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Scrittore (Pescara 1863 - Gardone Riviera 1938).
Fu uno dei maggiori esponenti del decadentismo europeo. Dotato di una cultura molto vasta, mostrò un'inesauribile capacità di assimilare le nuove tendenze letterarie e filosofiche, rielaborandole con una raffinata tecnica di scrittura.
VITA
Era ancora convittore presso il collegio Cicognini di Prato quando esordì con Primo vere (1879), una raccolta di poesie pubblicata a spese del padre (Francesco Paolo Rapagnetta, che, adottato nel 1851 da una zia materna e dal marito di questa, Antonio D'A., ne aveva assunto il cognome, trasmettendolo poi ai figli), e positivamente recensita da G. Chiarini. Trasferitosi a Roma nel 1881 per gli studî universitarî, che non avrebbe mai condotto a termine, fu accolto con simpatia negli ambienti giornalistici e letterarî e cominciò a collaborare alla Cronaca bizantina, la rivista di A. Sommaruga, restando affascinato dai metodi modernamente spregiudicati dell'editore, cui affidò la stampa (1882) di Canto novo e delle novelle di Terra vergine. Nel successivo periodo di dissipatezze ("La giovinezza mia barbara e forte In braccio de le femmine si uccide"), celebrato dall'audace Intermezzo di rime (1883), si unì in matrimonio con la duchessina Maria Hardouin di Gallese (dal matrimonio nasceranno i figli Mario, Gabriellino e Veniero), trovò un impiego stabile come redattore della Tribuna, firmando con varî pseudonimi cronache mondane e culturali, e pubblicò le raccolte di novelle Il libro delle vergini (1884) e San Pantaleone (1886; insieme con altre, una scelta di novelle da questi due libri sarà ripubblicata in Novelle della Pescara, 1902). All'esperienza della più elegante società romana e al nuovo grande amore per Elvira (o Barbara, come preferì chiamarla) Fraternali Leoni, si ispirò il romanzo Il piacere, composto negli ultimi mesi del 1888 e pubblicato l'anno successivo dall'editore Treves di Milano. Dopo la parentesi fastidiosa del servizio militare (1889-90), le ristrettezze economiche lo indussero a spostarsi a Napoli (1891), dove intrecciò una nuova relazione con la nobildonna siciliana Maria Gravina Cruyllas, dalla quale nacquero i figli Renata e Gabriele Dante. A Napoli collaborò tra l'altro al Mattino, si interessò alle opere di Nietzsche e Wagner, e pubblicò a puntate (1891-92) il romanzo L'innocente, apparso poi in volume presso l'editore Bideri (1892) e subito tradotto in Francia; insieme con il racconto lungo Giovanni Episcopo, di poco precedente (1891; in vol. 1892), esso risente l'influsso della narrativa russa.
L'influenza della lettura di Nietzsche si fa invece sentire in modo determinante già nel Trionfo della morte (1894), e all'insegna del superomismo si svolgerà la successiva produzione dannunziana, a partire da Le vergini delle rocce (1896). Nel 1895 D'A. partecipò a una crociera in Grecia, che avrebbe poi trasfigurato nel primo libro delle Laudi. Intanto le suggestioni della crociera rivissero in un dramma, La città morta (1896; pubbl. 1898), grazie anche all'incoraggiamento a scrivere per il teatro che a D'A. veniva da Eleonora Duse, la più grande attrice del tempo, con la quale aveva ormai intrecciato una relazione (e per la quale avrebbe scritto poi Sogno d'un mattino di primavera, 1897, La Gioconda, 1899, e La gloria, 1899). Nel 1897 fu eletto deputato nel collegio di Ortona a Mare, ma, sia per la scarsa partecipazione ai lavori parlamentari sia per il clamoroso passaggio dai banchi della destra a quelli dell'estrema sinistra ("vado verso la Vita"), uscì sconfitto dalle successive consultazioni elettorali. La sua preoccupazione dominante, anche per le solite difficoltà economiche ora accentuate dal principesco tenore di vita nella villa detta la "Capponcina" presso Settignano, era piuttosto la produzione letteraria. Furono così composti, in un breve giro di anni, quelli che vengono considerati comunemente i capolavori dannunziani: il romanzo Il fuoco (1900); la tragedia Francesca da Rimini (1902); i primi tre libri delle Laudi: Maia (1903), Elettra e Alcyone (1904); la tragedia pastorale La figlia di Iorio (1904). Nonostante qualche clamoroso insuccesso e la fine della relazione con la Duse, prevalentemente teatrali furono gli interessi del periodo successivo (La fiaccola sotto il moggio, 1905; Più che l'amore, 1907; La nave, 1908; Fedra, 1909), che pure culminò nell'ultimo grande romanzo dannunziano, ispirato a una drammatica vicenda amorosa, Forse che sì forse che no (1910).
Nel 1910, per sfuggire ai creditori, D'A. fu costretto all'"esilio" in Francia, dove rinverdì un prestigio che risaliva agli anni Novanta e alle traduzioni dell'Innocente e del Piacere, scrivendo in francese antico Le martyre de saint Sébastien (1911), che fu musicato da C. Debussy e interpretato dalla danzatrice I. Rubinstein, e La Pisanelle ou La mort parfumée (1913). In traduzione francese, col titolo Le chèvrefeuille, veniva rappresentata nel 1913 la tragedia Il ferro, da lui composta in italiano come la precedente Parisina del 1912. In questi anni lavorò anche per il cinema, contribuendo non poco, con le sue sonanti didascalie, al successo del film Cabiria (1914) di Piero Fosco (G. Pastrone). Nel 1915, invitato a Quarto per inaugurare il monumento ai Mille, rientrò in Italia e avviò una personale, infiammatissima campagna interventista, in aperta polemica con gli atteggiamenti del governo. Dopo la dichiarazione di guerra, si arruolò come volontario e si distinse in una serie di imprese militari, come la Beffa di Buccari o il volo su Vienna, pur essendo rimasto gravemente ferito in un incidente aviatorio in seguito al quale perse un occhio. Nella totale cecità postoperatoria, aveva scritto (1916) il Notturno su sottili strisce di carta che la figlia Renata provvedeva a decifrare e ricopiare.
Eroe pluridecorato e figura ormai leggendaria presso i reduci, si fece interprete, dopo la fine della guerra, della loro indignazione per la "vittoria mutilata" e guidò la "marcia di Ronchi" e l'occupazione di Fiume, che tenne, in qualità di "Reggente", dal settembre 1919 al dicembre 1920, quando fu costretto militarmente a rinunciare alla sua impresa (a testimonianza degli ambiziosi programmi politici e sociali del D'A. fiumano resta la Carta del Carnaro a sfondo corporativista, che, redatta da A. De Ambris, ebbe da D'A. la forma letteraria definitiva). Ritiratosi nella villa Cargnacco, in quello che poi chiamerà il "Vittoriale degli Italiani", sul Lago di Garda, fu colto alla sprovvista dal colpo di mano di Mussolini, che aveva appoggiato l'impresa fiumana e a essa probabilmente si era ispirato.
Con il dittatore fascista intrattenne un rapporto difficile, apparentemente amichevole e di reciproca ammirazione, ma in realtà minato dal sospetto, vedendosi quindi confinato nella dorata prigione del Vittoriale e dissuaso da qualsiasi interferenza politica, in cambio del massimo riguardo formale e di non poche concessioni (nel 1924 fu creato principe di Montenevoso; poté sovrintendere all'edizione nazionale delle sue opere; nel 1937 divenne presidente dell'Accademia d'Italia).
OPERE
Tra i molti generi letterarî da lui tentati, D'A. predilesse la poesia lirica: essa anzi fu l'asse intorno al quale tutte le altre forme espressive ruotarono e si organizzarono, allo stesso modo in cui intorno alla letteratura ruotarono i varî aspetti della sua personalità poliedrica. Poetici sono del resto i suoi esordî, con due raccolte addirittura passate in proverbio: Primo vere (1879), per la straordinaria precocità, e Canto novo (1882), per l'invenzione di una inconfondibile cifra personale, pur a ridosso e quasi come approfondimento delle originarie suggestioni carducciane. Del classicismo carducciano, e in particolare delle Odi barbare, rimane virtualmente tributaria una poesia d'ora in poi sempre giocata sulla consapevolezza della propria inafferrabilità di Ideale e sulla conseguente inevitabilità dell'artificio: tutta barbara, congetturale e artificiosa, come congetturale e artificioso era stato il tentativo delle Odi carducciane di riprodurre i metri classici nella versificazione italiana. La stessa scoperta sensuale della natura, che rappresenta la novità più caratteristica di Canto novo e accompagnerà D'A. in tutti gli esperimenti successivi, coincide con un artificio, sullo sfondo di un primordio fantastico giustificando una barbarica irruzione nel mondo ignoto della poesia e conciliando il massimo dell'attualità e della concretezza con l'atemporalità del mito classicistico. Mentre il narratore di Terra vergine (1882) approfitta con acume della lezione verghiana, e soprattutto fornisce di un retroterra aneddotico la sfrenata sensualità del Canto novo, con Intermezzo di rime (1883) D'A. apre il gioco che da cronista mondano avrebbe condotto a perfezione nel quinquennio successivo: una scherzosa divinizzazione del bel mondo romano e di un rituale trasparentemente erotico, cui la poesia fosse in grado di restituire serietà, se non esplicitezza, ricavandone dal canto suo la conferma di una funzione sociale e del relativo consenso.
È però da romanziere, con Il piacere (1889), che gli riesce di emanciparsi dalle frigide eleganze e dal valore puramente ludico già presentiti e ben esemplati da Isaotta Guttadàuro e altre poesie (1886). Nel romanzo, la "lotta d'una mostruosa Chimera estetico-afrodisiaca col palpitante fantasma della Vita nell'anima d'un uomo" mette finalmente di fronte una fedeltà all'Ideale deprecabile come un vizio immondo, per la disumanità che comporta, e un buon senso tanto immediatamente redditizio e socialmente rispettabile quanto assolutamente sprovvisto di qualsiasi attrattiva letteraria e intellettuale. Lo scrittore ribadisce così l'irrinunciabilità dell'Ideale nell'amore e nell'arte e al romanzo assegna il compito di creare artificialmente nel lettore la disposizione ad assecondare il suo sogno. A questa nuova disposizione del lettore si rivolge la più affabile poesia delle Elegie romane (1892) e soprattutto del Poema paradisiaco (1893), opera in cui, smessi i travestimenti delle raccolte precedenti per agitare l'altrettanto speciosa parola d'ordine della stanchezza dei sensi e della bontà, D'A. riscatta virtuosisticamente il linguaggio più dimesso del suo repertorio, puntando sulla tensione psicologica dei duetti sentimentali e sulla moltiplicazione delle pause che alonano di sottintesi e potenziano anche le parole più banali.
Un altro romanzo, L'innocente (1892), proprio a partire da un equivoco umanitarismo esemplato su Dostoevskij e Tolstoj, aveva del resto chiarito che anche il mito della bontà e della semplicità era nutrito di intellettualismo e si fondava su un idealismo consequenziario in maniera spietata. La conversione al superomismo nietzschiano, per quanto effettivamente incoraggiata da affinità psicologiche e culturali indipendenti dalle letture napoletane di D'A., risulta tuttavia decisiva, sia per l'acuirsi degli interessi teorici di uno scrittore che infatti per un intero decennio mostra di prediligere la forma romanzo, e un romanzo per giunta "idealista", sia per la più risentita percezione della dimensione sociale dell'attività artistica.
Si passa quindi dal Trionfo della morte (1894), in cui il già collaudato tema misogino della Nemica coinvolge nella sua ispirazione distruttiva miti e istituzioni inconciliabili con la purezza dell'Arte, a Le vergini delle rocce (1896), il romanzo "di una Bellezza misteriosa e quasi terribile" che racconta, in una maniera provocatoriamente antiromanzesca, il sogno di una folle palingenesi reazionaria contro la "diminuzione" e la "violazione" da cui sono minacciati tutti i valori in una moderna società democratica. E si approda infine a Il fuoco (1900), che mette in scena l'esperimento di una sorta di regia dell'albeggiante vita spirituale delle masse, non più temute e respinte ma incoraggiate e guidate nelle loro oscure aspirazioni verso la Bellezza. Alle teorizzazioni romanzesche, corrispondono i concreti tentativi di un'arte sia pure solo velleitariamente popolare, compiuti attraverso il teatro. Miti, secondo la ricetta classica dell'arte per il popolo, e insieme dimostrazioni della immutata efficacia dei miti antichi sono le tragedie dannunziane, da La città morta (1898) a La figlia di Iorio (1904) a Più che l'amore (1906), a Fedra (1909), in cui la solita lotta per l'Ideale, spinta talora fino al crimine, rappresenta iperbolicamente una comune insofferenza nei confronti del grigiore della vita quotidiana e la parola poetica sperimenta la propria efficacia fuori del libro.
La stagione dei capolavori dannunziani culmina però nei due più celebrati libri delle Laudi del cielo del mare della terra e degli eroi, quando l'urgenza del comprendere lascia il posto alla liberatoria conquista di una poesia nella quale felicemente collaborino istinto e artificio. Gli oltre ottomila versi di Maia (1903) sono virtuosisticamente giocati sul mantenimento della stessa tensione espressiva e esplicitamente votati addirittura all'emulazione del poema dantesco, ponendosi altresì a modello delle innovazioni metriche novecentesche e lasciando intravedere una nuova strada per la poesia civile. Alcyone (1904), di là dalla tenue trama di una vacanza estiva a contatto con la natura toscana, trova un motivo unitario nel suo porsi come "tregua" e nella conseguente scelta di argomenti privati e sentimentali, e punta sulla suggestione d'una lingua manipolata senza sforzo evidente e sulla sconcertante prossimità al linguaggio prosastico, sempre imminente e ogni volta mirabilmente eluso (ad esiti altrettanto significativi non giungono il secondo e il quarto libro delle Laudi: Elettra, 1904; Merope, 1912; né Canti della guerra latina, 1933, noto anche come Asterope).
La fase del ripiegamento memoriale si apre all'indomani della splendida fioritura primonovecentesca, all'insegna di un autobiografismo meno strumentale e idealizzato. Se così Forse che sì forse che no (1910) traduce, concretamente svilendolo, l'Ideale dei romanzi precedenti nella passione aviatoria e, quasi come postuma compensazione, rappresenta il dramma della femminilità offesa, tutte le prose di memoria e quella che è stata definita "esplorazione d'ombra", comprese tra l'atteggiamento solennemente meditativo della Contemplazione della morte (1912) e la scrittura apparentemente pedantesca e in realtà comica del Secondo amante di Lucrezia Buti (nel vol. Il venturiero senza ventura e altri studii del vivere inimitabile, 1924, primo dei due tomi che, con Il compagno dagli occhi senza cigli e altri studii ecc., 1928, compongono Le faville del maglio), rivelano addirittura uno scrittore nuovo.
Con il Notturno (pubbl. nel 1921), il mutamento dello scenario psicologico e la singolare tecnica compositiva si risolvono nella ricerca di una lirica essenzialità all'interno della prosa, che nella paratassi inevitabile di un eterno presente vive l'ultima stagione di una sensibilità sovrumana, e, con le Cento e cento e cento e cento pagine del libro segreto di Gabriele D'A. tentato di morire (1935), lo scrittore a quella tecnica fa corrispondere la naturalezza quasi meccanica con cui si concede alla registrazione, al ricordo, all'intuizione più penetrante, senza ricavarne più nessuna scintilla di vitalità.
*
DBI
di Marcello Carlino
Nacque a Pescara, il 12 marzo 1863,da Francesco Paolo e da Luisa de
Benedictis. Il padre proveniva da una modesta famiglia, ma, adottato
da uno zio benestante, ne aveva assunto il cognome, D'Annunzio,
sostituendolo a quello d'origine, Rapagnetta, e ne aveva ereditato i
beni, potendo vivere di eredità ed entrando nella schiera dei
notabili del paese, così da essere eletto, per breve tempo,
sindaco dell'allora piccolo comune abruzzese. La madre discendeva da
una ricca famiglia di Ortona.
Quanto l'uno era estroverso ed esuberante, anche nelle avventure
amorose e nello sperperare il patrimonio, tanto l'altra era dolce e
remissiva, maternamente carica di premure, figura ripensata
costantemente con commozione se fanno fede le pagine del Notturno.
L'ipotesi che l'uno e l'altra siano stati presenze decisive, nella
formazione e poi nelle diverse esperienze di Gabriele, andrebbe
puntualmente verificata. Nella instabilità sentimentale del
D., nella ricchissima ghirlanda dei suoi amori è stato visto
un tentativo inconscio, censurato e perciò innestato in una
dinamica crescente di spostamento, di possesso della madre, di cui
la donna sarebbe figura di proiezione. Il vitalismo narcisistico e
il carattere autoritario dell'immaginifico, che trovano immediati
modelli nella vita di Francesco Paolo, e, per contro, sintomi
evidenti di rifiuto della figura paterna (il più eclatante la
mancata partecipazione ai suoi funerali), conterrebbero, invece,
l'ambivalenza di odio e di amore e rinvierebbero ad un disegno
inconscio di identificazione e di sostituzione. Il caso D. e persino
alcune frequenti oscillazioni della sua poetica recano, forse, le
impronte mai cancellate del classico groviglio edipico.
Gabriele era il terzogenito della famiglia. Prima di lui erano nate
Anna, nel 1859, ed Elvira, trascorsi due anni; dopo di lui sarebbero
nati, sempre con l'intervallo di un biennio, Ernestina ed Antonio.
Terzogenito e primo figlio maschio, lungamente sospirato: anche per
questa ragione la formazione culturale del D. fu particolarmente
curata. Compiuti diligentemente i primi studi a Pescara, per
volontà del padre egli si iscrisse alla prima ginnasiale
presso il Reale Collegio "Cicognini" di Prato. Qui soggiornò
sette anni, dal 1874 al 1881, quando conseguì, il 30 giugno,
la "licenza d'onore" in base ai risultati dei tre anni di liceo. La
carriera scolastica di Gabriele è la tipica del primo della
classe: ottime votazioni in tutte le materie di studio,
benché l'algebra e la geometria sembra non fossero da lui
particolarmente amate; eccellenza nelle attività collaterali
e nella ginnastica e nella scherma, discipline per le quali ebbe
spesso menzioni; progressione rapida nei gradi del collegio,
strutturato come un ordine militare, fino alla nomina a comandante
della compagnia; segnalazioni per la condotta, giudicata
irreprensibile fatta eccezione per l'anno 1877, e per la
"pulitezza", e cioè l'eleganza, del portamento e del modo di
vestire, secondo il cliché di chi avrebbe poi asserito essere
più che mai necessario ed amabile il superfluo.
Certo non mancarono al D. punizioni e censure, ma l'insofferenza
alla clausura, da cui il compiaciuto e sadico orditore di beffe,
sembra appartenere, prevalentemente, alla ricostruzione agiografica
ed enfatizzata che l'autore de Le faville del maglio fece della sua
adolescenza. Per questo sui rudimentali apprendistati sessuali con
Clemenza Coccolini nell'immancabile museo etrusco, un luogo
destinato ad accentuare la forza della trasgressione; sugli scandali
perpetrati a danno delle guardarobiere; sulla iniziazione da
bordello all'amplesso, mitizzata nelle pagine ridondanti de Il
secondo amante di Lucrezia Buti; sulle ribalderie aventi per oggetti
chierici, cruscanti e prefetti; sul celebre episodio di Gabriele che
si rifugia sulla grondala e tiene lungamente in scacco inservienti
ed istitutori, per buscarsene infine un'influenza, come
testimoniato, con piglio eroico, ne Il compagno dagli occhi senza
cigli; sulla portata e sul rilievo di simili episodi è lecito
nutrire dubbi. Il fatto è che tutta la memorialistica del D.,
persino la "notturna", reca tracce evidenti di una sublimazione e di
una calcolata investitura del personaggio, quasi a voler rinvenire
in Gabriele bambino e adolescente una eccezionalità
prefigurante il superuomo futuro, eccezionalità riconosciuta,
temuta ed ammirata dal padre e tollerata all'interno dello stesso
"Cicognini". L'autobiografia dannunziana deve essere adeguatamente
tarata; e, per essa, sia il narrato di talune tranches de vie della
primissima infanzia - l'amicizia con marinai, mendicanti e
straccioni deficienti - sia l'attribuzione pruriginosa al giovane di
esperienze irregolari - l'"affezione morbosa" per un condiscepolo -
vanno opportunamente sottoposti a verifica.
Con tutta probabilità l'adolescenza di Gabriele è
più comune di quanto egli stesso e certi biografi abbiano
suggerito: un impegno ed una volontà di primeggiare
indubbiamente notevoli, ma anche la noia della vita collegiale e
l'isolamento con inevitabili effetti di insubordinazione; le rare
uscite presso famiglie amiche, le prime infatuazioni amorose, il
desiderio di ritornare a Pescara, l'epistolario con il suo vecchio
maestro, Giovanni Sisti; gli esami sostenuti a Chieti, per saltare
la quinta ginnasiale e nella speranza di rientrare definitivamente
in Abruzzo; una lettura, questa sì costante e rara nella sua
intensità, di opere letterarie e di erudizione. Lesse infatti
voracemente, secondo ed oltre le direttive dei suoi istitutori Pio
Giusfredi, Angelo Tonini, Gustavo Meniconi; lesse Plutarco,
Virgilio, Catullo, i cinquecentisti, Tommaseo, Manzoni, Stoppani, De
Gubernatis, Byron, Goethe, Milton, Darwin, i fascicoli della Nuova
Antologia e, acquistate nel 1878, le Odi barbare di Carducci.
Proprio il libro del poeta toscano motivò una subitanea
"smania" lirica. Prima aveva compitato secondo le regole della
composizione scolastica allora in uso; subito dopo egli
verseggiò, pur fra tante rimasticature retoriche, innovando
carduccianamente il metro e rifiutando la rima: nel quadro
dell'iniziativa del "Cicognini" di celebrare il genetliaco regale,
l'Ode ad Umberto, pubblicata nel marzo del 1879 con altre liriche
degli scolari del collegio, è appunto una sequenza di tredici
strofe saffiche.
Il D. aveva compreso da che parte si indirizzasse la cultura
letteraria del tempo e quanto la strada tracciata dalle "barbare"
potesse dimensionarsi vincente e remunerativa, sotto il profilo del
dominio del mercato delle lettere e della gloria. Di poco seguente
ad una epistola a Carducci, nella quale, accanto a lodi sperticate e
premonitori autoincensamenti, si riconosce che la sua scuola
è destinata a "vedere trionfi ben diversi da quelli della
chiesa e della scuola del Manzoni", Primo vere, stampato a Chieti
nel dicembre 1879, è un libro tutto carducciano.
Carducciani sono i metri, il linguaggio, la sintassi di questa
raccolta, che pure non ripudia reminiscenze da Foscolo, Leopardi e,
finanche, Aleardi; carducciani il paesaggio e una certa propensione
alla sistemazione mitologica dei materiali poetici; carducciana
l'ode a Satana, che aggiunge al modello una qualche venatura di
sensualità ed erotismo, risultata sgradita ai docenti del
"Cicognini" e allo stesso Giuseppe Chiarini, che pure lodò il
libro, ravvisandovi capacità di ritmo ed agilità del
periodo. Il giudizio del prefatore delle Odi barbare, sul Fanfulla
della domenica, contiene anche un "numerosa", attributo di frase ed
immagine, che, pur volendo suonare elogio, addita un limite della
strutturazione del libro: la risoluzione del piglio sensuale e
voluttuoso del dettato in una già percepibile tronfiezza
stilistica.
Lo stesso Chiarini, di lì a poco, avrebbe denunciato, in un
articolo anonimo, i plagi, stecchettiani e chiariniani, della
seconda raccolta del D., In memoriam, dedicata alla nonna e
pubblicata a Pistoia nel 1880.
Il titolo ricalca appunto un titolo del Chiarini, che, a sua volta,
ricalca un titolo di Tennyson. La poesia ricicla ampiamente
l'Ottocento minore italiano, votandosi al recupero di una poetica
dimessa e casalinga, deamicisiana soprattutto. Indirizzo letterario
a parte, il metro resta carducciano e denota una spiccata
proprietà tecnica del giovanissimo Gabriele: ciò che
non basta, tuttavia, a salvare l'opera da un generale insuccesso.
Primi elogi e prime censure: di lui si cominciava a parlare come di
un enfant prodige e il D. capì, un'intuizione formidabile,
che la letteratura, non importa di che lega, si afferma e si
potenzia nella cassa di risonanza dei mass media e che, la
letteratura essendo merce, la pubblicità è il
necessario propellente del prodotto letterario. Di qui un colpo di
genio: nell'imminenza della diffusione della seconda edizione di
Primo vere, agli sgoccioli del 1880, Gabriele mise in scena la
propria morte. Comunicò la notizia della sua dipartita ai
giornali, pagando la pubblicazione di lacrimevoli necrologi, e la
smentì in una con l'annuncio del suo libro. L'operazione
spregiudicata sortì l'effetto di attirare una generale
attenzione; immediato e tangibile risultato fu la possibilità
di collaborare al Fanfulla della domenica e di scrivervi, in prosa,
Cincinnato, che riesumava, sempre in prospettiva mitologica e, al
fondo, autocelebrativa, una figura presunta dell'infanzia pescarese.
Divenuto, pur fra i rimbrotti, una gloria vivente del "Cicognini";
invaghitosi di Elda Zucconi e completati gli studi presso il
collegio, nel 1881 il D. tornò a Pescara, spedì
missive cariche di passione alla sua amata, coltivò
l'amicizia di F. P. Michetti e F. P. Tosti, accumulò,
così in una lettera, "una messe di ispirazioni nuove" per la
sua mietitura poetica. Il soggiorno pescarese durò lo spazio
di un'estate: la nuova meta non era Firenze, come il suo iter di
studi avrebbe consigliato, ma Roma; il suo desiderio non quello di
sposare Elda, vezzosamente Lalla, ma di occupare in forze i gangli
vitali, i più trainanti comunque, della cultura italiana.
Anche sotto questo profilo l'intuizione dannunziana era di estrema
intelligenza.
La capitale d'Italia viveva, in quel periodo, una fase di
trasformazione e, per effetto di induzione, s'avviava a diventare,
essendo già il centro politico più importante, una
sede privilegiata e fermentante di cultura e letteratura. Le leve
del potere letterario si azionavano ormai a Roma; nella città
era tutto un pullulare di iniziative editoriali; e andava
costituendosi un pubblico che manifestava una domanda sociale di
nobilitazione ideologica e di gratificazione anche culturale. Una
borghesia medio-alta si sovrapponeva e sostituiva gradatamente
l'aristocrazia, riadattandone miti e comportamenti e sospirando
l'avvento e l'avallo di un cantore di classe.
Essere assidui in redazione o nei salotti alla moda valeva molto
più che frequentare aule ed istituti universitari; fu quel
che fece il D., mettendo da parte l'iscrizione alla facoltà
di lettere e dandosi ad intrecciare fitti rapporti con alcuni
intellettuali, tutti ben piazzati in ambito editoriale, come E.
Scarfoglio, C. Pascarella, A. Sommaruga, G. Ferri. Collaborò
così al Fanfulla della domenica, al Capitan Fracassa, a
Cronaca bizantina e utilizzò il foglio del Sommaruga come
definitivo trampolino di lancio, tanto che presto vi avrebbe
avvicendato Carducci nel ruolo di autorevole ispiratore e di
caposcuola. Adeguatamente pubblicizzati sulla rivista, per i tipi
sommarughiani uscirono nel maggio del 1882, Canto novo e Terra
vergine.
Canto novo, dedicato ad Elda Zucconi, contiene componimenti databili
tra l'aprile del 1881 e lo stesso mese del 1882. Vi prevalgono le
barbare e non manca un numero consistente di sonetti. La nota
dominante è il sensualismo, che si esprime nel bisogno di
immedesimazione del poeta nella natura e si estrinseca in una
strenua volontà di possesso e di dominio. L'io è
sempre sul proscenio; ogni suo atto, amplesso compreso, si consegna
all'enfasi dell'entusiasmo e di bruschi innalzamenti di tono. Si
sprecano esclamativi ed iterazioni, la sonorità tocca sovente
la gamma degli acuti, in base ad un programma teorico che elegge il
grido, "elevazione della voce istintiva", ad origine del canto.
Allorché il fiato non regge, come assai spesso accade,
rispunta un materiale scrittorio che sa di accatto e di
rimasticatura. Riemerge allora l'Ottocento minore; e il naturalismo
si esprime dal versante scientifico di una nomenclatura da
dizionario e da quello di una koinè linguistica e di stile
fastidiosamente banale; e il sensualismo conosce il bemolle di
registri malinconici e languidi, ai limiti dello svenevole e del
caramelloso, epperò fra gli altri forse da privilegiare. Il
libro apparve ai contemporanei l'opera di un nuovo poeta; certo i
Leitmotive della lirica dannunziana ebbero il loro battesimo nella
raccolta del 1882, il cui successo è legato ad una sorta di
ideologia dell'entusiasmo oggettivamente lenitiva per la borghesia
del tempo. Quanto alle sue novità espressive, esse sembrano
limitarsi ad una musicalità diffusa, la quale, però,
non esautora del tutto quelle eredità carducciane che pure il
D. aveva sperato di dimettere. Terra vergine, invece, raccoglie
alcuni racconti già pubblicati in riviste o in giornali. Il
suo credo è verista, come impongono, per la prosa, moda e
mercato degli anni: di un verismo, rispetto al modello verghiano,
che accentua ferinità e violenza sensuale della
rappresentazione ed indulge ai forti chiariscuri di una prosa
sanguigna, talora liricheggiante, spesso insabbiata in una vischiosa
falsificazione.
Pubblicati i due volumi, che gli valsero fama e ruolo da divo,
trascorse le vacanze in Abruzzo, Gabriele si dette a coltivare
sapientemente il mito recente che traeva origine dalle sue opere
letterarie. L'entusiasmo panico trasbordava dallo stile della pagina
allo stile di vita: il periodo dal 1882 al 1883 fu un continuo
rincorrere avventure, amori, feste e convegni salottieri. Ad
osannarlo e a contenderselo erano tutti, tranne qualcheamico che gli
rimproverava (benevolmente e presto ritrattando) di aver tradito la
serietà di comportamento e di poetica, e tranne Elda, che
Gabriele aveva liquidato con una lettera frettolosa all'inizio del
1883. Pur lasciandosi irretire nel rituale mondano della Roma bene,
il D. trovava il tempo di aggiornare il suo repertorio di letture,
scelte tra le più idonee a quel milieu sociale di cui era
divenuto cantore e tra quelle che più promettevano
affascinanti innovazioni di gusto. Il suo interesse si spostò
alla letteratura francese, sui parnassiani e su Baudelaire, il
secondo interpretato sullo schema dei primi. Il ricavo era un
insieme di tematiche e di stilemi, ovviamente deproblematizzati;
nulla di affine, insomma, al recupero carducciano e, soprattutto,
scapigliato della lezione di Les fleurs du mal. Quei materiali gli
sarebbero tornati utili per mettere in versi le scene private di un
"prematrimonio".
Il 28 luglio 1883, facendo calare il sipario su un copione perfetto,
Gabriele aveva sposato Maria Hardouin di Gallese. La cerimonia nella
cappella nobiliare, dopo il rapimento - e l'interessamento della
forza pubblica - per vincere l'ostilità dei genitori di lei:
il tutto era cominciato dal "peccato di maggio", di cui egli subito
dette versione poetica sulla Cronaca bizantina. Sarebbe vano e
fuorviante accertare la sincerità di quell'amore per la
giovanissima duchessa o quanto quell'amore fosse inquinato dal mito
di una cercata corrispondenza tra lo scrittore e i personaggi ideali
della sua opera o, più prosaicamente, dalla speranza di dar
soluzione ai problemi economici che per Gabriele cominciavano a
farsi pressanti, costretto a scialacquare com'era per mantenersi in
linea con il ruolo di protagonista di una vita lussuosa e dissoluta.
Di sicuro quelle esperienze amorose furono vissute in simultanea con
l'edizione di una raccolta di liriche che le assume a referente:
Intermezzo di rime.
Il tema erotico vi ha una trascrizione cupa, che inclina a ridursi a
mero esercizio di eleganza; vi abbonda una ricerca di plasticismo,
sforzata e retorica; la metrica torna tradizionale e
l'eredità carducciana sembra alienata; si indovina qua e
là qualche plagio da Maupassant; una disposizione moralistica
funge da postilla, ma in realtà si compiace di una giovinezza
da stereotipo, smodatamente assetata di avventure di sesso:
l'asserito sperimentalismo, in senso europeo, del libro del 1883
è in definitiva la mummificazione e il ridimensionamento
provincialistico della poetica d'Oltralpe di metà Ottocento.
Le polemiche tra sostenitori e detrattori, che lo accusano di
pornografia e gli appiccicano un "porcellone", e l'intervento del D.
che riconosce la sua momentanea inverecondia di "animale stanco",
furono, complessivamente, un buon lievito pubblicitario.
Gabriele celebrò in Abruzzo, dove si era rifugiato per
mancanza di fondi, dissoltosi il patrimonio del padre e
inutilizzabile quello del suocero, a lui ostile, i natali del suo
primogenito, Mario: era il gennaio del 1884. L'esilio abruzzese lo
sottrasse per un anno circa ai fasti mondani della capitale.
Tuttavia egli non allentò i rapporti con gli ambienti
letterari romani, sui quali riversò costarmente, seppure per
corrispondenza epistolare, i suoi parti poetici. Furono pubblicati,
nel periodo, una nuova edizione dell'Intermezzo e un volume di
novelle, dal titolo Il libro delle vergini.
L'ambientazione è abruzzese; panico, a tinte forti,
stilisticamente sostenuto e persino parnassiano, nonostante le
ascendenze più zoliane che verghiane, è il verismo che
sottende le novelle. A condire il tutto vengono utilizzati talvolta
particolari pruriginosi, come l'acclimatamento dell'eccitazione dei
sensi in un'atmosfera di sperdimento religioso: il tipico espediente
del connubio di sacro e profano. Ma, oltre il valore del libro,
scarso a giudizio pressoché unanime, mette conto ricordare un
equivoco che, casuale o artatamente assecondato, rientra
oggettivamente nelle regole di una vera campagna promozionale.
Sommaruga stampa il testo con una copertina raffigurante tre donne
nude e il D. lo sconfessa, giudicando la scelta indegna dei
contenuti dei racconti ed imponendone la sostituzione. I rapporti
con l'editore di Cronaca bizantina si incrinano definitivamente.
Nel novembre del 1884 il D. ritornò a Roma. Finalmente il suo
matrimonio gli fornì qualche vantaggio pratico; la suocera si
dette da fare perché egli entrasse nella redazione de La
Tribuna. Iproblemi economici, almeno i più impellenti, erano
così superati. L'attività giornalistica del D. fu, per
un quadriennio, intensa e significativa e costituì occasione
di ulteriore apprendistato culturale e spunto per alcune successive
esperienze scrittorie. Sotto vari pseudonimi, da "Duca Minimo" a
"Lila Biscuit", Gabriele fu cronista e cantore dei rituali borghesi
alla moda: rappresentazioni teatrali, danze, ricevimenti, feste,
conferenze, aste. Descrisse minutamente ambienti, arredamenti,
pellicce, mises, gioielli. Impiantò storie eleganti, talora
salaci ed ammiccanti, le Favole mondane a quel tempo famose. Si
occupò anche di critica, intervenendo su Carducci e Pascoli,
Keats, Swinburne, Dante Gabriele Rossetti e, da un versante
diametralmente antitetico, su Moleschott, del quale condivise
l'ipotesi di una esegesi fondata su presupposti solidamente
scientifici: ancora una bascula tra incipiente decadentismo e
positivismo naturalistico. Per quanto il D. dicesse di tollerare a
fatica la pratica giornalistica che giudicava limitativa del suo
talento, le cronache su La Tribuna rinsaldarono il suo già
felice rapporto con la borghesia romana. La sua vita mondana ne fu
incentivata. Riunioni salottiere e avventure amorose si susseguivano
a getto continuo: la meno trascurabile, per le sue implicazioni ne
Il piacere, quella con Olga Ossani.
Nel 1885 il D. ebbe dal principe Maffeo Sciarra, proprietario del
quotidiano presso cui lavorava, l'incarico di dirigere la terza
serie di Cronaca bizantina. Iltentativo di ripristinare la rivista
già sommarughiana fallì nel 1886, l'anno stesso in cui
nacque il secondogenito, Gabriele, e furono editi altri due volumi:
Isaotta Guttadauro e altre poesie, per i tipi de La Tribuna, e San
Pantaleone, presso un editore di Firenze.
Raffinata, elegante, virtuosistica, refrattaria a soluzioni
psicologistiche o a sussulti moralistici è la raccolta di
liriche. Il suo marchio è preraffaellita. Verlaine e Lorrain
vi sono riciclati in una lingua che è un calco dai
trecentisti (sicché ha buon gioco la sarcastica deformazione
del titolo, operata, a postilla esegetica del libro, da un critico
malevolo ma non troppo: "risaotto al pumidauro") e che riecheggia
spesso Poliziano. Madrigali e sestine, ballate e trionfi sono altri
indizi di una ricerca parnassianamente condotta sul piano esclusivo
della forma e dello stile: un riuso di poetiche europee ed una
cristallizzazione piuttosto che una innovazione. Le diciassette
novelle che compongono San Pantaleone, dense di particolari
truculenti ed orridamente drammatici, appartengono invece al gusto
veristico dei bozzetto e della tranche de vie. Il naturalismo
però sembra, qui chiaramente, riformularsi senza equivoci in
una sorta di estetizzazione della crudezza fisiologica del reale.
Chiude il libro Il commiato, ricco di note autobiografiche e poi
riciclato ne Il piacere, nella scena dell'addio tra Andrea Sperelli
ed Elena Muti.
Nella prosaicità di crescenti difficoltà economiche,
conseguenza di una vita irrequieta, bisognosa - così in una
confessione a Maffeo Sciarra - del superfluo e di sublimarsi tra
rarità da museo, la relazione amorosa con Barbara Leoni fu
per il D. una lunga parentesi di ricchissime esperienze e una spinta
a concentrarsi sul proprio mondo, il suo più che quello di
Barbara, dimenticando ogni amara contingenza e relativo stuolo di
creditori. Il rapporto, con l'attrazione sessuale a farla da
protagonista, avrebbe ispirato un periodo di fertilità
letteraria e sarebbe stato tradotto nelle pagine de Il trionfo della
morte. Gabriele aveva conosciuto Barbara, in realtà Elvira
Natalia Fraternali, maritata Leoni, nell'aprile del 1887. La sua
bellezza e la sua sensualità, una qual sregolatezza del suo
carattere, esuberante e pieno di estro, avevano immediatamente
attirato il D'Annunzio. Questi, a sua volta, era contornato da un
tale alone mitico e accompagnato da una tale fama di irresistibile
seduttore (fama che corrispondeva in gran parte ad una notevole
abilità nelle arti della seduzione) che sbocciò subito
un amore che tanti biografi hanno definito sublime, gravido di
genuino trasporto e di subitanee accensioni, punteggiato di esercizi
erotici, più o meno raffinati, come può evincersi
dalle metafore, abbastanza esplicite, dell'epistolario. La
schiettezza dei sentimenti reciproci, con l'avvertenza che quella
schiettezza coesisteva in Gabriele con un invincibile egocentrismo,
è confermata dalla durata quinquennale del sodalizio. Alla
sua conclusione il poeta avrebbe aggiunto un'altra tessera al
mosaico di un superuomo fatto a sua immagine e somiglianza; e
Barbara non avrebbe saputo reintegrarsi nella normalità
dell'esistenza.
Nel giugno 1887, sotto il fuoco della passione, il D. compose la
prima delle Elegie romane; nell'estate, mettendo in essere quel
trasferimento, poi codificato in Il fuoco, dal possesso della donna
alla sete di dominio della realtà e della vita, tramite
essenziale il mare, navigò lungo l'Adriatico in compagnia di
Adolfo de Bosis. Fece in tempo a salvarli dal naufragio una nave da
guerra. Una puntata a Venezia dove lo raggiunsero, in unisono,
Barbara Leoni e la notizia della nascita del terzogenito, Veniero, e
poi Gabriele tornò nuovamente ad imperversare negli ambienti
romani. Nel 1888, forse frutto della sua recente esperienza marina,
raccolse nel volume L'armata d'Italia una serie di articoli, dal
piglio eroico e nazionalistico, centrati sulla necessità di
ricostruire la flotta italiana e scritti per La Tribuna; ma
nell'estate dello stesso anno, e nonostante l'aumento vertiginoso
dei suoi debiti, si licenziò dalla redazione del quotidiano.
Le sue energie dovevano essere spese per un obiettivo di ben
maggiore respiro: per esso il D. si allontanò momentaneamente
da Barbara, resistendo ai suoi allettamenti, intrattenne anche con
la moglie rapporti soltanto epistolari e si rifugiò
dall'amico Michetti, ospite del suo "Convento" abruzzese. In quel
sito lavorò alacremente e dopo un semestre concluse la
stesura de Il piacere. Su quel parto, sudato e laborioso, e sulla
vita "conventuale" che lo rese possibile Savinio avrebbe appuntato i
suoi sottilissimi strali ironici. Il libro, coronando una lunga
strategia dello scrittore ed avviando un rapporto editoriale
prestigioso e proficuo, che sarebbe lungamente durato e che
più volte in futuro gli avrebbe fornito l'ossigeno di lauti
anticipi, fu pubblicato da Treves di Milano nel 1889.
Il successo del primo romanzo di Gabriele, soprattutto presso un
pubblico borghese, si deve in primo luogo alla identificazione tra
il narratore e il protagonista Andrea Sperelli, autorizzata da una
congerie di riferimenti autobiografici e rafforzata dalle analisi
moralistiche, sempre a fortiori e strumentali, dei comportamenti del
personaggio. L'effetto è gratificante: la letteratura non
mistifica la vita, si candida, invece, a suo equivalente, capace
però di sublimarla, e di sublimare la sua stessa ripugnanza,
nella sfera della bellezza. Il narcisismo dello scrittore, riflesso
in un alterego, autorizza il narcisismo borghese. Poco importa che
stilisticamente il romanzo non riesca sempre a combinare il registro
parnassiano con quello naturalistico o che gli manchi un sufficiente
respiro narrativo o che le descrizioni siano iterate al limite della
ridondanza: la triplice equazione
letteratura-vita-sovradeterminazione estetica sostituisce il
giudizio etico, pur pronunciato a scanso di equivoci, e innesca un
processo di transfert nel quale il lettore medio trova appagamento e
consolazione.
Compiuto lo sforzo narrativo, il D. visse intensamente la sua
passione amorosa, recuperando il tempo perduto. Con Barbara ad
Albano, nell'alcova romana, in Abruzzo: amore e lavoro si
corrispondevano nel segno di una calcolata giustapposizione di
letteratura ed autobiografia. Le tranches de vie umorose e
febbricitanti erano già pronte, fabula de L'invincibile.
Bastava sistemarle in un intreccio; quel che Gabriele
realizzò presto, pubblicando le prime puntate del romanzo su
La Tribuna, fin quando, nel marzo del 1890, si trovò a corto
di materiali, perché impegnato ad adempiere agli obblighi di
leva. Tra il novembre del 1889 e lo stesso mese dell'anno seguente,
anno in cui apparve L'Isotteo-La Chimera, ristrutturazione di
Isaotta Guttadauro, ilgiovane dové infatti prestare, a Roma,
il servizio militare, che aveva lungamente rimandato risultando
iscritto all'università. Il periodo in oggetto segnò
un arresto della produzione letteraria, ma la vicinanza di Barbara e
la sua disponibilità a raggiungere, ad ogni invito, l'amante
temperarono non poco la noia e il disadattamento della recluta.
Congedato, il D. congedò definitivamente Maria di Gallese e i
suoi figli ed andò a vivere in un ampio monolocale situato
nei pressi di piazza di Spagna ed arredato in uno stile da bazar e
da museo: chincaglierie, tappeti, ninnoli, reliquie,
preziosità e kitsch. Qui lavorò al Giovanni Episcopo,
pubblicato tra il febbraio e il marzo del 1891 sulla Nuova
Antologia.
Il libro si inserisce in una fase ulteriore dello sperimentalismo
dannunziano, il quale consiste, come si diceva, nell'estrapolazione
di alcuni modelli di poetica per il consolidamento di quei miti
letterari che Gabriele aveva costruito e sui quali aveva edificato
la sua fortuna. È il periodo della "bontà" che si
inaugura con il romanzo breve del 1891. Forte delle sue esperienze
militari, che lo hanno posto a contatto con altri ambienti sociali,
imbevuto delle letture, al fondo semplificanti, della narrativa
russa dell'Ottocento, di Dostoevskij e Tolstoj soprattutto, il D.
intreccia la vicenda miserabile di Giovanni con la storia,
improntata alla dissoluzione e al male, della moglie Ginevra. Ma
è proprio la dimensione di quest'ultima, nonostante le tirate
moralistiche, a primeggiare. E il documento umano del personaggio
che dice io si ritrova sfrondato di ogni tormentosa
problematicità ed affidato ad un monologo troppo esclamativo
ed enfatico per rispettare il programma di una lingua dimessa e
documentaria o per dar spazio, come ha già notato E. De
Michelis, ai valori ed alle sfumature del sentimento.
Pressato dai creditori che avevano fatto porre sotto sequestro i
suoi beni, Gabriele riparò a Francavilla dal compiacente
Michetti. Le disavventure finanziarie, la rovina del patrimonio dei
genitori, ormai sul lastrico sebbene Francesco Paolo continuasse a
dissipare denari nel dare sfogo alla sua esuberanza sessuale, le
proteste di Barbara, che lamentava la prolungata assenza
dell'amante, non stornarono più di tanto Gabriele dalla
stesura de L'innocente, il secondo dei romanzi della rosa il cui
titolo originario era Tullio Hermil. L'opera fu terminata
nell'estate del 1891, ma, impensabilmente, fu rifiutata da Treves
perché ritenuta immorale. Per distogliersi dal dissesto
economico e per cercarsi un nuovo editore, il D. dimorò a
Napoli, dove il romanzo fu pubblicato a puntate sul locale Corriere,
diretto dalla Serao e da Scarfoglio, ed edito in volume da Bideri
nell'aprile del 1892. In maggio Zanichelli stampò le Elegie
romane.
Le ragioni del rifiuto di Treves stanno particolarmente in
quell'espediente narrativo, vero deus ex machina, che è
l'uccisione del figlio adulterino perpetrata da Tullio. Il
marchingegno addita un chiaro limite dell'ideologia del romanzo. La
"bontà", per essere messa in opera e per realizzarsi nelle
forme del ritorno del protagonista in famiglia, ha bisogno di un
colpo di scena, involontariamente esteriore e poco credibile, quale
è l'infanticidio. E allora l'ascendenza tolstoiana della
poetica è destinata ad evidenziarsi per mero stereotipo; gli
affetti familiari propendono all'ambiguità e l'amore
coniugale, specimen di bontà, più che riferirsi ad
un'ansia crescente di pacificazione e di riscatto, sembra
consegnarsi ad un malcelato desiderio sessuale. Tullio è, in
sostanza, della stessa pasta di Andrea Sperelli; il disegno e il
messaggio del romanzo tradiscono le premesse e le intenzioni; e la
bontà si riduce a veicolo, ovviamente pretestuoso, di una
autistica estetizzazione della scrittura. Lo stile malsopporta
approfondimenti psicologici, pur in programma, e predilige
estenuazioni evocative, sistemandosi spesso in fraseggi ritmici e
musicali. Le Elegie romane, strutturate sul modello goethiano di un
diario sentimentale, traducono palpiti e stanchezze della passione
di Gabriele per Barbara. Malinconia, struggimento, altalene di
sentimenti e di stati psicologici dovrebbero superare le strettoie
della asettica compostezza dell'Isotteo e disegnare un clima di
vaporoso romanticismo. Ma il substrato mitologico ed erudito di
tante descrizioni paesistiche e architettoniche e la
classicità dei metri svuotano il realismo autobiografico e
incollano sul testo una patina di magniloquenza stantia.
A Napoli il D. conobbe ed amò Maria Gravina Cruyllas,
principessa siciliana infelicemente sposata con il conte Ferdinando
Anguissola, madre di quattro figli, soggetta a turbe nervose. Per
qualche tempo fu incapace di assumersi la responsabilità di
troncare il rapporto con Barbara e, solo quando Maria fu
visibilmente incinta, nel novembre del 1892, ripudiò la sua
vecchia amante, per la quale aveva cominciato a provare (e si
confrontino le Elegie romane e Il trionfo della morte) stanchezza e
crescente disaffezione. L'adulterio suscitò scandalo. Il
marito tradito sporse denuncia; gli amanti furono processati e
condannati, salvati dal carcere da una provvidenziale amnistia. La
situazione economica, poi, si era fatta a dir poco catastrofica.
Gabriele, senza lavoro stabile, si trovava a dover mantenere Maria,
i quattro figli di lei e Renata, la "Sirenetta" nata dalla relazione
adulterina nel 1893; i creditori erano sempre più insistenti,
appellati dall'immaginifico lugubri e villani persecutori; e, morto
il padre, ai cui funerali non volle partecipare, il fiume di debiti,
da lui lasciato in eredità, doveva pur essere arginato. Non
c'era, insomma, di che stare allegri, anche se Gabriele, abituato a
magnificare tutto quanto lo concerneva, avrebbe ricordato quelli
come anni di "splendida miseria". Il periodo fu comunque operoso,
specie sul piano della ricerca culturale. Mentre accumulava debiti
in progressione geometrica, per non saper rinunciare al bisogno del
superfluo, il D. scrisse su vari giornali, ripubblicò per i
tipi di Pierro alcune novelle e, su Il Mattino e La Tribuna,
elaborò significativi articoli su Wagner, Nietzsche e Zola,
prendendo le distanze da quest'ultimo e rileggendo il secondo nel
solco dell'estetica del primo. Una simile riflessione e il
concomitante scavo nel simbolismo europeo sarebbero stati il lievito
per le opere future. Nel 1893 uscirono il Poema paradisiaco presso
Treves e le Odi navali presso Bideri.
Nella raccolta paradisiaca lo schema iniziatico, scandito
sull'ideologia della bontà, si sistema in una maggiore
fluenza espressiva e in una ritmica di enjambements, assonanze,
iterazioni, equivalenze musicali che lasciano intravvedere
un'adesione ai moduli simbolisti, particolarmente a Maeterlinck e a
Verlaine, sebbene il simbolismo dannunziano appaia subito di minor
portata critico-gnoseologica e inclini verso un sovrappiù di
languidezza. I versi vanno orientandosi intorno ad una
libertà di combinazione metrica, rispettosa, tuttavia, di
alcune norme ritmiche della tradizione: le aperture metriche
dannunziane non saranno mai verso libero, saranno piuttosto oratio
soluta. Così èanche per le Odi navali
insopportabilmente gonfiate da una smania civile, esagitatamente
patriottica, inevitabilmente retorica.
La pubblicazione, in appendice a Il Mattino, di alcune parti de Il
trionfo della morte, già L'invincibile, nel primo semestre
del 1893, coincise con una europeizzazione della fama del D., che
aveva visto tradotto in Francia L'innocente. In Italia, per contro,
erano gli immancabili creditori a vietargli di assaporare la gloria.
Ormai anche i beni napoletani erano stati confiscati; i figli di
primo letto di Maria Gravina erano stati riaffidati al padre;
all'amante mancava anche il necessario e, solo grazie all'invito di
un amico fidato, Pasquale Masciantonio, Gabriele poté
alloggiare la sua famigliola illegale a Roma e trasferirsi in
Abruzzo, a Pescara e poi a Francavilla. Nel villino "Mammarella",
dove in primavera fu raggiunto dall'amante e da Renata,
completò la stesura de Il trionfo della morte, edito da
Treves. Era il 1894.
Zola è messo ai margini. La poetica della "bontà"
è superata. Il sensualismo panico di Gabriele trova una
giustificazione ideologica nel superuomo di Nietzsche e nelle
suggestioni della musica di Wagner. L'uno e l'altro sono
probabilmente mediati dalla cultura francese. Il primo è
letto, per parzialissimi campioni, nello specchio della mitopoiesi
del secondo ed è inevitabilmente falsificato. Certo è
che la teoria nietzscheana, deproblematizzata e spuntata delle sue
cariche nichilistiche portatrici di contraddizione, è
appiattita in un vuoto formulario: amoralismo, vitalismo dionisiaco,
libertà d'azione dell'individuo superiore al di là del
bene e del male, culto della bellezza, indiamento dell'arte e
dell'artefice. Il trapasso nella politica e la sua superomistica
estetizzazione sono corollari necessitati, che nessun testo di
Nietzsche autorizza e che solo potrebbe autorizzare quel testo,
apocrifo e mendace, che la sorella del filosofo avrebbe montato ad
arte (tutta da terzo Reich) di lì a qualche decennio.
Antiparlamentarismo e rigetto della democrazia, razzismo, violenza,
bellicismo, spregio delle masse e dominio carismatico della folla
diventano altrettante scelte del D., scelte non isolate ma comuni ad
una larga fascia di intellettualità italiana di fine secolo,
se si pensa alle proposizioni de Il Convito e de Il Marzocco. La
borghesia trova una nuova occasione di transfert ed una risposta
tranquillizzante ai timori derivanti da una più accentuata
conflittualità di classe. Ancora una volta l'immaginifico sa
recepire una diffusa domanda sociale.
Il trionfo della morte è parso a C. Salinari "il manifesto
sessuale" del superuomo dannunziano. L'eccezionalità di
Giorgio Aurispa, sottolineata da uno stile narrativo adatto alla
bisogna, la sua volontà di autoaffermazione,
l'estraneità alla morale comune, l'insofferenza per ogni
norma costituita, lo stesso rituale dell'omicidio-suicidio
(discendente anche dalla filosofia di Schopenhauer), che esprime un
estremo atto di potenza, disegnano infatti la fisionomia di un
superuomo, piuttosto ottuso per la verità, capace soprattutto
di una straordinaria alacrità genitale.
Nel settembre del 1894 il D. si recò a Venezia per contattare
Georges Hérelle, il suo traduttore francese, e vi
incontrò Eleonora Duse, conosciuta qualche anno prima. Tra la
fine dell'anno e i primi mesi del nuovo, ebbe frequenti rapporti, a
Roma, con gli artefici de Il Convito, Adolfo de Bosis su tutti; e
intanto lavorava a Le vergini delle rocce. Consegnato il manoscritto
a Treves, che lo avrebbe pubblicato nello stesso 1895, Gabriele, in
compagnia di Hérelle, Guido Boggiani, lo Scarfoglio e il
Masciantonio, compì una crociera nel Mediterraneo, puntando
sulla Grecia. Un viaggio sulle orme della classicità, della
bellezza e della poesia che si risolse in una somma di delusioni;
povera cosa era l'Ellade moderna e poi, specie per spiriti
più puritani come l'Hérelle, era inconcepibile
sbizzarrirsi in abbondanti libagioni e vagheggiare femmine di porti,
più che rintracciare le vestigia del passato e magari
rivivere in quei luoghi le suggestioni dell'apprezzatissima Nascita
della tragedia di Nietzsche. Quando, concluso il viaggio, fu
chiamato a Venezia per pronunciare il discorso di chiusura della
prima Esposizione internazionale di arte, Gabriele era fresco del
recente successo de Le vergini delle rocce, apparso in anteprima
sulle pagine de Il Convito.
Il libro, che dissolve la struttura del romanzo per attestarsi su un
registro lirico sovraccarico di rimandi allegorici e incline ad una
straboccante oratoria, contiene tutti quei motivi
ideologico-culturali, di forzata e capziosa ascendenza nietzscheana
e wagneriana, che il D. aveva espresso, travisando le fonti, in un
articolo del 1892, La bestia elettiva, pubblicato da Il Mattino.
Difatto sembra giusta l'ipotesi di quanti attribuiscono un ruolo
decisivo al volume del 1895 per l'individuazione della poetica
dannunziana. Né la presenza di categorie semantiche proprie
del simbolismo vale a mutare il segno di una ideologia letteraria
fortemente reazionaria.La conferenza veneziana, prima edita sotto il
titolo di L'allegoria dell'autunno, poi riciclata all'interno de Il
fuoco, fu una nuova occasione per avvicinare Eleonora Duse. Per due
anni ancora il D. rimase legato a Maria Gravina e ne ebbe nel 1897,
per quanto non volle mai riconoscerlo per suo, un altro figlio,
Gabriele Dante; ma, in realtà, il sodalizio con l'attrice, in
cui, come nota Roncoroni, "amore, attrazione personale, interesse
pratico e curiosità intellettuale si sarebbero mescolati in
modo indistricabile", principiò appunto a Venezia,
inizialmente sotto forma prevalente di alleanza artistica, che
poteva ampliare il repertorio di lei e diffondere ulteriormente il
successo e l'influenza culturale di lui. Il D. si dava al teatro; e
così, mentre consegnava alle stampe un'edizione rivista del
Canto novo e usciva pressoché indenne dalle polemiche sui
plagi contenuti nei suoi libri - polemiche che si scatenarono nel
1896, per gli interventi di E. Thovez, e durarono a lungo, almeno
sino all'Antidannunziana di G. P. Lucini del 1914 - lavorò a
La città morta, la cui rappresentazione provocò il
primo screzio tra il poeta ed Eleonora. Gabriele aveva promesso
l'opera a Sarah Bernhardt, che la recitò nel gennaio del
1898, e, con una serie di sotterfugi, aveva fatto in modo che la
Duse si trovasse costretta a rinunciare alla parte. Venuta a
conoscenza di tale grave scorrettezza, l'attrice troncò la
relazione; e, solo grazie alla mediazione del conte Primoli e al
frettoloso allestimento di una nuova pièce, Sogno d'un
mattino di primavera, concepita per l'amante, i due si
riconciliarono. La messa in scena, nel giugno del 1897 a Parigi,
ebbe scarso successo. Nel luglio dello stesso anno, con un programma
nettamente conservatore, il D., lui antiparlamentare per
professione, si presentò candidato alla Camera, nel collegio
di Ortona a Mare. Dopo una battente campagna di propaganda, facendo
leva sulla sua fama e sulle sue radici abruzzesi, l'immaginifico
risultò eletto e sedette sui banchi della Destra.
Per il poeta pescarese erano anni di tutto teatro, quelli che
chiudevano il secolo: un pizzico di scenografia nelle vacanze o
nelle tournées con la Duse ad Assisi e a Venezia, nel
settembre e nel novembre del 1897, e in Egitto e in Grecia, tra il
1898 e il 1899; molto di enfasi nell'annuncio della costruzione, mai
realizzata, di un teatro apollineo ad Albano, ad oscurare la fama di
Wagner. Teatrale la elaborazione di Sogno d'un tramonto d'autunno,
di La Gioconda e La gloria: le ultime due pièces furono
portate in scena dalla Duse nel 1899, l'una un successo, l'altra un
fiasco solenne. E se drammatica, ma meno teatrale, era stata la
risoluzione del rapporto con Maria Gravina e con la sua figliolanza,
teatralissimo fu l'ambiente della "Capponcina", celebre villa a
Settignano arredata con sovrabbondanza, anche di cattivo gusto, e
con uno spreco di atmosfera superomisticamente sacrale. I malevoli
sostennero che la simbiosi del D. con quella dimora era stata
facilitata dal fatto che ad accollarsi le spese di quel perfetto
allestimento era stata la generosa Eleonora. Certo si realizzava una
piena corrispondenza, persino simbolica, tra Gabriele, mito e divo,
e l'interno della sua villa. Il fascino del personaggio ne fu
accresciuto. Sollevato, per la prodigalità della Duse, dai
vili problemi pratici, egli poté rinnovare i fasti d'un
signore del Rinascimento, fra cani, cavalli e sontuosissimi arredi.
Il dannunzianesimo, pur tra un nugolo di detrattori che ironizzavano
sugli eccessi ridicoli dell'immaginifico, toccava ora il diapason
presso un fruitore borghese (via via anche piccoloborghese) che il
suo eroe ce l'aveva, finalmente, in carne ed ossa. Avvolto dal
tepore del lusso, il D. lavorò alacremente alle prime Laudi,
alcune pubblicate su La Nuova Antologia, a Le faville del maglio e a
Il fuoco, che fu pronto per i tipi di Treves nel marzo del 1900.
Il romanzo è il vero trionfo del superuomo, alias Stelio
Effrena, alias il divo Gabriele. A fargli corona sono il paesaggio
da favola di Venezia, la Foscarina, attrice drammatica, e Donatella,
bellissima cantatrice, entrambe donne eccezionali ma non tanto da
superare il superuomo. Su quello e su queste, sullo stesso Daniele
Glauro, lo sterile asceta che adombra Angelo Conti, l'amico e
l'ispiratore di sempre, autore nel 1900 di La beata riva, si
esercita il dominio, ideologico e culturale, di Stelio. La sua
potenza è quella dell'artefice, creatore e insieme
trascinatore di masse, punto di riferimento di un manipolo di
giovani, entusiasti adoratori del bello. Gli esecutori di teatro e
di musica e il critico, rilettore di una bellezza da altri creata,
trovano nell'immaginifico il nuovo messia: quanto basta a suggerire
che la nuova arte letteraria propone superomisticamente la
combinazione di categorie culturali e di linguaggi diversi, del
teatrale, del lirico, del musicale. E quella combinazione pretende
un accumulo irrefrenabile di esperienze: come, suo malgrado,
riconosce la Foscarina, Effrena è chi deve vivere tutto,
senza limiti, e tutto possedere, in primis, con il gesto e la voce,
la folla chimerica. Emblematica è, al riguardo, la scena
della notte d'amore con la Tragica, che si prolunga in una conquista
vitalistica e spasmodica, sessuale al fondo, della città
lagunare. Lo stile da superuomo travolge la narrativa nell'oratoria
e costringe il protagonista iperumano nello spazio, privilegiato ma
asfittico, del proscenio, in un perenne primissimo piano.
Il romanzo contiene qualche allusione non proprio galante alla Duse,
nei cenni insistiti ai trascorsi ed alla incipiente decadenza fisica
della Foscarina; ma, mentre la cosa suscitò scandalo in
taluni lettori, non sembra che Eleonora le desse gran peso: aveva
vestito, nell'occasione, gli abiti di scena di una donna il cui solo
compito, giusta l'ideologia de Il fuoco, è quello di servire
l'amante, creatore geniale.
Del resto l'attrice pensava di aver raggiunto con Gabriele l'apice
della felicità. I due litigavano di frequente, anche per il
loro carattere forte e talora spigoloso, ma erano, comunque,
spessissimo insieme. Furono a Vienna per alcune recite del
repertorio dannunziano, che ebbero buon esito; furono in giro per
l'Italia, nel 1901, con E. Zacconi, riunitosi artisticamente ad
Eleonora, e, accolti entusiasticamente, puntarono nel 1902 su
Gorizia e Trieste. Intanto il D. aveva chiuso, momentaneamente, con
la politica. Infatti, nel quadro di un trasformismo ideologico
sempre strumentale, si era presentato, nelle elezioni del 1900, per
il gruppo socialista nel collegio di Firenze: stavolta la trombatura
fu inevitabile. E così, estromesso dal Parlamento,
poté dedicare ad un intenso lavoro letterario l'estate dello
stesso anno e quelle degli anni successivi e, insomma, tutti i
momenti non occupati dalle tournées a fianco di Eleonora. Tra
il luglio e l'autunno del 1900 compose alcune liriche dell'Alcyone e
di Elettra; nello stesso periodo del 1901 scrisse Francesca da
Rimini; nell'estate del 1902 partorì altre liriche
dell'Alcyone. Approfittando di un viaggio della Duse in America, che
aveva lo scopo, anche, di rimpinguare le casse di quel connubio,
teatrale e sentimentale, fastoso e scialacquatore, Gabriele
completò, nella prima metà del 1903, la Laus vitae,
sicché Maia fu pronta per la stampa nel maggio del medesimo
anno. Un ulteriore sforzo creativo gli permise di realizzare, in
trentatré giorni, La figlia di Iorio e di rifinire Elettra e
Alcyone, il secondo e il terzo libro delle Laudi, che furono edite
nel dicembre del 1903.
È giudizio comune che le Laudi, i primi tre libri e, in
specie, il terzo, segnino il culmine della lunga ricerca poetica del
D'Annunzio. Riemerge poi, oggi particolarmente, la tendenza a
ridefinire questa fase della lirica dannunziana e a metterne in
rilievo così il valore intrinseco di poesia, riguardo
particolarmente all'Alcyone, come quello più genericamente
culturale e di sperimentalismo letterario. Ora non v'è dubbio
che, sotto il profilo delle forme dell'espressione,
dell'organizzazione metrica, di singoli stilemi, le Laudi siano
state testi capitali nel primo Novecento.
Talune immagini o mitologie di Rebora, di Campana e, oltre, di
Montale, devono molto, per esempio, alla lezione di Maia. E non
v'è dubbio, anche, che la magmaticità di alcune pagine
del primo libro e l'effusività analogica e l'insistita
equivalenza ritmica di altri luoghi del terzo siano dense di
fascino. Ciò non basta, tuttavia, a riscattare una ideologia
letteraria ed un sottostante uso del linguaggio e dello stile, che
sono caratterizzati da un indirizzo fortemente reazionario e paiono
del tutto inattuali, ultime voci di un secolo che muore, a fronte
della problematicità e della ricchezza critica ed autocritica
della poesia più significativa del Novecento. L'ideale di un
progresso rettilineo e sicuro, simbolizzato dal mito di Ulisse,
esploratore della lodata multiformità della vita, homo faber
che puntella e sublima la Weltanschauung borghese; l'immediata
trasferibilità dell'Ulisside nel superuomo, con una enfasi
assordante dei ruoli dell'io lirico, demiurgicamente protagonista;
il susseguirsi debordante di miti, per lo più ridondanti,
sempre impiegati ad incielare la poesia, sottraendola alla crisi
storicamente attiva - innescata e amplificata dalla medesima teoria
nietzscheana - dei valori della società borghese;
l'aulicità sforzata dello stile e una lingua sistemata nel
fortissimo di un'oratiosoluta, in linea con l'irresistibile
magniloquenza del superuomo; il compimento rituale dell'iniziazione
dell'io-Ulisse e la funzione-guida che per esso la poesia assicura,
in un rapporto di nobile correità ideologica, alla classe
sociale al potere rendono marginali e connotano di altro segno,
annullano infine gli effetti dello sperimentalismo linguistico
(c'è chi ha parlato giustamente di monoglottia) e del verso
libero, quest'ultimo meno dialettico ed antagonistico alla
tradizione di quello già praticato e poi teorizzato da
Lucini. Così è in Maia e in Elettra, chenon nasconde
la sua pertinenza ad una scelta politica fondata su nazionalismo e
volontà di potenza - scelta condivisa da molti intellettuali
del tempo - e vi insedia l'ambizione del poeta a proclamarsi vate
della nazione, avvicendando il vecchio Carducci; così
è in Alcyone, il cui ruolo programmatico di tregua
nell'avventura dell'Ulisside non nega, ma rinfocola e sposta su
altri livelli di esperienza e in altri contesti la poetica dei primi
due libri. Dunque il superuomo vi fa troppo spesso capolino, sia pur
vestito di ulteriori panni mitologici e calato stabilmente in un Pan
ditirambico. E le stesse pause di ammaliante musicalità
sottendono una priorità del significante sul significato
(un'autonomia del significante), nella quale celebrano i loro fasti
l'investitura superomistica della poesia e la capacità magica
del linguaggio di sostituire simbolicamente la realtà e di
sublimare l'orrore, anche sociale. Non s'è sbagliato chi,
allora, ha individuato l'epigonismo dannunziano a fronte del
simbolismo europeo maggiore, gnoseologicamente più vivo e
problematico. A chiosare le Laudi può valere una nota di
Campana: nessuno come il D. sa invecchiare una donna o un paesaggio.
L'edizione delle Laudi precedette di pochi mesi la rappresentazione
de La figlia di Iorio, che sancì la rottura del sodalizio tra
Gabriele ed Eleonora. Lo scrittore era convinto che la Duse non
potesse adeguatamente fare la parte di Mila di Codro; anche per
questo egli pose l'attrice di fronte ad un dilemma, occasionato
dall'inasprirsi della tisi di cui soffriva e che la teneva lontana
dalle scene: o rinunciare o costringere a rinviare sine die la
rappresentazione. La Duse se ne adontò, ma con gesto di
sublime e teatrale generosità donò la pièce al
suo Gabriele. Che ne usasse liberamente, lei con dignità
usciva di scena. Irma Gramatica avrebbe preso il suo posto nel
dramma e avrebbe contribuito al successo de La figlia di Iorio, data
in prima al Lirico di Milano il 2 marzo 1904.
Il successo della pièce si deve certo al fatto che essa
è pervasa da una sensualità rusticana e panica - la
stessa che aveva impaginato Le novelle della Pescara del 1902, il
fior da fiore de Il libro delle vergini e di San Pantaleone - la
quale, se spande sul dialogo ariosità favolosa e leggerezza
musicale, non evita tuttavia il cristallizzarsi di stereotipi legati
alla oleografia popolaresca e contadina. Ma La figlia di Iorio, pur
tra limiti e contraddizioni, è l'eccezione in una regola di
ben altro segno. Il repertorio teatrale dannunziano, invero, merita
assai poca attenzione perché costituisce, se possibile, una
esasperazione dei programmi tonitruanti, in letteratura, del poeta
immaginifico. Nella speranza di eguagliare ed oscurare la fama di
Wagner, riaggiornandone i progetti con l'introduzione sulla scena di
una solarità apollinea, il teatro del D. finisce per essere,
il più delle volte, mera esercitazione retorica, dove
rigurgiti di classicismo, improbabili aulicità, mitologie in
eccesso, macchinosità strutturali, semplificazioni
ideologiche e superfetazioni estetistiche si rincorrono senza
soluzione di continuità. C'è un che di teatrale, in
quanto narcisistica, strumentale e mercificante volontà di
esibizione, nel D. e nella sua letteratura; la sua scrittura
teatrale non fa che raccogliere e moltiplicare una siffatta
congeniale disposizione. Nessuna pur minima attinenza alla
percezione dei fermenti di una riforma di teatro e di scena: la
senescenza irriscattabile della drammaturgia dannunziana è
confermata, a posteriori, dalla rarità e dall'insuccesso
delle sue rappresentazioni nel nostro tempo o, meglio,
dall'impossibilità di rappresentazioni che non siano
esplicitamente parodiche.
La rottura del connubio artistico con Eleonora Duse corrispondeva, e
probabilmente rimontava, ad una incrinatura definitiva del rapporto
sentimentale. Il D. aveva preso ad amare Alessandra di
Rudinì, ventisettenne figlia di un ex presidente del
Consiglio, vedova con due bambini, bella presenza. La relazione con
l'attrice, da lui ricordata sempre con simpatia ed affetto, si
concludeva tra il biasimo e il rimpianto della gente, certo
nostalgica di quell'incontro di due personaggi pubblici,
eccezionalmente famosi; ed era ora il turno di Alessandra, che
andava a stabilirsi alla "Capponcina", resa più sfarzosa per
l'occasione. La donna possessiva e poco disposta a tollerare le
esuberanze di Gabriele, le spese sostenute per ampliare il personale
di servizio e per nulla far mancare alla sete di mondanità
della bella Nike, l'incipiente, prevedibile tracollo economico,
venuti meno i finanziamenti di Eleonora Duse, costrinsero il D. ad
un ritmo assai meno intenso di produzione letteraria. Fino a tutto
il 1905, che segnò il termine della nuova avventura amorosa,
l'immaginifico scrisse soltanto La fiaccola sotto il moggio e La
vita di Cola di Rienzo e mise insieme un'antologia di Prose scelte,
che sarebbe stata pubblicata nel 1906; nello stesso anno, con
scarsissimo successo, fu rappresentato Piùche l'amore.
Né il ritmo del geniale artefice mutò negli anni
successivi, complicati da amori particolarmente sofferti e
tormentosi. Lasciata Alessandra, dopo lunga malattia e difficili
interventi chirurgici, egli ebbe una intensa relazione con la
contessa fiorentina Giuseppina Mancini; ma anche la durata di questo
rapporto fu brevissima. Scoperta dal marito ed incapace di
rinunciare a Gabriele, ella ebbe una crisi nervosa che
rasentò la follia, come si evince da Solus ad solam,
memoriale di quei giorni pubblicato postumo nel 1939. Una donna
finita tra malati di mente, nel 1908, e la sua predecessora chiusasi
in convento: non c'era di che stare allegri, considerando anche i
debiti crescenti del poeta, che si trovava a mantenere più
famiglie e soprattutto se stesso, amante del lusso, di cani,
cavalli, automobili e desideroso di rimodellare la sua vita come
perfetto analogo della bellezza estenuata della sua opera. Nessuna
meraviglia, dunque, se La nave e Fedra furono gli unici lavori
teatrali stilati e rappresentati tra il 1908 e il 1909, l'uno a
Roma, l'altro a Milano; lo stesso Forse che sì forse che no,
già annunciato nel 1907, fu pronto per la stampa soltanto nel
1910. Intanto il D. aveva dovuto lasciare la "Capponcina" e si era
dato ad una nuova avventura con Natalia de Goloubeff, sposa e madre
di due figli: una nobildonna russa si aggiungeva al bottino
dell'instancabile amante.
Forse che sì forse che no non sembra fuoruscire dalle linee
ideologiche dei romanzi che lo precedono. Medesima tensione
superomistica, analogo plafond mitologico, ricerca di atmosfere tra
il morboso e l'inespresso, raccatto di mitologie moderne: è
il turno (Marinetti ha già lanciato i suoi primi proclami
futuristi) dell'infatuazione di Gabriele per gli aeroplani. Le
uniche innovazioni sono di carattere formale. Un parziale
abbassamento di tono, rispetto all'oratoria esagitata dei drammi e
de Il fuoco, lascia trapelare le avvisaglie dello stile notturno.
Per il resto, tra superfemmine e incesti (come in La città
morta) e voli "pindarici", tutto come di norma. Quello del 1910
è l'ultimo romanzo del D.; ad esso seguirà la stagione
frammentistica de Le faville del maglio e dei diari.
Gabriele sperava che il successo del libro e le entrate di un ciclo
di conferenze di argomento aviatorio, organizzate da Pilade Fratini,
gli evitassero la completa rovina. La previsione era sbagliata; i
suoi beni furono posti sotto sequestro e, accettando un anticipo da
Giovanni Del Guzzo, un ricco emigrato in Argentina che aveva fatto i
classici ponti d'oro pur di avere lo scrittore in America latina, il
D. partì per la Francia, primo scalo per il trasferimento
oltre Oceano. In realtà, nonostante le proteste del
finanziatore, Gabriele rimase nella Repubblica transalpina per
cinque anni e vi condusse quella stessa esistenza raffinata e
lussuosa che aveva circondato il suo mito in Italia. Anche a Parigi
si guardò a lui con curiosità ed interesse. Furono in
molti i detrattori: Marcel Proust lo ignorò, André
Gide ne bollò, con un giudizio tanto velenoso quanto esatto,
le smanie di arrampicatore sociale e culturale. Ma ci furono anche
gli estimatori, da Anatole France ad André Suarés, da
Maurice Rostand a Jean Cocteau a Maurice Barrés.
Al riguardo si rende necessario un breve inciso sulla fortuna
europea del D.: ebbene, traduzioni francesi, recensioni e ammiratori
dell'età dell'"esilio" a parte, di Gabriele non vi sono che
labili echi nel nostro continente, al più fugaci imprestiti
dalla sua opera, che confermano quanto l'importazione (strumentale e
provinciale) superò di gran lunga l'esportazione nel bilancio
culturale e letterario del prolifico vate. Un esempio può
valere per tutti. Joyce deve all'epifania del fuoco, dall'omonimo
libro dannunziano, l'etichetta di un nucleo fondante della sua
poetica. Ma concetto e valore della sua epifania sono ben altri da
quelli che il D. ha suggerito. Se ne rende conto anche il dublinese
che prima fa un gran parlare, quasi in una infatuazione da
adolescente, della narrativa dell'immaginifico e poi, chiaritasi la
strada innovativa del monologo interiore, ripudia quel primo amore
come un errore di gioventù. Celiando, si può dire
allora che c'è del fuoco dannunziano in Joyce, ma si tratta
di un classico fuoco fatuo.
Il tempo da dedicare a Natalia de Goloubeff, che amorevolmente
l'aveva accompagnato nell'"esilio", non era poi tanto; tra l'altro,
non mancavano al poeta abruzzese occasioni per nuove amicizie, come
quella, si dice platonica, per la pittrice americana Romaine Brooks.
Ad Arcachon sull'Atlantico, presso lo chalet Saint-Dominique,
foraggiato dall'editore parigino G. Calmann-Lévy, il D.
compose Le martyre de saint Sébastien, opera musicata da
Débussy e interpretata dalla danzatrice Ida Rubinstein nel
maggio del 1911. L'accostamento di misticismo ed erotismo, in una
pièce che rifiutava volontariamente la partizione strutturale
del dramma ed atomizzava la forma del "mistero sacro" nello
sfolgorio di un impressionismo musicale, provocò un pesante
intervento delle autorità religiose e tutta l'opera
dannunziana fu messa all'Indice. Gli echi e le discussioni sul
provvedimento censorio segnarono un improvviso rialzo delle
quotazioni dell'immaginifico.
Gli arredi della "Capponcina" furono messi all'asta. A curare gli
interessi di Gabriele fu Luigi Albertini, direttore del Corriere
della sera. Con i ricavi della vendita i primi creditori poterono
essere pagati; a saldare le varie spettanze provvide nel tempo una
oculata amministrazione, da parte dello stesso giornalista, dei
diritti d'autore e dei proventi delle collaborazioni. Il D. aveva
mal digerito che il governo italiano non avesse assunto l'onere dei
debiti contratti dal vate nazionale e, per risolvere un problema
ormai annoso e improcrastinabile, si dette ad una frenetica
attività. A partire dal luglio del 1911 pubblicò sul
quotidiano milanese, sotto il titolo Le faville del maglio, una
serie di scritti autobiografici; lo stesso foglio ospitò
dieci canzoni encomiastiche dell'impresa coloniale e fu costretto a
censurare La canzone dei Dardanelli, per il suo tenore violentemente
antiaustriaco. Ma tutte le liriche, poi rifluite in Merope,
pubblicata da Treves nel 1912, avrebbero meritato ben altra censura,
per l'iperbolica aulicità, le croste mitografiche, il
vecchiume stilistico, la programmaticità sfacciatamente
propagandistica in senso reazionario, il kitsch metrico - un
ridicolo riuso delle terzine dantesche - che le caratterizzano. Con
il libro, il quarto delle Laudi, il D. si candidava a poeta civile,
nazionalista principe delle patrie lettere. Aver cantato, con enfasi
e con presupponenza classicistica, le gesta del conflitto con la
Turchia per la conquista della Libia era un ottimo investimento e,
di lì a qualche anno, gli avrebbe procurato altissimi
profitti.
Nello stesso periodo, che aveva visto la morte di Giovanni Pascoli e
l'offerta, con subitaneo rifiuto, della sua cattedra di letteratura
italiana all'autore de Il fuoco, Gabriele elaborò la
Contemplazione della morte, riflessioni di taglio notturno sul
destino umano pubblicate dal Corriere della sera e raccolte in
volume per i tipi di Treves, e il proemio a La vita di Cola di
Rienzo, ricco di notazioni sul periodo più fulgente della
"Capponcina".
Fiorente fu anche, tra il 1912 e il 1914, l'attività di
Gabriele in ambito cinematografico e teatrale: per la decima musa
egli stese il soggetto di La crociata degli innocenti e di Cabiria;
per le scene scrisse Parisina, La Pisanelle, musicate da Mascagni e
da Pizzetti, e Le chèvrefeuille, dramma rappresentato in
Francia il 14 dic. 1913 e poi in Italia con il titolo Il ferro. Ma,
oltre alle prime "faville", è senza dubbio La Leda senza
cigno, apparsa in sei puntate, nell'estate del 1913, sulle pagine
del Corriere della sera, l'opera dannunziana meno caduca di quel
tempo.
Si tratta, come ha notato E. De Michelis, di una serie di trame
senza racconto, nelle quali la smilza struttura dell'intreccio
è il pretesto per un susseguirsi di ricordi, riflessioni,
divagazioni, sistemati in un linguaggio talora privo di orpelli e
quotidiano, spesso liricamente intonato. Ma sarebbe vano attendersi
da La Leda senza cigno procedimenti d'avanguardia o radicali
disarticolazioni linguistiche o monologhi interiori o qualunque
altra forma di scrittura che qualificherà le innovazioni del
genere narrativo nella cultura letteraria del Novecento. Il
sottofondo di quelle pagine è il tono tendenzialmente
classicheggiante già dell'Alcyone, votato alla definizione di
un rapporto pieno e positivo tra l'io e la realtà.
Per quanto l'amministrazione oculata di Albertini, gli articoli sul
foglio da lui diretto, le collaborazioni remuneratissime con la
catena di giornali americani del gruppo Hearst, i diritti d'autore
avessero allentato la morsa del dissesto finanziario, il D. era ben
lontano dall'aver risolto i suoi problemi economici. Inoffensivi i
pochi italiani non ancora liquidati, erano stavolta i creditori
francesi, gestori di hôtels e negozianti, che non concedevano
tregua nel pretendere le spettanze dovute. L'immaginifico fu
costretto a lasciare Arcachon e a ripiegare con Natalia a Parigi
sotto la controffensiva nemica; ma, per paradosso, un'altra guerra,
per tutti tragica e traumatica, avrebbe salvato Gabriele dalla sua
piccola guerra privata. Era scoppiato il conflitto mondiale e
quando, dopo momenti di indecisione, si era profilata l'iniziale
neutralità dello Stato italiano, il D. si recò sul
fronte francese come inviato del Corriere della sera. Era
un'occasione perché l'"esiliato" recuperasse nel paese
d'origine le posizioni perdute e l'immaginifico, con l'entusiasmo di
chi vede prendere corpo la sua ideologia bellicista, non se la
lasciò scappare. Fu così che egli avviò una
fitta azione di propaganda per l'entrata in campo dell'Italia a
fianco della Francia. Che, allo scopo, fosse persino stipendiato dal
governo transalpino è ipotesi sostenuta da taluni ma mai
verificata. È certo, invece, che, per una sorta di
gratitudine, le autorità avevano sospeso il sequestro dei
beni ad Arcachon e che quella della mobilitazione politica e
culturale per l'intervento italiano nel conflitto era, a tutti gli
effetti, la carta vincente. E infatti lo scrittore fu invitato a
rientrare in patria per celebrare l'inaugurazione a Quarto del
monumento ai Mille. Il discorso che vi tenne il 5 maggio del 1915,
l'Orazione per la sagra dei Mille, fu il primo di una serie,
raccolta nello stesso anno sotto il titolo Per la più grande
Italia, incentrata sulla necessità di ripudiare ogni
neutralismo e di aprire le ostilità contro la Triplice.
Dichiarata la guerra, il D. rifiutò con sdegno ruoli
unicamente propagandistici e volle arruolarsi. È da
condividere il giudizio di Roncoroni, che dice vano malignare sulle
motivazioni di quella scelta e sull'autentico significato di un
attivismo davvero abnorme per un cinquantaduenne e, infine, sul
tasso di mitizzazione nei resoconti delle res gestae del
poeta-soldato.
Tra un'impresa e l'altra, agli sgoccioli dell'anno 1914 e agli inizi
del 1915 il D. compose i Canti della guerra latina; nel periodo di
forzato riposo al buio, causato dal raid fallito su Zara - alla
eroicizzazione delle circostanze legate alla perdita dell'occhio
hanno fatto da paio altre maliziose e diseroicizzanti
interpretazioni -, stilò le note del futuro Notturno e
compose la Licenza, pubblicata con La Leda senza cigno nel 1916; nel
1917 la morte della madre segnò un momento di autentica
sofferenza. Se si aggiungono a siffatti avvenimenti le pause dorate
nel lusso di palazzi veneziani, le frequenti avventure amorose (si
dice autorizzate dal governo, sicché ci furono proteste in
Parlamento da parte socialista), il dispendio di denaro, gli
incontri regolari con Olga Levi (che gli fu accanto dal 1916 al
1919), le riunioni riccamente conviviali con gli amici di sempre (in
particolare Albertini ed Ojetti), si ha la conferma che la guerra
guerreggiata dal D. è stata ben altra da quella vissuta
tragicamente sul campo da un qualunque fante italiano o da altri
intellettuali dell'epoca. Quella guerra, affrontata certo con
audacia, la quale di fatto era enfatizzata ed impiegata
politicamente a produrre consenso, costituiva il naturale
spostamento sul piano della prassi (e una prassi preservata, persino
favorita, nelle sue matrici di bellezza) di una ideologia e di una
mitologia letterarie da sempre dannunziane: una superomistica,
mistificante estetizzazione della politica.
Terminata la guerra, passato meno d'un anno, si lanciò
nell'impresa di Fiume, da cui uscì il 26 dic. 1920.
Benevolmente amnistiato da Giolitti, che non arrischiò a
perseguire il popolare protagonista di un'eroica azione italiana, il
vecchio poeta-soldato ripiegò in una villa, già
proprietà di Henry Thode, situata a Cargnacco nei pressi di
Gardone Riviera. Era il 1921; tra i fedelissimi che lo seguirono
l'amante Luisa Baccara. Nella quiete del paesaggio lacustre, il
primo intento di Gabriele fu di tornare a dedicarsi esclusivamente
alla letteratura. Si occupò della pubblicazione dei suoi
discorsi di guerra, rielaborò ed affidò all'editore
Treves la stampa del Notturno, che vide la luce nel novembre del
1921.
Dal libro prende il nome l'ultima stagione letteraria del poeta
abruzzese, che molti critici hanno rivalutato rispetto alle
precedenti. Un linguaggio più dimesso, baluginante di ricordi
e smagliato, talché sembra che sensazioni e dettati interiori
acquistino una autonoma evidenza (e Marinetti, pro domo sua,
rinvenne nel Notturno le tracce, in verità smentibili, di una
conversione al futurismo); un taglio memorialistico che spezza la
solarità di proclami universali e asseconda il respiro breve
e sfumato del frammento impressionistico testimonierebbero a favore
della sincerità dell'opera, sottratta ormai alla
rigidità di un controllo linguistico e stilistico senza
deroghe, sordo a qualunque mormorio del rimosso. In particolare,
l'apparizione della figura materna, sfinita preda della morte,
confermerebbe il nuovo corso della scrittura dannunziana. Ma, a
parte la considerazione che gli anni di stesura del Notturno sono
gli stessi nei quali la poetica del frammento, suggerita da La Voce
di De Robertis, prende quota e si afferma nel milieu letterario
italiano, non vanno taciuti gli scatti superomistici, la patina di
sublime, la convalida mitologica, il dominio demiurgico dei
materiali semantici del testo, che il libro del 1921 profonde a
iosa. Il Comandante senza vista che detta le sue sensazioni alla
Sirenetta ha, invero, la vista lunga del vaticinatore, dell'oracolo
che legge (in buona prosa d'arte, modello rondiano) la realtà
sotto le apparenze e ne spezza il pane per i comuni mortali. Non
c'è insomma alcun sintomo di crisi di ruoli e
potenzialità intellettuali, la medesima che siglerà
(che ha già siglato) il Novecento letterario più
autentico e stimolante. Quella del frammento e della stratificazione
memoriale nel Notturno è una forma ulteriore di
ricomposizione del mandato sociale destinato allo scrittore (e da
Gabriele sempre rispettato) dalla classe al potere.
Il D. si abbandonò dunque alla letteratura. La sua
velleità di prim'attore ebbe uno degli ultimi sussulti in
rapporto alle tensioni sociali che sfociarono nel fascismo. Agli
inizi del 1922 egli seguì e patrocinò il costituirsi
della Federazione italiana dei lavoratori del mare, estrema
occasione per estrapolarsi uno spazio politico autonomo, definito
dai lasciti dell'esperienza fiumana e vagamente oppositivo al
programma del partito fascista. Nell'agosto dello stesso anno,
rivestì i panni del pacificatore nazionale, tentando un
vertice a tre con Nitti e Mussolini. Un misterioso incidente, subito
nella villa di Cargnacco, rese quell'incontro un appuntamento
mancato: era la conferma, se si vuole motivabile anche
psicanaliticamente, di un atteggiamento attendistico, dove
l'astensionismo risultava connivenza mascherata con lo svolgersi
della dialettica politica in atto.
La marcia su Roma trovò il Comandante estraneo e passivo,
probabilmente disinformato, al più dispensatore di inutili
consigli. Da quel momento la dannunziana divenne la storia di una
vita da museo. Mussolini non si sentì di attribuire al poeta
una funzione politicamente pregnante, che avrebbe potuto essere,
alle lunghe, concorrenziale e avrebbe potuto riproporre una
ideologia individualistica (quella all'origine dell'impresa fiumana)
del tutto irriferibile agli organigrammi immediati del regime; e
tuttavia giudicava inopportuno rinunciare completamente al D., utile
e popolare pater patriae con giustificazione culturale di rinforzo:
il vate nazionale andava dunque associato al nuovo establishment,
purché rimanesse l'innocuo simulacro di un ideale totalmente
sganciato dalla prassi.
Il poeta, d'altro canto, ricambiava con altrettanta ostilità,
più estetistica che ideologica, il duce e il gruppo dirigente
fascista, ma comprendeva di non aver né l'energia né
la volontà né le alleanze né le occasioni
politiche per uscire allo scoperto. Il giusto compromesso fu facile
a trovarsi. Mussolini operò e il D. accettò che
intorno alla sua figura, a sacralizzarla ed imbalsamarla, sorgesse
il funebre museo del Vittoriale. La Federazione italiana dei
lavoratori del mare, riconosciuta legalmente, fu inglobata dal
regime; la pratica della donazione della villa di Cargnacco,
acquistata dallo scrittore nel 1922, fu portata a compimento; e non
mancarono elargizioni a Gabriele: il titolo di principe di
Montenevoso nel 1924, la nave "Puglia" e il mas di Buccari, la
creazione di un Istituto nazionale per la pubblicazione di tutte le
opere del poeta, che gli consentì di vivere sfarzosamente il
resto dei suoi giorni.
Dei rapporti del D. con il fascismo al potere pochi e poco
significativi episodi pubblici: il Comandante gravitò,
ideologicamente connivente, nell'orbita dello Stato dittatoriale,
plaudendo all'avventura di Etiopia - Teneo te, Africa, 1936
-,invitando la Francia a rimuovere ogni atteggiamento ostile - Aux
bons chevaliers de France et d'Italie, 1935 -; manifestò
timide perplessità, nel 1937, soloper l'alleanza
italo-tedesca. Qualche piccola insubordinazione rimase confinata in
incontri confidenziali con amici fidati e nello scambio epistolare
con il duce, nella visuale ristretta della richiesta di
personalistici favori. Del resto la statalizzazione del Vittoriale
consentiva a Mussolini di esercitare un controllo e una censura
garbati ma perentori. All'uopo, in funzione di sorvegliante della
villa, era stato nominato un apposito commissario.
Notturna, consegnata alla pesante oscurità del monumento
nazionale sul Garda, fu la vita oltre che l'opera dannunziana
dell'ultimo periodo. Notturno il clima di Le faville del maglio,
raccolte nel 1924 e poi nel 1928,in seconda edizione.
L'opera, in prima redazione, contiene Il secondo amante di Lucrezia
Buti, che Landolfi prende ironicamente a modello di un improbabile,
inattuale respiro narrativo, completamente sottratto alle
contraddizioni di cui lo scrittore è portatore, specie quando
assume, e non riesce a parlarne se non nell'autoconsapevolezza della
finzione e della menzogna, se stesso a referente. La seconda
edizione è occupata per intero da Il compagno dagli occhi
senza cigli, a sua volta occupato dalle res gestae di un divino
infante, dai tratti, neppure tanto impliciti, di superuomo.
Notturna, con erotici bagliori retorici in pieno, l'atmosfera
tanatologica del Carmen votivum, mitizzante diario di coiti edito
nel 1932.Notturna, ma non senza la preziosità splendente
della prosa d'arte, allora al canto del cigno, l'impostazione di
Cento e cento e cento pagine del Libro segreto, pubblicato da
Mondadori (Milano-Verona 1935). E buio addirittura, ultima e vuota
esercitazione, fu Le dit de sourd et muet qui fut miraculé en
l'an de grâce 1266, apparso nel 1936,mentre Mondadori
già cominciava a ristampare l'opera omnia dello scrittore.
Gli ultimi prodotti furono partoriti stancamente e a fatica,
soprattutto di notte, nell'"Officina", lo studio del mausoleo
stipato di libri. Le altre stanze erano tutte arredate,
dall'architetto Giancarlo Maroni, con oggetti e cimeli straripanti:
un museo di kitsch.
Nella "Prioria" Gabriele trascorreva in prevalenza le sue giornate e
riceveva, raramente, gli amici, quando non usciva, ma le uscite
furono sempre più rare, per brevissime puntate nei dintorni.
Nella stanza della Leda, invece, accoglieva le sue amanti che,
variate di continuo e spesso prezzolate, facevano effimera corona
alle amanti maggiori, Luisa Baccara e Aélis Mazoyer, ospiti
stabili nella villa. Durarono più a lungo solo i rapporti con
Elena Sangro e con tale Titti o Tormentilla, ultima passione
dannunziana. Le avventure amorose del periodo, estremo tentativo di
surrogare e di fingere un fervore vitalistico ormai spento, non
evidenziano tanto deviazioni e perversità, quanto si colorano
delle tinte fosche della morte. E tanatologiche furono le residue
manie dannunziane: il suo misticismo francescano, l'attrazione per
lo spiritismo, la probabile (alcuni biografi l'hanno supposta)
compagnia della droga. In quei rituali il D. recitava le battute
finali di un poeta divo che aveva caratterizzato un'epoca e deciso
gli orientamenti del gusto. Ma le recitava senza spettatori, nel
vuoto di una scena (nel tono di un epicedio) abitata da un alter
ego, da un doppio contrassegnato dalla morte: così gli ultimi
ritratti fotografici di un Gabriele stanco, consunto, annoiato.
Il D. morì improvvisamente, il 1º marzo 1938, nel suo
museo del Vittoriale. Era di sera quando avvertì un
malessere. Sopraggiunse un'emorragia cerebrale a dargli il colpo di
grazia.
"Fin da' miei primi anni/ io volli divenire/ quel che sono",
scriveva il D. in una pagina de Le faville del maglio, l'opera che
segna una tappa decisiva nel suo cammino regressivo dal romanzo alla
prosa autobiografica, di cui, alcuni anni più tardi, i cupi
infrasuoni de Il Notturno saranno l'espressione più preclara
di una involuzione, non tanto narrativa, quanto vitale.
Quell'aforisma il D. l'aveva altre volte espresso, lo
ripeterà spesso ancora.
Come tutti gli aforismi, tra gli innumerevoli che le fonti
dannunziane ci propongono, può essere assunto come una chiave
biografica. È un "volli" privo di sostanziale eticità,
cosicché nessun biografo l'ha raccolto, per compararlo con
quello di alfieriana memoria. Ma indica una relazione puntuale, tra
quell'insieme eccezionale di naturali talenti di cui il D. fu dotato
e le circostanze storiche attraverso cui passarono le sue
esperienze, che fu un riuscito connubio, fin dall'adolescenza,
quando la sua personalità, avida, sensuale, felicemente
osmotica e creativa, seppe continuamente nutrirsi di idee,
d'immagini, di persone e cose, per tradurle immediatamente in
sensazioni, pensieri e simboli, ch'erano i suoi e insieme quelli di
un'epoca. Con fragilità di pensiero, ma con
un'istintualità profonda, riuscì per un trentennio a
solcare da protagonista una delle parabole più significative
della decadenza culturale e civile della società europea,
fino ad esaurirsi, alle soglie della prima guerra mondiale, perdendo
via via le sue facoltà "immaginifiche" e trasmutando, ancora
con istintiva consapevolezza, il "poeta" nell'"eroe", per farsi,
questa volta senza averlo voluto, il "politico" dell'impresa
fiumana, costretto allora per la prima volta non più ad
abbracciare soltanto le circostanze, ma a cercare d'andare oltre ad
esse, fallendo clamorosamente, o meglio preferendo a quest'ultima
prova, la prigione del Vittoriale.
Cogliamo ancora almeno due cesure profonde nella sua biografia
"politica", una interna, che è l'esaurirsi del sostrato
vitale della sua creatività letteraria e che si esplicita tra
l'esilio parigino e il trionfale ritorno sullo scoglio di Quarto,
dove con tempestività di giudizio De Robertis diceva di aver
"sentito il suo ingegno, sciupato e stanco" e non "la sua persona",
poiché "la figura è rimasta nascosta dalle parole" (La
Voce, VII[1915], p. 892). L'altra, di natura esterna, più
propriamente politica, all'indomani della marcia su Fiume, quando,
nella crisi italiana del dopoguerra, dovette, forse per la prima
volta, assumersi la responsabilità del suo ruolo e non gli fu
più possibile reggersi "in equilibrio con agile eleganza
sulla tenue corda della probabilità distesa a traverso gli
abissi" (Prose di ricerca, III, Milano 1950, p. 334).
Ma proprio perché è solo da quella data che si
può esprimere un giudizio propriamente "politico",
l'approccio al "D'Annunzio politico" non può essere, per
buona parte, che trasversale, deve cercare di dar conto su quanto
una vasta letteratura storiografica ha insistito e continua ad
insistere, d'un D. crogiuolo di pensieri e stili reazionari,
soprattutto anticipatore, sulla base di una acuta intuizione
pratica, della nascente società di massa, di un rapporto
nuovo tra lo scrittore e il suo pubblico e ancora, al di là
di esso, di una moderna e nuova forma della "comunicazione".
Come precursore italiano del pensiero negativo, va detto che il D.
fu soprattutto un traduttore e arredatore di idee, che seppe
esprimere anche in simboli e stili di comportamento. Nessuna di
queste idee era originale. Precisa era invece la percezione di chi
ne fossero i destinatari.
In un'intervista ad Ugo Ojetti del gennaio 1895 parlava di "migliaia
e migliaia di volumi che si propagano come foglie di una foresta
battute da un vento d'autunno", di cui l'intervento della stampa
quotidiana e periodica allargavano sempre più l'anonima
platea. Su la Tribuna, nel terzo degli articoli dedicati a La morale
di Zola, aveva opinato che "l'opera d'arte è determinata
dalle condizioni generali dello spirito e dei costumi presenti
nell'epoca" e che non era "possibile resistere alle pressioni dello
spirito pubblico" (15 luglio 1893).
In effetti egli, prima e più di alcun altro in Italia, aveva
saputo interpretare ed esprimere l'atmosfera della crisi di fine
secolo che attraversava tutta la cultura europea, e si era mostrato
abile a raccoglierne qui e là tutti gli sparsi elementi, a
smontarli e rimontarli, in labili e suggestivi messaggi. Si è
parlato del "miracolo", compiuto dal D., di forzare ad una
circolazione culturale di massa una serie di miti che, nella loro
sostanza, erano tipicamente elitari e antidemocratici (Asor Rosa, p.
109). Ma questo "miracolo" da più di mezzo secolo era stato
largamente compiuto dalla letteratura tardoromantica europea, e
aveva improntato di sé la cultura e il costume dei nuovi ceti
medi. In Italia non era stato propriamente così, per il
legame stretto che la cultura romantica aveva avuto con la questione
nazionale. Ora, proprio il D., nel riproporre con ritardo questo
tema, operava una delle più emblematiche fratture con la
cultura del Risorgimento.
Valga solo uno spunto significativo: Giosuè Carducci,
scrivendo al D. per ringraziarlo della Laude composta in suo onore
su Il Giornale d'Italia (12 maggio 1903), osservava: "io fin dal
principio mi proposi di dire espresso quello che mi stava dentro
senza guardar in faccia la gente. E lo feci. Ciò fu tutto. I
modi, gli effetti, i premi del gesto sono da te veduti in una luce
troppo siderale, che mi abbaglia". Del resto di "Risorgimento"
c'è poco nell'opera sua e per quel poco che c'è
valgono le osservazioni che già il Croce faceva a proposito
de La canzone di Garibaldi, dove "non c'è patria, non
c'è popolo, non c'è libertà, niente di quello
che compone la figura storica del popolano di Nizza" (1914, p. 38).
Questo mutamento di accenti era peraltro nell'aria e il D. lo
coglieva già a piene mani negli anni del suo primo soggiorno
a Roma, dove era approdato nel 1881, negli ambienti
giornalistico-letterari e mondano-politici, in particolare quello de
La Cronaca bizantina. L'itinerario elettivo percorso dal giovane D.
non era l'unico esclusivo che la nuova capitale offrisse. Qualche
anno dopo, un altro, ad esempio, ne avrebbe intrapreso il Croce, tra
la casa dello zio Silvio Spaventa e le lezioni di Antonio Labriola.
Ma in quella cerchia di giovanissimi che il Sommaruga aveva raccolto
intorno alle sue iniziative editoriali, da Edoardo Scarfoglio, a
Matilde Serao, al D. stesso, l'atmosfera non era solo "giovanile",
ma "generazionale", da molti definita "ambigua", per la "carenza di
approfondimento ideologico che non permetteva a questi scrittori di
ben valutare i mezzi di cui si servivano, di condurre una battaglia
culturale, la quale fosse in grado di mettere davvero in crisi certi
valori" (Alatri, 1983 p. 30). C'era tuttavia un'ansia di
novità che accomunava motivi diversi, di natura estetizzante,
aristocratica, antiborghese, antipopulistica ed insieme
nazionalista, motivi spesso tra loro contraddittori,
superficialmente espressi e iterati, ma che tutti indicavano un
diffuso desiderio di uscire dall'ambito della tradizione della
cultura "unitaria". E tra le contraddizioni c'era anche la pretesa
di una continuità, almeno letteraria, che si esprimeva, ad
esempio, proprio nell'omaggio al Carducci, che era già
consapevolmente soprattutto pretesa ad una successione, d'essere il
nuovo "vate d'Italia".
Maturavano già qui i germi di un giudizio, che per i
connotati politici che assunse venne a definire l'epoca giolittiana:
l'immagine dell'"Italietta" infatti ha quest'origine culturale
precoce. E come tutte le sensazioni espresse, ma poco riflettute,
poteva adattarsi agli stimoli diversi che il processo di sviluppo
economico e sociale, che in quegli anni prendeva forma anche in
Italia, faceva sorgere da più parti. La formula del governo
liberale, che sarebbe prevalsa fino alla guerra mondiale,
costituì una risposta efficace a questo mutamento, che
tuttavia costringeva necessariamente non solo entro precisi alvei
istituzionali, ma portava ad una concezione realistica dei rapporti
di forza politici e delle forme di accumulazione e distribuzione
della ricchezza. La congiunzione di questi due elementi, quello
istituzionale e quello politico, alimentava un rinnovamento profondo
della cultura italiana a cavallo del secolo, nella filosofia, come
nel diritto, nell'economia e nelle scienze sociali in genere. Ne
uscivano ipotesi di azione che potevano così convivere, pur
nella tensione anche estrema dei motivi ideologici.
Quando, ad esempio, si guarda alla vicenda del nazionalismo italiano
tra il 1910 e il 1914, alla pressione anche eversiva che essa prese
ad esercitare sugli equilibri politici dell'Italia liberale di
allora, non si può non constatare che, al di là delle
suggestioni delle sue frange "letterarie" e delle spinte
"irredentistiche" che la componevano, essa fu, nella elaborazione
dei suoi esponenti più consapevoli, da Corradini a Carli e a
Rocco, opposta, ma ugualmente realistica, nel connotare il livello
raggiunto di sviluppo economico e le implicazioni sociali che ne
derivavano, la conseguente idea stessa di un "piccolo,
imperialismo".
Il nazionalismo del D., quello che non si esprime solo nel corso di
un trentennio nelle sue "poesie civili", dalle Odi navali, alle
Canzoni delle gesta d'Oltremare, e alla composizione teatrale de La
nave, ma, con forme diverse, in più luoghi della sua opera
letteraria e della sua intensa attività pubblica, comporta
invece sempre la negazione d'ogni limite, è una "poetica"
della "rimozione del limite". La sua suggestione sta proprio
così nel non essere "politica", e neppure "impolitica", ma
propriamente "apolitica". La chiave del "D'Annunzio politico",
dell'influenza che ebbe sui sentimenti civili e politici, sta dunque
forse proprio in questa sua essenza "apolitica", che lasciò
una traccia probabilmente profonda nella "mentalità"
italiana, nella misura in cui andava indirettamente a congiungersi
con le sue radici cattoliche e rurali, con l'idea che le ragioni
alte della vita, non solo individuale, ma anche sociale, si
collocassero tutte al di là della politica.
Senza cogliere questa sostanziale "apoliticità" del ruolo
dichiaratamente assunto e svolto dal D., è difficile
intendere le contraddizioni che attraversano gli aspetti più
espressivi della sua opera e dei suoi comportamenti, nonché
quell'ambiguità che facilmente diventa propria della stessa
critica e storiografia dannunziana, quando intende spiegare i
volubili intrecci d'un estetismo, culto aristocratico, di volta in
volta Biedermeier, preraffaellita, semplicemente decadente, della
Bellezza, con una latente reminiscenza positivistica, forse eco non
sopito dell'unico insegnamento universitario seguito negli anni
della giovinezza a Roma, quello dei Moleschott, che era culto del
progresso e soprattutto della tecnica, apoteosi della macchina; d'un
elitismo, che individualizzato in una superficiale nozione di
superomismo nicciano, stentava a specificarsi, anche nei
programmaticamente più maturi romanzi, Le vergini delle rocce
e Il fuoco, in un concetto sociologico di élite, ed era, per
sua natura, certamente antidemocratico, ma difficilmente definibile
come "classista", o razzista, anche nel rituale sfoggio della moda
darwinistica, giacché non c'era popolo, neppure plebe,
perché soprattutto "troppo poco umano". Così il
bisticcio tra la sua polemica antiborghese, anzi, a tratti
anticapitalistica, e la sua sostanziale funzione classista, nella
specie nazionalista, che pure si colloca fuori dalla più
naturale traiettoria storico-politica attraverso cui il movimento
nazionalista trovò modo di emergere. E lo stesso dilemma si
propone nei riguardi di definizioni come "autentico fondatore del
movimento fascista", o "il Giovanni Battista del fascismo", che,
come ha bene illustrato il De Felice, fanno torto alla
complessità di suggestioni e motivi ideologici, sociali e
politici che il D. volle tenere presenti, quando solcò da
protagonista la scena politica dei primi anni del dopoguerra,
perché, infine, come lucidamente ha raccontato Nino Aleri,
non fu "fascista", salvo non aver saputo e voluto essere, di fronte
al fascismo, Gabriele D'Annunzio, come più facile gli era
stato in regime liberale.
Ciò non toglie che del nazionalismo il D. fu anticipatore; e
poi interprete, se non della sua politica, certo di quanto d'italico
aveva il suo involucro ideologico.
Precocemente, nel 1896, era stato l'ispiratore de Il Marzocco, la
rivista fiorentina diretta da Enrico Corradini, e in cui, rispetto
ad altri più diretti impegni editoriali che egli si era,
sempre per brevissimo tratto, venuto assumendo, com'era stato per la
Cronaca bizantina, nella sua riviviscenza sotto l'egida del principe
Maffeo Sciarra, tra il 1885 e il 1886, e per Il Convito, nel '95,
dove a fianco del De Bosis aveva fatto appello contro i "nuovi
barbari", cioè i suoi contemporanei, più netta era
stata l'intenzione politica, almeno come reazione diretta e violenta
ai fermenti democratici che percorrevano la società civile
italiana, in primo luogo l'avvento del socialismo e il riemergere
del cattolicesimo, nei suoi primi fermenti "popolari".
L'anno seguente, nell'agosto dell'anno 1897, annunziava al suo
editore, Emilio Treves, d'essere "capace di tutto" e concorreva per
un seggio alla Camera dei deputati, in un'elezione parziale del
collegio di Pescara, contro il repubblicano Carlo Altobelli. Fu il
"candidato della Bellezza", e durante la campagna elettorale
pronunziò il "discorso della siepe" (quella "che limita il
campo lavorato, o agricoltori. Voi l'amate ed io l'amo, se fiorisca
di bianchi fiori, se risplenda di rosse bacche"), in cui si è
detto "c'è tutto: l'anticapitalismo, l'antisocialismo,
l'ideologia piccolo-proprietaria, i valori della razza, il
nazionalismo bellicista" (Asor Rosa, p. 119).
Si mantenne in carica per circa due anni fino alle elezioni del
giugno 1900, battuto a Firenze dal conservatore T. Cambray-Digny,
non prima di aver compiuto il "salto della siepe". All'inizio si era
seduto, senza mai prendere la parola, sui banchi della Destra. Negli
scontri parlamentari sulle leggi eccezionali proposte dal gen.
Pelloux, il 24 marzo del 1900, silenziosamente scese nell'emiciclo e
passò su quelli della Sinistra. "Come uomo d'intelletto vado
verso la vita" disse allora e partecipò anche, nella saletta
rossa di Montecitorio, ad una riunione dei deputati dell'Estrema.
Attaccato per l'episodio, nella successiva campagna elettorale,
così si giustificava: "Mi piacque di entrare un istante nella
fossa dei leoni, ma vi fui spinto da disgusto per gli altri partiti.
Il socialismo in Italia è un'assurdità. Da noi non
c'è alcuna possibilità politica che quella di
distruggere. Tutto ciò che adesso esiste è nulla;
è marciume; la morte che si oppone alla vita. Bisogna
dapprima tutto saccheggiare. Un giorno scenderò nella strada"
(Le Temps, 8maggio 1900).
Il "poeta" dava così un saggio oggettivo dei suoi limiti
politici. La classe dirigente italiana di quel primo scorcio di '900
non ne aveva sotto questo aspetto alcuna considerazione. In questa
occasione, come in altre, da più parti, i giudizi erano aspri
e liquidatori. Più tardi, vista in una prospettiva più
storica, questa rapida capriola attraverso il socialismo poté
anche essere interpretata come una sensibilità confusa, ma
pur sempre significativa, verso quanto, dal punto di vista eversivo,
poteva accomunare chi si poneva contro lo Stato democratico
parlamentare e il regime borghese che ne costituiva il sostegno,
come il segno anticipatore di una ricerca di vie nuove, che si
ripeterà con l'impresa di Fiume, che lo fece apparire allo
stesso Lenin come un possibile autentico "rivoluzionario". Ma, ad
esempio, l'avversione di Sorel per il D. non subì
ripensamenti e Barrès, che lo aveva conosciuto in un contesto
a lui più propizio, a Parigi, durante il suo "esilio", con
sufficienza francese lo definirà, in modo singolarmente
profetico, anche se riduttivo, "ce dur petit soldat".
Senza "scendere nella strada" fu indubbiamente un "distruttore" e un
"saccheggiatore", sia dello spirito pubblico italiano, sia della
cultura coeva. E, per intendere ciò, occorre ripercorrere le
suggestioni più interne della sua opera letteraria, come egli
intese e seppe diffondere, in una sorta di vulgata italiana, i
motivi di crisi della cultura europea di fine secolo. Nella sua
esperienza di letterato e di "intellettuale" troviamo quella
coerenza, che nei suoi atteggiamenti privati e pubblici risulta
scomposta e mondanamente evasiva. La sua formazione è segnata
da un percorso, che più che di pensieri, fu di letture, ma
intensamente vissute e non casuali: Dostoevskij, Darwin, Nietzsche
preminentemente, anche se poi intorno ad essi ruota un caleidoscopio
di spunti e suggestioni altrove attinti.
Tullio Hermil, il protagonista de L'innocente, esprime
l'inestinguibile istinto del delitto, soffre la colpa, ma non
intravvede neppure per contrasto la forma individuale del riscatto.
Quest'ultima, del resto, è una carattetistica che accomuna
tutte le incarnazioni letterarie del D., salvo, non a caso, lo
Stelio Effrena del Fuoco, a cui la sinopia del romanzo destina una
possibile sublimazione "artistica". Ma il sentimento
dell'"innocenza", che troviamo in tutti i personaggi di Dostoevskij,
quando non sono corrosi dalla lucida superbia della ragione,
è un'impossibilità storica a vivere una catarsi
mistico-religiosa. Di questa frattura profonda dell'io, che lo
scrittore russo coglieva nella sua epoca fino alle estreme
conseguenze individuali, il D. sembra cogliere solo la faccia
opposta, cioè il destino "impuro".
Così è dei suoi superuomini, segnatamente Giovanni
Aurispa del Trionfo della morte e Claudio Cantelmo delle Vergini
delle rocce, che intendono la sconfitta moderna della morale e della
ragione, quali forme del dominio dell'uomo, ma che in virtù
di un innato vitalismo non intendono rinunciare a quest'ultimo,
senza però sapere come e perché, altro che
confusamente. Ora quello di Nietzsche è un pensiero "critico"
e non "pratico", come cercava di tradurlo D'Annunzio. Zaratustra
è l'incarnazione simbolica di una nuova metafisica, non una
banale morale dell'azione, e, se in essa la sconfitta della ragione,
del logos, postula l'azione, questa non è propriamente
l'azione dell'uomo, cosicché anche qui il D. non intende
penetrare più che tanto i fondamenti critici di questa
metafora metafisica del superuomo. A quindi giusto dire "che il
'superuomo' dannunziano è solo il simulacro di quello di
Nietzsche: resta infatti ancorato ai due poli essenziali della
figura del poeta, che il D. era impegnato strenuamente a restaurare,
e cioè l'estetismo e l'attivismo politico a base
nazionalista" (Asor Rosa, p. 115).
In un articolo de Il Mattino (25-26 sett. 1892), dal titolo La
bestia elettiva, dava un primo saggio di recezione della moda
darwinistica, con un'irruenta polemica antiparlamentare, per
affermare che "gli uomini saranno divisi in due razze", che sarebbe
stato meglio dire due "classi", secondo la teoria elitista (di cui
egli aveva orecchiato le formule), ma che il D. voleva "naturali" e
non "sociali", e il "naturalismo" era il suo, non quello di Darwin,
la cui scienza naturale della specie si era già prestata a
più interpretazioni ideologiche.
Anche rispetto a queste suggestioni critiche del pensiero
contemporaneo il D. compie dunque una interpretazione riduttiva, che
è il rifiuto di seguirne e approfondime le ragioni critiche,
forse la sovrapposizione ad esse del suo innato vitalismo, un suo
essere nella vita invero assai poco problematico, ridotto ad alcuni
elementari ed intensi elementi, il piacere, il dolore, l'amore e la
morte, cui rimaneva "ferinamente" attaccato. E questa sua
indisposizione ad elaborare le suggestioni e i pensieri, che pure
percepiva, quando dalla sfera individuale passava a quella sociale,
mostrava il segno di una elementare grammatica politica, fatta di
piccoli e grandi oltraggi al buon senso, di arroganti ed edonistiche
sottolineature di differenze individuali e sociali, ricerca
irriflessa di spazi vitali, fisici ed immaginari, in cui c'era
insieme l'idea di decadenza e quella di progresso, almeno materiale,
insomma, una assai primitiva, vestita di italici provincialismi,
concezione della società, insieme negativa e positiva,
ammantata d'un sapere più profondo, che non era il suo,
né che aveva voluto veramente intendere, ma solo recepire,
con fiuto autentico, come essenza della sua contemporaneità.
Ma questo grande ed insieme mediocre pastiche non avrebbe avuto
l'influenza e la credibilità che ebbe se non fosse stato
sorretto da un elemento compositivo uniforme e distintivo, che al
tutto avesse conferito continuità e coerenza, soprattutto
l'avesse reso immediatamente fruibile, al di là della vena
poetica del D., che si manifesta largamente nella sua opera e che
certo fu motivo non secondario, presso i contemporanei, della sua
pur discussa "attrattiva", ma non può essere di per sé
chiave di giudizio, come a volte la ritroviamo, collocata nei
frangenti suoi biografici più imprevisti, ad esempio, nella
formula "grazie alla sua sensibilità di vero poeta", per
intendere il suo travaglio politico tra il 1919 e il 1920 (De
Felice, 1978, p. XI).
Parliamo dell'uso del linguaggio. L'"artefice" per cui "divina
è la Parola e il Verso è tutto" aveva un'idea pratica
e consapevole di quest'uso: "o parole, mitica forza della stirpe...
io feci apparire tra l'una e l'altra sillaba i mille volti del
passato ... io dal vostro cozzo faville sprigionai, ... che
illuminarono l'ombra del futuro pregna di mondi". Nel comporre la
sua scrittura fu artigiano infaticabile, come in nessuna altra
attività o proponimento duramente dedito.
Difficile tuttavia accedere all'immagine di lui come "officina
dannunziana" in cui ci sarebbe "una non estrinseca analogia tra il
contenuto sostanzialmente borghese della concezione dannunziana
dell'uomo come centro di accumulazione di esperienze e struttura
produttiva, al di fuori e al di sopra di ogni mediazione critica e
conoscitiva, e il contenuto della sua ideologia della letteratura
come pura produttività di forme" (Jacomuzzi, p. 187). Ci pare
di cogliere, forse paradossalmente, una sopravalutazione dell'opera
del D., come segnale inaugurale di un uso industriale del mestiere
letterario, che si venne affermando progressivamente nella nuova
società di massa, facendo di quell'uso "pratico" della
lingua, proprio del D., il prodromo di una tecnica nuova del
"comunicare", confondendo due cose diverse, sebbene ambedue presenti
nel D., ma la seconda delle quali, per sua natura, non è di
dominio del letterato, o chi per lui, ma in primo luogo dello
strumento di comunicazione, per il fine di chi lo possiede e lo
utilizza.
Quella del D. fu tuttavia certamente un'officina, la cui funzione fu
però più sottile del semplice "mercificare", fu
piuttosto un semplificare, un rendere intellegibili significati
complessi, non riproponendoli nella loro essenza, ma in una
surrettizia parvenza "linguistica", apparentemente ricca e fastosa,
ma in realtà ancora una volta "riduttiva", cosicché
tra le analisi linguistiche assai penetrante ci pare quella, pur
parziale a proposito dell'Alcyone, svolta dal Mengaldo, in cui si
nota che il D. non è dominato affatto dalla "preoccupazione
di catturare il segreto della realtà. attraverso
approssimazioni suggestive, ma la ben diversa ambizione di crearne
ut artifex gli equivalenti o meglio i sostituti verbali in un libero
automodellarsi del linguaggio: quindi il rapporto fra quest'ultimo
(e la finzione artistica) e la realtà è sempre in lui
di specie analogica, un integrale troppo sostitutivo" (Mengaldo, p.
225).
Giudizio che in parte può anche circoscrivere il molto
argomentare che si è fatto sulla efficacia della sua oratoria
politica e civile, che più semplicemente il Valeri faceva
consistere "nel dare alle cose comuni nomi vaghi e leggiadri,
l'innalzare il noto, grigio e banale, alla dignità
dell'ignoto".
E noteremo di scorcio che proprio da questa peculiare sua cifra
nasce la difficoltà della critica letteraria dannunziana ad
etichettare l'opera sua con accostamenti frammentari, come
simbolismo, impressionismo, e perfino decadentismo, giacché
il decadentismo del D., se lo compariamo, ad esempio, a quello dei
suoi contemporanei francesi, non ebbe quella chiave intimistica, non
procedette attraverso lo stesso smarrimento psicologico, che in
questi ultimi fu così immediatamente creativo. E forse
proprio in questo pluridecennale dragare la parola e la sintassi, in
uno sviluppo logicamente sempre più soffocante e sterile,
andrebbe misurata la parabola della sua "sensibilità di vero
poeta".
Ci sono nel D. tutti gli elementi compositivi dell'avantgarde, ma
l'ampiezza dello sforzo letterario, l'egocentrismo e l'irrequietezza
conoscitiva della sua personalità non lo condussero mai a
circoscriversi, se non entro il "manifesto" di se stesso, anche se,
per la sua prensile sensibilità alle atmosfere intellettuali
che lo circondavano, determinava accostamenti più o meno
precipui, come fu anche per il futurismo, ma rimanendo rispetto ad
ognuno collaterale e semplice affine.
Dell'avanguardia ebbe certamente la disposizione nuova a dare
importanza preminente allo strumento espressivo, nel suo caso
più d'uno, rispetto al messaggio di cui doveva essere
tramite, fino a farne appunto l'elemento stesso distintivo del suo
operare. E come è stato proprio del destino di tutte le
avanguardie del primo '900, ebbe anche la disposizione a farsi usare
da altri, fossero situazioni, avvenimenti, persone. Certo per una
personalità forte e vitale come quella del D., essere usato
era una percezione innaturale. Ma l'apolitico D. ebbe i suoi mentori
politici, tra i quali principalmente due: Luigi Albertini prima,
Benito Mussolini dopo.
Quello con Albertini non fu propriamente un rapporto di
subordinazione, ma di reciproca complicità, da cui il
"padrone" del Corriere seppe cogliere tutti i frutti possibili per
quel sensibile mutamento di linea che impresse al suo giornale dalla
guerra di Libia in poi. Giustamente ha notato Barié (O.
Barié, introd. a L. Albertini, Epistolario, I, Milano 1968,
p. XXVI) che la pubblicazione delle Canzoni d'Oltremare
costituì"la manifestazione più clamorosa dell'adesione
del quotidiano milanese agli umori nazionalistici del paese". Era
funzionale a ciò probabilmente anche la particolare
inclinazione "imperialistica" del D., che faceva della questione
adriatica un prius rispetto alla colonizzazione africana (e proprio
la questione adriatica doveva essere poi causa della rottura tra i
due nel 1919), con un conseguente antitriplicismo.
Certo Albertini seppe gestire il rapporto con lui oltre i limiti di
una pur eccezionale collaborazione al suo giornale. Si assunse la
parte delicata, per un borghese consapevole ed oculato qual era, di
curatore del fallimento del D., dopo la liquidazione della
"Capponcina", e ne sostenne, per larga parte, la prodigalità
dell'esilio francese. Ed oltre la regia delle sue finanze,
l'accudimento del poeta entrava in dettagli non secondari della sua
esistenza, quali le sue visite clandestine in Italia, protette dallo
stabile di via Solferino, in cui il D. pare avesse una "stanza
segreta", vicina a quella del direttore, dove poteva anche
comodamente pernottare.
E ad Albertini si deve anche la regia del suo ultimo ritorno in
Italia, quello trionfale verso lo scoglio di Quarto. Il D.
tempestava Albertini per un suo rientro fin dall'aprile del 1914.
Rimase in Francia ancora quasi un anno, aprendo di lì la sua
campagna interventistica, sulla stampa francese e sul Corriere della
sera tra cui le ultime Faville del maglio e una serrata
corrispondenza sulla battaglia della Marna.
Il D. rientrava il 4 maggio 1915 e il giorno seguente era a Quarto
per l'inaugurazione dei monumento ai Mille. Il suo discorso l'aveva
preceduto e per il suo tenore il governo Salandra aveva valutato
inopportuna la presenza ufficiale d'uno dei suoi membri e dello
stesso sovrano alla cerimonia, non essendo ancora sconfessata la
Triplice. Nel Diario di F. Martini leggiamo: "Tempo di correggere
non c'è... Né poi si può essere sicuri che il
D'Annunzio consentirebbe... D'Annunzio in primo luogo pensa a
sé e al proprio successo, poi non ha senso politico e qualche
volta - a malgrado dell'ingegno meraviglioso -, neanche senso
comune, ed era facile che ci avrebbe compromessi". La presenza del
D., l'assenza del re e del governo, furono causa di accese
polemiche. Le circostanze vollero così subito fare di lui un
protagonista scomodo, fu anzi l'inizio di una parte di successo,
quella appunto del "protagonista scomodo", da cui si attendono le
"forzature" necessarie, il fuoco d'artificio che conduce alla
santabarbara. Seguirono venti giorni di accesa campagna
interventistica, "le gloriose giornate di maggio", in cui si assunse
anche il compito della provocazione contro Giolitti, "quel vecchio
boia labbrone le cui calcagna di fuggiasco sanno la via di Berlino".
Al Martini che gli rammentava il "radiomaggismo" telegrafava:
"stasera, or è un anno, adoperai l'arma di cui mi avete
armato".
Dopo il 24 maggio il D. capì che doveva alzare la posta.
L'uomo non intendeva rimanere nelle retrovie a fare propaganda. Il
30 luglio chiedeva a Salandra di partecipare ad un volo su Trieste.
Sempre Martini commenta nel suo Diario: "L'impresa è
balorda... E l'importante sta qui: che crede a ciò che dice".
E questo probabilmente fu un aspetto autentico del poeta-soldato.
Aveva vagheggiato, profetato, freneticamente voluto la guerra, ora
voleva immedesimarsi in essa. Aveva giocato con tutto, con il sacro
e con il profano. "Seppi allora - dirà in un accento
retorico, ma biograficamente puntuale, de Il Notturno - quel che
significassero le parole di Michelangelo: non nasce in me pensiero
che non vi sia dentro scolpita la morte" (p. 244).
Visse la guerra da privilegiato, con due residenze dorate: la
"Casetta rossa" di Venezia, in cui fece la lunga convalescenza de Il
Notturno, dopo l'incidente aereo che lo rese orbo nel gennaio del
1916, e quella più frugale di Cervignano, vicina alle linee
della 3ª armata, a cui era stato assegnato, presso il quartier
generale del duca di Aosta. Nei ricordi e memorie di molti testimoni
privilegiati che allora lo incontrarono, riscontriamo la repugnanza
per quel suo abituale "istinto del superfluo", che suonava, in quel
contesto, come gozzoviglia. Ma fu oltremodo coraggioso; a 52 anni
d'età, innumerevoli furono le azioni di guerra alle quali
partecipò, soprattutto guerra aerea (sulla quale espresse
anche opinioni competenti che antivedevano il suo uso strategico,
oltre il limitato appoggio alle azioni di terra, come intervento
sulle installazioni belliche delle retrovie e gli impianti
industriali), ma anche di terra e di mare. Nell'agosto 1917,
bombardando le installazioni militari di Pola, fece suonare, al
posto del tradizionale "hurra!", lo "eja, eja, alalà!". Le
più note di queste imprese furono la "beffa di Buccari" del
febbraio 1918, un raid di tre mas all'imboccatura del golfo Quarnaro
dove era all'ancora la flotta austriaca ("siamo trenta d'una sorte e
trentuno con la morte") e il volo su Vienna per lanciarvi un
risibile invito alla resa, il 9 ag. 1918.
Molte delle sue imprese furono propriamente belliche, altre, come
quella ultima su Vienna, di propaganda. Ma quasi ogni sua azione fu
preparata e vissuta per essere propagandata. Ciò apparteneva
al suo temperamento, che era anche insaziabile di onori e
decorazioni, alcune delle quali sollecitava, senza bisogno; ed egli
poteva alternare il poeta al soldato, le parole alle gesta,
azionando un circuito magico, per i fini di propaganda degli alti
comandi, così da divenire un simbolo della guerra, positivo e
negativo, come, ad esempio, per il 141º e il 142º
reggimento della brigata Catanzaro, che ricevuto l'ordine di tornare
sul Carso, nel luglio 1917, si ammutinarono al grido "abbasso la
guerra, morte a D'Annunzio, viva la pace".
Sempre Ferdinando Martini, che in quegli anni lo seguiva con occhio
cinico non privo di ammirata ironia, osservava che se agli inizi la
sua preoccupazione nel riguardi del D. poteva riassumersi nel motto
"scriva non faccia", dopo poteva essere invertita nel "faccia non
scriva". Ma il D. scriveva e non solo i risibili messaggi che
offendevano il senso politico del Martini. Tra un'azione e l'altra
il D. "girava tra i comandi e le truppe, pronunciava discorsi e
mandava messaggi ai soldati, prendeva appunti, pensava a future
produzioni letterarie, a impegni musicali per i suoi drammi, a
contratti da stipulare per films che avrebbero dovuto essere tratti
dalle sue opere, sempre oculatissimo gestore della propria immagine
e dei propri interessi finanziari" (Alatri, 1983, p. 284).
Continuava ad essere vitalissimo. Sui suoi taccuini, navigando sul
mare, annotava: "ho in me tanta pienezza di vita che, quando mi
sporgo dalla prua, mi sembra di traboccare", e andando per terra, ne
Il Notturno: "volti, volti, volti, formati nella bragia carnale,
stampati nel fuoco sanguigno... Trascino e sono trascinato. Salgo
per incoronare e salgo per incoronarmi". È stato sottolineato
da molti il rituale sensuale e sadico del suo vivere ed immaginare
la guerra, la cupa esaltazione della morte, che di per sé era
gloria, quale risuona, ad esempio, nelle pagine dedicate ai caduti,
tra le più celebrate quelle de Il Notturno, che riguardano
l'aviatore Giuseppe Miraglia e il fante Giovanni Randaccio.
E da quella nuova prosa, che la critica letteraria ha avvertito come
"più sotterranea e profonda", operante "la sostituzione
dell'organizzazione paratattica del discorso a quella sintattica"
(ibid., p. 378), che è propria del Notturno, ma anche del
Carme votivo e ancora del Libro violetto e di altre opere
successive, sortiva in effetti un sortilegio, giacché
l'immagine di quella guerra veniva proiettata su di uno schermo
senza figure e accenti umani. "Esplorazione d'ombra" come la
definì il Cecchi, ma meglio dire "d'ombre" d'un nuovo averno
con una sola voce, quella del "milite ignoto". Una sovrastante ed
incombente epopea, rito sacrificale di una nuova idea di nazione,
che poi nei decenni successivi, auspice la propaganda fascista,
venne congelata in un'aulica e cupa fissità, cosicché
servisse da sublimazione e ammonimento, da identità per un
popolo, che non doveva tornare a pensare alla sua storia fuori da
questo mito, certamente la più perversa ed incisiva tra le
creazioni politico-letterarie del D'Annunzio.
Il D., che in questo mito era indistricabilmente immerso, il 14 ott.
1918 scriveva a Costanzo Ciano: "per me e per te, e per tutti i
nostri pari, la pace oggi è una sciagura... Si, Costanzo,
tentiamo qualche altra grande impresa, prima d'essere pacificati per
forza" (Vivarelli, Il dopoguerra, p. 148). La pace non lo rese
inattivo; riprese subito i temi dell'espansione adriatica nel
Cantico per l'ottava della Vittoria e nella celebre Lettera ai
Dalmati, "il più famoso manifesto dell'imperialismo italiano
nel dopoguerra" (Alatri, 1983, p. 402) con cui apriva la polemica
sulla conferenza di Versailles. Progettò anche un'azione su
Spalato, entrando in contatto con gli arditi. Intorno al suo nome si
andavano stringendo lentamente, a cerchi concentrici, le motivazioni
ideali, sentimentali, politiche che militavano contro un pacifico e
legale trapasso all'ordine postbellico.
L'impresa di Fiume fu la più vistosa e traumatica rottura di
questi argini. In quella zona d'ombra della conferenza della pace
(giacché il trattato di Londra non destinava Fiume
all'Italia, sulla cui pretesa vi era un bisticcio fra esercito e
marina, ritenendo quest'ultimo più strategiche le basi
dalmate, a cui il neonato Stato iugoslavo, con l'appoggio francese e
del presidente Wilson, non voleva rinunciare), lungo quasi un anno
si incanalarono le irrequietezze del nazionalismo italiano. Nel
maggio 1919 il capitano G. Host-Venturi aveva dato vita alla legione
volontari fiumani. All'inizio del mese successivo l'Associazione
nazionale Trento e Trieste aveva cominciato a sua volta la
costituzione di centri di arruolamento di volontari; la propaganda
nazionalista divampava con sempre maggiore insistenza ingigantendo
le attese e l'area di complicità nelle file dell'esercito.
Dietro a questi clamori un blocco eterogeneo, ma non casuale di
forze (nazionalisti, fascisti, repubblicani, arditi, settori della
U.I.L. e della U.S.I., le organizzazioni aderenti al Comitato per le
rivendicazioni nazionali, alcuni gruppi patriottici moderati, alcuni
esponenti massonici e alcuni ambienti militari), in definitiva
quelle che già avevano costituito il nerbo della campagna
interventista, e avevano sostenuto il conflitto, con crescenti
motivazioni d'ordine politico ed economico, tendevano a cementare un
nuovo amalgama, al fine di conservare quella posizione di preminenza
politica, che il ritorno alla normalità postbellica avrebbe
potuto mettere in discussione, cercando nuove forme di
polarizzazione della tensione pubblica e di movimento politico.
Fecero fin dalle origini da cerniera di questo complesso coacervo di
interessi e tendenze O. Sinigaglia e G. Giuriati, il primo dei quali
era forte dei suoi rapporti con ambienti finanziari ed industriali,
il secondo sarebbe diventato il capogabinetto del Comandante, dal
momento dell'assunzione delle sue funzioni di governatore di Fiume.
Ancora una volta il D. seppe usare l'arma che gli veniva offerta.
Lungo tutto il 1919 fu al centro di una fitta rete di rapporti per
lanciarsi poi nell'esecuzione dell'impresa. Al comando di un
contingente raccogliticcio, non più di 2.500 uomini, il 12
sett. 1919, senza trovare resistenze da parte dell'esercito, entrava
in Fiume ("marcia di Ronchi"). Nelle settimane seguenti il
territorio veniva evacuato dal contingente interalleato che
l'occupava come corpus separatum. L'avventura pareva finita, prima
ancora di essere incominciata. Salvo che, a differenza di altre
fortunate imprese di cui il D. era stato protagonista, lo scenario
di quest'ultima non era la guerra, ma la pace, e i problemi che ne
conseguivano non erano di natura militare, ma di politica interna ed
estera.
Il D. rimase a Fiume più di un anno, fece della "città
olocausta" la scena di un nuovo suo psicodramma collettivo, in cui
gli storici hanno intravisto due e anche quattro e più atti.
Gli intricati fili della vicenda si svolsero tuttavia altrove, nel
difficile evolversi delle questioni politiche e sociali interne e
nella complessa conclusione del trattato di pace. Da questi aspetti,
che furono, con tutte le loro sfaccettature, la vera "questione di
Fiume", il D. fu continuamente chiamato in causa, per svolgervi, a
secondo delle circostanze, più ruoli, senza poi propriamente
svolgerne nessuno, salvo quello in definitiva ostinato, di
rifiutarsi ogni volta di svolgerne alcuno, fin nell'ultima ora del
tragicomico epilogo.
Proprio questa sua labile determinazione fece di Fiume una vicenda
complessa e variegata, ricca di significati, alcuni definiti, il cui
giudizio storico è difficilmente controvertibile, altri
più indefiniti, che riguardano il carattere simbolico,
esemplare e propositivo della vicenda, che fecero discutere i
contemporanei e, per loro natura, rimangono discutibili, anche nella
posteriore riflessione degli storici.
A questo ultimo ordine di considerazioni appartiene la valutazione
di cosa effettivamente la vicenda di Fiume abbia rappresentato per
la vita civile e politica dell'Italia di quel primo dopoguerra. Il
Valeri, nel commentare il celebre discorso del D. contro Nitti, "vi
voglio dire chi è Cagoia", notava che "piuttosto che di
letteratura si tratta di politica, rafforzata, se si vuole, dal
prestigio dell'artista". Quel discorso fu, in realtà, il
punto di arrivo di un processo di corrosione nello schieramento dei
partiti costituzionali, e insieme di partenza di una nuova feroce
battaglia, che scavò un solco, non di parole, ma effettuale e
permanente, fra gli Italiani. Si scopriva allora irrimediabilmente
il contrasto tra due Italie, in cui confluiva la rottura già
operata all'epoca dell'intervento, che non era più la
contrapposizione postrisorgimentale tra il paese legale e quello
reale, ma una frattura drammatica fra una minoranza "eroica", allora
capitanata dal D., e una maggioranza di vili "legali", impersonati
da Nitti, contro cui ad essere invocato non era il "popolo", ma un
nuovo "duce". Si apriva, anzi si ampliava pericolosamente, una
breccia, attraverso cui sarebbero maturati gli avvenimenti
successivi (Valeri, 1956, p. 42).
Certo a quella rottura il D. non seppe e non volle dare una
consapevole direzione. Cosicché sulla scena fiumana, ai
margini dell'argine ormai incrinato, poté addensarsi tutto e
il contrario di tutto, giacché il D. "non perseguiva,
evidentemente, una sua azione politica organica, ma rifletteva
mobilmente, nei suoi ordini di Comandante-poeta, le voci di rivolta
e di speranza e di disperazione che salivano a lui da ogni parte del
paese" (Valeri, 1963, p. 14). L'impresa fiumana, nata sotto gli
auspici di una eterogenea consorteria nazionalista, poté poi
svolgersi "per buona parte nel segno di un accavallarsi di
suggestioni socialisteggianti ed anarchicizzanti" e in quello della
collaborazione tra il D. e il De Ambris, di cui è
testimonianza, tra l'altro, la "Carta del Camaro", cosicché
è sembrata acquisire "un significato 'rivoluzionario'
più ampio di quello che solitamente si crede ... simbolo di
un rifiuto morale, politico e sociale di tutto l'ordine costituito,
di quello che si identificava con Roma, come di quello che si
identificava con la nascente Società delle Nazioni e con gli
alleati" (De Felice, 1978, p. 153).
Tra l'uno e l'altro di questi giudizi c'è una divaricazione
di sfumature assai profonda, che nasce indubbiamente dalla
fluidità stessa della vicenda fiumana. Ma il momento
"rivoluzionario" fu possibile, e il D. lasciò che si facesse
posto ad esso, perché nel frattempo quello conservatore e
nazionalista si era politicamente esaurito, era stato assorbito da
altre preoccupazioni e disegni, aveva voltato le spalle al
Comandante, che era rimasto solo con la sua concezione "eroica"
della politica. La "rivoluzione" fu di quella vicenda uno dei suoi
"effimeri", e come tutti gli effimeri non privo di reali
conseguenze, ma non di quelle che conferiscono il segno decisivo
degli eventi, anche se rimangono una chiave interpretativa
necessaria per intendere come il D. uscisse dalla vicenda fiumana e
poi ancora dopo, quando ebbe a confrontarsi con l'ascesa del nuovo
regime fascista.
Già il 16 settembre il D. scriveva a Mussolini una lettera
aspra, che Il Popolo d'Italia avrebbe pubblicato monca, togliendo il
veleno dell'argomento. In sostanza egli diceva d'essere padrone di
Fiume, "non c'è nulla da fare contro di me, nessuno
può togliermi di qui", ma l'obiettivo doveva essere quello di
rovesciare il governo di Roma, anzi il colpo di Fiume in qualsiasi
altro paese, "anche la Lapponia", avrebbe già determinato la
crisi. E rimproverava il nuovo capo del fascismo di starsene con i
suoi inerte. Invero Mussolini, tra quanti in quei mesi sostennero il
D., fu, verso questi progetti ulteriori, il più cauto.
Nell'ottobre si recò a Fiume, ma già il 19 settembre
aveva risposto al Comandante approvando le linee del suo piano
eversivo, aggiungendo la clausola prudente: "prima delle decisioni
estreme voglio conferire con voi l'elaborazione del piano nei suoi
dettagli".
Più pressanti erano state le sollecitazioni di altri per una
azione su Roma. V'era una disponibilità latente in larghi
settori dell'esercito, essendo la popolarità del D. salita al
diapason; anche E. Corradini, ancora indiscusso leader del
nazionalismo, si era recato a Fiume per sollecitare il D. ad
allargare l'azione a tutta la Venezia Giulia e poi a Roma. Emissari
erano stati avviati a Trieste per preparare la marcia, ma avevano
riscontrato le prime difficoltà. La rottura della
legalità non avrebbe potuto assumere che una chiara marca
repubblicana, l'ostilità dei socialisti e del movimento
operaio organizzato era uno ostacolo non facilmente sormontabile.
Sarebbe stata la guerra civile, e su questo l'opinione, e ancor
più, la classe dirigente moderata, era divisa. Giorno per
giorno le possibilità scemavano e il D. diveniva sempre
più prigioniero di Fiume.
Intanto Nitti, per quanto colto di sorpresa, si muoveva con
abilità. Si rese subito conto che un'azione di forza su Fiume
non era possibile. Sostituì al comando dell'8ª armata il
legittimista di Robilant con l'altrettanto sicuro, ma più
politico, Badoglio. Il 25 settembre il re convocava il Consiglio
della corona, che respinse l'idea di un'immediata annessione di
Fiume, con il voto dello stesso Federzoni, confermando la fiducia a
Nitti. Seguiva quella della Camera e la convocazione delle elezioni
per il 16 novembre successivo. I nazionalisti, che sul movimento
dannunziano continuavano ad avere la più forte influenza,
preoccupati ormai che l'azione su Roma potesse sortire effetti
opposti a quelli prima sperati, cercarono di dirottare
l'irrequietudine del D. verso la Dalmazia. E, in effetti, il 14
novembre, da un cacciatorpediniere egli sbarcava a Zara,
incontrandosi con il governatore della Dalmazia, generale E. Millo,
a cui strappava l'impegno irresponsabile che non avrebbe sgomberato
quelle terre, quale che fosse l'ordine, e lasciando al suo comando i
600 legionari che aveva portato con sé.
L'azione su Zara non suscitò entusiasmi; probabilmente
influì anch'essa negativamente sul verdetto elettorale, i cui
risultati furono negativi per i liberali, disastrosi per la Destra.
Le elezioni del '19 seppellivano un modo di far politica della
destra, che fin dalla guerra di Libia, e poi con la campagna
interventista, era stato quello di muovere lo spirito pubblico e poi
la piazza, per costringere l'asse moderato della maggioranza
liberale a volgersi da questa o quella parte. Si rendeva necessario
creare condizioni di consenso diverse, con metodi da sperimentare
giorno per giorno, in una congiuntura interna sempre più
difficile, in cui il nazionalismo perdeva molte delle sue carte e
possibilità, mentre solo Mussolini avrebbe saputo tenacemente
costruire pezzo a pezzo una via nuova.
Con l'eclissi del vecchio nazionalismo il D. perdeva il suo
implicito sostegno politico. Iniziarono le trattative per un modus
vivendi. Alla fine di novembre Giuriati era a Roma per trattare
un'intesa, incontrandosi con Sforza e altri. Il D. aveva un
abboccamento con Badoglio e sembrava delinearsi un compromesso, che
vedeva la proclamazione di Fiume "città libera" sotto
occupazione italiana, ma rimaneva come ostacolo la pretesa del D. di
conservare il governatorato della città e i sempre difficili
problemi d'amnistia per i sediziosi. Il D. tirò in lungo, in
una situazione generale del paese che si faceva sempre più
aspra, per il dilagare della conflittualità sociale, e quindi
il sempre più profondo dividersi degli animi, che continuava
a far affluire a Fiume disertori e facinorosi, attratti da
quell'oasi ideale. Quando, tuttavia, per molteplici sforzi, l'intesa
venne stesa in tutti i dettagli, il 15 dicembre il Consiglio
nazionale di Fiume, praticamente l'organo rappresentativo della
comunità italiana, la approvò a larga maggioranza. Il
D. presentò queste volontà dal balcone, senza
esprimere la sua opinione, e la folla, in prevalenza costituita da
legionari, reagì violentemente. Il D. revocò allora la
delibera del Consiglio nazionale; premuto dai consigli dei suoi
più moderati e "politici" collaboratori, in particolare Rizzo
e Giuriati, "ebbe luogo una scena molto emozionante e D'Annunzio ne
rimase profondamente turbato" e promise di ritornare sulla sua
decisione, ma, mezz'ora dopo, consultatosi con il Comitato di difesa
e di salute pubblica, che, nella sostanziale illegalità e
labilità dell'assetto istituzionale dato all'occupazione
fiumana, era l'organo che esprimeva la voce degli elementi
dannunziani più oltranzisti, si confermò nella sua
decisione negativa. Si apriva così una prima frattura tra
abitanti e occupanti, che in seguito doveva farsi sempre più
acuta, e che, per essere sanata al momento, produsse la poco
meditata idea di un referendum, convocato per il 18 dicembre, di cui
immediatamente dopo si percepì che l'esito non poteva essere
che plebiscitariamente favorevole all'intesa, cosicché il D.
e la sua truppa si diedero in ogni modo a intimidire e a tener
lontano dalle urne l'elettore fiumano, ottenendo un'astensione che
fu del 60 per cento, ma che i primi spogli delle schede rivelarono
subito insufficiente, così da decidere il D. ad ordinare
l'interruzione dello scrutinio.
Fallito il modus vivendi, subentrava lo status quo: l'impresa di
Fiume si trasformava in occupazione dannunziana. I migliori
collaboratori lo abbandonarono, da Giuriati a Reina e Rizzo. Anche
Badoglio lasciava il suo incarico a Caviglia, per assumere la carica
di capo di Stato Maggiore dell'esercito, quasi a significare che la
soluzione di Fiume non avrebbe potuto più essere "politica".
L'occupazione dannunziana di Fiume durò tuttavia ancora un
anno. Come nota ancora il Valeri "tutta la politica del D. sembra
avvolta, in questo periodo, in una sorta di disperata vanità,
lucidamente consapevole di essere tale" (1963, p. 35).
Numerosissime le testimonianze sulla vita a Fiume in quel periodo.
Comisso e Kochnitzky ci parlano di un'"atmosfera di perpetuo
quatorze juillet". Sono impressioni bozzettistiche su cui è
sempre incauto applicare le categorie dell'immaginazione
sociologica, sottolineare il tratto che congiunge festa e
rivoluzione nel trapasso dal privato al collettivo. Ogni festa e
ogni rivoluzione hanno una loro particolare cifra storica. Fiume ci
ha lasciato i rituali cpsì ben sintetizzati da Ledeen: "il
discorso dal balcone, il saluto romano, il grido 'eia, eia,
alalà', il dialogo drammatico con la folla, il ricorso a
simboli religiosi in una nuova ambientazione laica, l'elogio funebre
dei 'martiri' della causa e l'uso delle loro 'reliquie' nelle
cerimonie pubbliche", il cui innesto nell'immaginario collettivo
della propaganda nazi-fascista è stato acutamente analizzato
da Mosse. Ma che tutto ciò, oltre a quello che spontaneamente
vi si svolgeva, fosse l'atmosfera d'una rivoluzione, piuttosto che
di un piccolo accampamento militare, senza disciplina e senza
futuro, pare difficile sostenere.
Di nuovo c'era il vuoto che il D. aveva determinato con la sua
"disperata vanità" e che egli cercava di riempire con quella
prensile sensibilità verso ciò che soffiava intorno a
lui, che sempre aveva contraddistinto la sua natura, ma senza
più una direzione politica e nemmeno "nazionale", alla quale
bene o male si era fino ad allora attenuto. A colmare questo vuoto
concorse per larga parte la forte ed entusiasta personalità
del suo nuovo capogabinetto, il sindacalista rivoluzionario Alceste
De Ambris, che stese la bozza della "Carta del Carnaro", un
documento di cui si sono occupati molti, anche giuristi, ognuno col
velo retorico che è proprio di ciascuna "scienza", e che fu,
spogliata degli orpelli dannunziani, opera onesta di utopia
socialisteggiante, configurando un ordinamento metà
rappresentativo e metà corporativo, la cui chiave di volta
originale stava in un poco meditato miscuglio di mazzininanesimo e
proudhonismo, negli istituti chiave della proprietà e del
credito, che subito suscitarono lo sgomento di un fiumano
dell'ultima ora, Maffeo Pantaleoni.
La "Carta" ebbe il valore di un piccolo "manifesto" a cui si
aggiunsero altre iniziative, la più ispirata delle quali fu
la lega di Fiume, che doveva essere il mutuo patto di
solidarietà e riscossa delle nazionalità oppresse, per
cui furono presi contatti con rappresentanti dei movimenti nazionali
egiziano e irlandese, a cui si aggiunsero belgi, indiani, armeni,
montenegrini, croati, albanesi, mentre il D. intratteneva rapporti
con membri dell'exgoverno di Béla Kun e dichiarava che
sarebbe stato il primo a riconoscere la Russia dei soviet,
arrischiandosi a dire che era per "il comunismo senza dittatura". Ma
mentre davano forma a questo arcobaleno di iniziative, il D. e De
Ambris trovavano difficoltà a dar esecuzione a quello che era
diventato il loro programma minimo, cioè, in quella fase di
stallo, alla proclamazione dell'indipendenza di Fiume e alla sua
erezione a Repubblica (per cui la "Carta del Carnaro" era stata
già redatta da un pezzo, sebbene tra le correzioni
significative che il D. aveva apportato al testo del De Ambris ci
fosse proprio la sostituzione del termine "repubblica" con quello di
"reggenza"), per le difficoltà crescenti che avevano con la
popolazione locale e per la sensibile spaccatura interna allo stesso
fiumanesimo tra "scalmanati" e "ragionevoli" (De Felice, 1978, p.
32).
Così scarsa presa avevano i tentativi che in modo particolare
il De Ambris si adoperava a tessere, cercando di legare la causa
fiumana ai moti sociali che attraversavano allora il paese,
imbastendo rapporti con gli anarchici del Malatesta, e con i
sindacati operai, incominciando dai ferrovieri, e che trovarono
ostacolo nella formale ripulsa della C.G.L. e dei socialisti, salvo
la Federazione dei lavoratori del mare, con a capo il capitano
Giulietti, che diede un supporto rilevante alla declinante causa
fiumana, tra l'altro dirottando navigli, carichi di merci e armi.
Tra questo susseguirsi di incertezze e contraddizioni alla
metà del '20 il D. (segno questo che, quando poteva, egli
seguiva i suoi abituali sentieri) aveva intravisto uno spiraglio
minimo nella possibilità di trasformare la "crociata dei
popoli oppressi" in una sua "politica balcanica", che puntava a
disgregare il composito tessuto etnico del costituendo Stato
iugoslavo, fomentando gli irredentismi. Per questo aveva bisogno di
tempo ed anche il tergiversare sull'annessione o la indipendenza di
Fiume portava acqua a questa tattica attendista, a cui il trattato
di Rapallo del 12 nov. 1920 toglieva definitivamente ogni plausibile
spazio, confortato, com'era, inoltre, dal consenso pressoché
unanime delle forze politiche, compreso Mussolini.
Risolta da Giolitti la questione adriatica, non restava che chiudere
quella di Fiume. Intercorse un mese di trattative e tergiversazioni
da parte del D., fino al "Natale di sangue", quando le truppe
(reggimenti di nuova leva, del tutto atoni a sentimenti e
motivazioni che poco più di un anno prima avevano favorito la
marcia di Ronchi) del gen. Caviglia entrarono in Fiume, mentre
l'"Andrea Doria" sparava i due fatidici colpi di cannone.
Resterà probabilmente sempre incerta la interpretazione
dell'atteggiamento tenuto dal D. in quelle ultime ore, sospeso tra
l'arrendersi e il combattere, tra il morire e il sopravvivere. Certo
egli si alienò molte simpatie, quelle di chi era disposto
alla "finzione poetica", ma richiedeva si accompagnasse ad un minimo
di "borghese coerenza". Ora, per coerenza, arrendersi non poteva;
avrebbe dovuto morire, ma non volle o non ne fu capace, "per un
improvviso rigurgito di scetticismo" (Valeri, 1963, p. 26).
Si ritirò a Cargnacco sul Garda, nella villa intorno a cui
avrebbe poi costruito il Vittoriale, reliquiario e cimitero,
strabocchevole di simboli mortuari, sparsi ovunque, nella casa, sui
viali e sentieri, incisi sugli alberi e nelle pietre, che rispetto
agli anni di guerra era una nuova variante del suo intrattenersi con
la morte, forse l'idea di sfuggire così alla percezione del
disfacimento della vecchiaia e di prepararsi al trapasso. Lo
accompagnava un desiderio di quiete e, per la prima volta nella sua
vita, il sentimento di un fallimento, soprattutto d'essere stato
sorpassato dagli eventi, sopravvissuto ad essi, come un ingombrante
arredo. Dell'ultima pagina di Fiume disse che non aveva accettato il
sacrificio, "non per orrore dell'elsa e della lancia", ma per volere
della "bontà coperta". Una nuova virtù che gli si
faceva strada nell'animo, in cui c'erano gli echi umanitari e
sociali dell'ultima esperienza fiumana, l'idea che bisognava
collocarsi sopra le parti in lotta, da vindice farsi conciliatore,
deluso dalle umane miserie, com'era stato abbandonato anche dal
"caro compagno Mussolini".
Nel Libro ascetico della Giovane Italia si interrogava: "passavo di
esilio in esilio? venivo a cercare il silenzio salubre e a ritrovare
alcune delle mie arti? venivo a interpretare il sogno eroico e
l'azione spaventosa, sottospecie di vanità? o a fare una
breve sosta e un breve sonno per ricominciare la lotta?". A tutti
questi interrogativi cercò negli anni seguenti di dare una
risposta, ma poiché tutti insieme non portano un segno
univoco, difficile resta interpretare quale di queste vocazioni
volesse perseguire fino in fondo.
Questa sua disposizione d'animo risponde a quello che fu detto il
"movimento spirituale dannunziano", e fu anche consono alle
vocazioni e incertezze del "fiumanesimo", dopo Fiume. Ma si trattava
ancora una volta di confrontarsi con l'evolversi degli avvenimenti
politici e lo scontro naturale che di anno in anno, poi di mese in
mese, maturava era quello tra "fiumanesimo" e fascismo, tra il D. e
Mussolini. Stette per più di un anno quasi inerte a guardare,
salvo a dare il suo avallo alla costituzione della Federazione
nazionale legionari fiumani, nel gennaio del 1921, a rivolgere
inviti all'autonomia e ai principi della "Carta del Carnaro",
rifiutandosi di emettere tuttavia giudizi più impegnativi,
com'era sollecitato da De Ambris e da altri, specie nel corso di
quell'anno, in cui nelle lotte agrarie il fascismo assumeva il suo
volto reazionario ed antipopolare.
Quel suo "buon ritiro" gli fece riacquistare parte di quel prestigio
che aveva perduto con l'epilogo della questione fiumana, nel sempre
più confuso precipitare degli avvenimenti politici. Su di lui
si rivolse l'attenzione di ambienti liberali e democratici. Perfino
Gramsci tentò nell'aprile del 1921 di prendere contatto con
lui. D'altra parte i suoi rapporti con il "traditore" Mussolini
erano freddi, ma questi, che non sopravvalutava le doti del D., ma
neppure ne sottovalutava il prestigio e il ruolo che poteva assumere
negli avvenimenti, tentò ripetuti approcci, fino all'incontro
a Gardone del 5 apr. 1921. Il leader fascista ne trasse il vantaggio
di mostrare che un dissidio col D. non c'era, o si era sanato;
questi tuttavia non volle compromettersi, rifiutando per sé e
per i suoi candidature nei blocchi nazionali, facendo presentare
solo il De Ambris a Parma, come candidato unico dei "fiumani". Ma
superata la scadenza delle elezioni del maggio 1921, resosi ancora
più instabile l'equilibrio politico, anche per il D. non
poteva che riprendere il momento di "ricominciare la lotta".
Il De Felice, che ha brillantemente ricostruito il succedersi degli
avvenimenti fino alla marcia su Roma e oltre, attribuisce al D. una
strategia politica. "Anche se molti non se ne resero neppure conto e
se - per assurdo che possa sembrare - essa non fu combattuta, la
vera e forse decisiva battaglia tra il D. e Mussolini ebbe luogo nei
mesi immediatamente successivi alle elezioni, dal giugno 1921 al
marzo '22", dando tutt'intera la vittoria a Mussolini. Il problema
chiave su cui avrebbe puntato il D. sarebbe stato quello della
"pacificazione".
L'estremismo mussoliniano aveva determinato una frattura profonda
all'interno del movimento fascista e una larga parte di questo prese
a guardare al D. come al suo possibile nuovo leader. Di questo ormai
incipiente processo sarebbe mancato il punto di coagulazione
necessario, cioè il D. stesso, che ancora una volta, sordo
agli appelli, alla sua stessa "profezia", rimase silente sulle rive
del Garda.
Si mosse solo dopo che Mussolini era riuscito a ricompattare le sue
fila e che erano sfumate le ultime possibilità di un
"rovesciamento della leadership mussoliniana sul fascismo" (De
Felice, p. 171). Il D. prese allora a tentare una difficile
mediazione politica. Incontrò Baldesi, D'Aragona, Cicerin, il
27 maggio, Facta, Orlando, Lusignoli, Nitti. Il 3 agosto aveva
pronunciato l'equivoco discorso, ispirato alla concordia, di palazzo
Marino, dinnanzi alla folla di squadristi esultanti che avevano
bruciato l'Avanti!. Prese forma l'ipotesi di un governo D'Annunzio,
Nitti, Mussolini. Dell'episodio le versioni sono contrastanti, ma
è probabile che l'iniziativa partisse da Nitti.
Tant'è, Tom Antongini e Giorgio Schiff-Giorgini iniziarono
trattative con Nitti per conto del D'Annunzio. Mussolini si era dato
abilmente ad assecondare questi tentativi di pacificazione, per non
scoprire il fianco ed assumersi la paternità della rottura.
L'incontro triangolare avrebbe dovuto tenersi il 15 agosto in
Toscana. Ma proprio in quei frangenti avvenne il "volo
dell'arcangelo" - il D. scivolò da una finestra della sua
villa di Gardone (13 agosto) -, che lo immobilizzò per alcune
settimane. Fu questo il secondo enigma del presunto duello tra
l'eroe di Fiume e il capo del fascismo. L'11 ottobre Mussolini si
recava a trovare il D. sul Garda e veniva incontro ad una sua
pressante richiesta, quella di non osteggiare la Federazione dei
lavoratori del mare del Giulietti, sottoscrivendo il 16 seguente un
concordato tra questa e il Partito fascista. Era il via libera da
parte del D. alla ormai progettata marcia su Roma?.
Dall'insieme di questi avvenimenti non sembra possibile ricostruire
i lineamenti di una strategia del D. e tanto meno di un suo scontro
politico con Mussolini. Piuttosto un oscuro alternarsi di lucide
intuizioni e di insuperabili presentimenti. Nel Libro segreto di G.
D. tentato di morire, in cui torna sull'incidente della sua caduta,
dice ad un immaginario interlocutore: "eccoti un pugno della cenere.
Ti getto la cenere di me stesso. Vattene!".
Accolse freddamente la marcia su Roma; i suoi "legionari" furono
invitati a mantenersi neutrali in attesa di ordini. Ma di poi fu un
lento declinare, con scatti d'ira, propositi di riemergere (ad
esempio sollecitava l'Albertini ad accentuare l'opposizione al nuovo
governo) e progressive nuove acquiescenze. Donava il Vittoriale allo
Stato, formalizzando, per così dire, le ragioni di quel
cospicuo segreto appannaggio dell'erario pubblico, che Mussolini gli
garantiva, stringendo sempre di più intorno a lui la
sorveglianza e il silenzio. Dopo l'ottobre '22 l'epistolario con
Mussolini è una triste testimonianza di questo suo lento
progressivo piatire, senza che nessuna delle cause magnanime che
tentava di sostenere, come ancora una volta quella in difesa della
Federazione dei lavoratori del mare, trovasse accoglimento.
Dopo il delitto Matteotti, nella crisi del regime che ne
seguì, ebbe un soprassalto, sembrò muoversi, contro
"la fetida ruina". Alla smentita che presto fu indotto a fare,
Mussolini così si congratulava (settembre 1924): "ho visto la
tua lettera... È uno stop decisivo... Tu capisci che io non
mollo a nessun costo, nemmeno a costo di sangue... Come invidio la
tua solitudine popolata di grandi ricordi, chiusa nel ritmo operoso
della tua grande fatica. Tra poco sarà l'anniversario di
quella Marcia che diede Fiume all'Italia. Lo ricordo per esserti
vicino. Quando troverai due minuti di tempo, scrivimi, non di
politica".
Insignito del titolo di principe di Montenevoso, chiuso nel funereo
recinto del Vittoriale, da cui poco usciva, ossequiato, ma non amato
dai rappresentanti del nuovo regime, sostanzialmente ignorato, come
si ignorano i sorpassati, che si ricordano solo in alcune occasioni
ufficiali, tra le quali la consegna alle stampe dell'editore
Mondadori della sua Opera omnia in edizione nazionale, il D. si
mantenne ai margini, invecchiando solitario e diffidente.
Rifiutò il suo posto all'Accademia d'Italia, e solo, ormai
sfatto dalla vecchiaia, dopo la morte di Guglielmo Marconi, ne
accettò poi, su pressante richiesta di Mussolini, la
presidenza. Ebbe solamente due soprassalti emotivi verso il regime e
il suo vecchio "caro compagno": la guerra d'Etiopia, che
risvegliò evidentemente il suo antico furore nazionalista;
scese poi a Verona per incontrare alla stazione Mussolini, nel suo
trionfale viaggio di ritorno da Monaco. Anche qui resta controverso
cosa i due si dissero, ma è probabile nel D. lo scrupolo di
esprimere al duce le sue vecchie diffidenze antigermaniche.