Alessandro VI

www.sapere.it

Al secolo Rodrigo de Borja y Doms, fu creato cardinale (1456) e vicecancelliere della Chiesa (1457) dallo zio Callisto III ed eletto papa nel 1492 grazie alle sue immense ricchezze e all'appoggio degli Sforza.

Di costumi licenziosi (da Vannozza Cattanei gli nacquero quattro figli: Giovanni, Cesare, Lucrezia e Jofré) e nepotista, fu pubblicamente attaccato da Savonarola, ma egli lo scomunicò (1497) ed ebbe forse parte nella sua morte (1498).

In politica tenne una condotta oscillante senza che un disegno preciso desse coerenza e forza alla sua azione. Dapprima ondeggiò tra Sforza e Aragonesi; ma alla calata di Carlo VIII si alleò con Alfonso II di Napoli e cercò aiuto persino dai Turchi. Aprì inaspettatamente le porte ai Francesi e ne accettò le condizioni (1494), ma l'anno successivo si strinse a lega contro di essi insieme a Spagna, Impero, Venezia e Milano.

Quando però l'ambizioso suo figlio Cesare (il duca Valentino) volle costituirsi un proprio Stato nell'Italia centrale, Alessandro VI si accostò definitivamente alla Francia e i suoi mille maneggi acquistarono chiara coerenza. Non esitò, anzi, a usare a quello scopo i danari del giubileo (1500) e forse anche quelli della crociata che aveva bandito nel 1501.

La morte improvvisa, tuttavia, pose fine al suo disegno.

Sotto il pontificato di Alessandro VI si ebbe l'importantissimo avvenimento della scoperta dell'America e il papa venne chiamato poco dopo a fare da arbitro tra Spagna e Portogallo per l'attribuzione delle nuove terre (vedi linea alessandrina).

In materia ecclesiastica Alessandro VI favorì lo sviluppo delle missioni nelle nuove terre, difese l'ortodossia dottrinale contro il pullulare di numerose eresie e protesse gli ordini religiosi. Ebbe fama di umanista e mecenate (protesse tra gli altri Pinturicchio e Sangallo), ma né la correttezza dottrinale né il suo mecenatismo riescono a dissipare le ombre troppo tristi del suo pontificato.

*

www.treccani. it

Enciclopedia dei Papi

di Giovanni Battista Picotti, MatteoSanfilippo

Alessandro VI Rodrigo de Borja y Borja, o, come si disse comunemente, Rodrigo Borgia, era nato fra il 1430 e il 1432, probabilmente il 1° gennaio 1431, a Játiva presso Valenza nel Regno d'Aragona, da Jofré de Borja y Doms, di nobile famiglia catalana, e da Isabel de Borja, di altro ramo della stessa famiglia, sorella di quell'Alonso che fu papa Callisto III. Della sua prima giovinezza sappiamo soltanto che era chierico della Chiesa di Valenza ed ebbe per opera dello zio vescovo benefici ecclesiastici in questa e altre diocesi spagnole. Né è noto con precisione quando venisse in Italia: certo nel 1453 era studente a Bologna, dove si laureò, il 13 agosto 1456, in diritto canonico. Frattanto lo zio era salito al soglio papale (8 aprile 1455): dal suo nepotismo ebbe origine la fortuna di Rodrigo, come degli altri di casa Borja.

Rodrigo fu nominato, il 10 maggio 1455, notaio della Sede apostolica e, il 20 febbraio 1456, fu creato cardinale diacono in un Concistoro segreto per unanime consenso dei cardinali presenti. Ebbe fin da quel Concistoro la diaconia di S. Nicola in Carcere, quantunque solo più tardi (17 novembre) ricevesse il cappello. E fin d'allora, secondo il mal costume dell'età, cominciò il cumulo dei benefici ecclesiastici, che si accrebbe anche dopo la morte di Callisto III, smisuratamente. Oltre a benefici di minor grado, come l'arcidiaconato della Chiesa di Bologna, il monastero di Fossanova, la ricca abbazia di Subiaco (1471), dove fece ricostruire la fortezza a sue spese, il Borja ebbe l'amministrazione dei vescovadi di Gerona (1457-1458), di Valenza (1458-1492), di Cartagena (1482-1492) e la commenda di quelli di Maiorca (1489-1492) e di Agria (1491-1492); fu cardinale vescovo di Albano (30 agosto 1471) e forse divenne soltanto allora sacerdote; fu traslato a Porto il 24 luglio 1476 e tenne questo vescovado e la dignità di decano del Sacro Collegio fino all'elevazione al pontificato.

Da questi benefici trasse grande somma di denaro; ma più ne trasse dall'alto e lucroso ufficio di vicecancelliere della Chiesa, a cui lo elevò Callisto III con bolla datata 1° maggio 1457 e pubblicata il 5 settembre di quell'anno. Iacopo Gherardi da Volterra lo giudicò il più ricco cardinale, dopo il francese Estouteville (Diario romano dal 7 settembre 1479 al 12 agosto 1484, in R.I.S.², XXIII, 3, a cura di E. Carusi, 1904-11, p. 49).

Ebbe notevole credito presso lo zio pontefice, che lo inviò come legato nella Marca d'Ancona (31 dicembre 1456); tenne l'ufficio circa un anno, spiegando lodevole energia. Dallo zio ebbe, l'11 dicembre 1457, la nomina a "dux et generalis commissarius" delle truppe pontificie in Italia. Maggiore della sua fu tuttavia la potenza del fratello Pedro Luis, e maggiori i destini che il papa sognava per questo. E tuttavia, quando gli altri Borja, e lo stesso Pedro Luis, erano fuggiti dinnanzi alle temute vendette del popolo contro la casa odiatissima, Rodrigo rimase con coraggio accanto al letto di morte del papa.

Nel conclave del 1458, fu il primo a dare l'esempio dell'accesso, che determinò l'elezione di Enea Silvio Piccolomini, Pio II. Ma il nuovo pontefice, pur concedendogli benefici e facendone qualche volta le lodi, non n'ebbe stima: ne rimproverò la leggerezza in fatto di costumi, il lusso, l'amore per il denaro. È vero, d'altra parte, ch'egli fece allestire a sue spese una galea per la sognata impresa di Pio contro i Turchi e fu tra quelli che accompagnarono il vecchio papa ad Ancona, dove questi morì. Essendosi "fatigato a la real" per l'elezione di Paolo II (1464), parve che dovesse aver "gran credito" presso di questo (L. von Pastor, II, p. 733); ma durante il pontificato di lui rimase nell'ombra.

Operò per l'elezione di Sisto IV, che lo creò, il 22 dicembre 1471, legato "a latere" in Spagna per la crociata; partì il 15 maggio 1472, e fu l'unico suo ritorno nella terra natale. Se non riuscì ad ottenere che i Regni spagnoli partecipassero alla guerra santa, poté favorire la regolarizzazione delle nozze di Ferdinando d'Aragona e d'Isabella di Castiglia, preparando l'unione futura dei Regni e la potenza della Spagna; inoltre riunì a Segovia un concilio, in cui furono prese misure contro l'ignoranza dei chierici. Ritornato a Roma (25 ottobre 1473), ne uscì nuovamente come legato per incoronare Giovanna regina di Napoli (1477). Ma nelle dure lotte che si combatterono durante il papato di Sisto non sappiamo se avesse posizione di rilievo.

Nel conclave che seguì alla morte di Sisto IV lavorò per la propria elezione, usando largamente la corruzione; ebbe il favore della Lega italica (Milano, Firenze e Napoli), degli Orsini, di Girolamo Riario, del cardinale Ascanio Sforza, fratello di Ludovico il Moro, del cardinale di Aragona, figliuolo di re Ferrante, e parve vicino a raggiungere la tiara; ma gli nocquero il carattere, ch'era ritenuto superbo e sleale, e più l'essere egli straniero, uno degli aborriti catalani. Quando il cardinale di S. Pietro in Vincoli, Giuliano della Rovere, si diede a maneggiare con mezzi non leciti in favore del Cibo, il Borja, perduta la speranza del pontificato, stette con lui; il Cibo fu eletto papa Innocenzo VIII (29 agosto 1484).

Ma, dopo d'allora, contro il della Rovere, che fu, salvo brevi intervalli, padrone dell'animo del debole papa, si strinse con Ascanio; i due furono allora, "ostro e tramontana", di fronte a Marco Barbo, il più degno uomo che fosse nel Collegio, e a Giuliano, che, pur non immune da pecche, rappresentava in esso, col Barbo, la parte che voleva rialzare il prestigio del papato. E aveva sempre l'occhio alla tiara: l'oratore fiorentino, quando ne voleva il favore per la creazione cardinalizia del fanciullo Giovanni de' Medici, gli faceva sperare "l'imperio dei cristiani" (lettera di G. Lanfredini, 5 febbraio 1488-1489, in Archivio di Stato di Firenze, Carteggio Mediceo avanti il Principato, LVIII, nrr. 96-7); nel 1490 vi era nel seguito del Barbo chi temeva il suo avvento al papato, quantunque egli non fosse capo di una fazione, ma aderisse a quella dello Sforza. Poiché il della Rovere, già fiero nemico degli Aragonesi, si era stretto con loro e ne aveva appoggio contro i maneggi dello Sforza, le aspirazioni personali di Rodrigo si accordavano con le vedute di Ascanio, mentre la rivalità fra lo Sforza e il della Rovere, capi delle due fazioni cardinalizie, s'intrecciava con l'inimicizia che le opposte aspirazioni su Genova e l'ambizione del Moro avevano seminata fra gli Sforza e gli Aragonesi, fra Milano e Napoli.

Quando il 6 agosto 1492 si apriva il conclave per la morte di Innocenzo VIII, il cardinale vicecancelliere Rodrigo Borja aveva passato da poco i sessant'anni. Il Borja era bello nella persona, distinto nei modi, quantunque, non ancora trentenne, fosse apparso al mantovano Schivenoglia "de uno aspeto de fare ogne malo" (Raccolta di cronache e documenti storici lombardi, II, Milano 1857, p. 137). Era d'ingegno vivo e versatile, buon conoscitore del diritto canonico, esperto dell'amministrazione della Curia e di negozi politici, abile nella trattazione degli affari. Non aveva, però, qualunque cosa abbiano detto gli apologisti suoi vecchi e nuovi, né doti singolari, né fama di grandi imprese, né opere d'ingegno che lo raccomandassero alla posterità: qualche scritto dato come suo è di attribuzione assai dubbia. Egli era invece un debole, un passionale, dominato da quella che i contemporanei dissero "carnalità", cioè amore per la famiglia e in particolare per i figliuoli, amante del lusso e del fasto, pur essendo modeste le sue abitudini personali, piuttosto gran signore del Rinascimento che uomo di Chiesa, attratto da piaceri troppo spesso non leciti. Nel 1460 Pio II l'aveva dovuto ammonire con una dura lettera per avere egli con l'Estouteville partecipato a una festa profana e, secondo la pubblica voce, scandalosa, negli orti di Giovanni Bichi in Siena: s'era scusato e il pontefice aveva accolto parzialmente la scusa.

Fra il 1462 e il 1471 gli nacquero, non sappiamo se dalla stessa donna o da più, Pedro Luis, che da Ferdinando il Cattolico ebbe nel 1485 il Ducato di Gandía e il titolo di Grande di Spagna, Girolama ed Isabella o Elisabetta. Da Vannozza Catanei (1442-1518), sposata prima a Domenico d'Arignano, poi a Giorgio della Croce milanese, infine a Carlo Canale mantovano, il Borja ebbe, fra il 1474 o il 1475 e il 1481 o il 1482, i quattro figliuoli più noti, Giovanni, il secondo duca di Gandía, Cesare, Lucrezia, Jofré.

Negli ultimi anni prima di giungere al pontificato, aveva intrecciato una relazione con Giulia Farnese, la bellissima e giovanissima sposa di Orsino Orsini: di chi fosse figliuola una Laura, nata da Giulia fra il 1491 e il 1492, forse nessuno sapeva. L'intimità con Giulia Farnese continuò anche dopo l'elezione del Borja al pontificato; e fu così palese, che ricorreva a lei chi volesse favori dal papa. E, tramontato anche il prestigio di Giulia, il Borja ebbe ancora, fra il 1492 e il 1499, un Giovanni, l'"infans Romanus", del quale è avvolta nel mistero la madre, e un Rodrigo, nato sulla fine del pontificato, se pure non postumo.

Se parecchi episodi scandalosi, attribuiti a lui, possono essere stati frutto di fantasia o invenzione di malevoli, i tentativi per difendere in tutto o in parte il Borja dall'accusa di condotta immorale non reggono innanzi alla critica, poiché, a tacere delle asserzioni numerosissime di contemporanei anche non sospetti, vi sono bolle e brevi sicuramente autentici, dovuti a predecessori e a successori di A. e ad A. stesso, che tolgono ogni dubbio in proposito.

Tuttavia l'elezione, dai più non attesa, fu unanime. Non già che essa fosse riconoscimento di qualità eccezionali del vicecancelliere, o, come altri pensò, nascesse da un compromesso fra le due fazioni cardinalizie: il Borja era così legato allo Sforza che non si poteva pensare a lui come ad un uomo superiore all'acerba lotta che si andava combattendo in conclave e in Italia. Le cose andarono in ben altro modo. Dopo due scrutini, nei quali ciascuna delle due parti saggiava il terreno, quando si andò profilando, nel terzo, la possibilità della elezione di un fautore di Giuliano della Rovere, o forse del napoletano Oliviero Carafa, aderente di Ascanio, ma non così acceso che non si potessero raccogliere sopra di lui voti delle due fazioni e togliere quindi significato alla elezione, Ascanio mise innanzi quello che era il suo vero candidato, che poteva disporre di tanti mezzi ed era così privo di scrupoli da rendere sicura l'elezione. Con promesse simoniache, forse con denaro, furono tenuti fermi gli oscillanti, tratti alcuni degli avversari, guadagnati sopra tutto quei cardinali della baronia romana, il Colonna, l'Orsini, il Savelli, senza il concorso dei quali, o almeno di qualcuno di loro, non si poteva avere elezione. Quando questa fu sicura, piegarono anche gli altri, i migliori dei quali, forse, per evitare uno scisma.

La mattina dell'11 agosto 1492, dopo un ultimo scrutinio tenuto "ex composito", si poté annunziare al popolo il gaudio grande che Rodrigo Borja era papa Alessandro VI. L'elezione fu accolta, a Roma e fuori, com'era costume, con apparente esultanza. Ma agli osservatori degli eventi politici essa parve un trionfo non tanto di Ascanio Sforza quanto del Moro; e ai pochi pensosi ancora delle sorti della Chiesa parve tristo annunzio di danno futuro.

Quantunque, già dal principio del pontificato di A., si manifestassero, in diverse nomine ad uffici ecclesiastici, segni di eccessivo favore agli Spagnoli e in particolare a figliuoli e congiunti, i primi suoi atti diedero buone speranze di amministrazione più rigida e oculata, di più ferma tutela dell'ordine, di più severa giustizia, di amore alla pace, di zelo per la riforma della Chiesa e per la guerra santa. Ma presto A. fu trascinato, in parte contro sua voglia, in brighe politiche, nelle quali si mostrò timido ed incerto; "el papa [scriveva nel 1494 Pandolfo Collenuccio, oratore del duca di Ferrara] non sole esser de ferro" (v. "Archivio della Società Romana di Storia Patria", 33, 1910, p. 399).

Il malumore di lui per la riluttanza di Ferrante di Aragona e di Piero de' Medici a un'ambasceria collettiva della Lega italica, la quale sarebbe stata di maggior onore al pontefice e avrebbe rafforzato la posizione del Moro, fu accresciuto dalla vendita dei castelli di Cerveteri e dell'Anguillara, fatta da Franceschetto Cibo, che li aveva avuti dal padre, Innocenzo VIII, a Virginio Orsini, soldato di Ferrante; nella quale vendita A. vide, in parte a torto, un maneggio del re per "tagliargli il naso". Per questo egli si legò più che mai con Ascanio: la tredicenne Lucrezia fu data allora come sposa a uno Sforza, Giovanni signore di Pesaro (12 giugno 1493). E poco innanzi A. era entrato nella Lega di S. Marco (25 aprile 1493), con Milano e Venezia, che aveva per fine di rassicurare insieme il papa ed il Moro. Ma questa Lega avrebbe, anche, indirettamente giovato a troncare gli intrighi, che il Moro, pauroso di perdere il potere, aveva iniziati già con la Francia. Poiché se può essere - ma non è certo - che, nelle contese col della Rovere, con l'opposizione cardinalizia, con re Ferrante, A. alcuna volta abbia pensato a sollecitare l'aiuto di Carlo VIII, in verità egli non desiderava un trionfo dei Francesi, che avrebbe rappresentato un pericolo per l'indipendenza dello Stato temporale e della stessa autorità spirituale del papato.

Forse per timore delle ambizioni sforzesche e francesi, ma certo anche per trarne vantaggi per la famiglia sua, A., nel luglio e agosto del 1493, si riconciliò col re di Napoli, col della Rovere e gli Orsini, assicurando il re e i Fiorentini contro qualsiasi potenza, citramontana o ultramontana; e a Perron de Baschi, che domandava l'investitura del Regno per Carlo VIII, rispose in modo evasivo: condizione e pegno della pace tra A. e Ferrante fu il matrimonio di Sancia d'Aragona, figlia illegittima del duca di Calabria, con Jofré Borja, con in dote il Principato di Squillace e la Contea di Cariati (16 agosto 1493).

Ma, nel settembre, A. si riaccostò ad Ascanio, per intolleranza dei modi imperiosi di Giuliano della Rovere e assai più per rendere possibile con l'aiuto dello Sforza la nomina cardinalizia di Cesare Borja, nominato già da lui (31 agosto 1492) vescovo di Valenza, e di Alessandro Farnese, fratello di Giulia: la creazione avvenne il 20 settembre e comprese, con qualche prelato egregio, quei due e il quindicenne Ippolito d'Este e Bernardino Lunati, un oscuro servitore d'Ascanio. E tuttavia A. tentò ancora di pacificare Ferrante ed il Moro e di guadagnare a sé Piero de' Medici; e pensava di opporre l'unione degli Italiani alle cupidigie francesi. Ma il re non si fidava di lui; e gli Stati italiani erano distratti da interessi contrastanti e non credevano alla minaccia francese o non la curavano.

Quando la minaccia si accentuò e sul trono di Napoli sedeva Alfonso II, più debole e meno sospetto al papa dell'energico e ambizioso Ferrante, A. si riavvicinò all'Aragonese; scongiurò Carlo VIII "per viscera Domini Nostri Iesu Christi" di trattenersi dall'aggredire una potenza cristiana, mentre incombeva il pericolo turco; se inviò, quell'anno 1494, la Rosa d'oro al re di Francia, fu per impegnarlo alla difesa della fede. Ma egli contrastava l'invasione francese non solo, né principalmente, per l'amore da lui protestato all'Italia, o per vigile cura degli interessi del pontificato, bensì perché temeva per sé: Giuliano della Rovere, che, fuggito in Francia (aprile 1494), era accanto al re, parlava di un concilio, che avrebbe deposto il pontefice. E, anche, A. pensava, come al solito, agli interessi di famiglia: l'accordo con Alfonso II fu possibile solo quando il re cedette alle esigenze del papa in favore di Giovanni di Gandía e di Jofré. Alfonso fu allora incoronato da un legato papale (8 maggio 1494); in un abboccamento a Vicovaro (14 luglio) fra il pontefice e il re furono presi accordi per la difesa dello Stato papale, del Regno e d'Italia.

A. spiegò in quei mesi contro l'invasione francese un'attività maggiore delle altre potenze italiane: tentò ancora di stornare Carlo VIII dall'impresa; pensò ad unire Venezia e Firenze, la Spagna e l'imperatore; non rifuggì nemmeno dal chiedere il concorso, almeno diplomatico, dei Turchi, anche se le lettere divulgate allora, che avrebbero dimostrato una più stretta unione del papa con gl'infedeli, sono almeno sospette. Ma la Spagna e Massimiliano avevano conchiuso nel loro interesse trattati con Carlo VIII; i Fiorentini esitavano a guastarsi con la Francia, avendo qui interessi di commercio; Venezia non voleva uscire dalla neutralità, soprattutto per timore dei Turchi. Del resto anche A. appariva troppo spesso titubante e interessato: esitava a dare denaro e uomini; esigeva da Giovanni Bentivoglio, signore di Bologna, 1.800 ducati come prezzo di un cappello cardinalizio al figliolo suo Antongaleazzo, quantunque la concessione del cappello sembrasse il solo mezzo per assicurare la fedeltà del padre al pontefice e alla futura lega italiana.

Di fronte al fallimento dei tentativi di arrestare l'avanzata di Carlo VIII, all'accordo con lui di Piero de' Medici prima e poi dei Fiorentini, alla ribellione dei baroni romani, al favore con cui il popolo stesso di Roma guardava al re, come se egli venisse "redempturus Israel", A., dopo altri vani tentativi di volgere il re contro i Turchi, dovette cedere: il 31 dicembre 1494 Carlo VIII entrava in Roma acclamato. Dopo trattative difficili, A. si accordò con lui (15 gennaio 1495) a condizioni assai dure: passo al re attraverso lo Stato papale; in mano sua Civitavecchia; legato nel campo regio in apparenza, in realtà ostaggio per quattro mesi, Cesare Borja. Ma, pur rendendo a Carlo grandi onori, A. non gli concesse l'investitura del Regno.

Quando gli Stati italiani, eccetto Firenze, sentirono la stoltezza di avere lasciato il re di Francia attraversare, senza trarre la spada, tutta l'Italia, e gli Stati europei apparvero impensieriti della rapida fortuna di Carlo VIII, A. entrò nella Lega Santa del 31 marzo 1495, con la Spagna, l'imperatore, Venezia, il Moro stesso. E fu la prima lega per l'equilibrio d'Europa. Nel ritirarsi di Carlo VIII da Napoli, attraverso Roma e lo Stato papale, che nessuno pensava a difendere, A. riparò ad Orvieto e a Perugia, negando ancora l'investitura; tornò a Roma, quando il re era già nel settentrione, e fu accolto in trionfo (27 luglio). Ma presso Fornovo l'esercito della Lega non era riuscito a chiudere a Carlo VIII la via del ritorno in Francia (6 luglio); la Lega si sciolse presto; il re poteva pensare a ritogliere agli Aragonesi il Regno di Napoli, che avevano ricuperato anche con gli aiuti papali. A. esortava ancora i Veneziani a non desistere dall'opporsi ai Francesi; sollecitava Massimiliano a scendere in Italia per combattere i Fiorentini, tenacemente legati alla Francia. E intanto approfittava del crollo dei Francesi in Italia per fiaccare gli Orsini, loro alleati e sempre minacciosi al potere pontificale. Il suo duca di Gandía, fatto senza alcun merito capitano generale della Chiesa, dopo buoni successi iniziali, fu sconfitto a Soriano (25 gennaio 1497); e tuttavia ricevette il Ducato di Benevento, e Terracina e Pontecorvo, terre papali (7 aprile).

A. adesso era stretto alla Spagna e agli Aragonesi e con l'aiuto di quella ricuperò Ostia (9 marzo); al cardinale Cesare Borja fu dato l'ufficio di legato papale, perché incoronasse a Napoli Federico d'Aragona (8 giugno). Appunto allora la vicenda savonaroliana dava un nuovo indirizzo alla politica di Alessandro VI.

Nell'eroico suo sforzo di riportare Firenze e l'Italia e la Chiesa a purezza di costumi e fervore di vita religiosa, Girolamo Savonarola, ch'era divenuto priore di S. Marco in Firenze, non esitava ad attaccare, con la veemenza propria del suo carattere, la Curia romana, che gli pareva fonte d'ogni male, e, senza nominarlo, lo stesso pontefice. A., d'altra parte, oltre che dal risentimento personale, era spinto contro di lui da un motivo politico perché, nella predicazione del frate, che esaltava la missione del nuovo Ciro, re Carlo VIII, da cui sarebbero state flagellate e rinnovate Firenze, l'Italia, la Chiesa stessa di Dio, vedeva l'ostacolo principale ai suoi sforzi di staccare i Fiorentini dalla Francia. Egli proibì al Savonarola di predicare e ordinò che il convento di S. Marco fosse riunito alla Congregazione domenicana lombarda (8 settembre 1495). Il Savonarola dapprima obbedì al divieto papale; poi, secondo un ordine dato dalla Signoria di Firenze, risalì, il 17 febbraio 1496, sul pergamo. Forse egli credette che il cardinale Carafa, protettore dell'Ordine domenicano, consentendo la predicazione, fosse in tacito accordo col papa; certo fin d'allora affermava non doversi obbedire a un comando dei superiori, che si vedesse manifestamente contrario ai comandamenti di Dio. E inveiva più che mai contro le "vaccae pingues" di Roma, contro i vizi di "Babilonia", contro la Chiesa "ribalda".

A. tollerò per allora; ma dopo avere, come si disse - e non è certo - tentato invano di guadagnare il Savonarola con l'offerta del cappello cardinalizio, ordinò, sotto pena di scomunica, la riunione dei conventi di Toscana e di Roma in una nuova Congregazione (7 novembre 1496). Il Savonarola e i suoi frati non obbedirono a un ordine che, a loro parere, avrebbe avvelenato le anime: A. dichiarò il Savonarola scomunicato (13 maggio 1497). Il frate aveva per vero rinnovato in quei giorni una solenne protesta di obbedienza alla Chiesa; ma, pubblicato il 18 giugno il breve papale, scrisse una Epistola, nella quale proclamava l'invalidità della scomunica, perché fondata su motivi falsi, e ripeteva che non si doveva obbedire a ordini contrari alla carità cristiana e alla legge divina. E, pur riaffermando ancora una volta la sottomissione al papa, celebrò le funzioni religiose nel Natale del 1497; e l'11 febbraio 1498 riprese con sempre maggiore foga la predicazione. Il papa chiese allora a Firenze la consegna e la carcerazione del frate, minacciando l'interdetto (26 febbraio 1498). La Signoria fiorentina, che ora gli era avversa, cercò tuttavia di difenderlo; ma, di fronte a nuove minacce papali, gli proibì di predicare (17 marzo).

Fra' Girolamo sollecitò allora dalle potenze cristiane la convocazione di un concilio, in cui si sarebbe dovuto deporre il pontefice simoniaco, eretico ed infedele. Avversato dalle opposte fazioni, abbandonato da chi non lo voleva seguire nella disobbedienza al pontefice e dal popolo stesso, che da lui aveva invano atteso il miracolo, il Savonarola fu arrestato. Al processo, condotto con arti inique, presero parte nell'ultima fase due commissari papali; condannato a morte, il frate fu degradato, impiccato ed arso (23 maggio 1498).

Per un breve periodo A. sembrò voler procedere a quel risanamento della Curia e della Chiesa che il Savonarola aveva invocato. Quando fu ucciso, nella notte fra il 14 e il 15 giugno 1497, il prediletto suo Giovanni di Gandía - e non se ne conobbe mai con certezza l'uccisore, se pure non fu lo stesso fratello, Cesare - A. vide in quel fatto un castigo e un ammonimento divino. Disse di voler riformare la Curia, a cominciare da se stesso: forse era allora sincero. Una commissione di sei cardinali, scelti per la maggior parte fra i migliori, lavorò attivamente, preparò un piano di riforme, che preludeva al Tridentino, stese una bolla. La bolla non fu pubblicata; le riforme non furono attuate che in piccolissima parte; i buoni propositi di A. erano già svaniti.

Adesso A. era in balìa di un uomo che egli amava e temeva (v. M. Sanuto, III, col. 846), il figliuolo suo Cesare. Della nuova politica fu preannuncio la dichiarazione di nullità del matrimonio di Lucrezia con Giovanni Sforza (20 dicembre 1497), pronunziata da una commissione di alti prelati in seguito a una confessione umiliante strappata allo sposo: un anello della catena che legava i Borja agli Sforza era spezzato. Non sembrava però ancora che né il papa né Cesare avessero trovato con sicurezza la loro via: le dissuasioni del papa a Carlo VIII e al suo successore (7 aprile 1498) Luigi XII dal ritentare imprese in Italia, i nuovi sforzi per una lega di potenze italiane, le trattative per un matrimonio di Cesare con Carlotta, figlia di Federico re di Napoli, le seconde nozze (21 luglio 1498) di Lucrezia con Alfonso duca di Bisceglie, figlio naturale di Alfonso II, parevano indicare un accostarsi dei Borja agli Aragonesi e una resistenza alle cupidigie della Francia. Ma presto fu chiaro dove A. volesse giungere, o anzi dove Cesare lo volesse trascinare.

Deposta per consenso del Sacro Collegio la porpora (17 agosto 1498), Cesare andò in Francia con pompa regale (ottobre 1498); e aveva con sé il cappello per l'Amboise, onnipotente a corte, e per il re la dispensa papale (13 settembre) perché potesse sposare Anna di Bretagna e rinsaldare così l'unità francese, quando una commissione avesse dichiarato, come dichiarò non molto dopo (18 dicembre), la nullità del matrimonio di Luigi con Giovanna di Valois. Fu accolto regalmente; fu tramutato per concessione di Luigi XII da cardinale Valentino in duca Valentino; ebbe per opera del re la mano di Carlotta d'Albret, sorella del re di Navarra e congiunta del re di Francia. Ormai Cesare era "francese"; e "tutto francese" era il papa, perché il re voleva bene a Cesare, "obieto e subieto" di lui (ibid., II, col. 826).

Seguì la rottura con gli Sforza e con la Spagna, i cui oratori rinfacciavano duramente al papa la simonia e il nepotismo. Nella guerra di Francesi e Veneziani contro il Moro, seguita alla Lega di Blois del 9 febbraio 1499, A. ebbe contegno tanto ambiguo che ambedue le parti si vantavano di averlo con sé; ma Cesare era accanto a Luigi XII nell'ingresso trionfale di questo in Milano (6 ottobre). E si accingeva ora a conquistare la Romagna e le Marche. Il pretesto era quello di schiacciare i signorotti riottosi, se non ribelli, contro la Chiesa. Può darsi che A. avesse anche in mira di costruire un forte Stato come baluardo della Chiesa contro le minacce straniere; ma era, questo, uno Stato dei Borja, non della Chiesa, e, alla morte di A., avrebbe reso schiavo il nuovo pontefice, o l'avrebbe costretto a impugnare le armi per disfarlo. E Cesare era luogotenente di Luigi XII e ne seguiva gli ordini; e contribuiva non a liberare l'Italia dalla servitù forestiera, come pensò il Machiavelli, ma ad accrescere la potenza del re di Francia in Italia. Caddero Imola e Forlì (dicembre 1499, gennaio 1500); Cesare, interrotta per un poco l'impresa di Romagna per il risorgere della potenza del Moro, che gli toglieva gli aiuti di Francia, celebrò in Roma un pomposo trionfo (26 marzo 1500); ed ebbe dal papa le insegne di gonfaloniere della Chiesa e la Rosa d'oro e, ciò che più importava, il possesso di Castel S. Angelo e delle altre fortezze papali.

Quando il Moro giacque (10 aprile), il papa ne festeggiò a Roma la definitiva caduta. Ancora un legame stringeva i Borja agli Aragonesi, ed era un pericolo per Cesare, perché Lucrezia, la sposa di Alfonso di Bisceglie, era anche troppo cara al pontefice, che arrivava fino a lasciare, in sua assenza, a lei, poco più che giovinetta, l'amministrazione del palazzo papale e la reggenza degli affari temporali della Chiesa. Forse il ferimento (15 luglio), certo l'uccisione di Alfonso (18 agosto) furono opera di Cesare Borja. Fatto denaro con la creazione cardinalizia del 28 settembre 1500, con l'entrate del giubileo, forse con le somme destinate alla crociata, Cesare riprese la guerra; costrinse a fuggire i signori di Pesaro e di Rimini, prese Faenza, il cui giovine signore Astorre Manfredi e il fratello suo furono poi uccisi in Castel S. Angelo; pose a taglia i Fiorentini; tolse terre all'Appiano di Piombino e al Bentivoglio di Bologna. Dal papa ebbe nel maggio del 1501 il titolo di duca di Romagna.

A. aderì, con una bolla del 25 giugno 1501, al trattato di Granada dell'11 novembre 1500, che segnava la fine della dinastia aragonese di Napoli e la spartizione del Regno tra la Francia e la Spagna. Anche qui possiamo pensare che A. credesse davvero a un ricorso di re Federico ai Turchi, che si acconciasse a un fatto che non poteva impedire, che ritenesse di allontanarsi meno dalla tradizione politica del papato, consentendo lo stabilirsi nel Regno, anzi che d'un solo potente, di due, fra loro rivali e perciò meno pericolosi. Ma era doloroso che il papa aderisse alla iniqua spogliazione di un re, che da suo figlio aveva ricevuto la corona. Cesare partecipava alla conquista del Regno con le milizie francesi, strumento, come sempre, delle ambizioni di Francia. A. obbligò allora i Colonna a cedergli i castelli; poi, siccome essi e i Savelli s'erano stretti con re Federico, li scomunicò, ne confiscò i beni, diede il Ducato di Sermoneta a Rodrigo di Lucrezia e quello di Sutri all'"infans Romanus".

Per favorire i nuovi disegni di Cesare su Bologna e Firenze, Lucrezia fu data, sposa per la terza volta, a ventun anni, ad Alfonso, figlio di Ercole d'Este duca di Ferrara (30 dicembre 1501); Luigi XII era intervenuto per vincere la riluttanza del duca. Di Piombino, tolta agli Appiano (settembre 1501) e fortificata, si disse, da Leonardo da Vinci, Cesare mirava a farsi un punto d'appoggio per la conquista della Toscana. Intanto occupava Urbino e Camerino (giugno e luglio 1502); da Bologna lo tratteneva Luigi XII. E al re, venuto in Italia, ricorrevano quanti erano stati spogliati, o temevano di essere spogliati dal Valentino. Ma questi, corso a Milano, riusciva a ricuperarne l'amicizia, promettendogli aiuto contro la Spagna; ancora una volta il re di Francia appariva arbitro delle cose d'Italia. Fortuna per Cesare, che poté, con l'aiuto del re, salvarsi dal pericolo dell'unione dei suoi stessi condottieri con i nemici suoi nella congiura di Magione (ottobre 1502) e della ribellione delle sue più recenti conquiste; il "bellissimo inganno" di Senigallia (31 dicembre) lo sbarazzò dei più pericolosi congiurati; altri furono tolti di mezzo più tardi.

A Roma A. fece arrestare il cardinale Orsini con altri della famiglia, o aderenti a questa: il cardinale morì in carcere con sospetto di veleno; tutte le terre degli Orsini furono prese da Cesare, eccetto Bracciano, salvata dalla protezione del re. Cesare occupò ancora Città di Castello e Perugia; nuovo denaro veniva da una ulteriore creazione cardinalizia (31 maggio 1503); morte di ricchi cardinali e prelati, carcerazione di altri, anche colpevoli, erano attribuite, a torto o a ragione, alla sete di denaro dei Borja. Si sussurrava da tempo che il Valentino, col favore del papa, mirasse ben in alto, nulla meno che alla Corona d'Italia.

Ma a Luigi XII non conveniva che Cesare si facesse troppo potente in Italia: sulla via di Firenze, come di Bologna, il Valentino trovava l'ostacolo della Francia. D'altra parte, A. era stretto dal timore di ridursi "zago", chierichetto, del re di Francia (cfr. A. Giustinian, I, p. 242); vedeva con sospetto un possibile accordo fra gli stranieri, senza partecipazione degli Italiani; sentiva, anche, il pericolo che fosse asservita la Chiesa. Fin dal 20 marzo 1502, per mezzo del suo segretario Adriano da Corneto, aveva sollecitato i Veneziani a collegarsi con lui; e ripeté poi molte volte l'invito (ibid., I-II, passim). Era probabilmente sincero, quando diceva di volere l'unione di "questa povera Italia" per "liberarla dalla servitù" (ibid., I, pp. 477 e 466); ma pensava anche, sopra tutto nelle ore del pericolo, ad assicurare le fortune del suo Cesare, che voleva "collocato nelle brazze" della Signoria di Venezia (ibid., p. 394 e altrove più volte). E Venezia non era per nulla disposta a fare da custode ai domini di Cesare, di cui anzi "el furor iuvenil" (ibid., p. 396) le faceva paura.

Deluso nelle speranze sui Veneziani, A. si volgeva ora alla Spagna, già vittoriosa nel Regno: la creazione cardinalizia del 31 maggio 1503 non era solo un affare simoniaco, ma una manifestazione di favore agli Spagnoli, a cui erano dati cinque cappelli su nove; poteva parere assicurata la successione nel pontificato a uno spagnolo o a un candidato di Spagna. La morte, probabilmente di apoplessia durante un'infezione di malaria, colse fra questi disegni A. il 18 agosto 1503.

È immeritata la lode data ad A. di precursore della riforma cattolica: il proposito di riforma, come vedemmo, ebbe durata breve e non sortì alcun esito; non foss'altro, le creazioni cardinalizie e le nomine di vescovi, fatte troppo spesso per simonia e nelle persone di uomini non degni, non consentono di vedere in lui alcuno sforzo serio di migliorare la Chiesa. È tuttavia da riconoscere che l'opera di lui nel campo religioso, sebbene scarsa perché soffocata dalle brighe politiche e dal nepotismo, non fu trascurabile. L'ortodossia di A. non fu messa in dubbio seriamente neppure dagli avversari più fieri; poté anche essere sincera la sua pietà, sebbene malamente congiunta con trascorsi morali gravissimi.

Della fede cattolica e dei diritti della Sede papale fu custode geloso: combatté gli eretici, contro i quali rinnovò il 4 aprile 1493 e di nuovo negli anni seguenti la bolla In coena Domini; rimise in vigore per la Germania le disposizioni di Innocenzo VIII sulla censura ecclesiastica dei libri (1° giugno 1501); incaricò Adriano da Corneto, suo nunzio in Inghilterra, di riformare le Chiese e i monasteri di questo paese (5 giugno 1493) e favorì disegni di riforma in Francia e in Spagna; nei Paesi Bassi difese contro le autorità laiche i privilegi ecclesiastici.

Tollerante con gli ebrei, alle cui pingui casse poteva attingere, fu, come spagnolo, severo contro i "marrani", costretti a pubbliche penitenze e a taglie gravose. Per provvedere a una sollecita spedizione dei brevi papali, istituì il Collegio degli "Scriptores brevium apostolicorum" (1° aprile 1493). Favorì gli Ordini religiosi, come gli Agostiniani, a cui diede in perpetuo l'ufficio di sacrista del Sacro Palazzo, e i Minimi di s. Francesco di Paola, che approvò nel 1493; ebbe relazioni spirituali con la beata Colomba da Rieti, nonostante la franchezza con cui ella, nuova Caterina, flagellava i vizi della Corte papale.

Promosse la conversione degli Orientali e le missioni, anche nelle terre novamente scoperte, dove fu inviato (25 giugno 1493) con larghi poteri il francescano Bernal Boyl, che aveva per compagno il Las Casas, più tardi coraggioso difensore degli Indiani. La conversione degli indigeni delle nuove terre era anche, nel pensiero di A., la giustificazione delle celebri bolle del 3 e 4 maggio 1493, con le quali il papa tracciava una linea di demarcazione tra i domini coloniali spagnoli e portoghesi, dal polo artico all'antartico, a cento miglia dalle isole Azzorre e da quelle del Capo Verde, attribuendo alla Spagna le terre "versus occidentem et meridiem", purché non fossero già dominio di altra potenza cattolica, e concedendole i privilegi stessi di cui godevano i Portoghesi nelle loro terre d'oltremare (P. De Roo, III, pp. 475 ss.). Non era questo veramente un arbitrato fra Spagna e Portogallo, perché A., dirigendo le bolle ai sovrani di Castiglia, diceva di averle accordate "motu proprio, de nostra mera liberalitate" e senza dubbio le aveva concesse per la preghiera unilaterale di quei sovrani. Ma il fatto che questi documenti papali servissero di base alle trattative future fra le due potenze è testimonianza di quanto alto fosse ancora, con A., il prestigio del pontificato romano.

E ne fu altra prova il concorso larghissimo al giubileo, indetto da A. per l'anno secolare 1500; si riversò a Roma grande folla di pellegrini - era fra loro il Copernico - noncuranti della peste e dei pericoli delle vie, che i decreti del papa non erano riusciti a mantenere sicure: si poté allora dire che "ingens orbis in urbe fuit" (v. Sigismondo de' Conti, Le storie de' suoi tempi, II, Roma 1883, p. 218). Furono molte le offerte; ma servirono a Cesare per le imprese di Romagna.

A. non era un letterato: scriveva e parlava ora nel dialetto suo valenziano, ora in un italiano misto di idiotismi catalani e castigliani; era anche oratore mediocre. Tuttavia protesse gli studi; stanziò denaro per la ricostruzione della Sapienza di Roma; diede a dotti canonisti alti uffici ecclesiastici, a Felino Sandei il vescovado di Penne (1495), la carica di referendario, il vescovado di Lucca (1499); a Giovanni Antonio Sangiorgio la porpora (1493). Favorì gli umanisti, come Pomponio Leto, Michele Ferno, che fu il suo panegirista, Adriano Castellesi da Corneto, che fu suo tesoriere (1500) e cardinale (1503), Lodovico Podocataro da Cipro, segretario suo e anch'egli cardinale (1500), Scipione Carteromaco, Aldo Manuzio, il Lascaris, i due Brandolini; minore fortuna ebbe il Poliziano, per il quale Piero de' Medici chiese invano il cappello cardinalizio. Ma negli uffici di Curia il papa preferì gli Spagnoli, a gran dispetto degli Italiani.

Amò l'arte, quantunque fosse ben lontano dal largo e illuminato mecenatismo di Sisto IV e di Giulio II. Ancora cardinale, s'era fatto costruire in Roma, tra ponte S. Angelo e Campo de' Fiori un magnifico palazzo, che è ora Sforza-Cesarini, e un altro palazzo in Pienza; e ad Andrea Bregno aveva commesso l'altar maggiore di S. Maria del Popolo. Di lui papa sono da ricordare il soffitto di S. Maria Maggiore, decorato riccamente con oro, che si disse importato dall'America; la via Alessandrina da Castel S. Angelo al Vaticano, che fu poi nota col nome di Borgo Nuovo ed è ora scomparsa; i lavori di Antonio da Sangallo in Castel S. Angelo e, pure in Castello, gli affreschi, perduti, di Pinturicchio; la loggia delle benedizioni in S. Pietro.

Ma sopra tutto il nome del papa Borja è legato alle stanze, scelte per sua dimora in Vaticano, che il Pinturicchio decorò, fra il 1492 e il 1495, con ricchi soffitti ed affreschi rappresentanti fatti scritturali ed episodi della vita di Cristo, della Vergine e dei santi, una delle più splendide opere del Rinascimento. Campeggia in ogni parte il toro, stemma dei Borja; in un affresco è rappresentato il pontefice in ginocchio davanti a Gesù risorto: è favola invece che egli vi apparisse in atto di preghiera davanti alla Madonna, che aveva i lineamenti di Giulia Farnese, ed è tutt'altro che certo che in una S. Caterina d'Alessandria sia ritratta Lucrezia. Il cadavere del papa A., dopo essere stato esposto breve tempo in S. Pietro, fu in gran fretta e senza onore sepolto nella chiesa di S. Maria della Febbre, presso la basilica; dal 1610 riposa in S. Maria di Monserrato, dove soltanto nel 1889 ha avuto decoro di tomba. Ma non ha riposato, né riposa, la fama di lui.

Protestanti, illuministi, razionalisti hanno tratto dalla condotta immorale di A. argomento per la lotta contro il pontificato. Libellisti, romanzieri hanno intessuto sul suo conto le storie più fantastiche. E, d'altro lato, cattolici non bene accorti, come un Ollivier, un Leonetti, un De Roo, hanno mostrato di ritenere che la difesa ad oltranza del Borja fosse difesa dell'autorità altissima ch'egli rappresentava.

Pagine assai equilibrate ha scritto, dopo il Rinaldi, il Ranke ed il Reumont, L. von Pastor; la parte del volume III della sua Storia dei papi, dedicata ad A., rimane, sebbene non si possa consentire con lui in ogni punto, il più completo e documentato e sereno studio che si abbia sinora sul papa Borja. All'opera di G. Pepe, che ha giudicato severamente, ma non spassionatamente, la politica dei Borja, s'è contrapposto un rapido quadro di questa tracciato dal Soranzo, che, a sua volta, sembra avere in alcuni punti passato la misura della difesa. Il Soranzo ha anche tentato, con poca fortuna, di demolire la credibilità di uno dei più fieri accusatori di A., il cerimoniere papale Burckard, di negare, o almeno di mettere in dubbio la simonia nell'elezione, di dare una spiegazione onesta alle relazioni del Borja con la Farnese.

Assai meno serio del lavoro del Soranzo è un volume apologetico, in lingua spagnuola, di O. Ferrara, tradotto successivamente anche in italiano. E nella Spagna vi è tutto un movimento per la riabilitazione, anzi per l'esaltazione del Borja, del quale movimento è testimonianza, fra altri, un lavoro del canonico Elias Olmos y Canalda, che nel 1954 era giunto alla settima edizione. In verità, A. appare, sott'ogni rispetto, minore della sua fama. I vizi di lui non erano forse più gravi di quelli di molti suoi contemporanei; parvero ripugnanti sopra tutto perché egli era vescovo, cardinale, pontefice. Né l'attività religiosa, né il mecenatismo, pur largo, possono reggere il confronto con quello di altri pontefici.

L'opera politica fu oscillante, finché non lo dominò la selvaggia energia del Valentino. E, come le sue incertezze e l'egoismo personale e familiare indebolirono nei primi anni la sua azione di difesa dell'Italia dagli stranieri, così l'immoderato amore ai figliuoli, e in particolare a Cesare, tolse poi fede alle sue proteste di sentimenti italiani; lo rese anzi complice di Cesare nell'asservimento dell'Italia alla Francia. La creazione di uno Stato, che aveva la base nella Romagna, fu benefica alle popolazioni, liberate dal giogo dei tirannelli, e poteva costituire un nucleo intorno al quale si raccogliessero le forze ancora libere in Italia; ma lo Stato era congiunto con la fortuna dei Borja. Morto A., lo Stato borgiano mollò; e Giulio II dovette rifare intero il cammino, battendo tutt'altra via e con risultati ben più durevoli. Giovanni Battista Picotti.

Negli ultimi quarant'anni non si sono registrati significativi ritrovamenti archivistici. In compenso una nuova sensibilità storiografica ha spinto a rileggere in modo diverso sia la vicenda romana del pontefice e della sua famiglia, sia il ruolo di questi nelle guerre d'Italia. Gli "eccessi" dei Borja sono stati recuperati in quello che è considerato il tipico comportamento delle grandi famiglie tardo quattocentesche, mentre un'intensa produzione letteraria e cinematografica - che prende le mosse da La Rome des Borgia di Guillaume Apollinaire (Paris 1914) e arriva a O César, o nada (Madrid 1998) di Manuel Vázquez Montalbán, passando per i Contes immoraux (1974) di Walerian Borowczyk - ha fatto di A. e dei figli gli eroi, non del tutto negativi, dell'infrazione della norma.

Una storiografia legata alla rivoluzione dei costumi negli anni Sessanta è stata pronta a recepire queste indicazioni e non è casuale che la prima critica documentata al giudizio tradizionale sia stata firmata da Michael E. Mallett nel 1969. In seguito gli studiosi hanno anche ribadito come il crollo del sistema di equilibrio italiano debba essere visto nell'insieme della storia europea e non si debbano quindi esagerare ruolo e "colpe" di A. (il dibattito è riassunto in The French Descent into Renaissance Italy, 1494-1495, a cura di D. Abulafia, Aldershot 1995). Infine, a mano a mano che ci si avvicinava al 1992, si è collegato il papa eletto nel 1492 alla scoperta dell'America: i suoi interventi sul Nuovo Mondo sono stati così intensamente studiati, quasi a dimostrare che quello è stato il vero legato di Alessandro VI.

Wikipedia

Alessandro VI, nato Roderic Llançol de Borja, (italianizzato Rodrigo Borgia) (Xàtiva, 1º gennaio 1431 – Roma, 18 agosto 1503), fu il 214º papa della Chiesa cattolica dal 1492 alla morte.

Note biografiche

Rodrigo, trasferitosi dalla nativa Valencia in Italia ancora giovanissimo, fu allievo di Gaspare da Verona e studiò poi giurisprudenza a Bologna.

Nipote di Papa Callisto III (al secolo Alonso de Borja), fratello della madre Isabella, fu da questi elevato alla porpora a soli 25 anni e volle italianizzare il suo nome in Borgia, così come aveva fatto in precedenza lo zio Papa. Successivamente ricoprì anche l'incarico di Vicecancelliere della Chiesa romana.

Rodrigo Borgia era un uomo dissoluto e un libertino impenitente e come tale si comportò per tutta la vita: da laico, da cardinale e da papa ancora di più, senza minimamente preoccuparsi di celare agli altri questa sua scandalosa condotta di vita.

Il suo percorso terreno fu disseminato di numerosi figli, ovviamente tutti illegittimi. Da una relazione con Giovanna Cattanei, detta Vannozza, nacquero quattro figli ed altri tre nacquero da una donna sconosciuta. Nel corso del suo pontificato gli nacquero altri due figli; la sua amante ufficiale fu Giulia Farnese, moglie di Orso Orsini.

La storiografia oggi è ormai unanime nel ritenere che la scandalosa condotta di vita di Rodrigo Borgia, caratterizzata da un esasperato erotismo e da una continua ricerca del piacere fisico, debba essere attribuita ad una forma patologica della sua psiche.

Se l'elezione del Cybo, suo predecessore, fu certamente macchiata da trattative simoniache gestite dal cardinal Giuliano Della Rovere e dallo stesso cardinal Borgia, altrettanto lo fu l'elezione del Borgia, tant'è che, non appena eletto, questi si affrettò a provvedere immediatamente ad onorare gli impegni contratti nel corso del Conclave.

Il suo principale sostenitore, cardinal Ascanio Sforza, fu gratificato con la nomina di Vicecancelliere e con la cessione del palazzo padronale della famiglia Borgia. Ai Colonna furono ceduti la città di Subiaco e i vicini castelli. Il cardinale Orsini ottenne i possedimenti di Soriano nel Cimino e Ponticelli, mentre al cardinal Savelli fu ceduta Civita Castellana.

Agli inizi del suo pontificato il Borgia attuò importanti mutamenti nella disordinata Roma del tempo. Ristabilì, infatti, l'ordine nella città eterna, caduta nel caos più totale nel corso della sede vacante e adottò importanti provvedimenti di politica economica per il risanamento della finanza pubblica. Sembrava quindi avviato ad un pontificato decisamente dignitoso e forse anche animato da una ravvivata spiritualità, tramite un promettente abbandono di quella condotta libertina che ne aveva caratterizzato l'esistenza fino a quel momento.

La morte di Innocenzo VIII

Il 25 luglio 1492 moriva papa Innocenzo VIII, uomo mondano (padre di numerosi figli, dei quali era orgoglioso) e venale che aveva praticato il nepotismo e la simonia, mal amministrando le già dissestate finanze della Chiesa.[2] Tre mesi prima era scomparso anche Lorenzo il Magnifico, privando così l'Italia di un'importante personalità politica continentale e di un fondamentale punto di riferimento dell'equilibrio fra gli Stati italiani all'indomani della pace di Lodi.

Il contesto storico è completato dalla Reconquista della penisola iberica per mano dei sovrani Ferdinando II d'Aragona e Isabella di Castiglia, mentre la scoperta dell'America (12 ottobre) sarebbe avvenuta solo tre mesi dopo l'elezione di Alessandro VI, anche se è singolare e per certi versi criptico che sulla tomba del suo predecessore vi sia un epitaffio che ricorda che la scoperta del nuovo mondo sia avvenuta sotto il pontificato di Innocenzo VIII.

I tempi non erano ancora maturi però, per aspettarsi un pontificato molto diverso dal precedente. L'inizio del suo pontificato fu a dire il vero promettente, riportò ordine a Roma e cercò di unificare le forze cristiane contro il pericolo turco, ma ben presto si macchiò anche lui di nepotismo.
Il Conclave

Nel 1492 alla morte di papa Innocenzo VIII furono solo 23 i cardinali che il 6 agosto 1492 si riunirono in conclave nella Cappella fatta costruire da papa Sisto IV pochi anni prima e che già mostrava i capolavori pittorici di Botticelli, Perugino e del Ghirlandaio.

Nella notte tra il 10 agosto e l'11 agosto, il Sacro Collegio volle elevare al Soglio pontificio il cardinal Rodrigo Borja y Borja, valenzano. Fu incoronato in San Pietro il 26 agosto successivo con il nome di Alessandro VI. Aveva 61 anni.

Figli

Ebbe quattro figli da Vannozza Cattanei, nobildonna di origine mantovana, nobile di Casa Candia, che a Roma svolgeva l'attività di locandiera:

    * Cesare Borgia (1476-1507)
    * Giovanni Borgia (1478-1497)
    * Lucrezia Borgia (1480-1519)
    * Goffredo Borgia (1481-1516)

Ebbe forse, ma questa paternità è incerta, una figlia da Giulia Farnese:

    * Laura Orsini (1492-1530)

Inoltre ebbe altri tre figli da madre ignota:

    * Pedro Luìs Borgia (? - 1488) Duca di Gandia
    * Girolama Borgia (1469 – 1483)
    * Isabel Borgia (1467-1547)

Cesare e Lucrezia

Dei sette figli avuti nel corso degli anni, due in particolare conquistarono il suo cuore e le sue attenzioni, e su di essi riversò per tutta la vita un grande affetto, oltre che un fiume di ricchezze: Cesare e Lucrezia.

Cesare, figlio di Vannozza Cattanei, era stato nominato Protonotario apostolico già alla tenera età di sei anni da Sisto IV. Innocenzo VIII lo nominò vescovo di Pamplona e il padre lo nominò arcivescovo di Valencia, conferendogli la porpora cardinalizia nel 1493, a soli 18 anni. Cinque anni dopo dismise la porpora, contrasse matrimonio con una cugina del re Carlo VIII di Francia, fu da questi nominato duca del Valentinois (da cui proviene il soprannome "Valentino") e si dedicò esclusivamente ad attività militari che avrebbero dovuto condurlo alla conquista di vasti territori. E così fu. Con astuzia e sagacia rare, Cesare riuscì ad impossessarsi di numerosi territori adriatici, creando un importante sbocco ad est per la Chiesa. La morte del padre segnò il declino delle fortune militari di Cesare, che morì a sua volta pochi anni dopo.

Lucrezia, figlia anch'essa di Vannozza Cattanei, è passata alla storia come un personaggio molto controverso, donna dissoluta e forse incestuosa sia con il padre sia con il fratello Cesare. Così almeno si riteneva fino a parecchi anni fa; oggi si è persuasi del fatto che Lucrezia fosse una donna sfortunata ed al tempo stesso capace; i suoi rapporti con i familiari, sembrano agli storici d'oggi una calunnia dei suoi nemici. Contrasse un primo matrimonio, all'età di dodici anni, nel 1493, con Giovanni Sforza, conte di Pesaro. Alcuni anni dopo, il suo matrimonio fu dichiarato nullo in quanto non consumato. Una perizia medica accertò che a diciassette anni Lucrezia era ancora vergine.[4] All'età di diciotto anni, andò in sposa al principe di Bisceglie, Alfonso, figlio naturale di Alfonso II di Napoli. Ma Alfonso fu assassinato nell'agosto del 1500 per ordine di Cesare, forse ingelosito dal sincero amore della sorella per il marito. Il 30 dicembre 1501 Lucrezia sposò in terze nozze Alfonso I d'Este, e si trasferì a Ferrara, dove visse fino alla morte avvenuta nel 1519 a soli 39 anni a causa della setticemia, dopo aver dato al marito sette figli: Alessandro, Ercole, Ippolito, Alessandro, Eleonora, Francesco, Isabella Maria.

La discesa di Carlo VIII

Il primo atto politico che Alessandro VI dovette affrontare, fu un confronto con Carlo VIII di Valois, Re di Francia, nel 1493, allorquando questi, mediante una serie di trattati stipulati con Enrico VII d'Inghilterra, Ferdinando e Isabella di Spagna e Massimiliano I d'Asburgo, si era assicurato un solido appoggio per la riconquista del Regno di Napoli, quale eredità angioina ma che era nelle mani degli aragonesi.

Le mire di Carlo VIII sul Regno di Napoli non erano condivise da papa Alessandro, soprattutto perché anche Ludovico il Moro, Duca di Milano si era alleato con il re francese dimostrando oltre a scarsa lungimiranza politica una forte stupidità. Ciò stava a significare che se la riconquista di Napoli da parte di Carlo VIII fosse andata a buon fine, lo Stato Pontificio si sarebbe trovato nella morsa dei francesi e ne avrebbe dovuto subire inevitabilmente il predominio.

Al fine di scongiurare questa infausta eventualità, papa Alessandro si affrettò a concludere con gli aragonesi di Napoli un'alleanza sancita anche dal matrimonio di suo figlio Jofré con Sancha, figlia di Alfonso II di Napoli e, successivamente, procedette all'incoronazione di Alfonso II d'Aragona a Re di Napoli.

Carlo VIII, giudicando un affronto queste iniziative del Papa, scese in Italia alla testa del suo esercito. Re Alfonso, intravvedendo una situazione di pericolo per la sua persona, cedette la corona di Napoli al figlio Ferdinando II e riparò in Sicilia. Lo stesso Papa si trovò in enorme difficoltà all'interno del suo Stato a causa della ribellione scatenata dai Colonna e da numerose famiglie nobili romane, cui non sembrava estranea la mano del cardinal Della Rovere.

Quando il 31 dicembre 1494 Carlo VIII entrò in Roma, non trovò alcuna resistenza, e il Papa era asserragliato in Castel Sant'Angelo. Avendo compreso che la posizione del Valois era vincente, Alessandro VI decise di scendere a patti con il sovrano francese, offrendo libero passaggio all'esercito francese sul suolo pontificio e mettendo a disposizione anche il figlio Cesare come guida fino ai confini con il Regno di Napoli, in cambio del giuramento di obbedienza del Re verso il Papa. La qual cosa avvenne in un pubblico concistoro. Dopo di che il Re francese entrava a Napoli, senza colpo ferire. Era il 22 febbraio del 1495.

Ma la facilità con cui Carlo VIII era riuscito a conquistare Napoli cominciò a spaventare tutti gli altri regnanti d'Europa, i quali formarono una nuova coalizione antifrancese, la Lega Santa, comprendente il Papa, la Spagna, Massimiliano d'Asburgo, la stessa Milano e Venezia. E quando gli spagnoli sbarcarono in Calabria, Carlo VIII capì subito che il vento cominciava a spirare contro di lui, per cui si affrettò a riprendere la via del ritorno risalendo la penisola.

Fu però raggiunto dall'esercito della coalizione al comando di Francesco II Gonzaga, che, in una sanguinosissima battaglia, combattuta a Fornovo, nel parmense, il 6 luglio 1495, ebbe la meglio sull'esercito francese. Carlo VIII, benché sconfitto, riuscì ugualmente ad attraversare le Alpi e riparare in Francia. Ferdinando II d'Aragona poté così ritornare sul trono di Napoli.
Luigi XII di Francia

Nel 1498, scomparso senza eredi Carlo VIII, salì sul trono di Francia Luigi XII d'Orleans. Uno dei primi atti del nuovo Re fu quello di scacciare Ludovico il Moro da Milano, ritenendosi l'erede legittimo del Ducato, in forza del ben noto testamento dei Visconti che assegnava agli eredi di Valentina Visconti il Ducato, in caso di estinzione della dinastia. Poiché la dinastia Visconti si era estinta, Luigi XII avanzava pretese di eredità essendo egli discendente diretto di Valentina. Il Papa, però, intravide in questo atto grandi possibilità per il figlio Cesare, per cui si affrettò a concludere un'alleanza con il nuovo sovrano francese. Re Luigi, però, interpretò questa alleanza in una chiave del tutto diversa, cioè intravide un lasciapassare per la Francia verso la riconquista del Regno di Napoli, quale eredità dei suoi antenati angioini.

Orbene, per cementare i buoni rapporti ritrovati tra la Francia e il Papa, Luigi XII diede in moglie a Cesare Borgia, la principessa Carlotta d'Albret, sorella del Re di Navarra; gli assegnò anche il Ducato di Valentinois, gradito a Cesare anche perché gli consentiva di recuperare il soprannome di Valentino, con cui era già noto quando era Arcivescovo di Valencia, e gli promise di sostenerlo nella conquista di parte della Romagna, cui il rampante Cesare ambiva.

Questa alleanza produsse i suoi effetti pressoché immediatamente. Luigi XII aprì la campagna d'Italia e conquistò subito Milano con l'aiuto anche dei mercenari svizzeri che allora possedevano l'esercito più equipaggiato e meglio organizzato d'Europa. Tant'è che, in cambio dell'aiuto dato ai francesi, soprattutto nella vittoriosa battaglia di Novara del 1500, mediante il trattato di Arona del 1503 ottennero Bellinzona e l'intero Canton Ticino.

La morte di Savonarola

Papa Borgia fu anche moralmente corresponsabile della morte del frate domenicano Girolamo Savonarola, condannato al rogo per eresia nel 1498 con condanna eseguita nel maggio dello stesso anno in Piazza della Signoria a Firenze. Le sue ceneri sparse in Arno assieme ad altri suoi seguaci. Ironia della sorte, Alessandro fu corresponsabile della morte di uno dei pochi uomini che seguisse con interesse e stimasse; infatti la scomunica (falsa) contro il Savonarola non fu mai impartita dal Papa, bensì dal cardinale arcivescovo di Perugia Juan López su istigazione di Cesare Borgia, che assoldò un falsario per creare una finta scomunica e distruggere il frate. Alessandro protestò vivamente contro il cardinale e minacciò Firenze di Interdetto affinché gli fosse consegnato il frate, così che potesse salvarlo e farlo discolpare, ma era talmente succube del figlio Cesare che non agì con tutto il potere che aveva. Alessandro lasciò morire un uomo che riteneva santo, salvo poi lamentarsi col Generale dei Domenicani d'essere stato ingannato, e assolverlo post mortem dicendo nel suo VII concistoro (4 settembre 1498) che lo avrebbe volentieri ascritto all'albo dei santi. Certo è che Savonarola fu vittima delle sue stesse prediche e di circostanze politiche più grandi di un uomo che per "amor di Dio" fu protagonista estremamente discusso e non sempre positivo della vita fiorentina [6].

Il Valentino e le conquiste dei Borgia

Negli anni 1500-1503, Cesare Borgia, che ormai veniva da tutti chiamato "il Valentino" in quanto Duca di Valentinois, scatenò le sue soldataglie in Romagna alla conquista di quei territori a cui egli aspirava e in forza della promessa fattagli dal Re di Francia in occasione delle sue nozze con la principessa Carlotta.

Se, però, re Luigi gli assicurava l'appoggio politico, il Valentino aveva necessità di reperire molto danaro per sostenere il suo esercito. Gli venne in aiuto il padre mediante un'ennesima operazione di simonia. Papa Alessandro vendette, infatti, ben dodici titoli di cardinale. Il prezzo pagato fu molto alto e sufficiente per dare avvio all'impresa militare del figlio.

Con notevole audacia e sfrontatezza il giovane Borgia conquistò, in successione, prima Pesaro, Cesena e Rimini e poi anche Faenza, Urbino e Senigallia. Il 12 gennaio 1500 si arrese Forlì: il capoluogo romagnolo, governato fin dal 1488 da Caterina Sforza, madre di Giovanni dalle Bande Nere capitolò cedendo la Rocca di Ravaldino. Dopo di che, fu investito dal "Papa padre" del titolo di Duca di Romagna. Da quel momento lo Stato della Chiesa perdeva una parte cospicua del suo territorio che passava nelle avide mani della famiglia Borgia.

L'obiettivo ultimo dei Borgia era quello di trasformare lo Stato Pontificio in uno stato a guida laica sotto la loro influenza, sottraendolo al potere clericale e dando inizio ad una dinastia; in altri termini i Borgia intendevano secolarizzare lo Stato della Chiesa.

Per raggiungere quest'obiettivo era necessario eliminare tutti gli ostacoli rappresentati dalle potenti famiglie che costituivano la nobiltà romana; furono quindi confiscati i possedimenti ai Savelli, ai Caetani e ai Colonna e furono ridistribuiti tra i membri della famiglia Borgia: Giovanni, figlio di appena due anni dello stesso Papa, diventò Duca di Nepi; mentre Roderico, figlio di due anni di Lucrezia, divenne Duca di Sermoneta. Cesare stesso conquistò il Ducato di Urbino. Infine venne attaccata la famiglia Orsini, con l'eliminazione fisica del cardinale Giovan Battista e il bando decretato contro tutti gli altri componenti della famiglia.

I Borgia mirarono allora alla conquista della Toscana, per cui fu loro necessario ottenere nuove risorse che furono ricavate da Alessandro VI tramite la vendita di alte cariche curiali e nomine cardinalizie.

Queste azioni spregiudicate portarono all'insorgere di un clima di terrore nello Stato Pontificio.

Morte del Papa

Si è sempre discusso molto, e se ne discute ancora, sulle circostanze e sulle modalità della morte di Papa Alessandro VI.

Forse fu la malaria a porre fine alla vita del Borgia.

C'è, però, un'altra versione che vuole che la morte del Papa sia avvenuta per avvelenamento, ma per errore. Alcune fonti indicano infatti che il cadavere del Papa fosse molto gonfio e la lingua fosse di color violaceo, sintomi di un forte avvelenamento.

Si dice che, nel corso di una riunione conviviale presso la dimora del cardinale Adriano Castellesi di Corneto, fosse stato posto del veleno nel vino destinato al Cardinale, ma che per errore il vino fosse stato bevuto dal Papa, e annacquato da Cesare, che pure si ammalò gravemente, ma non morì. Altre cronache dell'epoca riferiscono, però, che al momento della dipartita del Papa anche il cardinal Castellesi e altre persone della servitù fossero stati colpiti dallo stesso male, avvalorando la tesi di un'intossicazione, magari involontaria, dei cibi.[8] John Kelly, decano della St. Edmunt Hall di Oxford, afferma che ci sono buoni motivi per pensare ad un omicidio, avvenuto per errore, essendo probabilmente il veleno destinato ad un altro commensale.

La morte di Papa Alessandro produsse il crollo di tutti i piani di conquista del Valentino. Venivano meno tutte le fonti di finanziamento, rendendo impossibile a Cesare Borgia il mantenimento del suo esercito. Il figlio prediletto di Papa Borgia si avviava così ad un triste declino. Riuscì a sopravvivere, comunque, anche in maniera piuttosto fortunosa, sia sotto il pontificato di Pio III che di Giulio II. Dopo di che, fu arrestato dal generale Consalvo di Cordova il Gran Capitano e condotto prigioniero in Spagna, dove morì nel 1507 cercando di difendersi da dei sicari, dopo essere sfuggito alla prigione. Aveva all'incirca 32 anni.

Il cadavere di Alessandro VI subì vicende travagliate. Fu prima deposto, senza alcuna celebrazione funebre, in San Pietro, quasi furtivamente, a causa dei disordini scoppiati all'indomani della sua morte. Fu successivamente traslato nei sotterranei del Vaticano. Molto tempo dopo la sua mummia fu nuovamente rimossa e sepolta nella chiesa di Santa Maria di Monserrato, la chiesa degli Spagnoli in Roma, dove stette praticamente dimenticata per secoli fino alla sua definitiva sistemazione sul finire del XIX secolo.

[...]

Valutazioni finali

Citando Gervaso Alessandro "fu senza scrupoli, senza fede, senza morale", connotazioni incompatibili con il pontificato, ma che non gli impedirono di essere un politico e un monarca di altissimo livello,[9].

Una delle note positive ascrivibili al suo papato si deve al mecenatismo: per esempio sotto il suo pontificato il cardinale Jean Bilhères de Lagraulas, ambasciatore di Carlo VIII presso la Santa Sede, commissionò la celebre Pietà a Michelangelo. Gli appartamenti Borgia, nei palazzi vaticani, furono invece commissionati al Pinturicchio, che realizzò un notevole ciclo di affreschi in pieno stile rinascimentale (oggi ospitano la sezione di arte moderna dei Musei Vaticani).

Tra i suoi sostenitori, dopo la morte, troviamo il Ferrara e il Fusero che arrivarono a definirlo un "buon sacerdote". Pasquino nella saggezza popolare romana ne traccia forse il giusto epitaffio:

«Tormenti, insidie, violenze, furore, ira, libidine, siate spugna orrenda di sangue e crudeltà! Giace qui Alessandro VI; godi ormai libera, Roma, perché la mia morte fu vita per te»

Più recenti ricerche storiche, mentre confermano molte pecche di questo papa rinascimentale, ne attenuano o annullano altre non meno infamanti.

Si mette in risalto anche la sincera pietà religiosa di questo papa che passava facilmente da comportamenti "licenziosi" a sincere pratiche di pietà devozionali e penitenziali. Ha provveduto, tra l'altro, che tra il popolo si diffondesse la pratica quotidiana del rosario, ha favorito e consolidato il culto verso il Santissimo Sacramento. Questo contrasto tra il comportamento morale e la pietà religiosa ha fatto sorgere il dubbio che Alessandro soffrisse di qualche anomalia della personalità, come l'ossessione patologica per il piacere sessuale.

L'appoggio dato al figlio Cesare "Valentino" negli eccessi aggressivi per il ripristino della sovranità dello Stato Pontificio in Romagna era, in Alessandro, orientato a difendere l'integrità dello stato più che a sua personale sete di potere. Per conseguire questa integrità dello stato e difenderlo, Alessandro non mancò di lasciare capire che era pronto a invadere territori degli stati confinanti.

Tra i suoi successi di indirizzo politico nelle avverse circostanze del tempo, non va sottovalutata la sua politica di tolleranza riguardo agli ebrei. Quando questi venivano espulsi dalla Spagna e poi respinti da Firenze, Napoli, Milano, Venezia, Alessandro VI ne accolse fino a 8000 e multò pubblicamente gli ebrei locali che, timorosi di perdere il loro status civile, insistettero, anche con regalie, presso le autorità pontificie perché ai loro correligionari non fosse concesso l'asilo. Aveva anche creato un centro di accoglienza per gli ebrei sull'Appia antica. Per questa sua tolleranza verso gli ebrei veniva chiamato il papa "marrano"; in un processo contro 180 marrani, egli volle fosse accettata la loro proposta di riconciliazione: purtroppo uno di questi, ostinatosi, subì la condanna a morte.[4]