino che era
necessario presentare proposte concrete per rispondere alle accuse
dell'Intesa che la diplomazia tedesca e austriaca era insincera.
Anche quando l'Intesa respinse la nota degli Imperi centrali, la
Santa Sede continuò nella sua azione per accertare fino a che
punto gli animi erano veramente disposti alla trattativa e
suggerendo all'imperatore Guglielmo alcune premesse generali che
avrebbero potuto favorire l'incontro. Le premesse, come
precisò il segretario di Stato Gasparri al nunzio a Monaco
Aversa in un dispaccio del 15 gennaio 1917, dovevano essere:
garanzie per la libertà dei mari, assicurazione della
libertà e indipendenza dei piccoli Stati, diminuzione
proporzionale degli armamenti, "garanzie per la esclusione di ogni
egemonia ed imperialismo in Europa". Punti scelti oculatamente e che
mediavano le richieste di massima dell'uno e dell'altro gruppo delle
potenze belligeranti.
Con l'arrivo a Monaco del nuovo nunzio Eugenio Pacelli l'azione
della Santa Sede per verificare le effettive disposizioni della
Germania e per impostare più concretamente la sua iniziativa
di pace entrò in una fase assai delicata. Il nunzio ebbe
dapprima a Berlino incontri con il cancelliere Bethmann-Hollweg e
con il ministro degli Affari esteri von Bergen, dal 26 al 28 giugno;
a Monaco il 30 giugno incontrò l'imperatore d'Austria, Carlo.
Dalla complessa attività del nunzio, il Gasparri trasse la
convinzione che si potesse pervenire oramai alla formulazione di
proposte precise e che su queste si potesse avere il consenso della
Germania. Furono inviate istruzioni al nunzio, tra cui anche la
proposta di ammettere il principio di una democratizzazione interna
del regime, desiderata dai ministri inglesi. "Ministri Inghilterra
[scriveva il segretario di Stato] hanno dichiarato essere disposti a
trattare con Germania democratizzata e considerare democratizzazione
come sufficiente garanzia per l'avvenire. Considerando che
democratizzazione consisterà nel rendere cancelliere
responsabile davanti Parlamento, V.E., nel modo che riterrà
più opportuno, procuri ottenerla dall'Imperatore spianando
così la via alla pace". Intanto al cancelliere
Bethmann-Hollweg era successo il Michaelis, con il quale il nunzio
ebbe uno scambio di idee il 24 luglio. A Eugenio Pacelli non
sfuggì che la nuova situazione politica era caratterizzata da
una preponderanza dell'elemento militare. Dopo un secondo incontro
che ebbe con il Michaelis il 30 luglio a Monaco, il nunzio
annotò che non sarebbe stato "possibile Germania vero e
proprio Parlamentarismo a causa soprattutto Costituzione Federale
Impero". Pacelli suggeriva che il papa non indugiasse più
"anche perché se autorità militari riuscissero fare
introdurre nella risposta definitiva modificazioni inaccettabili
Santa Sede si troverebbe poi legata".
La nota del papa del 1° agosto fu consegnata alle potenze
interessate tramite quegli Stati che avevano rappresentanza
diplomatica presso la Santa Sede. L'Inghilterra trasmise all'Italia
il documento papale. L'iniziativa di B., che pure era nata sotto
favorevoli auspici, non ebbe il risultato che la Santa Sede si
attendeva.
Dopo che il cardinale Gasparri insistette inutilmente per avere una
"risposta favorevole" sul Belgio, ritenuta questione pregiudiziale a
ogni trattativa con l'Intesa, la Germania prese tempo, tergiversando
nelle risposte, mentre l'Austria si oppose alla più piccola
concessione all'Italia. Anche l'Intesa lasciò cadere
l'iniziativa papale, scaricando ogni responsabilità
sull'atteggiamento reticente e non impegnativo degli Imperi
centrali. L'Italia, che nel patto di Londra aveva inserito
quell'articolo 15, che escludeva la Santa Sede dalle trattative di
pace, rispose all'invito di B. con un discorso del suo ministro
degli Esteri Sidney Sonnino alla Camera. Il Sonnino credette di
scorgere nella nota papale "quella medesima indeterminatezza che
caratterizza le comunicazioni da parte nemica". Secondo il ministro
degli Affari esteri italiano, la proposta del papa di allontanare
gli eserciti dal Belgio, "con la garanzia della sua piena
indipendenza politica, militare ed economica di fronte a qualsiasi
potenza" sapeva "alquanto di ispirazione germanica, quasi che
volesse mirare a scusare o attenuare la criminosità
dell'invasione, perpetrata all'inizio della guerra". Dalle memorie e
dai documenti di archivio che si conoscono attorno alla nota di B.
l'accusa di Sonnino non esce convalidata; d'altra parte il governo
italiano era al corrente della natura dei passi compiuti dal nunzio
a Berlino avendo intercettato i dispacci scambiati tra il cardinale
Gasparri ed Eugenio Pacelli. In realtà, con l'articolo 15 del
patto di Londra il governo italiano si era cautelato nei confronti
di un eventuale arbitrato della Santa Sede, dal quale esso temeva
che avrebbe potuto nascere occasione per sollevare in sede
internazionale la questione romana. L'articolo 15 del patto di
Londra si esprimeva così: "La France, la Grande Bretagne et
la Russie appuieront l'opposition que l'Italie formera à
toute proposition tendant à introduire un représentant
du Saint Siège dans toutes les négociations pour la
paix et pour le règlement des questions soulevées par
la présente guerre". Sonnino mantenne fermo questo articolo e
il relativo impegno dei firmatari del patto, anche quando la Santa
Sede alla fine di luglio del 1918 tentò, con una iniziativa
diplomatica molto abile, di ottenerne la sostituzione con la
seguente formula: "Aucun non belligérant ne sera admis
à la conférence éventuelle de paix, si ce n'est
du consentement des soussignés" (R. Mosca, La mancata
revisione dell'art. 15 del Patto di Londra, in Benedetto XV, i
cattolici e la prima guerra mondiale, pp. 401-13). Il segretario di
Stato aveva chiesto al governo belga di interpellare sulla sua
proposta il governo britannico. Il Gasparri riteneva che la nuova
formula, annullando un testo offensivo per la Chiesa, non avrebbe
dovuto suscitare difficoltà tra i firmatari del patto di
Londra, tanto più che le polemiche apertesi su questo
articolo avrebbero potuto nuocere alla "unione dell'Intesa". Solo il
governo inglese, pure assicurando di considerarsi vincolato al patto
di Londra così come era stato firmato, espresse, a titolo
personale, il parere che l'accettazione della formula proposta dal
Gasparri, che non alterava la sostanza della stipulazione
dell'articolo 15, "avrebbe potuto presentare qualche vantaggio non
solo per l'alleanza in generale ma anche per l'Italia". Il governo
francese e quello americano non presero in nessuna considerazione la
proposta della Santa Sede. Dal suo canto Sonnino, telegrafando al
suo ambasciatore a Londra, Imperiali, aveva già sostenuto che
il governo italiano non poteva in alcun modo consentire che si
ponesse in discussione "qualsiasi revisione o modificazione o
sostituzione delle disposizioni sancite dalla Convenzione di Londra
del 1915", che formavano "il Patto fondamentale dell'entrata in
guerra dell'Italia" e dovevano "restare intatte per tutto quanto
riguarda le obbligazioni reciproche tra i governi che vi presero
parte, così per l'articolo 15, come per tutto il resto". In
breve, fermo doveva restare per Sonnino il principio
dell'integrità del patto: qualora si fosse mosso un solo
articolo, in una situazione così diversa da quella degli
inizi del conflitto (i quattordici punti di Wilson e le sue
successive prese di posizione avevano dato maggiore forza ai diritti
delle nazionalità oppresse), si sarebbe corso il rischio di
rimettere in discussione i termini della stessa questione adriatica.
Importante anche l'azione diplomatica e religiosa svolta da B. alla
fine della guerra nel settore orientale dell'Europa.
Nel 1918 inviò in Polonia e in Lituania come visitatore
apostolico monsignor Achille Ratti, nunzio a Varsavia l'anno dopo.
La Santa Sede riconobbe tra i primi il nuovo Stato della Polonia e
tentò opera di mediazione tra Polacchi e Lituani specialmente
durante l'offensiva della Russia bolscevica, decisa a respingere il
piano del generale Pilsudski di portare le frontiere polacche a Kiev
e sul Mar Nero. Il nunzio Ratti si adoperò anche per dirimere
le controversie fra Polacchi e Tedeschi per il plebiscito nell'Alta
Slesia. L'acceso nazionalismo, che divideva popolazioni considerate
tradizionalmente baluardo del cattolicesimo, resero ingrata e
difficile l'azione della Santa Sede in quelle regioni, specialmente
tra i Polacchi che avevano mire espansionistiche. Il nunzio Ratti
finì per essere combattuto da tutte le parti, da Tedeschi,
Polacchi e Lituani. Quell'intesa che egli credeva di potere
stabilire tra Polacchi e Lituani fallì miseramente con
l'attacco lanciato nell'ottobre 1920 dalle truppe polacche contro i
Lituani. Il 1° febbraio 1920 fu nominato visitatore apostolico
in Ucraina il padre Giovanni Genocchi, il quale aveva svolto sotto
il pontificato di Leone XIII attività missionaria in Siria, a
Costantinopoli e nella Nuova Guinea. Monsignor Ogno venne nominato
commissario pontificio per i territori sottoposti a plebiscito
dell'Alta Slesia e della Prussia Orientale. La sua missione per la
pacificazione fra Polacchi "latini" e Ruteni uniati e il suo
tentativo di avvicinare gli ortodossi a Roma non ebbe successo. Egli
non riuscì nemmeno ad arrivare in Ucraina (cfr. A. Tamborra,
Benedetto XV e i problemi nazionali e religiosi dell'Europa
orientale, in Benedetto XV, i cattolici e la prima guerra mondiale,
pp. 855-84).
Situazioni delicate si presentarono alla Santa Sede anche nei paesi
divenuti indipendenti dopo il crollo dell'Impero asburgico: il
problema principale era sempre di trovare una linea mediana tra i
molti contrasti che dividevano popolazioni anche cattoliche nella
delimitazione dei confini. Quel nazionalismo che, fin dalla
enciclica Ad Beatissimi, era stato indicato come il più grave
ostacolo all'instaurazione di rapporti pacifici tra i popoli
continuò ad essere tale per B. anche dopo la fine della
guerra.
Della politica di B. si può ripetere ciò che scrisse
Giuseppe De Luca: "La S. Sede fu neutrale: ma la sua
neutralità le costò, possiam dire, una doppia guerra:
guerra con gli uni, guerra con gli altri. La S. Sede non poté
far nulla di bene, che subito non fosse tratto a male" (Il Cardinale
Bonaventura Cerretti, p. 209).
Con l'Italia B. cercò di raggiungere un accordo per risolvere
la questione romana.
Un passo importante fu compiuto per incarico del segretario di Stato
dall'orvietano monsignor Bonaventura Cerretti (1872-1933) a Parigi
il 1° giugno 1919. Il Cerretti, segretario della Congregazione
degli Affari Ecclesiastici Straordinari, dove era successo a Eugenio
Pacelli, fu con il Gasparri il migliore collaboratore di Benedetto
XV. Anch'egli apparteneva a quella diplomazia vaticana che si era
formata nell'Ottocento nel clima del pontificato di Leone XIII,
proteso a restituire alla Chiesa una posizione di prestigio nei
rapporti con le grandi potenze. Il Cerretti era stato inviato dal
papa a Parigi come negoziatore ufficiale per la tutela degli
interessi delle missioni cattoliche nelle colonie tedesche, che
rischiavano di essere pregiudicati. Si temeva in Vaticano che le
missioni cattoliche, qualora per l'articolo 122 del trattato di
Versailles i missionari tedeschi avessero dovuto rimpatriare,
cadessero in mani non cattoliche. La missione del Cerretti si
concluse positivamente, anche perché implicitamente la Santa
Sede entrava nel trattato di Versailles come sovrana autorità
religiosa internazionale. Fu nel corso di questa missione che
monsignor Cerretti ebbe un colloquio con il presidente del Consiglio
italiano Orlando per avviare a soluzione la questione romana.
L'incontro era stato preceduto da un altro fra monsignor Francesco
Kelly, poi vescovo di Oklahoma, e Orlando. Il colloquio tra
monsignor Cerretti e il presidente del Consiglio italiano ebbe luogo
a Parigi all'Hotel Ritz. Il rappresentante della Santa Sede
sottopose all'attenzione di Orlando un promemoria del cardinale
Gasparri, contenente le proposte per la soluzione della questione
romana. Era previsto il carattere di Stato indipendente e sovrano
per la Santa Sede, con un ampliamento territoriale che andava poco
più di là di quello che poi venne effettivamente
riconosciuto con la Conciliazione. Orlando ritenne che in linea di
massima il promemoria di Gasparri offrisse un terreno sufficiente
per aprire le trattative tra il governo italiano e la Santa Sede,
riconoscendo anche l'opportunità che la Santa Sede entrasse a
fare parte della Lega delle Nazioni, che ad essa avrebbe garantito
il territorio. Orlando scrisse subito a Roma, al vicepresidente del
Consiglio dei ministri, Gaspare Colosimo, perché informasse
Vittorio Emanuele III della proposta della Santa Sede. Colosimo
rispose a Orlando il 9 luglio 1919 manifestando l'opposizione del re
alla trattativa: "Circa la comunicazione che mi hai incaricato di
fargli [scriveva Colosimo] [il re] ti è grato per la riserva
ed il tatto con cui hai risposto a Monsignore Cerretti, ma ritiene
che la proposta, se accettata, sarebbe di danno a noi ed al
Vaticano; annullerebbe tutti i benefici di tante lotte culminate con
la legge sulle Guarentigie, ed egli andrebbe via, piuttosto che
sobbarcarsi ad un concordato simigliante" (la lettera di Colosimo
è in Roma, Archivio Centrale dello Stato, Vittorio Emanuele
Orlando, corrispondenza, fasc. "Colosimo"). Il 10 giugno Orlando
rientrò in Italia, e il 19 cadde il suo governo.
L'azione diplomatica di B., volta ad allargare e stabilizzare i
rapporti della Santa Sede con gli Stati moderni, fu coronata da
successo, anche se l'influsso del suo pensiero sui problemi della
pace non ebbe l'incidenza che egli si attendeva sui governi. Quando
ascese al soglio pontificio, presso la Santa Sede si contavano
appena quattordici rappresentanze diplomatiche; alla sua morte erano
ventisette.
Prima fu l'Inghilterra che, appena scoppiato il conflitto mondiale,
inviò presso la Santa Sede, dopo tre secoli e mezzo di
carenza di rapporti, un incaricato d'affari; poi venne nel 1915 il
Principato di Monaco, l'Olanda nel 1916, il Giappone nel 1917, il
Portogallo nel 1918, il Brasile, la Finlandia, la Polonia, il
Perù, l'Estonia, l'Ucraina, la Iugoslavia, la Cecoslovacchia.
Ma l'avvenimento diplomatico più importante fu la ripresa
delle relazioni diplomatiche con la Francia, dopo le lotte religiose
del periodo prebellico. Nel corso della guerra la Francia era stata
particolarmente ostile alla politica di pace di B., che fu accusato
di favorire di fatto gli Imperi centrali. "Le Pape boche" era una
qualifica dispregiativa corrente. Dopo la fine della guerra,
divenuto presidente della Repubblica Deschanel e presidente del
Consiglio Millerand, il riallacciamento delle relazioni tra la Santa
Sede e la Francia apparve sempre più possibile. B. non
nascose mai la sua aspirazione di vedere risolto il conflitto con la
Francia e non dimenticò che la politica di Leone XIII aveva
fatto dell'amicizia con il popolo francese uno dei suoi cardini. La
Francia per tutto l'Ottocento aveva esercitato sempre una forte
attrazione sulla Curia romana, anche quando si abbandonava alle
sfuriate anticlericali di Gambetta e di Combes. Il pensiero
cattolico sociale veniva dalla Francia; il primo che aveva fatto
fremere la Corte pontificia con la sua idea di una cristianizzazione
della democrazia era un abate francese, Lamennais; l'apologetica era
francese, così anche la pietà. Di B. poi si
riportavano le parole: "Se in Francia mi si offre un dito, io
tenderò la mano; se mi si offre la mano, aprirò le
braccia". Il 28 maggio 1920 Jean Doulcet, inviato come incaricato di
affari presso la Santa Sede, concluse un accordo con il segretario
di Stato Gasparri per la ripresa delle relazioni con la Francia. Il
16 maggio in S. Pietro era stata celebrata la canonizzazione di
Giovanna d'Arco. Il 18 maggio 1921 Briand nominò per decreto
Célestin Jonnart ambasciatore straordinario presso la Santa
Sede. Restò ancora aperta la questione delle associazioni
cultuali, anche per dissensi insorti tra l'episcopato francese, che
non accettava la legge del 1905, e la Santa Sede, disposta a
transigere. Soltanto con l'enciclica di Pio XI Maximam
gravissimamque la questione sorta con la legge di separazione ebbe
per il momento termine.
Anche dopo la guerra, B. continuò a insistere nel suo
concetto che la pace per essere valida doveva essere fondata "sulla
carità vicendevole", poiché, egli spiegava, "non
è punto diversa la legge evangelica della carità tra
gli individui da quella che deve esistere tra gli Stati e le
nazioni, non essendo esse infine che l'agglomeramento dei singoli
individui". Per favorire "le visite che i Capi degli Stati e dei
Governi usano reciprocamente" al fine di accrescere la "concordia
tra le genti civili", B. mitigò il divieto, fatto da Pio IX e
confermato dai suoi successori, ai principi cattolici di venire a
Roma in forma ufficiale. Nell'ultima parte dell'enciclica il
pontefice prometteva il suo appoggio alla Lega delle Nazioni: "E una
volta [egli disse] che questa lega tra le nazioni sia fondata sulla
legge cristiana, per tutto ciò che riguarda la giustizia e la
carità, non sarà certo la Chiesa che rifiuterà
il suo valido contributo" (enciclica Pacem Dei munus pulcherrimum,
23 maggio 1920). Per quanto riguarda i rapporti con lo Stato
italiano, B. dichiarava nell'enciclica: "Noi, considerando le mutate
circostanze dei tempi e la piega pericolosa degli eventi, pur di
cooperare a questo affratellamento dei popoli, non saremmo alieni
dal mitigare in qualche modo il rigore di quelle condizioni che,
abbattuto il principato civile della Santa Sede, furono giustamente
fatte dai nostri antecessori ad impedire la venuta dei principi a
Roma in forma ufficiale". Il papa aggiungeva però che questa
"remissività" non si doveva intendere come "tacita rinunzia
ai sacrosanti diritti" ovvero come accettazione della condizione
"anomala" in cui si trovava la Santa Sede dal 1870. Una conferma
della disponibilità di B. ad avviare a soluzione il problema
dei rapporti tra la Santa Sede e lo Stato italiano è data
anche dal Diario del barone Carlo Monti, funzionario di Stato, amico
di vecchia data del papa. Il Monti, il "Vice Papa", come lo
chiamò B., poteva scrivere, già nel luglio 1918, che
le relazioni "ufficiose" con il governo italiano erano in corso: "si
dovrà trovare una via per giungere alle relazioni ufficiali".
D'altra parte, l'abolizione del "non expedit" (il divieto per i
cattolici a partecipare alle elezioni politiche) e la conseguente
formazione del Partito Popolare Italiano, per iniziativa di Luigi
Sturzo (18 gennaio 1919), furono eventi che liquidavano ogni pretesa
di rivendicazione legittimistica, chiudevano la fase
dell'opposizione cattolica e favorivano l'ingresso dei cattolici
nella vita pubblica come forza politica autonoma.
Sturzo dichiarò di non aver trovato opposizione in Vaticano
"in quanto appunto il partito, nel suo programma e nel suo nome, si
proponeva di evitare ogni confusione che potesse comunque vincolare
le responsabilità della Santa Sede" (intervista a "Il
Messaggero", 29 gennaio 1919). In una lettera privata a Carlo
Santucci il segretario di Stato cardinale Pietro Gasparri,
rievocando le origini del Partito Popolare Italiano, ricordava che
questo era sorto "senza alcuna intervenzione della Santa Sede" e
che, secondo il suo apprezzamento, il Partito Popolare "non era
molto diverso dagli altri partiti" (la lettera del cardinale
Gasparri, in data 1° agosto 1928, conservata nelle carte
Santucci, è pubblicata in G. De Rosa, I conservatori
nazionali, pp. 77-9).
La nascita del Partito Popolare Italiano portò a una riforma
anche dell'Azione Cattolica. Già nel terzo convegno delle
giunte diocesane, che si tenne a Roma nel marzo 1919, il conte
Giuseppe Dalla Torre, presidente dell'Unione Popolare,
affermò: "Se l'Azione cattolica non può sempre
prescindere dall'attività politica, non può
confondersi con questa" (cfr. "L'Osservatore Romano", 28 marzo
1919). Con B. finiva anche quel clima di sospetto, di lotte
intestine senza esclusione di colpi tra i cattolici, che s'era
formato per effetto delle polemiche contro il modernismo.
Sin dall'enciclica Ad Beatissimi B. aveva affermato: "Noi dovremo
rivolgere una attenzione specialissima a sopire i dissensi e le
discordie tra i cattolici, quali esse siano, e ad impedire a non
fare più uso di quegli appellativi di cui si è
cominciato a fare uso recentemente per distinguere cattolici da
cattolici". Un colpo mortale venne inferto all'azione
dell'integrismo svolta dal "Sodalitium pianum", che aveva come suo
organo la "Corrispondenza Romana", nata nel 1907 con il compito di
"combattere in ogni paese il progresso degli errori correnti,
liberalismo, modernismo multiforme, e le opposizioni, aperte o
mascherate, alle direttive della Santa Sede". Anche in Francia
integristi e "Action française" non godettero più le
protezioni di un tempo, e se la condanna dell'opera di Maurras
tardò a venire, ciò dipese dal timore della Santa Sede
di offrire, nel corso della guerra, pretesto a nuove asprezze
polemiche tra i cattolici francesi.
Pontificato, quello di B., attento allo studio dei mezzi per un
adeguamento della Chiesa alle esigenze moderne dell'apostolato in
tutto il mondo. La guerra aveva sollevato una serie di gravi
problemi per il movimento missionario. B. portò alle dirette
dipendenze della Congregazione "de Propaganda Fide" l'Opera
pontificia della propagazione della fede, la Santa infanzia e
l'Opera di S. Pietro apostolo. Egli dette, inoltre, un forte impulso
all'organizzazione del clero indigeno.
Fondamentale è l'enciclica Maximum illud (30 novembre 1919),
diretta ai capi delle missioni. Qui esortava i vescovi a trattare
"insieme gli interessi comuni d'una medesima regione", a creare un
clero autonomo non disgiunto dal tipo di cultura del paese da
evangelizzare, sollecitava le diocesi già evangelizzate a
partecipare allo sforzo missionario dei nuovi territori,
raccomandava il modo di dirigere le missioni, perché chi vi
si dedicava non si sentisse abbandonato. Il pontefice accennava
anche all'opportunità che i preti si procurassero con il
proprio lavoro i mezzi di sostentamento. Da lui hanno ricevuto
impulso gli studi di missionologia.
L'ispirazione mistico-religiosa è evidente nelle sue
raccomandazioni ai predicatori. Ricevendo il 19 febbraio 1917 i
quaresimalisti di Roma, disse: "Nelle parole di San Paolo, in
sublimitate sermonis, chi potrà tollerare che i predicatori
dell'epoca nostra usurpino ai tribuni la foga del dire, e si
mostrino così accesi nel volto, così smaniosi nel
gesto, da degradarne le scene del teatro?". Non voleva che sul
pulpito si portassero critiche di storia, disquisizioni politiche o
di diritto pubblico e privato.
Sulla predicazione è l'enciclica Humani generis Redemptorem
(15 giugno 1917), indirizzata ai patriarchi, primati, arcivescovi,
vescovi ed altri ordinari. Il papa lamentava che la predicazione
evangelica non portasse sufficiente rimedio alla crescente
disattenzione e dimenticanza delle cose soprannaturali nel costume
pubblico e privato. Raccomandava ai vescovi di procedere alla scelta
dei predicatori con somma vigilanza e adottando i criteri della
santità di vita e dell'abbondanza di dottrina contro i comuni
difetti della predicazione (ricercatezza formale, effetto,
animosità politica, istrionismo, ambizioni di utili
materiali). L'enciclica ricordava il fine della predicazione nella
testimonianza della verità rivelata, invitava il predicatore
a guardare a Dio, non a sé, a confidare nella preghiera e
nella grazia e a non rifuggire dalla trattazione di argomenti
spiacevoli (l'umiltà, l'abnegazione, la castità, il
disprezzo delle cose umane, l'obbedienza, il perdono, i rapporti con
il prossimo, la necessità di una scelta fra Dio e Satana, il
giudizio finale).
Come i suoi predecessori, Leone XIII e Pio X, B. sognò il
ritorno delle Chiese orientali separate. Quando scoppiò la
rivoluzione russa, ritenne giunto il momento per cercare di liberare
la Chiesa ortodossa slava dal peso dell'influenza dei governi. Il
1° maggio 1917 costituì con un "motu proprio" la
Congregazione per la Chiesa orientale; il 15 ottobre dello stesso
anno eresse a Roma un istituto pontificio per gli alti studi
orientali. Nell'allocuzione concistoriale del 10 marzo 1919
ricordò che la Chiesa latina conservava gelosamente i riti
orientali e li difendeva. Una grande ricchezza di motivi mistici
è disseminata nei messaggi e nelle encicliche di B.,
specialmente del periodo bellico. Il motivo dell'espiazione per le
colpe dell'umanità è frequente ed ha favorito la
particolare disposizione di anime religiose alla dottrina della
riparazione, vale a dire l'inclinazione mistica a sentirsi "ostia",
"vittima", in funzione espiatrice, secondo una tradizione di
pietà, che nell'età moderna va da Margherita Maria
Alacoque sino a s. Teresa del Bambino Gesù. Il pontificato di
B. durò poco più di sette anni (Giacomo Della Chiesa
morì il 22 gennaio 1922), pur tuttavia è da
considerarsi fra i più intensi e importanti nella storia
contemporanea della Chiesa per diversi aspetti. Al suo attivo
possono contarsi: la difesa dell'autonomia del magistero
ecclesiastico contro ogni tendenza a strumentalizzare la forza del
cattolicesimo secondo finalità particolaristiche, di ordine e
di conservazione all'interno, e di espansione all'esterno;
l'ammodernamento e il generale ampliamento dei poteri di intervento
della Chiesa nell'opera di assistenza in una società
sconvolta dai mezzi della guerra moderna e dalle rivoluzioni; nuovi
e più moderni indirizzi all'attività missionaria; la
promulgazione del Codice di diritto canonico (28 giugno 1917); il
superamento del "non expedit", quindi l'avvio a soluzione della
questione romana; la liquidazione delle pesanti dilacerazioni
intervenute fra i cattolici nel corso delle arroventate polemiche
fra modernisti e integristi.