D'ANNUNZIO, Gabriele


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Scrittore (Pescara 1863 - Gardone Riviera 1938).

Fu uno dei maggiori esponenti del decadentismo europeo. Dotato di una cultura molto vasta, mostrò un'inesauribile capacità di assimilare le nuove tendenze letterarie e filosofiche, rielaborandole con una raffinata tecnica di scrittura.

VITA

Era ancora convittore presso il collegio Cicognini di Prato quando esordì con Primo vere (1879), una raccolta di poesie pubblicata a spese del padre (Francesco Paolo Rapagnetta, che, adottato nel 1851 da una zia materna e dal marito di questa, Antonio D'A., ne aveva assunto il cognome, trasmettendolo poi ai figli), e positivamente recensita da G. Chiarini. Trasferitosi a Roma nel 1881 per gli studî universitarî, che non avrebbe mai condotto a termine, fu accolto con simpatia negli ambienti giornalistici e letterarî e cominciò a collaborare alla Cronaca bizantina, la rivista di A. Sommaruga, restando affascinato dai metodi modernamente spregiudicati dell'editore, cui affidò la stampa (1882) di Canto novo e delle novelle di Terra vergine. Nel successivo periodo di dissipatezze ("La giovinezza mia barbara e forte In braccio de le femmine si uccide"), celebrato dall'audace Intermezzo di rime (1883), si unì in matrimonio con la duchessina Maria Hardouin di Gallese (dal matrimonio nasceranno i figli Mario, Gabriellino e Veniero), trovò un impiego stabile come redattore della Tribuna, firmando con varî pseudonimi cronache mondane e culturali, e pubblicò le raccolte di novelle Il libro delle vergini (1884) e San Pantaleone (1886; insieme con altre, una scelta di novelle da questi due libri sarà ripubblicata in Novelle della Pescara, 1902). All'esperienza della più elegante società romana e al nuovo grande amore per Elvira (o Barbara, come preferì chiamarla) Fraternali Leoni, si ispirò il romanzo Il piacere, composto negli ultimi mesi del 1888 e pubblicato l'anno successivo dall'editore Treves di Milano. Dopo la parentesi fastidiosa del servizio militare (1889-90), le ristrettezze economiche lo indussero a spostarsi a Napoli (1891), dove intrecciò una nuova relazione con la nobildonna siciliana Maria Gravina Cruyllas, dalla quale nacquero i figli Renata e Gabriele Dante. A Napoli collaborò tra l'altro al Mattino, si interessò alle opere di Nietzsche e Wagner, e pubblicò a puntate (1891-92) il romanzo L'innocente, apparso poi in volume presso l'editore Bideri (1892) e subito tradotto in Francia; insieme con il racconto lungo Giovanni Episcopo, di poco precedente (1891; in vol. 1892), esso risente l'influsso della narrativa russa.

L'influenza della lettura di Nietzsche si fa invece sentire in modo determinante già nel Trionfo della morte (1894), e all'insegna del superomismo si svolgerà la successiva produzione dannunziana, a partire da Le vergini delle rocce (1896). Nel 1895 D'A. partecipò a una crociera in Grecia, che avrebbe poi trasfigurato nel primo libro delle Laudi. Intanto le suggestioni della crociera rivissero in un dramma, La città morta (1896; pubbl. 1898), grazie anche all'incoraggiamento a scrivere per il teatro che a D'A. veniva da Eleonora Duse, la più grande attrice del tempo, con la quale aveva ormai intrecciato una relazione (e per la quale avrebbe scritto poi Sogno d'un mattino di primavera, 1897, La Gioconda, 1899, e La gloria, 1899). Nel 1897 fu eletto deputato nel collegio di Ortona a Mare, ma, sia per la scarsa partecipazione ai lavori parlamentari sia per il clamoroso passaggio dai banchi della destra a quelli dell'estrema sinistra ("vado verso la Vita"), uscì sconfitto dalle successive consultazioni elettorali. La sua preoccupazione dominante, anche per le solite difficoltà economiche ora accentuate dal principesco tenore di vita nella villa detta la "Capponcina" presso Settignano, era piuttosto la produzione letteraria. Furono così composti, in un breve giro di anni, quelli che vengono considerati comunemente i capolavori dannunziani: il romanzo Il fuoco (1900); la tragedia Francesca da Rimini (1902); i primi tre libri delle Laudi: Maia (1903), Elettra e Alcyone (1904); la tragedia pastorale La figlia di Iorio (1904). Nonostante qualche clamoroso insuccesso e la fine della relazione con la Duse, prevalentemente teatrali furono gli interessi del periodo successivo (La fiaccola sotto il moggio, 1905; Più che l'amore, 1907; La nave, 1908; Fedra, 1909), che pure culminò nell'ultimo grande romanzo dannunziano, ispirato a una drammatica vicenda amorosa, Forse che sì forse che no (1910).

Nel 1910, per sfuggire ai creditori, D'A. fu costretto all'"esilio" in Francia, dove rinverdì un prestigio che risaliva agli anni Novanta e alle traduzioni dell'Innocente e del Piacere, scrivendo in francese antico Le martyre de saint Sébastien (1911), che fu musicato da C. Debussy e interpretato dalla danzatrice I. Rubinstein, e La Pisanelle ou La mort parfumée (1913). In traduzione francese, col titolo Le chèvrefeuille, veniva rappresentata nel 1913 la tragedia Il ferro, da lui composta in italiano come la precedente Parisina del 1912. In questi anni lavorò anche per il cinema, contribuendo non poco, con le sue sonanti didascalie, al successo del film Cabiria (1914) di Piero Fosco (G. Pastrone). Nel 1915, invitato a Quarto per inaugurare il monumento ai Mille, rientrò in Italia e avviò una personale, infiammatissima campagna interventista, in aperta polemica con gli atteggiamenti del governo. Dopo la dichiarazione di guerra, si arruolò come volontario e si distinse in una serie di imprese militari, come la Beffa di Buccari o il volo su Vienna, pur essendo rimasto gravemente ferito in un incidente aviatorio in seguito al quale perse un occhio. Nella totale cecità postoperatoria, aveva scritto (1916) il Notturno su sottili strisce di carta che la figlia Renata provvedeva a decifrare e ricopiare.

Eroe pluridecorato e figura ormai leggendaria presso i reduci, si fece interprete, dopo la fine della guerra, della loro indignazione per la "vittoria mutilata" e guidò la "marcia di Ronchi" e l'occupazione di Fiume, che tenne, in qualità di "Reggente", dal settembre 1919 al dicembre 1920, quando fu costretto militarmente a rinunciare alla sua impresa (a testimonianza degli ambiziosi programmi politici e sociali del D'A. fiumano resta la Carta del Carnaro a sfondo corporativista, che, redatta da A. De Ambris, ebbe da D'A. la forma letteraria definitiva). Ritiratosi nella villa Cargnacco, in quello che poi chiamerà il "Vittoriale degli Italiani", sul Lago di Garda, fu colto alla sprovvista dal colpo di mano di Mussolini, che aveva appoggiato l'impresa fiumana e a essa probabilmente si era ispirato.

Con il dittatore fascista intrattenne un rapporto difficile, apparentemente amichevole e di reciproca ammirazione, ma in realtà minato dal sospetto, vedendosi quindi confinato nella dorata prigione del Vittoriale e dissuaso da qualsiasi interferenza politica, in cambio del massimo riguardo formale e di non poche concessioni (nel 1924 fu creato principe di Montenevoso; poté sovrintendere all'edizione nazionale delle sue opere; nel 1937 divenne presidente dell'Accademia d'Italia).

OPERE

Tra i molti generi letterarî da lui tentati, D'A. predilesse la poesia lirica: essa anzi fu l'asse intorno al quale tutte le altre forme espressive ruotarono e si organizzarono, allo stesso modo in cui intorno alla letteratura ruotarono i varî aspetti della sua personalità poliedrica. Poetici sono del resto i suoi esordî, con due raccolte addirittura passate in proverbio: Primo vere (1879), per la straordinaria precocità, e Canto novo (1882), per l'invenzione di una inconfondibile cifra personale, pur a ridosso e quasi come approfondimento delle originarie suggestioni carducciane. Del classicismo carducciano, e in particolare delle Odi barbare, rimane virtualmente tributaria una poesia d'ora in poi sempre giocata sulla consapevolezza della propria inafferrabilità di Ideale e sulla conseguente inevitabilità dell'artificio: tutta barbara, congetturale e artificiosa, come congetturale e artificioso era stato il tentativo delle Odi carducciane di riprodurre i metri classici nella versificazione italiana. La stessa scoperta sensuale della natura, che rappresenta la novità più caratteristica di Canto novo e accompagnerà D'A. in tutti gli esperimenti successivi, coincide con un artificio, sullo sfondo di un primordio fantastico giustificando una barbarica irruzione nel mondo ignoto della poesia e conciliando il massimo dell'attualità e della concretezza con l'atemporalità del mito classicistico. Mentre il narratore di Terra vergine (1882) approfitta con acume della lezione verghiana, e soprattutto fornisce di un retroterra aneddotico la sfrenata sensualità del Canto novo, con Intermezzo di rime (1883) D'A. apre il gioco che da cronista mondano avrebbe condotto a perfezione nel quinquennio successivo: una scherzosa divinizzazione del bel mondo romano e di un rituale trasparentemente erotico, cui la poesia fosse in grado di restituire serietà, se non esplicitezza, ricavandone dal canto suo la conferma di una funzione sociale e del relativo consenso.

È però da romanziere, con Il piacere (1889), che gli riesce di emanciparsi dalle frigide eleganze e dal valore puramente ludico già presentiti e ben esemplati da Isaotta Guttadàuro e altre poesie (1886). Nel romanzo, la "lotta d'una mostruosa Chimera estetico-afrodisiaca col palpitante fantasma della Vita nell'anima d'un uomo" mette finalmente di fronte una fedeltà all'Ideale deprecabile come un vizio immondo, per la disumanità che comporta, e un buon senso tanto immediatamente redditizio e socialmente rispettabile quanto assolutamente sprovvisto di qualsiasi attrattiva letteraria e intellettuale. Lo scrittore ribadisce così l'irrinunciabilità dell'Ideale nell'amore e nell'arte e al romanzo assegna il compito di creare artificialmente nel lettore la disposizione ad assecondare il suo sogno. A questa nuova disposizione del lettore si rivolge la più affabile poesia delle Elegie romane (1892) e soprattutto del Poema paradisiaco (1893), opera in cui, smessi i travestimenti delle raccolte precedenti per agitare l'altrettanto speciosa parola d'ordine della stanchezza dei sensi e della bontà, D'A. riscatta virtuosisticamente il linguaggio più dimesso del suo repertorio, puntando sulla tensione psicologica dei duetti sentimentali e sulla moltiplicazione delle pause che alonano di sottintesi e potenziano anche le parole più banali.

Un altro romanzo, L'innocente (1892), proprio a partire da un equivoco umanitarismo esemplato su Dostoevskij e Tolstoj, aveva del resto chiarito che anche il mito della bontà e della semplicità era nutrito di intellettualismo e si fondava su un idealismo consequenziario in maniera spietata. La conversione al superomismo nietzschiano, per quanto effettivamente incoraggiata da affinità psicologiche e culturali indipendenti dalle letture napoletane di D'A., risulta tuttavia decisiva, sia per l'acuirsi degli interessi teorici di uno scrittore che infatti per un intero decennio mostra di prediligere la forma romanzo, e un romanzo per giunta "idealista", sia per la più risentita percezione della dimensione sociale dell'attività artistica.

Si passa quindi dal Trionfo della morte (1894), in cui il già collaudato tema misogino della Nemica coinvolge nella sua ispirazione distruttiva miti e istituzioni inconciliabili con la purezza dell'Arte, a Le vergini delle rocce (1896), il romanzo "di una Bellezza misteriosa e quasi terribile" che racconta, in una maniera provocatoriamente antiromanzesca, il sogno di una folle palingenesi reazionaria contro la "diminuzione" e la "violazione" da cui sono minacciati tutti i valori in una moderna società democratica. E si approda infine a Il fuoco (1900), che mette in scena l'esperimento di una sorta di regia dell'albeggiante vita spirituale delle masse, non più temute e respinte ma incoraggiate e guidate nelle loro oscure aspirazioni verso la Bellezza. Alle teorizzazioni romanzesche, corrispondono i concreti tentativi di un'arte sia pure solo velleitariamente popolare, compiuti attraverso il teatro. Miti, secondo la ricetta classica dell'arte per il popolo, e insieme dimostrazioni della immutata efficacia dei miti antichi sono le tragedie dannunziane, da La città morta (1898) a La figlia di Iorio (1904) a Più che l'amore (1906), a Fedra (1909), in cui la solita lotta per l'Ideale, spinta talora fino al crimine, rappresenta iperbolicamente una comune insofferenza nei confronti del grigiore della vita quotidiana e la parola poetica sperimenta la propria efficacia fuori del libro.

La stagione dei capolavori dannunziani culmina però nei due più celebrati libri delle Laudi del cielo del mare della terra e degli eroi, quando l'urgenza del comprendere lascia il posto alla liberatoria conquista di una poesia nella quale felicemente collaborino istinto e artificio. Gli oltre ottomila versi di Maia (1903) sono virtuosisticamente giocati sul mantenimento della stessa tensione espressiva e esplicitamente votati addirittura all'emulazione del poema dantesco, ponendosi altresì a modello delle innovazioni metriche novecentesche e lasciando intravedere una nuova strada per la poesia civile. Alcyone (1904), di là dalla tenue trama di una vacanza estiva a contatto con la natura toscana, trova un motivo unitario nel suo porsi come "tregua" e nella conseguente scelta di argomenti privati e sentimentali, e punta sulla suggestione d'una lingua manipolata senza sforzo evidente e sulla sconcertante prossimità al linguaggio prosastico, sempre imminente e ogni volta mirabilmente eluso (ad esiti altrettanto significativi non giungono il secondo e il quarto libro delle Laudi: Elettra, 1904; Merope, 1912; né Canti della guerra latina, 1933, noto anche come Asterope).

La fase del ripiegamento memoriale si apre all'indomani della splendida fioritura primonovecentesca, all'insegna di un autobiografismo meno strumentale e idealizzato. Se così Forse che sì forse che no (1910) traduce, concretamente svilendolo, l'Ideale dei romanzi precedenti nella passione aviatoria e, quasi come postuma compensazione, rappresenta il dramma della femminilità offesa, tutte le prose di memoria e quella che è stata definita "esplorazione d'ombra", comprese tra l'atteggiamento solennemente meditativo della Contemplazione della morte (1912) e la scrittura apparentemente pedantesca e in realtà comica del Secondo amante di Lucrezia Buti (nel vol. Il venturiero senza ventura e altri studii del vivere inimitabile, 1924, primo dei due tomi che, con Il compagno dagli occhi senza cigli e altri studii ecc., 1928, compongono Le faville del maglio), rivelano addirittura uno scrittore nuovo.

Con il Notturno (pubbl. nel 1921), il mutamento dello scenario psicologico e la singolare tecnica compositiva si risolvono nella ricerca di una lirica essenzialità all'interno della prosa, che nella paratassi inevitabile di un eterno presente vive l'ultima stagione di una sensibilità sovrumana, e, con le Cento e cento e cento e cento pagine del libro segreto di Gabriele D'A. tentato di morire (1935), lo scrittore a quella tecnica fa corrispondere la naturalezza quasi meccanica con cui si concede alla registrazione, al ricordo, all'intuizione più penetrante, senza ricavarne più nessuna scintilla di vitalità.

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DBI

di Marcello Carlino


Nacque a Pescara, il 12 marzo 1863,da Francesco Paolo e da Luisa de Benedictis. Il padre proveniva da una modesta famiglia, ma, adottato da uno zio benestante, ne aveva assunto il cognome, D'Annunzio, sostituendolo a quello d'origine, Rapagnetta, e ne aveva ereditato i beni, potendo vivere di eredità ed entrando nella schiera dei notabili del paese, così da essere eletto, per breve tempo, sindaco dell'allora piccolo comune abruzzese. La madre discendeva da una ricca famiglia di Ortona.

Quanto l'uno era estroverso ed esuberante, anche nelle avventure amorose e nello sperperare il patrimonio, tanto l'altra era dolce e remissiva, maternamente carica di premure, figura ripensata costantemente con commozione se fanno fede le pagine del Notturno. L'ipotesi che l'uno e l'altra siano stati presenze decisive, nella formazione e poi nelle diverse esperienze di Gabriele, andrebbe puntualmente verificata. Nella instabilità sentimentale del D., nella ricchissima ghirlanda dei suoi amori è stato visto un tentativo inconscio, censurato e perciò innestato in una dinamica crescente di spostamento, di possesso della madre, di cui la donna sarebbe figura di proiezione. Il vitalismo narcisistico e il carattere autoritario dell'immaginifico, che trovano immediati modelli nella vita di Francesco Paolo, e, per contro, sintomi evidenti di rifiuto della figura paterna (il più eclatante la mancata partecipazione ai suoi funerali), conterrebbero, invece, l'ambivalenza di odio e di amore e rinvierebbero ad un disegno inconscio di identificazione e di sostituzione. Il caso D. e persino alcune frequenti oscillazioni della sua poetica recano, forse, le impronte mai cancellate del classico groviglio edipico.

Gabriele era il terzogenito della famiglia. Prima di lui erano nate Anna, nel 1859, ed Elvira, trascorsi due anni; dopo di lui sarebbero nati, sempre con l'intervallo di un biennio, Ernestina ed Antonio. Terzogenito e primo figlio maschio, lungamente sospirato: anche per questa ragione la formazione culturale del D. fu particolarmente curata. Compiuti diligentemente i primi studi a Pescara, per volontà del padre egli si iscrisse alla prima ginnasiale presso il Reale Collegio "Cicognini" di Prato. Qui soggiornò sette anni, dal 1874 al 1881, quando conseguì, il 30 giugno, la "licenza d'onore" in base ai risultati dei tre anni di liceo. La carriera scolastica di Gabriele è la tipica del primo della classe: ottime votazioni in tutte le materie di studio, benché l'algebra e la geometria sembra non fossero da lui particolarmente amate; eccellenza nelle attività collaterali e nella ginnastica e nella scherma, discipline per le quali ebbe spesso menzioni; progressione rapida nei gradi del collegio, strutturato come un ordine militare, fino alla nomina a comandante della compagnia; segnalazioni per la condotta, giudicata irreprensibile fatta eccezione per l'anno 1877, e per la "pulitezza", e cioè l'eleganza, del portamento e del modo di vestire, secondo il cliché di chi avrebbe poi asserito essere più che mai necessario ed amabile il superfluo.

Certo non mancarono al D. punizioni e censure, ma l'insofferenza alla clausura, da cui il compiaciuto e sadico orditore di beffe, sembra appartenere, prevalentemente, alla ricostruzione agiografica ed enfatizzata che l'autore de Le faville del maglio fece della sua adolescenza. Per questo sui rudimentali apprendistati sessuali con Clemenza Coccolini nell'immancabile museo etrusco, un luogo destinato ad accentuare la forza della trasgressione; sugli scandali perpetrati a danno delle guardarobiere; sulla iniziazione da bordello all'amplesso, mitizzata nelle pagine ridondanti de Il secondo amante di Lucrezia Buti; sulle ribalderie aventi per oggetti chierici, cruscanti e prefetti; sul celebre episodio di Gabriele che si rifugia sulla grondala e tiene lungamente in scacco inservienti ed istitutori, per buscarsene infine un'influenza, come testimoniato, con piglio eroico, ne Il compagno dagli occhi senza cigli; sulla portata e sul rilievo di simili episodi è lecito nutrire dubbi. Il fatto è che tutta la memorialistica del D., persino la "notturna", reca tracce evidenti di una sublimazione e di una calcolata investitura del personaggio, quasi a voler rinvenire in Gabriele bambino e adolescente una eccezionalità prefigurante il superuomo futuro, eccezionalità riconosciuta, temuta ed ammirata dal padre e tollerata all'interno dello stesso "Cicognini". L'autobiografia dannunziana deve essere adeguatamente tarata; e, per essa, sia il narrato di talune tranches de vie della primissima infanzia - l'amicizia con marinai, mendicanti e straccioni deficienti - sia l'attribuzione pruriginosa al giovane di esperienze irregolari - l'"affezione morbosa" per un condiscepolo - vanno opportunamente sottoposti a verifica.

Con tutta probabilità l'adolescenza di Gabriele è più comune di quanto egli stesso e certi biografi abbiano suggerito: un impegno ed una volontà di primeggiare indubbiamente notevoli, ma anche la noia della vita collegiale e l'isolamento con inevitabili effetti di insubordinazione; le rare uscite presso famiglie amiche, le prime infatuazioni amorose, il desiderio di ritornare a Pescara, l'epistolario con il suo vecchio maestro, Giovanni Sisti; gli esami sostenuti a Chieti, per saltare la quinta ginnasiale e nella speranza di rientrare definitivamente in Abruzzo; una lettura, questa sì costante e rara nella sua intensità, di opere letterarie e di erudizione. Lesse infatti voracemente, secondo ed oltre le direttive dei suoi istitutori Pio Giusfredi, Angelo Tonini, Gustavo Meniconi; lesse Plutarco, Virgilio, Catullo, i cinquecentisti, Tommaseo, Manzoni, Stoppani, De Gubernatis, Byron, Goethe, Milton, Darwin, i fascicoli della Nuova Antologia e, acquistate nel 1878, le Odi barbare di Carducci. Proprio il libro del poeta toscano motivò una subitanea "smania" lirica. Prima aveva compitato secondo le regole della composizione scolastica allora in uso; subito dopo egli verseggiò, pur fra tante rimasticature retoriche, innovando carduccianamente il metro e rifiutando la rima: nel quadro dell'iniziativa del "Cicognini" di celebrare il genetliaco regale, l'Ode ad Umberto, pubblicata nel marzo del 1879 con altre liriche degli scolari del collegio, è appunto una sequenza di tredici strofe saffiche.

Il D. aveva compreso da che parte si indirizzasse la cultura letteraria del tempo e quanto la strada tracciata dalle "barbare" potesse dimensionarsi vincente e remunerativa, sotto il profilo del dominio del mercato delle lettere e della gloria. Di poco seguente ad una epistola a Carducci, nella quale, accanto a lodi sperticate e premonitori autoincensamenti, si riconosce che la sua scuola è destinata a "vedere trionfi ben diversi da quelli della chiesa e della scuola del Manzoni", Primo vere, stampato a Chieti nel dicembre 1879, è un libro tutto carducciano.

Carducciani sono i metri, il linguaggio, la sintassi di questa raccolta, che pure non ripudia reminiscenze da Foscolo, Leopardi e, finanche, Aleardi; carducciani il paesaggio e una certa propensione alla sistemazione mitologica dei materiali poetici; carducciana l'ode a Satana, che aggiunge al modello una qualche venatura di sensualità ed erotismo, risultata sgradita ai docenti del "Cicognini" e allo stesso Giuseppe Chiarini, che pure lodò il libro, ravvisandovi capacità di ritmo ed agilità del periodo. Il giudizio del prefatore delle Odi barbare, sul Fanfulla della domenica, contiene anche un "numerosa", attributo di frase ed immagine, che, pur volendo suonare elogio, addita un limite della strutturazione del libro: la risoluzione del piglio sensuale e voluttuoso del dettato in una già percepibile tronfiezza stilistica.

Lo stesso Chiarini, di lì a poco, avrebbe denunciato, in un articolo anonimo, i plagi, stecchettiani e chiariniani, della seconda raccolta del D., In memoriam, dedicata alla nonna e pubblicata a Pistoia nel 1880.

Il titolo ricalca appunto un titolo del Chiarini, che, a sua volta, ricalca un titolo di Tennyson. La poesia ricicla ampiamente l'Ottocento minore italiano, votandosi al recupero di una poetica dimessa e casalinga, deamicisiana soprattutto. Indirizzo letterario a parte, il metro resta carducciano e denota una spiccata proprietà tecnica del giovanissimo Gabriele: ciò che non basta, tuttavia, a salvare l'opera da un generale insuccesso.

Primi elogi e prime censure: di lui si cominciava a parlare come di un enfant prodige e il D. capì, un'intuizione formidabile, che la letteratura, non importa di che lega, si afferma e si potenzia nella cassa di risonanza dei mass media e che, la letteratura essendo merce, la pubblicità è il necessario propellente del prodotto letterario. Di qui un colpo di genio: nell'imminenza della diffusione della seconda edizione di Primo vere, agli sgoccioli del 1880, Gabriele mise in scena la propria morte. Comunicò la notizia della sua dipartita ai giornali, pagando la pubblicazione di lacrimevoli necrologi, e la smentì in una con l'annuncio del suo libro. L'operazione spregiudicata sortì l'effetto di attirare una generale attenzione; immediato e tangibile risultato fu la possibilità di collaborare al Fanfulla della domenica e di scrivervi, in prosa, Cincinnato, che riesumava, sempre in prospettiva mitologica e, al fondo, autocelebrativa, una figura presunta dell'infanzia pescarese.

Divenuto, pur fra i rimbrotti, una gloria vivente del "Cicognini"; invaghitosi di Elda Zucconi e completati gli studi presso il collegio, nel 1881 il D. tornò a Pescara, spedì missive cariche di passione alla sua amata, coltivò l'amicizia di F. P. Michetti e F. P. Tosti, accumulò, così in una lettera, "una messe di ispirazioni nuove" per la sua mietitura poetica. Il soggiorno pescarese durò lo spazio di un'estate: la nuova meta non era Firenze, come il suo iter di studi avrebbe consigliato, ma Roma; il suo desiderio non quello di sposare Elda, vezzosamente Lalla, ma di occupare in forze i gangli vitali, i più trainanti comunque, della cultura italiana. Anche sotto questo profilo l'intuizione dannunziana era di estrema intelligenza.

La capitale d'Italia viveva, in quel periodo, una fase di trasformazione e, per effetto di induzione, s'avviava a diventare, essendo già il centro politico più importante, una sede privilegiata e fermentante di cultura e letteratura. Le leve del potere letterario si azionavano ormai a Roma; nella città era tutto un pullulare di iniziative editoriali; e andava costituendosi un pubblico che manifestava una domanda sociale di nobilitazione ideologica e di gratificazione anche culturale. Una borghesia medio-alta si sovrapponeva e sostituiva gradatamente l'aristocrazia, riadattandone miti e comportamenti e sospirando l'avvento e l'avallo di un cantore di classe.

Essere assidui in redazione o nei salotti alla moda valeva molto più che frequentare aule ed istituti universitari; fu quel che fece il D., mettendo da parte l'iscrizione alla facoltà di lettere e dandosi ad intrecciare fitti rapporti con alcuni intellettuali, tutti ben piazzati in ambito editoriale, come E. Scarfoglio, C. Pascarella, A. Sommaruga, G. Ferri. Collaborò così al Fanfulla della domenica, al Capitan Fracassa, a Cronaca bizantina e utilizzò il foglio del Sommaruga come definitivo trampolino di lancio, tanto che presto vi avrebbe avvicendato Carducci nel ruolo di autorevole ispiratore e di caposcuola. Adeguatamente pubblicizzati sulla rivista, per i tipi sommarughiani uscirono nel maggio del 1882, Canto novo e Terra vergine.

Canto novo, dedicato ad Elda Zucconi, contiene componimenti databili tra l'aprile del 1881 e lo stesso mese del 1882. Vi prevalgono le barbare e non manca un numero consistente di sonetti. La nota dominante è il sensualismo, che si esprime nel bisogno di immedesimazione del poeta nella natura e si estrinseca in una strenua volontà di possesso e di dominio. L'io è sempre sul proscenio; ogni suo atto, amplesso compreso, si consegna all'enfasi dell'entusiasmo e di bruschi innalzamenti di tono. Si sprecano esclamativi ed iterazioni, la sonorità tocca sovente la gamma degli acuti, in base ad un programma teorico che elegge il grido, "elevazione della voce istintiva", ad origine del canto. Allorché il fiato non regge, come assai spesso accade, rispunta un materiale scrittorio che sa di accatto e di rimasticatura. Riemerge allora l'Ottocento minore; e il naturalismo si esprime dal versante scientifico di una nomenclatura da dizionario e da quello di una koinè linguistica e di stile fastidiosamente banale; e il sensualismo conosce il bemolle di registri malinconici e languidi, ai limiti dello svenevole e del caramelloso, epperò fra gli altri forse da privilegiare. Il libro apparve ai contemporanei l'opera di un nuovo poeta; certo i Leitmotive della lirica dannunziana ebbero il loro battesimo nella raccolta del 1882, il cui successo è legato ad una sorta di ideologia dell'entusiasmo oggettivamente lenitiva per la borghesia del tempo. Quanto alle sue novità espressive, esse sembrano limitarsi ad una musicalità diffusa, la quale, però, non esautora del tutto quelle eredità carducciane che pure il D. aveva sperato di dimettere. Terra vergine, invece, raccoglie alcuni racconti già pubblicati in riviste o in giornali. Il suo credo è verista, come impongono, per la prosa, moda e mercato degli anni: di un verismo, rispetto al modello verghiano, che accentua ferinità e violenza sensuale della rappresentazione ed indulge ai forti chiariscuri di una prosa sanguigna, talora liricheggiante, spesso insabbiata in una vischiosa falsificazione.

Pubblicati i due volumi, che gli valsero fama e ruolo da divo, trascorse le vacanze in Abruzzo, Gabriele si dette a coltivare sapientemente il mito recente che traeva origine dalle sue opere letterarie. L'entusiasmo panico trasbordava dallo stile della pagina allo stile di vita: il periodo dal 1882 al 1883 fu un continuo rincorrere avventure, amori, feste e convegni salottieri. Ad osannarlo e a contenderselo erano tutti, tranne qualcheamico che gli rimproverava (benevolmente e presto ritrattando) di aver tradito la serietà di comportamento e di poetica, e tranne Elda, che Gabriele aveva liquidato con una lettera frettolosa all'inizio del 1883. Pur lasciandosi irretire nel rituale mondano della Roma bene, il D. trovava il tempo di aggiornare il suo repertorio di letture, scelte tra le più idonee a quel milieu sociale di cui era divenuto cantore e tra quelle che più promettevano affascinanti innovazioni di gusto. Il suo interesse si spostò alla letteratura francese, sui parnassiani e su Baudelaire, il secondo interpretato sullo schema dei primi. Il ricavo era un insieme di tematiche e di stilemi, ovviamente deproblematizzati; nulla di affine, insomma, al recupero carducciano e, soprattutto, scapigliato della lezione di Les fleurs du mal. Quei materiali gli sarebbero tornati utili per mettere in versi le scene private di un "prematrimonio".

Il 28 luglio 1883, facendo calare il sipario su un copione perfetto, Gabriele aveva sposato Maria Hardouin di Gallese. La cerimonia nella cappella nobiliare, dopo il rapimento - e l'interessamento della forza pubblica - per vincere l'ostilità dei genitori di lei: il tutto era cominciato dal "peccato di maggio", di cui egli subito dette versione poetica sulla Cronaca bizantina. Sarebbe vano e fuorviante accertare la sincerità di quell'amore per la giovanissima duchessa o quanto quell'amore fosse inquinato dal mito di una cercata corrispondenza tra lo scrittore e i personaggi ideali della sua opera o, più prosaicamente, dalla speranza di dar soluzione ai problemi economici che per Gabriele cominciavano a farsi pressanti, costretto a scialacquare com'era per mantenersi in linea con il ruolo di protagonista di una vita lussuosa e dissoluta. Di sicuro quelle esperienze amorose furono vissute in simultanea con l'edizione di una raccolta di liriche che le assume a referente: Intermezzo di rime.

Il tema erotico vi ha una trascrizione cupa, che inclina a ridursi a mero esercizio di eleganza; vi abbonda una ricerca di plasticismo, sforzata e retorica; la metrica torna tradizionale e l'eredità carducciana sembra alienata; si indovina qua e là qualche plagio da Maupassant; una disposizione moralistica funge da postilla, ma in realtà si compiace di una giovinezza da stereotipo, smodatamente assetata di avventure di sesso: l'asserito sperimentalismo, in senso europeo, del libro del 1883 è in definitiva la mummificazione e il ridimensionamento provincialistico della poetica d'Oltralpe di metà Ottocento. Le polemiche tra sostenitori e detrattori, che lo accusano di pornografia e gli appiccicano un "porcellone", e l'intervento del D. che riconosce la sua momentanea inverecondia di "animale stanco", furono, complessivamente, un buon lievito pubblicitario.

Gabriele celebrò in Abruzzo, dove si era rifugiato per mancanza di fondi, dissoltosi il patrimonio del padre e inutilizzabile quello del suocero, a lui ostile, i natali del suo primogenito, Mario: era il gennaio del 1884. L'esilio abruzzese lo sottrasse per un anno circa ai fasti mondani della capitale. Tuttavia egli non allentò i rapporti con gli ambienti letterari romani, sui quali riversò costarmente, seppure per corrispondenza epistolare, i suoi parti poetici. Furono pubblicati, nel periodo, una nuova edizione dell'Intermezzo e un volume di novelle, dal titolo Il libro delle vergini.

L'ambientazione è abruzzese; panico, a tinte forti, stilisticamente sostenuto e persino parnassiano, nonostante le ascendenze più zoliane che verghiane, è il verismo che sottende le novelle. A condire il tutto vengono utilizzati talvolta particolari pruriginosi, come l'acclimatamento dell'eccitazione dei sensi in un'atmosfera di sperdimento religioso: il tipico espediente del connubio di sacro e profano. Ma, oltre il valore del libro, scarso a giudizio pressoché unanime, mette conto ricordare un equivoco che, casuale o artatamente assecondato, rientra oggettivamente nelle regole di una vera campagna promozionale. Sommaruga stampa il testo con una copertina raffigurante tre donne nude e il D. lo sconfessa, giudicando la scelta indegna dei contenuti dei racconti ed imponendone la sostituzione. I rapporti con l'editore di Cronaca bizantina si incrinano definitivamente.

Nel novembre del 1884 il D. ritornò a Roma. Finalmente il suo matrimonio gli fornì qualche vantaggio pratico; la suocera si dette da fare perché egli entrasse nella redazione de La Tribuna. Iproblemi economici, almeno i più impellenti, erano così superati. L'attività giornalistica del D. fu, per un quadriennio, intensa e significativa e costituì occasione di ulteriore apprendistato culturale e spunto per alcune successive esperienze scrittorie. Sotto vari pseudonimi, da "Duca Minimo" a "Lila Biscuit", Gabriele fu cronista e cantore dei rituali borghesi alla moda: rappresentazioni teatrali, danze, ricevimenti, feste, conferenze, aste. Descrisse minutamente ambienti, arredamenti, pellicce, mises, gioielli. Impiantò storie eleganti, talora salaci ed ammiccanti, le Favole mondane a quel tempo famose. Si occupò anche di critica, intervenendo su Carducci e Pascoli, Keats, Swinburne, Dante Gabriele Rossetti e, da un versante diametralmente antitetico, su Moleschott, del quale condivise l'ipotesi di una esegesi fondata su presupposti solidamente scientifici: ancora una bascula tra incipiente decadentismo e positivismo naturalistico. Per quanto il D. dicesse di tollerare a fatica la pratica giornalistica che giudicava limitativa del suo talento, le cronache su La Tribuna rinsaldarono il suo già felice rapporto con la borghesia romana. La sua vita mondana ne fu incentivata. Riunioni salottiere e avventure amorose si susseguivano a getto continuo: la meno trascurabile, per le sue implicazioni ne Il piacere, quella con Olga Ossani.

Nel 1885 il D. ebbe dal principe Maffeo Sciarra, proprietario del quotidiano presso cui lavorava, l'incarico di dirigere la terza serie di Cronaca bizantina. Iltentativo di ripristinare la rivista già sommarughiana fallì nel 1886, l'anno stesso in cui nacque il secondogenito, Gabriele, e furono editi altri due volumi: Isaotta Guttadauro e altre poesie, per i tipi de La Tribuna, e San Pantaleone, presso un editore di Firenze.

Raffinata, elegante, virtuosistica, refrattaria a soluzioni psicologistiche o a sussulti moralistici è la raccolta di liriche. Il suo marchio è preraffaellita. Verlaine e Lorrain vi sono riciclati in una lingua che è un calco dai trecentisti (sicché ha buon gioco la sarcastica deformazione del titolo, operata, a postilla esegetica del libro, da un critico malevolo ma non troppo: "risaotto al pumidauro") e che riecheggia spesso Poliziano. Madrigali e sestine, ballate e trionfi sono altri indizi di una ricerca parnassianamente condotta sul piano esclusivo della forma e dello stile: un riuso di poetiche europee ed una cristallizzazione piuttosto che una innovazione. Le diciassette novelle che compongono San Pantaleone, dense di particolari truculenti ed orridamente drammatici, appartengono invece al gusto veristico dei bozzetto e della tranche de vie. Il naturalismo però sembra, qui chiaramente, riformularsi senza equivoci in una sorta di estetizzazione della crudezza fisiologica del reale. Chiude il libro Il commiato, ricco di note autobiografiche e poi riciclato ne Il piacere, nella scena dell'addio tra Andrea Sperelli ed Elena Muti.

Nella prosaicità di crescenti difficoltà economiche, conseguenza di una vita irrequieta, bisognosa - così in una confessione a Maffeo Sciarra - del superfluo e di sublimarsi tra rarità da museo, la relazione amorosa con Barbara Leoni fu per il D. una lunga parentesi di ricchissime esperienze e una spinta a concentrarsi sul proprio mondo, il suo più che quello di Barbara, dimenticando ogni amara contingenza e relativo stuolo di creditori. Il rapporto, con l'attrazione sessuale a farla da protagonista, avrebbe ispirato un periodo di fertilità letteraria e sarebbe stato tradotto nelle pagine de Il trionfo della morte. Gabriele aveva conosciuto Barbara, in realtà Elvira Natalia Fraternali, maritata Leoni, nell'aprile del 1887. La sua bellezza e la sua sensualità, una qual sregolatezza del suo carattere, esuberante e pieno di estro, avevano immediatamente attirato il D'Annunzio. Questi, a sua volta, era contornato da un tale alone mitico e accompagnato da una tale fama di irresistibile seduttore (fama che corrispondeva in gran parte ad una notevole abilità nelle arti della seduzione) che sbocciò subito un amore che tanti biografi hanno definito sublime, gravido di genuino trasporto e di subitanee accensioni, punteggiato di esercizi erotici, più o meno raffinati, come può evincersi dalle metafore, abbastanza esplicite, dell'epistolario. La schiettezza dei sentimenti reciproci, con l'avvertenza che quella schiettezza coesisteva in Gabriele con un invincibile egocentrismo, è confermata dalla durata quinquennale del sodalizio. Alla sua conclusione il poeta avrebbe aggiunto un'altra tessera al mosaico di un superuomo fatto a sua immagine e somiglianza; e Barbara non avrebbe saputo reintegrarsi nella normalità dell'esistenza.

Nel giugno 1887, sotto il fuoco della passione, il D. compose la prima delle Elegie romane; nell'estate, mettendo in essere quel trasferimento, poi codificato in Il fuoco, dal possesso della donna alla sete di dominio della realtà e della vita, tramite essenziale il mare, navigò lungo l'Adriatico in compagnia di Adolfo de Bosis. Fece in tempo a salvarli dal naufragio una nave da guerra. Una puntata a Venezia dove lo raggiunsero, in unisono, Barbara Leoni e la notizia della nascita del terzogenito, Veniero, e poi Gabriele tornò nuovamente ad imperversare negli ambienti romani. Nel 1888, forse frutto della sua recente esperienza marina, raccolse nel volume L'armata d'Italia una serie di articoli, dal piglio eroico e nazionalistico, centrati sulla necessità di ricostruire la flotta italiana e scritti per La Tribuna; ma nell'estate dello stesso anno, e nonostante l'aumento vertiginoso dei suoi debiti, si licenziò dalla redazione del quotidiano. Le sue energie dovevano essere spese per un obiettivo di ben maggiore respiro: per esso il D. si allontanò momentaneamente da Barbara, resistendo ai suoi allettamenti, intrattenne anche con la moglie rapporti soltanto epistolari e si rifugiò dall'amico Michetti, ospite del suo "Convento" abruzzese. In quel sito lavorò alacremente e dopo un semestre concluse la stesura de Il piacere. Su quel parto, sudato e laborioso, e sulla vita "conventuale" che lo rese possibile Savinio avrebbe appuntato i suoi sottilissimi strali ironici. Il libro, coronando una lunga strategia dello scrittore ed avviando un rapporto editoriale prestigioso e proficuo, che sarebbe lungamente durato e che più volte in futuro gli avrebbe fornito l'ossigeno di lauti anticipi, fu pubblicato da Treves di Milano nel 1889.

Il successo del primo romanzo di Gabriele, soprattutto presso un pubblico borghese, si deve in primo luogo alla identificazione tra il narratore e il protagonista Andrea Sperelli, autorizzata da una congerie di riferimenti autobiografici e rafforzata dalle analisi moralistiche, sempre a fortiori e strumentali, dei comportamenti del personaggio. L'effetto è gratificante: la letteratura non mistifica la vita, si candida, invece, a suo equivalente, capace però di sublimarla, e di sublimare la sua stessa ripugnanza, nella sfera della bellezza. Il narcisismo dello scrittore, riflesso in un alterego, autorizza il narcisismo borghese. Poco importa che stilisticamente il romanzo non riesca sempre a combinare il registro parnassiano con quello naturalistico o che gli manchi un sufficiente respiro narrativo o che le descrizioni siano iterate al limite della ridondanza: la triplice equazione letteratura-vita-sovradeterminazione estetica sostituisce il giudizio etico, pur pronunciato a scanso di equivoci, e innesca un processo di transfert nel quale il lettore medio trova appagamento e consolazione.

Compiuto lo sforzo narrativo, il D. visse intensamente la sua passione amorosa, recuperando il tempo perduto. Con Barbara ad Albano, nell'alcova romana, in Abruzzo: amore e lavoro si corrispondevano nel segno di una calcolata giustapposizione di letteratura ed autobiografia. Le tranches de vie umorose e febbricitanti erano già pronte, fabula de L'invincibile. Bastava sistemarle in un intreccio; quel che Gabriele realizzò presto, pubblicando le prime puntate del romanzo su La Tribuna, fin quando, nel marzo del 1890, si trovò a corto di materiali, perché impegnato ad adempiere agli obblighi di leva. Tra il novembre del 1889 e lo stesso mese dell'anno seguente, anno in cui apparve L'Isotteo-La Chimera, ristrutturazione di Isaotta Guttadauro, ilgiovane dové infatti prestare, a Roma, il servizio militare, che aveva lungamente rimandato risultando iscritto all'università. Il periodo in oggetto segnò un arresto della produzione letteraria, ma la vicinanza di Barbara e la sua disponibilità a raggiungere, ad ogni invito, l'amante temperarono non poco la noia e il disadattamento della recluta. Congedato, il D. congedò definitivamente Maria di Gallese e i suoi figli ed andò a vivere in un ampio monolocale situato nei pressi di piazza di Spagna ed arredato in uno stile da bazar e da museo: chincaglierie, tappeti, ninnoli, reliquie, preziosità e kitsch. Qui lavorò al Giovanni Episcopo, pubblicato tra il febbraio e il marzo del 1891 sulla Nuova Antologia.

Il libro si inserisce in una fase ulteriore dello sperimentalismo dannunziano, il quale consiste, come si diceva, nell'estrapolazione di alcuni modelli di poetica per il consolidamento di quei miti letterari che Gabriele aveva costruito e sui quali aveva edificato la sua fortuna. È il periodo della "bontà" che si inaugura con il romanzo breve del 1891. Forte delle sue esperienze militari, che lo hanno posto a contatto con altri ambienti sociali, imbevuto delle letture, al fondo semplificanti, della narrativa russa dell'Ottocento, di Dostoevskij e Tolstoj soprattutto, il D. intreccia la vicenda miserabile di Giovanni con la storia, improntata alla dissoluzione e al male, della moglie Ginevra. Ma è proprio la dimensione di quest'ultima, nonostante le tirate moralistiche, a primeggiare. E il documento umano del personaggio che dice io si ritrova sfrondato di ogni tormentosa problematicità ed affidato ad un monologo troppo esclamativo ed enfatico per rispettare il programma di una lingua dimessa e documentaria o per dar spazio, come ha già notato E. De Michelis, ai valori ed alle sfumature del sentimento.

Pressato dai creditori che avevano fatto porre sotto sequestro i suoi beni, Gabriele riparò a Francavilla dal compiacente Michetti. Le disavventure finanziarie, la rovina del patrimonio dei genitori, ormai sul lastrico sebbene Francesco Paolo continuasse a dissipare denari nel dare sfogo alla sua esuberanza sessuale, le proteste di Barbara, che lamentava la prolungata assenza dell'amante, non stornarono più di tanto Gabriele dalla stesura de L'innocente, il secondo dei romanzi della rosa il cui titolo originario era Tullio Hermil. L'opera fu terminata nell'estate del 1891, ma, impensabilmente, fu rifiutata da Treves perché ritenuta immorale. Per distogliersi dal dissesto economico e per cercarsi un nuovo editore, il D. dimorò a Napoli, dove il romanzo fu pubblicato a puntate sul locale Corriere, diretto dalla Serao e da Scarfoglio, ed edito in volume da Bideri nell'aprile del 1892. In maggio Zanichelli stampò le Elegie romane.

Le ragioni del rifiuto di Treves stanno particolarmente in quell'espediente narrativo, vero deus ex machina, che è l'uccisione del figlio adulterino perpetrata da Tullio. Il marchingegno addita un chiaro limite dell'ideologia del romanzo. La "bontà", per essere messa in opera e per realizzarsi nelle forme del ritorno del protagonista in famiglia, ha bisogno di un colpo di scena, involontariamente esteriore e poco credibile, quale è l'infanticidio. E allora l'ascendenza tolstoiana della poetica è destinata ad evidenziarsi per mero stereotipo; gli affetti familiari propendono all'ambiguità e l'amore coniugale, specimen di bontà, più che riferirsi ad un'ansia crescente di pacificazione e di riscatto, sembra consegnarsi ad un malcelato desiderio sessuale. Tullio è, in sostanza, della stessa pasta di Andrea Sperelli; il disegno e il messaggio del romanzo tradiscono le premesse e le intenzioni; e la bontà si riduce a veicolo, ovviamente pretestuoso, di una autistica estetizzazione della scrittura. Lo stile malsopporta approfondimenti psicologici, pur in programma, e predilige estenuazioni evocative, sistemandosi spesso in fraseggi ritmici e musicali. Le Elegie romane, strutturate sul modello goethiano di un diario sentimentale, traducono palpiti e stanchezze della passione di Gabriele per Barbara. Malinconia, struggimento, altalene di sentimenti e di stati psicologici dovrebbero superare le strettoie della asettica compostezza dell'Isotteo e disegnare un clima di vaporoso romanticismo. Ma il substrato mitologico ed erudito di tante descrizioni paesistiche e architettoniche e la classicità dei metri svuotano il realismo autobiografico e incollano sul testo una patina di magniloquenza stantia.

A Napoli il D. conobbe ed amò Maria Gravina Cruyllas, principessa siciliana infelicemente sposata con il conte Ferdinando Anguissola, madre di quattro figli, soggetta a turbe nervose. Per qualche tempo fu incapace di assumersi la responsabilità di troncare il rapporto con Barbara e, solo quando Maria fu visibilmente incinta, nel novembre del 1892, ripudiò la sua vecchia amante, per la quale aveva cominciato a provare (e si confrontino le Elegie romane e Il trionfo della morte) stanchezza e crescente disaffezione. L'adulterio suscitò scandalo. Il marito tradito sporse denuncia; gli amanti furono processati e condannati, salvati dal carcere da una provvidenziale amnistia. La situazione economica, poi, si era fatta a dir poco catastrofica. Gabriele, senza lavoro stabile, si trovava a dover mantenere Maria, i quattro figli di lei e Renata, la "Sirenetta" nata dalla relazione adulterina nel 1893; i creditori erano sempre più insistenti, appellati dall'immaginifico lugubri e villani persecutori; e, morto il padre, ai cui funerali non volle partecipare, il fiume di debiti, da lui lasciato in eredità, doveva pur essere arginato. Non c'era, insomma, di che stare allegri, anche se Gabriele, abituato a magnificare tutto quanto lo concerneva, avrebbe ricordato quelli come anni di "splendida miseria". Il periodo fu comunque operoso, specie sul piano della ricerca culturale. Mentre accumulava debiti in progressione geometrica, per non saper rinunciare al bisogno del superfluo, il D. scrisse su vari giornali, ripubblicò per i tipi di Pierro alcune novelle e, su Il Mattino e La Tribuna, elaborò significativi articoli su Wagner, Nietzsche e Zola, prendendo le distanze da quest'ultimo e rileggendo il secondo nel solco dell'estetica del primo. Una simile riflessione e il concomitante scavo nel simbolismo europeo sarebbero stati il lievito per le opere future. Nel 1893 uscirono il Poema paradisiaco presso Treves e le Odi navali presso Bideri.

Nella raccolta paradisiaca lo schema iniziatico, scandito sull'ideologia della bontà, si sistema in una maggiore fluenza espressiva e in una ritmica di enjambements, assonanze, iterazioni, equivalenze musicali che lasciano intravvedere un'adesione ai moduli simbolisti, particolarmente a Maeterlinck e a Verlaine, sebbene il simbolismo dannunziano appaia subito di minor portata critico-gnoseologica e inclini verso un sovrappiù di languidezza. I versi vanno orientandosi intorno ad una libertà di combinazione metrica, rispettosa, tuttavia, di alcune norme ritmiche della tradizione: le aperture metriche dannunziane non saranno mai verso libero, saranno piuttosto oratio soluta. Così èanche per le Odi navali insopportabilmente gonfiate da una smania civile, esagitatamente patriottica, inevitabilmente retorica.

La pubblicazione, in appendice a Il Mattino, di alcune parti de Il trionfo della morte, già L'invincibile, nel primo semestre del 1893, coincise con una europeizzazione della fama del D., che aveva visto tradotto in Francia L'innocente. In Italia, per contro, erano gli immancabili creditori a vietargli di assaporare la gloria. Ormai anche i beni napoletani erano stati confiscati; i figli di primo letto di Maria Gravina erano stati riaffidati al padre; all'amante mancava anche il necessario e, solo grazie all'invito di un amico fidato, Pasquale Masciantonio, Gabriele poté alloggiare la sua famigliola illegale a Roma e trasferirsi in Abruzzo, a Pescara e poi a Francavilla. Nel villino "Mammarella", dove in primavera fu raggiunto dall'amante e da Renata, completò la stesura de Il trionfo della morte, edito da Treves. Era il 1894.

Zola è messo ai margini. La poetica della "bontà" è superata. Il sensualismo panico di Gabriele trova una giustificazione ideologica nel superuomo di Nietzsche e nelle suggestioni della musica di Wagner. L'uno e l'altro sono probabilmente mediati dalla cultura francese. Il primo è letto, per parzialissimi campioni, nello specchio della mitopoiesi del secondo ed è inevitabilmente falsificato. Certo è che la teoria nietzscheana, deproblematizzata e spuntata delle sue cariche nichilistiche portatrici di contraddizione, è appiattita in un vuoto formulario: amoralismo, vitalismo dionisiaco, libertà d'azione dell'individuo superiore al di là del bene e del male, culto della bellezza, indiamento dell'arte e dell'artefice. Il trapasso nella politica e la sua superomistica estetizzazione sono corollari necessitati, che nessun testo di Nietzsche autorizza e che solo potrebbe autorizzare quel testo, apocrifo e mendace, che la sorella del filosofo avrebbe montato ad arte (tutta da terzo Reich) di lì a qualche decennio. Antiparlamentarismo e rigetto della democrazia, razzismo, violenza, bellicismo, spregio delle masse e dominio carismatico della folla diventano altrettante scelte del D., scelte non isolate ma comuni ad una larga fascia di intellettualità italiana di fine secolo, se si pensa alle proposizioni de Il Convito e de Il Marzocco. La borghesia trova una nuova occasione di transfert ed una risposta tranquillizzante ai timori derivanti da una più accentuata conflittualità di classe. Ancora una volta l'immaginifico sa recepire una diffusa domanda sociale.

Il trionfo della morte è parso a C. Salinari "il manifesto sessuale" del superuomo dannunziano. L'eccezionalità di Giorgio Aurispa, sottolineata da uno stile narrativo adatto alla bisogna, la sua volontà di autoaffermazione, l'estraneità alla morale comune, l'insofferenza per ogni norma costituita, lo stesso rituale dell'omicidio-suicidio (discendente anche dalla filosofia di Schopenhauer), che esprime un estremo atto di potenza, disegnano infatti la fisionomia di un superuomo, piuttosto ottuso per la verità, capace soprattutto di una straordinaria alacrità genitale.

Nel settembre del 1894 il D. si recò a Venezia per contattare Georges Hérelle, il suo traduttore francese, e vi incontrò Eleonora Duse, conosciuta qualche anno prima. Tra la fine dell'anno e i primi mesi del nuovo, ebbe frequenti rapporti, a Roma, con gli artefici de Il Convito, Adolfo de Bosis su tutti; e intanto lavorava a Le vergini delle rocce. Consegnato il manoscritto a Treves, che lo avrebbe pubblicato nello stesso 1895, Gabriele, in compagnia di Hérelle, Guido Boggiani, lo Scarfoglio e il Masciantonio, compì una crociera nel Mediterraneo, puntando sulla Grecia. Un viaggio sulle orme della classicità, della bellezza e della poesia che si risolse in una somma di delusioni; povera cosa era l'Ellade moderna e poi, specie per spiriti più puritani come l'Hérelle, era inconcepibile sbizzarrirsi in abbondanti libagioni e vagheggiare femmine di porti, più che rintracciare le vestigia del passato e magari rivivere in quei luoghi le suggestioni dell'apprezzatissima Nascita della tragedia di Nietzsche. Quando, concluso il viaggio, fu chiamato a Venezia per pronunciare il discorso di chiusura della prima Esposizione internazionale di arte, Gabriele era fresco del recente successo de Le vergini delle rocce, apparso in anteprima sulle pagine de Il Convito.

Il libro, che dissolve la struttura del romanzo per attestarsi su un registro lirico sovraccarico di rimandi allegorici e incline ad una straboccante oratoria, contiene tutti quei motivi ideologico-culturali, di forzata e capziosa ascendenza nietzscheana e wagneriana, che il D. aveva espresso, travisando le fonti, in un articolo del 1892, La bestia elettiva, pubblicato da Il Mattino. Difatto sembra giusta l'ipotesi di quanti attribuiscono un ruolo decisivo al volume del 1895 per l'individuazione della poetica dannunziana. Né la presenza di categorie semantiche proprie del simbolismo vale a mutare il segno di una ideologia letteraria fortemente reazionaria.La conferenza veneziana, prima edita sotto il titolo di L'allegoria dell'autunno, poi riciclata all'interno de Il fuoco, fu una nuova occasione per avvicinare Eleonora Duse. Per due anni ancora il D. rimase legato a Maria Gravina e ne ebbe nel 1897, per quanto non volle mai riconoscerlo per suo, un altro figlio, Gabriele Dante; ma, in realtà, il sodalizio con l'attrice, in cui, come nota Roncoroni, "amore, attrazione personale, interesse pratico e curiosità intellettuale si sarebbero mescolati in modo indistricabile", principiò appunto a Venezia, inizialmente sotto forma prevalente di alleanza artistica, che poteva ampliare il repertorio di lei e diffondere ulteriormente il successo e l'influenza culturale di lui. Il D. si dava al teatro; e così, mentre consegnava alle stampe un'edizione rivista del Canto novo e usciva pressoché indenne dalle polemiche sui plagi contenuti nei suoi libri - polemiche che si scatenarono nel 1896, per gli interventi di E. Thovez, e durarono a lungo, almeno sino all'Antidannunziana di G. P. Lucini del 1914 - lavorò a La città morta, la cui rappresentazione provocò il primo screzio tra il poeta ed Eleonora. Gabriele aveva promesso l'opera a Sarah Bernhardt, che la recitò nel gennaio del 1898, e, con una serie di sotterfugi, aveva fatto in modo che la Duse si trovasse costretta a rinunciare alla parte. Venuta a conoscenza di tale grave scorrettezza, l'attrice troncò la relazione; e, solo grazie alla mediazione del conte Primoli e al frettoloso allestimento di una nuova pièce, Sogno d'un mattino di primavera, concepita per l'amante, i due si riconciliarono. La messa in scena, nel giugno del 1897 a Parigi, ebbe scarso successo. Nel luglio dello stesso anno, con un programma nettamente conservatore, il D., lui antiparlamentare per professione, si presentò candidato alla Camera, nel collegio di Ortona a Mare. Dopo una battente campagna di propaganda, facendo leva sulla sua fama e sulle sue radici abruzzesi, l'immaginifico risultò eletto e sedette sui banchi della Destra.

Per il poeta pescarese erano anni di tutto teatro, quelli che chiudevano il secolo: un pizzico di scenografia nelle vacanze o nelle tournées con la Duse ad Assisi e a Venezia, nel settembre e nel novembre del 1897, e in Egitto e in Grecia, tra il 1898 e il 1899; molto di enfasi nell'annuncio della costruzione, mai realizzata, di un teatro apollineo ad Albano, ad oscurare la fama di Wagner. Teatrale la elaborazione di Sogno d'un tramonto d'autunno, di La Gioconda e La gloria: le ultime due pièces furono portate in scena dalla Duse nel 1899, l'una un successo, l'altra un fiasco solenne. E se drammatica, ma meno teatrale, era stata la risoluzione del rapporto con Maria Gravina e con la sua figliolanza, teatralissimo fu l'ambiente della "Capponcina", celebre villa a Settignano arredata con sovrabbondanza, anche di cattivo gusto, e con uno spreco di atmosfera superomisticamente sacrale. I malevoli sostennero che la simbiosi del D. con quella dimora era stata facilitata dal fatto che ad accollarsi le spese di quel perfetto allestimento era stata la generosa Eleonora. Certo si realizzava una piena corrispondenza, persino simbolica, tra Gabriele, mito e divo, e l'interno della sua villa. Il fascino del personaggio ne fu accresciuto. Sollevato, per la prodigalità della Duse, dai vili problemi pratici, egli poté rinnovare i fasti d'un signore del Rinascimento, fra cani, cavalli e sontuosissimi arredi. Il dannunzianesimo, pur tra un nugolo di detrattori che ironizzavano sugli eccessi ridicoli dell'immaginifico, toccava ora il diapason presso un fruitore borghese (via via anche piccoloborghese) che il suo eroe ce l'aveva, finalmente, in carne ed ossa. Avvolto dal tepore del lusso, il D. lavorò alacremente alle prime Laudi, alcune pubblicate su La Nuova Antologia, a Le faville del maglio e a Il fuoco, che fu pronto per i tipi di Treves nel marzo del 1900.

Il romanzo è il vero trionfo del superuomo, alias Stelio Effrena, alias il divo Gabriele. A fargli corona sono il paesaggio da favola di Venezia, la Foscarina, attrice drammatica, e Donatella, bellissima cantatrice, entrambe donne eccezionali ma non tanto da superare il superuomo. Su quello e su queste, sullo stesso Daniele Glauro, lo sterile asceta che adombra Angelo Conti, l'amico e l'ispiratore di sempre, autore nel 1900 di La beata riva, si esercita il dominio, ideologico e culturale, di Stelio. La sua potenza è quella dell'artefice, creatore e insieme trascinatore di masse, punto di riferimento di un manipolo di giovani, entusiasti adoratori del bello. Gli esecutori di teatro e di musica e il critico, rilettore di una bellezza da altri creata, trovano nell'immaginifico il nuovo messia: quanto basta a suggerire che la nuova arte letteraria propone superomisticamente la combinazione di categorie culturali e di linguaggi diversi, del teatrale, del lirico, del musicale. E quella combinazione pretende un accumulo irrefrenabile di esperienze: come, suo malgrado, riconosce la Foscarina, Effrena è chi deve vivere tutto, senza limiti, e tutto possedere, in primis, con il gesto e la voce, la folla chimerica. Emblematica è, al riguardo, la scena della notte d'amore con la Tragica, che si prolunga in una conquista vitalistica e spasmodica, sessuale al fondo, della città lagunare. Lo stile da superuomo travolge la narrativa nell'oratoria e costringe il protagonista iperumano nello spazio, privilegiato ma asfittico, del proscenio, in un perenne primissimo piano.

Il romanzo contiene qualche allusione non proprio galante alla Duse, nei cenni insistiti ai trascorsi ed alla incipiente decadenza fisica della Foscarina; ma, mentre la cosa suscitò scandalo in taluni lettori, non sembra che Eleonora le desse gran peso: aveva vestito, nell'occasione, gli abiti di scena di una donna il cui solo compito, giusta l'ideologia de Il fuoco, è quello di servire l'amante, creatore geniale.

Del resto l'attrice pensava di aver raggiunto con Gabriele l'apice della felicità. I due litigavano di frequente, anche per il loro carattere forte e talora spigoloso, ma erano, comunque, spessissimo insieme. Furono a Vienna per alcune recite del repertorio dannunziano, che ebbero buon esito; furono in giro per l'Italia, nel 1901, con E. Zacconi, riunitosi artisticamente ad Eleonora, e, accolti entusiasticamente, puntarono nel 1902 su Gorizia e Trieste. Intanto il D. aveva chiuso, momentaneamente, con la politica. Infatti, nel quadro di un trasformismo ideologico sempre strumentale, si era presentato, nelle elezioni del 1900, per il gruppo socialista nel collegio di Firenze: stavolta la trombatura fu inevitabile. E così, estromesso dal Parlamento, poté dedicare ad un intenso lavoro letterario l'estate dello stesso anno e quelle degli anni successivi e, insomma, tutti i momenti non occupati dalle tournées a fianco di Eleonora. Tra il luglio e l'autunno del 1900 compose alcune liriche dell'Alcyone e di Elettra; nello stesso periodo del 1901 scrisse Francesca da Rimini; nell'estate del 1902 partorì altre liriche dell'Alcyone. Approfittando di un viaggio della Duse in America, che aveva lo scopo, anche, di rimpinguare le casse di quel connubio, teatrale e sentimentale, fastoso e scialacquatore, Gabriele completò, nella prima metà del 1903, la Laus vitae, sicché Maia fu pronta per la stampa nel maggio del medesimo anno. Un ulteriore sforzo creativo gli permise di realizzare, in trentatré giorni, La figlia di Iorio e di rifinire Elettra e Alcyone, il secondo e il terzo libro delle Laudi, che furono edite nel dicembre del 1903.

È giudizio comune che le Laudi, i primi tre libri e, in specie, il terzo, segnino il culmine della lunga ricerca poetica del D'Annunzio. Riemerge poi, oggi particolarmente, la tendenza a ridefinire questa fase della lirica dannunziana e a metterne in rilievo così il valore intrinseco di poesia, riguardo particolarmente all'Alcyone, come quello più genericamente culturale e di sperimentalismo letterario. Ora non v'è dubbio che, sotto il profilo delle forme dell'espressione, dell'organizzazione metrica, di singoli stilemi, le Laudi siano state testi capitali nel primo Novecento.

Talune immagini o mitologie di Rebora, di Campana e, oltre, di Montale, devono molto, per esempio, alla lezione di Maia. E non v'è dubbio, anche, che la magmaticità di alcune pagine del primo libro e l'effusività analogica e l'insistita equivalenza ritmica di altri luoghi del terzo siano dense di fascino. Ciò non basta, tuttavia, a riscattare una ideologia letteraria ed un sottostante uso del linguaggio e dello stile, che sono caratterizzati da un indirizzo fortemente reazionario e paiono del tutto inattuali, ultime voci di un secolo che muore, a fronte della problematicità e della ricchezza critica ed autocritica della poesia più significativa del Novecento. L'ideale di un progresso rettilineo e sicuro, simbolizzato dal mito di Ulisse, esploratore della lodata multiformità della vita, homo faber che puntella e sublima la Weltanschauung borghese; l'immediata trasferibilità dell'Ulisside nel superuomo, con una enfasi assordante dei ruoli dell'io lirico, demiurgicamente protagonista; il susseguirsi debordante di miti, per lo più ridondanti, sempre impiegati ad incielare la poesia, sottraendola alla crisi storicamente attiva - innescata e amplificata dalla medesima teoria nietzscheana - dei valori della società borghese; l'aulicità sforzata dello stile e una lingua sistemata nel fortissimo di un'oratiosoluta, in linea con l'irresistibile magniloquenza del superuomo; il compimento rituale dell'iniziazione dell'io-Ulisse e la funzione-guida che per esso la poesia assicura, in un rapporto di nobile correità ideologica, alla classe sociale al potere rendono marginali e connotano di altro segno, annullano infine gli effetti dello sperimentalismo linguistico (c'è chi ha parlato giustamente di monoglottia) e del verso libero, quest'ultimo meno dialettico ed antagonistico alla tradizione di quello già praticato e poi teorizzato da Lucini. Così è in Maia e in Elettra, chenon nasconde la sua pertinenza ad una scelta politica fondata su nazionalismo e volontà di potenza - scelta condivisa da molti intellettuali del tempo - e vi insedia l'ambizione del poeta a proclamarsi vate della nazione, avvicendando il vecchio Carducci; così è in Alcyone, il cui ruolo programmatico di tregua nell'avventura dell'Ulisside non nega, ma rinfocola e sposta su altri livelli di esperienza e in altri contesti la poetica dei primi due libri. Dunque il superuomo vi fa troppo spesso capolino, sia pur vestito di ulteriori panni mitologici e calato stabilmente in un Pan ditirambico. E le stesse pause di ammaliante musicalità sottendono una priorità del significante sul significato (un'autonomia del significante), nella quale celebrano i loro fasti l'investitura superomistica della poesia e la capacità magica del linguaggio di sostituire simbolicamente la realtà e di sublimare l'orrore, anche sociale. Non s'è sbagliato chi, allora, ha individuato l'epigonismo dannunziano a fronte del simbolismo europeo maggiore, gnoseologicamente più vivo e problematico. A chiosare le Laudi può valere una nota di Campana: nessuno come il D. sa invecchiare una donna o un paesaggio.

L'edizione delle Laudi precedette di pochi mesi la rappresentazione de La figlia di Iorio, che sancì la rottura del sodalizio tra Gabriele ed Eleonora. Lo scrittore era convinto che la Duse non potesse adeguatamente fare la parte di Mila di Codro; anche per questo egli pose l'attrice di fronte ad un dilemma, occasionato dall'inasprirsi della tisi di cui soffriva e che la teneva lontana dalle scene: o rinunciare o costringere a rinviare sine die la rappresentazione. La Duse se ne adontò, ma con gesto di sublime e teatrale generosità donò la pièce al suo Gabriele. Che ne usasse liberamente, lei con dignità usciva di scena. Irma Gramatica avrebbe preso il suo posto nel dramma e avrebbe contribuito al successo de La figlia di Iorio, data in prima al Lirico di Milano il 2 marzo 1904.

Il successo della pièce si deve certo al fatto che essa è pervasa da una sensualità rusticana e panica - la stessa che aveva impaginato Le novelle della Pescara del 1902, il fior da fiore de Il libro delle vergini e di San Pantaleone - la quale, se spande sul dialogo ariosità favolosa e leggerezza musicale, non evita tuttavia il cristallizzarsi di stereotipi legati alla oleografia popolaresca e contadina. Ma La figlia di Iorio, pur tra limiti e contraddizioni, è l'eccezione in una regola di ben altro segno. Il repertorio teatrale dannunziano, invero, merita assai poca attenzione perché costituisce, se possibile, una esasperazione dei programmi tonitruanti, in letteratura, del poeta immaginifico. Nella speranza di eguagliare ed oscurare la fama di Wagner, riaggiornandone i progetti con l'introduzione sulla scena di una solarità apollinea, il teatro del D. finisce per essere, il più delle volte, mera esercitazione retorica, dove rigurgiti di classicismo, improbabili aulicità, mitologie in eccesso, macchinosità strutturali, semplificazioni ideologiche e superfetazioni estetistiche si rincorrono senza soluzione di continuità. C'è un che di teatrale, in quanto narcisistica, strumentale e mercificante volontà di esibizione, nel D. e nella sua letteratura; la sua scrittura teatrale non fa che raccogliere e moltiplicare una siffatta congeniale disposizione. Nessuna pur minima attinenza alla percezione dei fermenti di una riforma di teatro e di scena: la senescenza irriscattabile della drammaturgia dannunziana è confermata, a posteriori, dalla rarità e dall'insuccesso delle sue rappresentazioni nel nostro tempo o, meglio, dall'impossibilità di rappresentazioni che non siano esplicitamente parodiche.

La rottura del connubio artistico con Eleonora Duse corrispondeva, e probabilmente rimontava, ad una incrinatura definitiva del rapporto sentimentale. Il D. aveva preso ad amare Alessandra di Rudinì, ventisettenne figlia di un ex presidente del Consiglio, vedova con due bambini, bella presenza. La relazione con l'attrice, da lui ricordata sempre con simpatia ed affetto, si concludeva tra il biasimo e il rimpianto della gente, certo nostalgica di quell'incontro di due personaggi pubblici, eccezionalmente famosi; ed era ora il turno di Alessandra, che andava a stabilirsi alla "Capponcina", resa più sfarzosa per l'occasione. La donna possessiva e poco disposta a tollerare le esuberanze di Gabriele, le spese sostenute per ampliare il personale di servizio e per nulla far mancare alla sete di mondanità della bella Nike, l'incipiente, prevedibile tracollo economico, venuti meno i finanziamenti di Eleonora Duse, costrinsero il D. ad un ritmo assai meno intenso di produzione letteraria. Fino a tutto il 1905, che segnò il termine della nuova avventura amorosa, l'immaginifico scrisse soltanto La fiaccola sotto il moggio e La vita di Cola di Rienzo e mise insieme un'antologia di Prose scelte, che sarebbe stata pubblicata nel 1906; nello stesso anno, con scarsissimo successo, fu rappresentato Piùche l'amore. Né il ritmo del geniale artefice mutò negli anni successivi, complicati da amori particolarmente sofferti e tormentosi. Lasciata Alessandra, dopo lunga malattia e difficili interventi chirurgici, egli ebbe una intensa relazione con la contessa fiorentina Giuseppina Mancini; ma anche la durata di questo rapporto fu brevissima. Scoperta dal marito ed incapace di rinunciare a Gabriele, ella ebbe una crisi nervosa che rasentò la follia, come si evince da Solus ad solam, memoriale di quei giorni pubblicato postumo nel 1939. Una donna finita tra malati di mente, nel 1908, e la sua predecessora chiusasi in convento: non c'era di che stare allegri, considerando anche i debiti crescenti del poeta, che si trovava a mantenere più famiglie e soprattutto se stesso, amante del lusso, di cani, cavalli, automobili e desideroso di rimodellare la sua vita come perfetto analogo della bellezza estenuata della sua opera. Nessuna meraviglia, dunque, se La nave e Fedra furono gli unici lavori teatrali stilati e rappresentati tra il 1908 e il 1909, l'uno a Roma, l'altro a Milano; lo stesso Forse che sì forse che no, già annunciato nel 1907, fu pronto per la stampa soltanto nel 1910. Intanto il D. aveva dovuto lasciare la "Capponcina" e si era dato ad una nuova avventura con Natalia de Goloubeff, sposa e madre di due figli: una nobildonna russa si aggiungeva al bottino dell'instancabile amante.

Forse che sì forse che no non sembra fuoruscire dalle linee ideologiche dei romanzi che lo precedono. Medesima tensione superomistica, analogo plafond mitologico, ricerca di atmosfere tra il morboso e l'inespresso, raccatto di mitologie moderne: è il turno (Marinetti ha già lanciato i suoi primi proclami futuristi) dell'infatuazione di Gabriele per gli aeroplani. Le uniche innovazioni sono di carattere formale. Un parziale abbassamento di tono, rispetto all'oratoria esagitata dei drammi e de Il fuoco, lascia trapelare le avvisaglie dello stile notturno. Per il resto, tra superfemmine e incesti (come in La città morta) e voli "pindarici", tutto come di norma. Quello del 1910 è l'ultimo romanzo del D.; ad esso seguirà la stagione frammentistica de Le faville del maglio e dei diari.

Gabriele sperava che il successo del libro e le entrate di un ciclo di conferenze di argomento aviatorio, organizzate da Pilade Fratini, gli evitassero la completa rovina. La previsione era sbagliata; i suoi beni furono posti sotto sequestro e, accettando un anticipo da Giovanni Del Guzzo, un ricco emigrato in Argentina che aveva fatto i classici ponti d'oro pur di avere lo scrittore in America latina, il D. partì per la Francia, primo scalo per il trasferimento oltre Oceano. In realtà, nonostante le proteste del finanziatore, Gabriele rimase nella Repubblica transalpina per cinque anni e vi condusse quella stessa esistenza raffinata e lussuosa che aveva circondato il suo mito in Italia. Anche a Parigi si guardò a lui con curiosità ed interesse. Furono in molti i detrattori: Marcel Proust lo ignorò, André Gide ne bollò, con un giudizio tanto velenoso quanto esatto, le smanie di arrampicatore sociale e culturale. Ma ci furono anche gli estimatori, da Anatole France ad André Suarés, da Maurice Rostand a Jean Cocteau a Maurice Barrés.

Al riguardo si rende necessario un breve inciso sulla fortuna europea del D.: ebbene, traduzioni francesi, recensioni e ammiratori dell'età dell'"esilio" a parte, di Gabriele non vi sono che labili echi nel nostro continente, al più fugaci imprestiti dalla sua opera, che confermano quanto l'importazione (strumentale e provinciale) superò di gran lunga l'esportazione nel bilancio culturale e letterario del prolifico vate. Un esempio può valere per tutti. Joyce deve all'epifania del fuoco, dall'omonimo libro dannunziano, l'etichetta di un nucleo fondante della sua poetica. Ma concetto e valore della sua epifania sono ben altri da quelli che il D. ha suggerito. Se ne rende conto anche il dublinese che prima fa un gran parlare, quasi in una infatuazione da adolescente, della narrativa dell'immaginifico e poi, chiaritasi la strada innovativa del monologo interiore, ripudia quel primo amore come un errore di gioventù. Celiando, si può dire allora che c'è del fuoco dannunziano in Joyce, ma si tratta di un classico fuoco fatuo.

Il tempo da dedicare a Natalia de Goloubeff, che amorevolmente l'aveva accompagnato nell'"esilio", non era poi tanto; tra l'altro, non mancavano al poeta abruzzese occasioni per nuove amicizie, come quella, si dice platonica, per la pittrice americana Romaine Brooks. Ad Arcachon sull'Atlantico, presso lo chalet Saint-Dominique, foraggiato dall'editore parigino G. Calmann-Lévy, il D. compose Le martyre de saint Sébastien, opera musicata da Débussy e interpretata dalla danzatrice Ida Rubinstein nel maggio del 1911. L'accostamento di misticismo ed erotismo, in una pièce che rifiutava volontariamente la partizione strutturale del dramma ed atomizzava la forma del "mistero sacro" nello sfolgorio di un impressionismo musicale, provocò un pesante intervento delle autorità religiose e tutta l'opera dannunziana fu messa all'Indice. Gli echi e le discussioni sul provvedimento censorio segnarono un improvviso rialzo delle quotazioni dell'immaginifico.

Gli arredi della "Capponcina" furono messi all'asta. A curare gli interessi di Gabriele fu Luigi Albertini, direttore del Corriere della sera. Con i ricavi della vendita i primi creditori poterono essere pagati; a saldare le varie spettanze provvide nel tempo una oculata amministrazione, da parte dello stesso giornalista, dei diritti d'autore e dei proventi delle collaborazioni. Il D. aveva mal digerito che il governo italiano non avesse assunto l'onere dei debiti contratti dal vate nazionale e, per risolvere un problema ormai annoso e improcrastinabile, si dette ad una frenetica attività. A partire dal luglio del 1911 pubblicò sul quotidiano milanese, sotto il titolo Le faville del maglio, una serie di scritti autobiografici; lo stesso foglio ospitò dieci canzoni encomiastiche dell'impresa coloniale e fu costretto a censurare La canzone dei Dardanelli, per il suo tenore violentemente antiaustriaco. Ma tutte le liriche, poi rifluite in Merope, pubblicata da Treves nel 1912, avrebbero meritato ben altra censura, per l'iperbolica aulicità, le croste mitografiche, il vecchiume stilistico, la programmaticità sfacciatamente propagandistica in senso reazionario, il kitsch metrico - un ridicolo riuso delle terzine dantesche - che le caratterizzano. Con il libro, il quarto delle Laudi, il D. si candidava a poeta civile, nazionalista principe delle patrie lettere. Aver cantato, con enfasi e con presupponenza classicistica, le gesta del conflitto con la Turchia per la conquista della Libia era un ottimo investimento e, di lì a qualche anno, gli avrebbe procurato altissimi profitti.

Nello stesso periodo, che aveva visto la morte di Giovanni Pascoli e l'offerta, con subitaneo rifiuto, della sua cattedra di letteratura italiana all'autore de Il fuoco, Gabriele elaborò la Contemplazione della morte, riflessioni di taglio notturno sul destino umano pubblicate dal Corriere della sera e raccolte in volume per i tipi di Treves, e il proemio a La vita di Cola di Rienzo, ricco di notazioni sul periodo più fulgente della "Capponcina".

Fiorente fu anche, tra il 1912 e il 1914, l'attività di Gabriele in ambito cinematografico e teatrale: per la decima musa egli stese il soggetto di La crociata degli innocenti e di Cabiria; per le scene scrisse Parisina, La Pisanelle, musicate da Mascagni e da Pizzetti, e Le chèvrefeuille, dramma rappresentato in Francia il 14 dic. 1913 e poi in Italia con il titolo Il ferro. Ma, oltre alle prime "faville", è senza dubbio La Leda senza cigno, apparsa in sei puntate, nell'estate del 1913, sulle pagine del Corriere della sera, l'opera dannunziana meno caduca di quel tempo.

Si tratta, come ha notato E. De Michelis, di una serie di trame senza racconto, nelle quali la smilza struttura dell'intreccio è il pretesto per un susseguirsi di ricordi, riflessioni, divagazioni, sistemati in un linguaggio talora privo di orpelli e quotidiano, spesso liricamente intonato. Ma sarebbe vano attendersi da La Leda senza cigno procedimenti d'avanguardia o radicali disarticolazioni linguistiche o monologhi interiori o qualunque altra forma di scrittura che qualificherà le innovazioni del genere narrativo nella cultura letteraria del Novecento. Il sottofondo di quelle pagine è il tono tendenzialmente classicheggiante già dell'Alcyone, votato alla definizione di un rapporto pieno e positivo tra l'io e la realtà.

Per quanto l'amministrazione oculata di Albertini, gli articoli sul foglio da lui diretto, le collaborazioni remuneratissime con la catena di giornali americani del gruppo Hearst, i diritti d'autore avessero allentato la morsa del dissesto finanziario, il D. era ben lontano dall'aver risolto i suoi problemi economici. Inoffensivi i pochi italiani non ancora liquidati, erano stavolta i creditori francesi, gestori di hôtels e negozianti, che non concedevano tregua nel pretendere le spettanze dovute. L'immaginifico fu costretto a lasciare Arcachon e a ripiegare con Natalia a Parigi sotto la controffensiva nemica; ma, per paradosso, un'altra guerra, per tutti tragica e traumatica, avrebbe salvato Gabriele dalla sua piccola guerra privata. Era scoppiato il conflitto mondiale e quando, dopo momenti di indecisione, si era profilata l'iniziale neutralità dello Stato italiano, il D. si recò sul fronte francese come inviato del Corriere della sera. Era un'occasione perché l'"esiliato" recuperasse nel paese d'origine le posizioni perdute e l'immaginifico, con l'entusiasmo di chi vede prendere corpo la sua ideologia bellicista, non se la lasciò scappare. Fu così che egli avviò una fitta azione di propaganda per l'entrata in campo dell'Italia a fianco della Francia. Che, allo scopo, fosse persino stipendiato dal governo transalpino è ipotesi sostenuta da taluni ma mai verificata. È certo, invece, che, per una sorta di gratitudine, le autorità avevano sospeso il sequestro dei beni ad Arcachon e che quella della mobilitazione politica e culturale per l'intervento italiano nel conflitto era, a tutti gli effetti, la carta vincente. E infatti lo scrittore fu invitato a rientrare in patria per celebrare l'inaugurazione a Quarto del monumento ai Mille. Il discorso che vi tenne il 5 maggio del 1915, l'Orazione per la sagra dei Mille, fu il primo di una serie, raccolta nello stesso anno sotto il titolo Per la più grande Italia, incentrata sulla necessità di ripudiare ogni neutralismo e di aprire le ostilità contro la Triplice. Dichiarata la guerra, il D. rifiutò con sdegno ruoli unicamente propagandistici e volle arruolarsi. È da condividere il giudizio di Roncoroni, che dice vano malignare sulle motivazioni di quella scelta e sull'autentico significato di un attivismo davvero abnorme per un cinquantaduenne e, infine, sul tasso di mitizzazione nei resoconti delle res gestae del poeta-soldato.

Tra un'impresa e l'altra, agli sgoccioli dell'anno 1914 e agli inizi del 1915 il D. compose i Canti della guerra latina; nel periodo di forzato riposo al buio, causato dal raid fallito su Zara - alla eroicizzazione delle circostanze legate alla perdita dell'occhio hanno fatto da paio altre maliziose e diseroicizzanti interpretazioni -, stilò le note del futuro Notturno e compose la Licenza, pubblicata con La Leda senza cigno nel 1916; nel 1917 la morte della madre segnò un momento di autentica sofferenza. Se si aggiungono a siffatti avvenimenti le pause dorate nel lusso di palazzi veneziani, le frequenti avventure amorose (si dice autorizzate dal governo, sicché ci furono proteste in Parlamento da parte socialista), il dispendio di denaro, gli incontri regolari con Olga Levi (che gli fu accanto dal 1916 al 1919), le riunioni riccamente conviviali con gli amici di sempre (in particolare Albertini ed Ojetti), si ha la conferma che la guerra guerreggiata dal D. è stata ben altra da quella vissuta tragicamente sul campo da un qualunque fante italiano o da altri intellettuali dell'epoca. Quella guerra, affrontata certo con audacia, la quale di fatto era enfatizzata ed impiegata politicamente a produrre consenso, costituiva il naturale spostamento sul piano della prassi (e una prassi preservata, persino favorita, nelle sue matrici di bellezza) di una ideologia e di una mitologia letterarie da sempre dannunziane: una superomistica, mistificante estetizzazione della politica.

Terminata la guerra, passato meno d'un anno, si lanciò nell'impresa di Fiume, da cui uscì il 26 dic. 1920. Benevolmente amnistiato da Giolitti, che non arrischiò a perseguire il popolare protagonista di un'eroica azione italiana, il vecchio poeta-soldato ripiegò in una villa, già proprietà di Henry Thode, situata a Cargnacco nei pressi di Gardone Riviera. Era il 1921; tra i fedelissimi che lo seguirono l'amante Luisa Baccara. Nella quiete del paesaggio lacustre, il primo intento di Gabriele fu di tornare a dedicarsi esclusivamente alla letteratura. Si occupò della pubblicazione dei suoi discorsi di guerra, rielaborò ed affidò all'editore Treves la stampa del Notturno, che vide la luce nel novembre del 1921.

Dal libro prende il nome l'ultima stagione letteraria del poeta abruzzese, che molti critici hanno rivalutato rispetto alle precedenti. Un linguaggio più dimesso, baluginante di ricordi e smagliato, talché sembra che sensazioni e dettati interiori acquistino una autonoma evidenza (e Marinetti, pro domo sua, rinvenne nel Notturno le tracce, in verità smentibili, di una conversione al futurismo); un taglio memorialistico che spezza la solarità di proclami universali e asseconda il respiro breve e sfumato del frammento impressionistico testimonierebbero a favore della sincerità dell'opera, sottratta ormai alla rigidità di un controllo linguistico e stilistico senza deroghe, sordo a qualunque mormorio del rimosso. In particolare, l'apparizione della figura materna, sfinita preda della morte, confermerebbe il nuovo corso della scrittura dannunziana. Ma, a parte la considerazione che gli anni di stesura del Notturno sono gli stessi nei quali la poetica del frammento, suggerita da La Voce di De Robertis, prende quota e si afferma nel milieu letterario italiano, non vanno taciuti gli scatti superomistici, la patina di sublime, la convalida mitologica, il dominio demiurgico dei materiali semantici del testo, che il libro del 1921 profonde a iosa. Il Comandante senza vista che detta le sue sensazioni alla Sirenetta ha, invero, la vista lunga del vaticinatore, dell'oracolo che legge (in buona prosa d'arte, modello rondiano) la realtà sotto le apparenze e ne spezza il pane per i comuni mortali. Non c'è insomma alcun sintomo di crisi di ruoli e potenzialità intellettuali, la medesima che siglerà (che ha già siglato) il Novecento letterario più autentico e stimolante. Quella del frammento e della stratificazione memoriale nel Notturno è una forma ulteriore di ricomposizione del mandato sociale destinato allo scrittore (e da Gabriele sempre rispettato) dalla classe al potere.

Il D. si abbandonò dunque alla letteratura. La sua velleità di prim'attore ebbe uno degli ultimi sussulti in rapporto alle tensioni sociali che sfociarono nel fascismo. Agli inizi del 1922 egli seguì e patrocinò il costituirsi della Federazione italiana dei lavoratori del mare, estrema occasione per estrapolarsi uno spazio politico autonomo, definito dai lasciti dell'esperienza fiumana e vagamente oppositivo al programma del partito fascista. Nell'agosto dello stesso anno, rivestì i panni del pacificatore nazionale, tentando un vertice a tre con Nitti e Mussolini. Un misterioso incidente, subito nella villa di Cargnacco, rese quell'incontro un appuntamento mancato: era la conferma, se si vuole motivabile anche psicanaliticamente, di un atteggiamento attendistico, dove l'astensionismo risultava connivenza mascherata con lo svolgersi della dialettica politica in atto.

La marcia su Roma trovò il Comandante estraneo e passivo, probabilmente disinformato, al più dispensatore di inutili consigli. Da quel momento la dannunziana divenne la storia di una vita da museo. Mussolini non si sentì di attribuire al poeta una funzione politicamente pregnante, che avrebbe potuto essere, alle lunghe, concorrenziale e avrebbe potuto riproporre una ideologia individualistica (quella all'origine dell'impresa fiumana) del tutto irriferibile agli organigrammi immediati del regime; e tuttavia giudicava inopportuno rinunciare completamente al D., utile e popolare pater patriae con giustificazione culturale di rinforzo: il vate nazionale andava dunque associato al nuovo establishment, purché rimanesse l'innocuo simulacro di un ideale totalmente sganciato dalla prassi.

Il poeta, d'altro canto, ricambiava con altrettanta ostilità, più estetistica che ideologica, il duce e il gruppo dirigente fascista, ma comprendeva di non aver né l'energia né la volontà né le alleanze né le occasioni politiche per uscire allo scoperto. Il giusto compromesso fu facile a trovarsi. Mussolini operò e il D. accettò che intorno alla sua figura, a sacralizzarla ed imbalsamarla, sorgesse il funebre museo del Vittoriale. La Federazione italiana dei lavoratori del mare, riconosciuta legalmente, fu inglobata dal regime; la pratica della donazione della villa di Cargnacco, acquistata dallo scrittore nel 1922, fu portata a compimento; e non mancarono elargizioni a Gabriele: il titolo di principe di Montenevoso nel 1924, la nave "Puglia" e il mas di Buccari, la creazione di un Istituto nazionale per la pubblicazione di tutte le opere del poeta, che gli consentì di vivere sfarzosamente il resto dei suoi giorni.

Dei rapporti del D. con il fascismo al potere pochi e poco significativi episodi pubblici: il Comandante gravitò, ideologicamente connivente, nell'orbita dello Stato dittatoriale, plaudendo all'avventura di Etiopia - Teneo te, Africa, 1936 -,invitando la Francia a rimuovere ogni atteggiamento ostile - Aux bons chevaliers de France et d'Italie, 1935 -; manifestò timide perplessità, nel 1937, soloper l'alleanza italo-tedesca. Qualche piccola insubordinazione rimase confinata in incontri confidenziali con amici fidati e nello scambio epistolare con il duce, nella visuale ristretta della richiesta di personalistici favori. Del resto la statalizzazione del Vittoriale consentiva a Mussolini di esercitare un controllo e una censura garbati ma perentori. All'uopo, in funzione di sorvegliante della villa, era stato nominato un apposito commissario.

Notturna, consegnata alla pesante oscurità del monumento nazionale sul Garda, fu la vita oltre che l'opera dannunziana dell'ultimo periodo. Notturno il clima di Le faville del maglio, raccolte nel 1924 e poi nel 1928,in seconda edizione.

L'opera, in prima redazione, contiene Il secondo amante di Lucrezia Buti, che Landolfi prende ironicamente a modello di un improbabile, inattuale respiro narrativo, completamente sottratto alle contraddizioni di cui lo scrittore è portatore, specie quando assume, e non riesce a parlarne se non nell'autoconsapevolezza della finzione e della menzogna, se stesso a referente. La seconda edizione è occupata per intero da Il compagno dagli occhi senza cigli, a sua volta occupato dalle res gestae di un divino infante, dai tratti, neppure tanto impliciti, di superuomo.

Notturna, con erotici bagliori retorici in pieno, l'atmosfera tanatologica del Carmen votivum, mitizzante diario di coiti edito nel 1932.Notturna, ma non senza la preziosità splendente della prosa d'arte, allora al canto del cigno, l'impostazione di Cento e cento e cento pagine del Libro segreto, pubblicato da Mondadori (Milano-Verona 1935). E buio addirittura, ultima e vuota esercitazione, fu Le dit de sourd et muet qui fut miraculé en l'an de grâce 1266, apparso nel 1936,mentre Mondadori già cominciava a ristampare l'opera omnia dello scrittore. Gli ultimi prodotti furono partoriti stancamente e a fatica, soprattutto di notte, nell'"Officina", lo studio del mausoleo stipato di libri. Le altre stanze erano tutte arredate, dall'architetto Giancarlo Maroni, con oggetti e cimeli straripanti: un museo di kitsch.

Nella "Prioria" Gabriele trascorreva in prevalenza le sue giornate e riceveva, raramente, gli amici, quando non usciva, ma le uscite furono sempre più rare, per brevissime puntate nei dintorni. Nella stanza della Leda, invece, accoglieva le sue amanti che, variate di continuo e spesso prezzolate, facevano effimera corona alle amanti maggiori, Luisa Baccara e Aélis Mazoyer, ospiti stabili nella villa. Durarono più a lungo solo i rapporti con Elena Sangro e con tale Titti o Tormentilla, ultima passione dannunziana. Le avventure amorose del periodo, estremo tentativo di surrogare e di fingere un fervore vitalistico ormai spento, non evidenziano tanto deviazioni e perversità, quanto si colorano delle tinte fosche della morte. E tanatologiche furono le residue manie dannunziane: il suo misticismo francescano, l'attrazione per lo spiritismo, la probabile (alcuni biografi l'hanno supposta) compagnia della droga. In quei rituali il D. recitava le battute finali di un poeta divo che aveva caratterizzato un'epoca e deciso gli orientamenti del gusto. Ma le recitava senza spettatori, nel vuoto di una scena (nel tono di un epicedio) abitata da un alter ego, da un doppio contrassegnato dalla morte: così gli ultimi ritratti fotografici di un Gabriele stanco, consunto, annoiato.

Il D. morì improvvisamente, il 1º marzo 1938, nel suo museo del Vittoriale. Era di sera quando avvertì un malessere. Sopraggiunse un'emorragia cerebrale a dargli il colpo di grazia.

"Fin da' miei primi anni/ io volli divenire/ quel che sono", scriveva il D. in una pagina de Le faville del maglio, l'opera che segna una tappa decisiva nel suo cammino regressivo dal romanzo alla prosa autobiografica, di cui, alcuni anni più tardi, i cupi infrasuoni de Il Notturno saranno l'espressione più preclara di una involuzione, non tanto narrativa, quanto vitale. Quell'aforisma il D. l'aveva altre volte espresso, lo ripeterà spesso ancora.

Come tutti gli aforismi, tra gli innumerevoli che le fonti dannunziane ci propongono, può essere assunto come una chiave biografica. È un "volli" privo di sostanziale eticità, cosicché nessun biografo l'ha raccolto, per compararlo con quello di alfieriana memoria. Ma indica una relazione puntuale, tra quell'insieme eccezionale di naturali talenti di cui il D. fu dotato e le circostanze storiche attraverso cui passarono le sue esperienze, che fu un riuscito connubio, fin dall'adolescenza, quando la sua personalità, avida, sensuale, felicemente osmotica e creativa, seppe continuamente nutrirsi di idee, d'immagini, di persone e cose, per tradurle immediatamente in sensazioni, pensieri e simboli, ch'erano i suoi e insieme quelli di un'epoca. Con fragilità di pensiero, ma con un'istintualità profonda, riuscì per un trentennio a solcare da protagonista una delle parabole più significative della decadenza culturale e civile della società europea, fino ad esaurirsi, alle soglie della prima guerra mondiale, perdendo via via le sue facoltà "immaginifiche" e trasmutando, ancora con istintiva consapevolezza, il "poeta" nell'"eroe", per farsi, questa volta senza averlo voluto, il "politico" dell'impresa fiumana, costretto allora per la prima volta non più ad abbracciare soltanto le circostanze, ma a cercare d'andare oltre ad esse, fallendo clamorosamente, o meglio preferendo a quest'ultima prova, la prigione del Vittoriale.

Cogliamo ancora almeno due cesure profonde nella sua biografia "politica", una interna, che è l'esaurirsi del sostrato vitale della sua creatività letteraria e che si esplicita tra l'esilio parigino e il trionfale ritorno sullo scoglio di Quarto, dove con tempestività di giudizio De Robertis diceva di aver "sentito il suo ingegno, sciupato e stanco" e non "la sua persona", poiché "la figura è rimasta nascosta dalle parole" (La Voce, VII[1915], p. 892). L'altra, di natura esterna, più propriamente politica, all'indomani della marcia su Fiume, quando, nella crisi italiana del dopoguerra, dovette, forse per la prima volta, assumersi la responsabilità del suo ruolo e non gli fu più possibile reggersi "in equilibrio con agile eleganza sulla tenue corda della probabilità distesa a traverso gli abissi" (Prose di ricerca, III, Milano 1950, p. 334).

Ma proprio perché è solo da quella data che si può esprimere un giudizio propriamente "politico", l'approccio al "D'Annunzio politico" non può essere, per buona parte, che trasversale, deve cercare di dar conto su quanto una vasta letteratura storiografica ha insistito e continua ad insistere, d'un D. crogiuolo di pensieri e stili reazionari, soprattutto anticipatore, sulla base di una acuta intuizione pratica, della nascente società di massa, di un rapporto nuovo tra lo scrittore e il suo pubblico e ancora, al di là di esso, di una moderna e nuova forma della "comunicazione".

Come precursore italiano del pensiero negativo, va detto che il D. fu soprattutto un traduttore e arredatore di idee, che seppe esprimere anche in simboli e stili di comportamento. Nessuna di queste idee era originale. Precisa era invece la percezione di chi ne fossero i destinatari.

In un'intervista ad Ugo Ojetti del gennaio 1895 parlava di "migliaia e migliaia di volumi che si propagano come foglie di una foresta battute da un vento d'autunno", di cui l'intervento della stampa quotidiana e periodica allargavano sempre più l'anonima platea. Su la Tribuna, nel terzo degli articoli dedicati a La morale di Zola, aveva opinato che "l'opera d'arte è determinata dalle condizioni generali dello spirito e dei costumi presenti nell'epoca" e che non era "possibile resistere alle pressioni dello spirito pubblico" (15 luglio 1893).

In effetti egli, prima e più di alcun altro in Italia, aveva saputo interpretare ed esprimere l'atmosfera della crisi di fine secolo che attraversava tutta la cultura europea, e si era mostrato abile a raccoglierne qui e là tutti gli sparsi elementi, a smontarli e rimontarli, in labili e suggestivi messaggi. Si è parlato del "miracolo", compiuto dal D., di forzare ad una circolazione culturale di massa una serie di miti che, nella loro sostanza, erano tipicamente elitari e antidemocratici (Asor Rosa, p. 109). Ma questo "miracolo" da più di mezzo secolo era stato largamente compiuto dalla letteratura tardoromantica europea, e aveva improntato di sé la cultura e il costume dei nuovi ceti medi. In Italia non era stato propriamente così, per il legame stretto che la cultura romantica aveva avuto con la questione nazionale. Ora, proprio il D., nel riproporre con ritardo questo tema, operava una delle più emblematiche fratture con la cultura del Risorgimento.

Valga solo uno spunto significativo: Giosuè Carducci, scrivendo al D. per ringraziarlo della Laude composta in suo onore su Il Giornale d'Italia (12 maggio 1903), osservava: "io fin dal principio mi proposi di dire espresso quello che mi stava dentro senza guardar in faccia la gente. E lo feci. Ciò fu tutto. I modi, gli effetti, i premi del gesto sono da te veduti in una luce troppo siderale, che mi abbaglia". Del resto di "Risorgimento" c'è poco nell'opera sua e per quel poco che c'è valgono le osservazioni che già il Croce faceva a proposito de La canzone di Garibaldi, dove "non c'è patria, non c'è popolo, non c'è libertà, niente di quello che compone la figura storica del popolano di Nizza" (1914, p. 38).

Questo mutamento di accenti era peraltro nell'aria e il D. lo coglieva già a piene mani negli anni del suo primo soggiorno a Roma, dove era approdato nel 1881, negli ambienti giornalistico-letterari e mondano-politici, in particolare quello de La Cronaca bizantina. L'itinerario elettivo percorso dal giovane D. non era l'unico esclusivo che la nuova capitale offrisse. Qualche anno dopo, un altro, ad esempio, ne avrebbe intrapreso il Croce, tra la casa dello zio Silvio Spaventa e le lezioni di Antonio Labriola.

Ma in quella cerchia di giovanissimi che il Sommaruga aveva raccolto intorno alle sue iniziative editoriali, da Edoardo Scarfoglio, a Matilde Serao, al D. stesso, l'atmosfera non era solo "giovanile", ma "generazionale", da molti definita "ambigua", per la "carenza di approfondimento ideologico che non permetteva a questi scrittori di ben valutare i mezzi di cui si servivano, di condurre una battaglia culturale, la quale fosse in grado di mettere davvero in crisi certi valori" (Alatri, 1983 p. 30). C'era tuttavia un'ansia di novità che accomunava motivi diversi, di natura estetizzante, aristocratica, antiborghese, antipopulistica ed insieme nazionalista, motivi spesso tra loro contraddittori, superficialmente espressi e iterati, ma che tutti indicavano un diffuso desiderio di uscire dall'ambito della tradizione della cultura "unitaria". E tra le contraddizioni c'era anche la pretesa di una continuità, almeno letteraria, che si esprimeva, ad esempio, proprio nell'omaggio al Carducci, che era già consapevolmente soprattutto pretesa ad una successione, d'essere il nuovo "vate d'Italia".

Maturavano già qui i germi di un giudizio, che per i connotati politici che assunse venne a definire l'epoca giolittiana: l'immagine dell'"Italietta" infatti ha quest'origine culturale precoce. E come tutte le sensazioni espresse, ma poco riflettute, poteva adattarsi agli stimoli diversi che il processo di sviluppo economico e sociale, che in quegli anni prendeva forma anche in Italia, faceva sorgere da più parti. La formula del governo liberale, che sarebbe prevalsa fino alla guerra mondiale, costituì una risposta efficace a questo mutamento, che tuttavia costringeva necessariamente non solo entro precisi alvei istituzionali, ma portava ad una concezione realistica dei rapporti di forza politici e delle forme di accumulazione e distribuzione della ricchezza. La congiunzione di questi due elementi, quello istituzionale e quello politico, alimentava un rinnovamento profondo della cultura italiana a cavallo del secolo, nella filosofia, come nel diritto, nell'economia e nelle scienze sociali in genere. Ne uscivano ipotesi di azione che potevano così convivere, pur nella tensione anche estrema dei motivi ideologici.

Quando, ad esempio, si guarda alla vicenda del nazionalismo italiano tra il 1910 e il 1914, alla pressione anche eversiva che essa prese ad esercitare sugli equilibri politici dell'Italia liberale di allora, non si può non constatare che, al di là delle suggestioni delle sue frange "letterarie" e delle spinte "irredentistiche" che la componevano, essa fu, nella elaborazione dei suoi esponenti più consapevoli, da Corradini a Carli e a Rocco, opposta, ma ugualmente realistica, nel connotare il livello raggiunto di sviluppo economico e le implicazioni sociali che ne derivavano, la conseguente idea stessa di un "piccolo, imperialismo".

Il nazionalismo del D., quello che non si esprime solo nel corso di un trentennio nelle sue "poesie civili", dalle Odi navali, alle Canzoni delle gesta d'Oltremare, e alla composizione teatrale de La nave, ma, con forme diverse, in più luoghi della sua opera letteraria e della sua intensa attività pubblica, comporta invece sempre la negazione d'ogni limite, è una "poetica" della "rimozione del limite". La sua suggestione sta proprio così nel non essere "politica", e neppure "impolitica", ma propriamente "apolitica". La chiave del "D'Annunzio politico", dell'influenza che ebbe sui sentimenti civili e politici, sta dunque forse proprio in questa sua essenza "apolitica", che lasciò una traccia probabilmente profonda nella "mentalità" italiana, nella misura in cui andava indirettamente a congiungersi con le sue radici cattoliche e rurali, con l'idea che le ragioni alte della vita, non solo individuale, ma anche sociale, si collocassero tutte al di là della politica.

Senza cogliere questa sostanziale "apoliticità" del ruolo dichiaratamente assunto e svolto dal D., è difficile intendere le contraddizioni che attraversano gli aspetti più espressivi della sua opera e dei suoi comportamenti, nonché quell'ambiguità che facilmente diventa propria della stessa critica e storiografia dannunziana, quando intende spiegare i volubili intrecci d'un estetismo, culto aristocratico, di volta in volta Biedermeier, preraffaellita, semplicemente decadente, della Bellezza, con una latente reminiscenza positivistica, forse eco non sopito dell'unico insegnamento universitario seguito negli anni della giovinezza a Roma, quello dei Moleschott, che era culto del progresso e soprattutto della tecnica, apoteosi della macchina; d'un elitismo, che individualizzato in una superficiale nozione di superomismo nicciano, stentava a specificarsi, anche nei programmaticamente più maturi romanzi, Le vergini delle rocce e Il fuoco, in un concetto sociologico di élite, ed era, per sua natura, certamente antidemocratico, ma difficilmente definibile come "classista", o razzista, anche nel rituale sfoggio della moda darwinistica, giacché non c'era popolo, neppure plebe, perché soprattutto "troppo poco umano". Così il bisticcio tra la sua polemica antiborghese, anzi, a tratti anticapitalistica, e la sua sostanziale funzione classista, nella specie nazionalista, che pure si colloca fuori dalla più naturale traiettoria storico-politica attraverso cui il movimento nazionalista trovò modo di emergere. E lo stesso dilemma si propone nei riguardi di definizioni come "autentico fondatore del movimento fascista", o "il Giovanni Battista del fascismo", che, come ha bene illustrato il De Felice, fanno torto alla complessità di suggestioni e motivi ideologici, sociali e politici che il D. volle tenere presenti, quando solcò da protagonista la scena politica dei primi anni del dopoguerra, perché, infine, come lucidamente ha raccontato Nino Aleri, non fu "fascista", salvo non aver saputo e voluto essere, di fronte al fascismo, Gabriele D'Annunzio, come più facile gli era stato in regime liberale.

Ciò non toglie che del nazionalismo il D. fu anticipatore; e poi interprete, se non della sua politica, certo di quanto d'italico aveva il suo involucro ideologico.

Precocemente, nel 1896, era stato l'ispiratore de Il Marzocco, la rivista fiorentina diretta da Enrico Corradini, e in cui, rispetto ad altri più diretti impegni editoriali che egli si era, sempre per brevissimo tratto, venuto assumendo, com'era stato per la Cronaca bizantina, nella sua riviviscenza sotto l'egida del principe Maffeo Sciarra, tra il 1885 e il 1886, e per Il Convito, nel '95, dove a fianco del De Bosis aveva fatto appello contro i "nuovi barbari", cioè i suoi contemporanei, più netta era stata l'intenzione politica, almeno come reazione diretta e violenta ai fermenti democratici che percorrevano la società civile italiana, in primo luogo l'avvento del socialismo e il riemergere del cattolicesimo, nei suoi primi fermenti "popolari".

L'anno seguente, nell'agosto dell'anno 1897, annunziava al suo editore, Emilio Treves, d'essere "capace di tutto" e concorreva per un seggio alla Camera dei deputati, in un'elezione parziale del collegio di Pescara, contro il repubblicano Carlo Altobelli. Fu il "candidato della Bellezza", e durante la campagna elettorale pronunziò il "discorso della siepe" (quella "che limita il campo lavorato, o agricoltori. Voi l'amate ed io l'amo, se fiorisca di bianchi fiori, se risplenda di rosse bacche"), in cui si è detto "c'è tutto: l'anticapitalismo, l'antisocialismo, l'ideologia piccolo-proprietaria, i valori della razza, il nazionalismo bellicista" (Asor Rosa, p. 119).

Si mantenne in carica per circa due anni fino alle elezioni del giugno 1900, battuto a Firenze dal conservatore T. Cambray-Digny, non prima di aver compiuto il "salto della siepe". All'inizio si era seduto, senza mai prendere la parola, sui banchi della Destra. Negli scontri parlamentari sulle leggi eccezionali proposte dal gen. Pelloux, il 24 marzo del 1900, silenziosamente scese nell'emiciclo e passò su quelli della Sinistra. "Come uomo d'intelletto vado verso la vita" disse allora e partecipò anche, nella saletta rossa di Montecitorio, ad una riunione dei deputati dell'Estrema. Attaccato per l'episodio, nella successiva campagna elettorale, così si giustificava: "Mi piacque di entrare un istante nella fossa dei leoni, ma vi fui spinto da disgusto per gli altri partiti. Il socialismo in Italia è un'assurdità. Da noi non c'è alcuna possibilità politica che quella di distruggere. Tutto ciò che adesso esiste è nulla; è marciume; la morte che si oppone alla vita. Bisogna dapprima tutto saccheggiare. Un giorno scenderò nella strada" (Le Temps, 8maggio 1900).

Il "poeta" dava così un saggio oggettivo dei suoi limiti politici. La classe dirigente italiana di quel primo scorcio di '900 non ne aveva sotto questo aspetto alcuna considerazione. In questa occasione, come in altre, da più parti, i giudizi erano aspri e liquidatori. Più tardi, vista in una prospettiva più storica, questa rapida capriola attraverso il socialismo poté anche essere interpretata come una sensibilità confusa, ma pur sempre significativa, verso quanto, dal punto di vista eversivo, poteva accomunare chi si poneva contro lo Stato democratico parlamentare e il regime borghese che ne costituiva il sostegno, come il segno anticipatore di una ricerca di vie nuove, che si ripeterà con l'impresa di Fiume, che lo fece apparire allo stesso Lenin come un possibile autentico "rivoluzionario". Ma, ad esempio, l'avversione di Sorel per il D. non subì ripensamenti e Barrès, che lo aveva conosciuto in un contesto a lui più propizio, a Parigi, durante il suo "esilio", con sufficienza francese lo definirà, in modo singolarmente profetico, anche se riduttivo, "ce dur petit soldat".

Senza "scendere nella strada" fu indubbiamente un "distruttore" e un "saccheggiatore", sia dello spirito pubblico italiano, sia della cultura coeva. E, per intendere ciò, occorre ripercorrere le suggestioni più interne della sua opera letteraria, come egli intese e seppe diffondere, in una sorta di vulgata italiana, i motivi di crisi della cultura europea di fine secolo. Nella sua esperienza di letterato e di "intellettuale" troviamo quella coerenza, che nei suoi atteggiamenti privati e pubblici risulta scomposta e mondanamente evasiva. La sua formazione è segnata da un percorso, che più che di pensieri, fu di letture, ma intensamente vissute e non casuali: Dostoevskij, Darwin, Nietzsche preminentemente, anche se poi intorno ad essi ruota un caleidoscopio di spunti e suggestioni altrove attinti.

Tullio Hermil, il protagonista de L'innocente, esprime l'inestinguibile istinto del delitto, soffre la colpa, ma non intravvede neppure per contrasto la forma individuale del riscatto. Quest'ultima, del resto, è una carattetistica che accomuna tutte le incarnazioni letterarie del D., salvo, non a caso, lo Stelio Effrena del Fuoco, a cui la sinopia del romanzo destina una possibile sublimazione "artistica". Ma il sentimento dell'"innocenza", che troviamo in tutti i personaggi di Dostoevskij, quando non sono corrosi dalla lucida superbia della ragione, è un'impossibilità storica a vivere una catarsi mistico-religiosa. Di questa frattura profonda dell'io, che lo scrittore russo coglieva nella sua epoca fino alle estreme conseguenze individuali, il D. sembra cogliere solo la faccia opposta, cioè il destino "impuro".

Così è dei suoi superuomini, segnatamente Giovanni Aurispa del Trionfo della morte e Claudio Cantelmo delle Vergini delle rocce, che intendono la sconfitta moderna della morale e della ragione, quali forme del dominio dell'uomo, ma che in virtù di un innato vitalismo non intendono rinunciare a quest'ultimo, senza però sapere come e perché, altro che confusamente. Ora quello di Nietzsche è un pensiero "critico" e non "pratico", come cercava di tradurlo D'Annunzio. Zaratustra è l'incarnazione simbolica di una nuova metafisica, non una banale morale dell'azione, e, se in essa la sconfitta della ragione, del logos, postula l'azione, questa non è propriamente l'azione dell'uomo, cosicché anche qui il D. non intende penetrare più che tanto i fondamenti critici di questa metafora metafisica del superuomo. A quindi giusto dire "che il 'superuomo' dannunziano è solo il simulacro di quello di Nietzsche: resta infatti ancorato ai due poli essenziali della figura del poeta, che il D. era impegnato strenuamente a restaurare, e cioè l'estetismo e l'attivismo politico a base nazionalista" (Asor Rosa, p. 115).

In un articolo de Il Mattino (25-26 sett. 1892), dal titolo La bestia elettiva, dava un primo saggio di recezione della moda darwinistica, con un'irruenta polemica antiparlamentare, per affermare che "gli uomini saranno divisi in due razze", che sarebbe stato meglio dire due "classi", secondo la teoria elitista (di cui egli aveva orecchiato le formule), ma che il D. voleva "naturali" e non "sociali", e il "naturalismo" era il suo, non quello di Darwin, la cui scienza naturale della specie si era già prestata a più interpretazioni ideologiche.

Anche rispetto a queste suggestioni critiche del pensiero contemporaneo il D. compie dunque una interpretazione riduttiva, che è il rifiuto di seguirne e approfondime le ragioni critiche, forse la sovrapposizione ad esse del suo innato vitalismo, un suo essere nella vita invero assai poco problematico, ridotto ad alcuni elementari ed intensi elementi, il piacere, il dolore, l'amore e la morte, cui rimaneva "ferinamente" attaccato. E questa sua indisposizione ad elaborare le suggestioni e i pensieri, che pure percepiva, quando dalla sfera individuale passava a quella sociale, mostrava il segno di una elementare grammatica politica, fatta di piccoli e grandi oltraggi al buon senso, di arroganti ed edonistiche sottolineature di differenze individuali e sociali, ricerca irriflessa di spazi vitali, fisici ed immaginari, in cui c'era insieme l'idea di decadenza e quella di progresso, almeno materiale, insomma, una assai primitiva, vestita di italici provincialismi, concezione della società, insieme negativa e positiva, ammantata d'un sapere più profondo, che non era il suo, né che aveva voluto veramente intendere, ma solo recepire, con fiuto autentico, come essenza della sua contemporaneità.

Ma questo grande ed insieme mediocre pastiche non avrebbe avuto l'influenza e la credibilità che ebbe se non fosse stato sorretto da un elemento compositivo uniforme e distintivo, che al tutto avesse conferito continuità e coerenza, soprattutto l'avesse reso immediatamente fruibile, al di là della vena poetica del D., che si manifesta largamente nella sua opera e che certo fu motivo non secondario, presso i contemporanei, della sua pur discussa "attrattiva", ma non può essere di per sé chiave di giudizio, come a volte la ritroviamo, collocata nei frangenti suoi biografici più imprevisti, ad esempio, nella formula "grazie alla sua sensibilità di vero poeta", per intendere il suo travaglio politico tra il 1919 e il 1920 (De Felice, 1978, p. XI).

Parliamo dell'uso del linguaggio. L'"artefice" per cui "divina è la Parola e il Verso è tutto" aveva un'idea pratica e consapevole di quest'uso: "o parole, mitica forza della stirpe... io feci apparire tra l'una e l'altra sillaba i mille volti del passato ... io dal vostro cozzo faville sprigionai, ... che illuminarono l'ombra del futuro pregna di mondi". Nel comporre la sua scrittura fu artigiano infaticabile, come in nessuna altra attività o proponimento duramente dedito.

Difficile tuttavia accedere all'immagine di lui come "officina dannunziana" in cui ci sarebbe "una non estrinseca analogia tra il contenuto sostanzialmente borghese della concezione dannunziana dell'uomo come centro di accumulazione di esperienze e struttura produttiva, al di fuori e al di sopra di ogni mediazione critica e conoscitiva, e il contenuto della sua ideologia della letteratura come pura produttività di forme" (Jacomuzzi, p. 187). Ci pare di cogliere, forse paradossalmente, una sopravalutazione dell'opera del D., come segnale inaugurale di un uso industriale del mestiere letterario, che si venne affermando progressivamente nella nuova società di massa, facendo di quell'uso "pratico" della lingua, proprio del D., il prodromo di una tecnica nuova del "comunicare", confondendo due cose diverse, sebbene ambedue presenti nel D., ma la seconda delle quali, per sua natura, non è di dominio del letterato, o chi per lui, ma in primo luogo dello strumento di comunicazione, per il fine di chi lo possiede e lo utilizza.

Quella del D. fu tuttavia certamente un'officina, la cui funzione fu però più sottile del semplice "mercificare", fu piuttosto un semplificare, un rendere intellegibili significati complessi, non riproponendoli nella loro essenza, ma in una surrettizia parvenza "linguistica", apparentemente ricca e fastosa, ma in realtà ancora una volta "riduttiva", cosicché tra le analisi linguistiche assai penetrante ci pare quella, pur parziale a proposito dell'Alcyone, svolta dal Mengaldo, in cui si nota che il D. non è dominato affatto dalla "preoccupazione di catturare il segreto della realtà. attraverso approssimazioni suggestive, ma la ben diversa ambizione di crearne ut artifex gli equivalenti o meglio i sostituti verbali in un libero automodellarsi del linguaggio: quindi il rapporto fra quest'ultimo (e la finzione artistica) e la realtà è sempre in lui di specie analogica, un integrale troppo sostitutivo" (Mengaldo, p. 225).

Giudizio che in parte può anche circoscrivere il molto argomentare che si è fatto sulla efficacia della sua oratoria politica e civile, che più semplicemente il Valeri faceva consistere "nel dare alle cose comuni nomi vaghi e leggiadri, l'innalzare il noto, grigio e banale, alla dignità dell'ignoto".

E noteremo di scorcio che proprio da questa peculiare sua cifra nasce la difficoltà della critica letteraria dannunziana ad etichettare l'opera sua con accostamenti frammentari, come simbolismo, impressionismo, e perfino decadentismo, giacché il decadentismo del D., se lo compariamo, ad esempio, a quello dei suoi contemporanei francesi, non ebbe quella chiave intimistica, non procedette attraverso lo stesso smarrimento psicologico, che in questi ultimi fu così immediatamente creativo. E forse proprio in questo pluridecennale dragare la parola e la sintassi, in uno sviluppo logicamente sempre più soffocante e sterile, andrebbe misurata la parabola della sua "sensibilità di vero poeta".

Ci sono nel D. tutti gli elementi compositivi dell'avantgarde, ma l'ampiezza dello sforzo letterario, l'egocentrismo e l'irrequietezza conoscitiva della sua personalità non lo condussero mai a circoscriversi, se non entro il "manifesto" di se stesso, anche se, per la sua prensile sensibilità alle atmosfere intellettuali che lo circondavano, determinava accostamenti più o meno precipui, come fu anche per il futurismo, ma rimanendo rispetto ad ognuno collaterale e semplice affine.

Dell'avanguardia ebbe certamente la disposizione nuova a dare importanza preminente allo strumento espressivo, nel suo caso più d'uno, rispetto al messaggio di cui doveva essere tramite, fino a farne appunto l'elemento stesso distintivo del suo operare. E come è stato proprio del destino di tutte le avanguardie del primo '900, ebbe anche la disposizione a farsi usare da altri, fossero situazioni, avvenimenti, persone. Certo per una personalità forte e vitale come quella del D., essere usato era una percezione innaturale. Ma l'apolitico D. ebbe i suoi mentori politici, tra i quali principalmente due: Luigi Albertini prima, Benito Mussolini dopo.

Quello con Albertini non fu propriamente un rapporto di subordinazione, ma di reciproca complicità, da cui il "padrone" del Corriere seppe cogliere tutti i frutti possibili per quel sensibile mutamento di linea che impresse al suo giornale dalla guerra di Libia in poi. Giustamente ha notato Barié (O. Barié, introd. a L. Albertini, Epistolario, I, Milano 1968, p. XXVI) che la pubblicazione delle Canzoni d'Oltremare costituì"la manifestazione più clamorosa dell'adesione del quotidiano milanese agli umori nazionalistici del paese". Era funzionale a ciò probabilmente anche la particolare inclinazione "imperialistica" del D., che faceva della questione adriatica un prius rispetto alla colonizzazione africana (e proprio la questione adriatica doveva essere poi causa della rottura tra i due nel 1919), con un conseguente antitriplicismo.

Certo Albertini seppe gestire il rapporto con lui oltre i limiti di una pur eccezionale collaborazione al suo giornale. Si assunse la parte delicata, per un borghese consapevole ed oculato qual era, di curatore del fallimento del D., dopo la liquidazione della "Capponcina", e ne sostenne, per larga parte, la prodigalità dell'esilio francese. Ed oltre la regia delle sue finanze, l'accudimento del poeta entrava in dettagli non secondari della sua esistenza, quali le sue visite clandestine in Italia, protette dallo stabile di via Solferino, in cui il D. pare avesse una "stanza segreta", vicina a quella del direttore, dove poteva anche comodamente pernottare.

E ad Albertini si deve anche la regia del suo ultimo ritorno in Italia, quello trionfale verso lo scoglio di Quarto. Il D. tempestava Albertini per un suo rientro fin dall'aprile del 1914. Rimase in Francia ancora quasi un anno, aprendo di lì la sua campagna interventistica, sulla stampa francese e sul Corriere della sera tra cui le ultime Faville del maglio e una serrata corrispondenza sulla battaglia della Marna.

Il D. rientrava il 4 maggio 1915 e il giorno seguente era a Quarto per l'inaugurazione dei monumento ai Mille. Il suo discorso l'aveva preceduto e per il suo tenore il governo Salandra aveva valutato inopportuna la presenza ufficiale d'uno dei suoi membri e dello stesso sovrano alla cerimonia, non essendo ancora sconfessata la Triplice. Nel Diario di F. Martini leggiamo: "Tempo di correggere non c'è... Né poi si può essere sicuri che il D'Annunzio consentirebbe... D'Annunzio in primo luogo pensa a sé e al proprio successo, poi non ha senso politico e qualche volta - a malgrado dell'ingegno meraviglioso -, neanche senso comune, ed era facile che ci avrebbe compromessi". La presenza del D., l'assenza del re e del governo, furono causa di accese polemiche. Le circostanze vollero così subito fare di lui un protagonista scomodo, fu anzi l'inizio di una parte di successo, quella appunto del "protagonista scomodo", da cui si attendono le "forzature" necessarie, il fuoco d'artificio che conduce alla santabarbara. Seguirono venti giorni di accesa campagna interventistica, "le gloriose giornate di maggio", in cui si assunse anche il compito della provocazione contro Giolitti, "quel vecchio boia labbrone le cui calcagna di fuggiasco sanno la via di Berlino". Al Martini che gli rammentava il "radiomaggismo" telegrafava: "stasera, or è un anno, adoperai l'arma di cui mi avete armato".

Dopo il 24 maggio il D. capì che doveva alzare la posta. L'uomo non intendeva rimanere nelle retrovie a fare propaganda. Il 30 luglio chiedeva a Salandra di partecipare ad un volo su Trieste. Sempre Martini commenta nel suo Diario: "L'impresa è balorda... E l'importante sta qui: che crede a ciò che dice". E questo probabilmente fu un aspetto autentico del poeta-soldato. Aveva vagheggiato, profetato, freneticamente voluto la guerra, ora voleva immedesimarsi in essa. Aveva giocato con tutto, con il sacro e con il profano. "Seppi allora - dirà in un accento retorico, ma biograficamente puntuale, de Il Notturno - quel che significassero le parole di Michelangelo: non nasce in me pensiero che non vi sia dentro scolpita la morte" (p. 244).

Visse la guerra da privilegiato, con due residenze dorate: la "Casetta rossa" di Venezia, in cui fece la lunga convalescenza de Il Notturno, dopo l'incidente aereo che lo rese orbo nel gennaio del 1916, e quella più frugale di Cervignano, vicina alle linee della 3ª armata, a cui era stato assegnato, presso il quartier generale del duca di Aosta. Nei ricordi e memorie di molti testimoni privilegiati che allora lo incontrarono, riscontriamo la repugnanza per quel suo abituale "istinto del superfluo", che suonava, in quel contesto, come gozzoviglia. Ma fu oltremodo coraggioso; a 52 anni d'età, innumerevoli furono le azioni di guerra alle quali partecipò, soprattutto guerra aerea (sulla quale espresse anche opinioni competenti che antivedevano il suo uso strategico, oltre il limitato appoggio alle azioni di terra, come intervento sulle installazioni belliche delle retrovie e gli impianti industriali), ma anche di terra e di mare. Nell'agosto 1917, bombardando le installazioni militari di Pola, fece suonare, al posto del tradizionale "hurra!", lo "eja, eja, alalà!". Le più note di queste imprese furono la "beffa di Buccari" del febbraio 1918, un raid di tre mas all'imboccatura del golfo Quarnaro dove era all'ancora la flotta austriaca ("siamo trenta d'una sorte e trentuno con la morte") e il volo su Vienna per lanciarvi un risibile invito alla resa, il 9 ag. 1918.

Molte delle sue imprese furono propriamente belliche, altre, come quella ultima su Vienna, di propaganda. Ma quasi ogni sua azione fu preparata e vissuta per essere propagandata. Ciò apparteneva al suo temperamento, che era anche insaziabile di onori e decorazioni, alcune delle quali sollecitava, senza bisogno; ed egli poteva alternare il poeta al soldato, le parole alle gesta, azionando un circuito magico, per i fini di propaganda degli alti comandi, così da divenire un simbolo della guerra, positivo e negativo, come, ad esempio, per il 141º e il 142º reggimento della brigata Catanzaro, che ricevuto l'ordine di tornare sul Carso, nel luglio 1917, si ammutinarono al grido "abbasso la guerra, morte a D'Annunzio, viva la pace".

Sempre Ferdinando Martini, che in quegli anni lo seguiva con occhio cinico non privo di ammirata ironia, osservava che se agli inizi la sua preoccupazione nel riguardi del D. poteva riassumersi nel motto "scriva non faccia", dopo poteva essere invertita nel "faccia non scriva". Ma il D. scriveva e non solo i risibili messaggi che offendevano il senso politico del Martini. Tra un'azione e l'altra il D. "girava tra i comandi e le truppe, pronunciava discorsi e mandava messaggi ai soldati, prendeva appunti, pensava a future produzioni letterarie, a impegni musicali per i suoi drammi, a contratti da stipulare per films che avrebbero dovuto essere tratti dalle sue opere, sempre oculatissimo gestore della propria immagine e dei propri interessi finanziari" (Alatri, 1983, p. 284). Continuava ad essere vitalissimo. Sui suoi taccuini, navigando sul mare, annotava: "ho in me tanta pienezza di vita che, quando mi sporgo dalla prua, mi sembra di traboccare", e andando per terra, ne Il Notturno: "volti, volti, volti, formati nella bragia carnale, stampati nel fuoco sanguigno... Trascino e sono trascinato. Salgo per incoronare e salgo per incoronarmi". È stato sottolineato da molti il rituale sensuale e sadico del suo vivere ed immaginare la guerra, la cupa esaltazione della morte, che di per sé era gloria, quale risuona, ad esempio, nelle pagine dedicate ai caduti, tra le più celebrate quelle de Il Notturno, che riguardano l'aviatore Giuseppe Miraglia e il fante Giovanni Randaccio.

E da quella nuova prosa, che la critica letteraria ha avvertito come "più sotterranea e profonda", operante "la sostituzione dell'organizzazione paratattica del discorso a quella sintattica" (ibid., p. 378), che è propria del Notturno, ma anche del Carme votivo e ancora del Libro violetto e di altre opere successive, sortiva in effetti un sortilegio, giacché l'immagine di quella guerra veniva proiettata su di uno schermo senza figure e accenti umani. "Esplorazione d'ombra" come la definì il Cecchi, ma meglio dire "d'ombre" d'un nuovo averno con una sola voce, quella del "milite ignoto". Una sovrastante ed incombente epopea, rito sacrificale di una nuova idea di nazione, che poi nei decenni successivi, auspice la propaganda fascista, venne congelata in un'aulica e cupa fissità, cosicché servisse da sublimazione e ammonimento, da identità per un popolo, che non doveva tornare a pensare alla sua storia fuori da questo mito, certamente la più perversa ed incisiva tra le creazioni politico-letterarie del D'Annunzio.

Il D., che in questo mito era indistricabilmente immerso, il 14 ott. 1918 scriveva a Costanzo Ciano: "per me e per te, e per tutti i nostri pari, la pace oggi è una sciagura... Si, Costanzo, tentiamo qualche altra grande impresa, prima d'essere pacificati per forza" (Vivarelli, Il dopoguerra, p. 148). La pace non lo rese inattivo; riprese subito i temi dell'espansione adriatica nel Cantico per l'ottava della Vittoria e nella celebre Lettera ai Dalmati, "il più famoso manifesto dell'imperialismo italiano nel dopoguerra" (Alatri, 1983, p. 402) con cui apriva la polemica sulla conferenza di Versailles. Progettò anche un'azione su Spalato, entrando in contatto con gli arditi. Intorno al suo nome si andavano stringendo lentamente, a cerchi concentrici, le motivazioni ideali, sentimentali, politiche che militavano contro un pacifico e legale trapasso all'ordine postbellico.

L'impresa di Fiume fu la più vistosa e traumatica rottura di questi argini. In quella zona d'ombra della conferenza della pace (giacché il trattato di Londra non destinava Fiume all'Italia, sulla cui pretesa vi era un bisticcio fra esercito e marina, ritenendo quest'ultimo più strategiche le basi dalmate, a cui il neonato Stato iugoslavo, con l'appoggio francese e del presidente Wilson, non voleva rinunciare), lungo quasi un anno si incanalarono le irrequietezze del nazionalismo italiano. Nel maggio 1919 il capitano G. Host-Venturi aveva dato vita alla legione volontari fiumani. All'inizio del mese successivo l'Associazione nazionale Trento e Trieste aveva cominciato a sua volta la costituzione di centri di arruolamento di volontari; la propaganda nazionalista divampava con sempre maggiore insistenza ingigantendo le attese e l'area di complicità nelle file dell'esercito. Dietro a questi clamori un blocco eterogeneo, ma non casuale di forze (nazionalisti, fascisti, repubblicani, arditi, settori della U.I.L. e della U.S.I., le organizzazioni aderenti al Comitato per le rivendicazioni nazionali, alcuni gruppi patriottici moderati, alcuni esponenti massonici e alcuni ambienti militari), in definitiva quelle che già avevano costituito il nerbo della campagna interventista, e avevano sostenuto il conflitto, con crescenti motivazioni d'ordine politico ed economico, tendevano a cementare un nuovo amalgama, al fine di conservare quella posizione di preminenza politica, che il ritorno alla normalità postbellica avrebbe potuto mettere in discussione, cercando nuove forme di polarizzazione della tensione pubblica e di movimento politico. Fecero fin dalle origini da cerniera di questo complesso coacervo di interessi e tendenze O. Sinigaglia e G. Giuriati, il primo dei quali era forte dei suoi rapporti con ambienti finanziari ed industriali, il secondo sarebbe diventato il capogabinetto del Comandante, dal momento dell'assunzione delle sue funzioni di governatore di Fiume.

Ancora una volta il D. seppe usare l'arma che gli veniva offerta. Lungo tutto il 1919 fu al centro di una fitta rete di rapporti per lanciarsi poi nell'esecuzione dell'impresa. Al comando di un contingente raccogliticcio, non più di 2.500 uomini, il 12 sett. 1919, senza trovare resistenze da parte dell'esercito, entrava in Fiume ("marcia di Ronchi"). Nelle settimane seguenti il territorio veniva evacuato dal contingente interalleato che l'occupava come corpus separatum. L'avventura pareva finita, prima ancora di essere incominciata. Salvo che, a differenza di altre fortunate imprese di cui il D. era stato protagonista, lo scenario di quest'ultima non era la guerra, ma la pace, e i problemi che ne conseguivano non erano di natura militare, ma di politica interna ed estera.

Il D. rimase a Fiume più di un anno, fece della "città olocausta" la scena di un nuovo suo psicodramma collettivo, in cui gli storici hanno intravisto due e anche quattro e più atti. Gli intricati fili della vicenda si svolsero tuttavia altrove, nel difficile evolversi delle questioni politiche e sociali interne e nella complessa conclusione del trattato di pace. Da questi aspetti, che furono, con tutte le loro sfaccettature, la vera "questione di Fiume", il D. fu continuamente chiamato in causa, per svolgervi, a secondo delle circostanze, più ruoli, senza poi propriamente svolgerne nessuno, salvo quello in definitiva ostinato, di rifiutarsi ogni volta di svolgerne alcuno, fin nell'ultima ora del tragicomico epilogo.

Proprio questa sua labile determinazione fece di Fiume una vicenda complessa e variegata, ricca di significati, alcuni definiti, il cui giudizio storico è difficilmente controvertibile, altri più indefiniti, che riguardano il carattere simbolico, esemplare e propositivo della vicenda, che fecero discutere i contemporanei e, per loro natura, rimangono discutibili, anche nella posteriore riflessione degli storici.

A questo ultimo ordine di considerazioni appartiene la valutazione di cosa effettivamente la vicenda di Fiume abbia rappresentato per la vita civile e politica dell'Italia di quel primo dopoguerra. Il Valeri, nel commentare il celebre discorso del D. contro Nitti, "vi voglio dire chi è Cagoia", notava che "piuttosto che di letteratura si tratta di politica, rafforzata, se si vuole, dal prestigio dell'artista". Quel discorso fu, in realtà, il punto di arrivo di un processo di corrosione nello schieramento dei partiti costituzionali, e insieme di partenza di una nuova feroce battaglia, che scavò un solco, non di parole, ma effettuale e permanente, fra gli Italiani. Si scopriva allora irrimediabilmente il contrasto tra due Italie, in cui confluiva la rottura già operata all'epoca dell'intervento, che non era più la contrapposizione postrisorgimentale tra il paese legale e quello reale, ma una frattura drammatica fra una minoranza "eroica", allora capitanata dal D., e una maggioranza di vili "legali", impersonati da Nitti, contro cui ad essere invocato non era il "popolo", ma un nuovo "duce". Si apriva, anzi si ampliava pericolosamente, una breccia, attraverso cui sarebbero maturati gli avvenimenti successivi (Valeri, 1956, p. 42).

Certo a quella rottura il D. non seppe e non volle dare una consapevole direzione. Cosicché sulla scena fiumana, ai margini dell'argine ormai incrinato, poté addensarsi tutto e il contrario di tutto, giacché il D. "non perseguiva, evidentemente, una sua azione politica organica, ma rifletteva mobilmente, nei suoi ordini di Comandante-poeta, le voci di rivolta e di speranza e di disperazione che salivano a lui da ogni parte del paese" (Valeri, 1963, p. 14). L'impresa fiumana, nata sotto gli auspici di una eterogenea consorteria nazionalista, poté poi svolgersi "per buona parte nel segno di un accavallarsi di suggestioni socialisteggianti ed anarchicizzanti" e in quello della collaborazione tra il D. e il De Ambris, di cui è testimonianza, tra l'altro, la "Carta del Camaro", cosicché è sembrata acquisire "un significato 'rivoluzionario' più ampio di quello che solitamente si crede ... simbolo di un rifiuto morale, politico e sociale di tutto l'ordine costituito, di quello che si identificava con Roma, come di quello che si identificava con la nascente Società delle Nazioni e con gli alleati" (De Felice, 1978, p. 153).

Tra l'uno e l'altro di questi giudizi c'è una divaricazione di sfumature assai profonda, che nasce indubbiamente dalla fluidità stessa della vicenda fiumana. Ma il momento "rivoluzionario" fu possibile, e il D. lasciò che si facesse posto ad esso, perché nel frattempo quello conservatore e nazionalista si era politicamente esaurito, era stato assorbito da altre preoccupazioni e disegni, aveva voltato le spalle al Comandante, che era rimasto solo con la sua concezione "eroica" della politica. La "rivoluzione" fu di quella vicenda uno dei suoi "effimeri", e come tutti gli effimeri non privo di reali conseguenze, ma non di quelle che conferiscono il segno decisivo degli eventi, anche se rimangono una chiave interpretativa necessaria per intendere come il D. uscisse dalla vicenda fiumana e poi ancora dopo, quando ebbe a confrontarsi con l'ascesa del nuovo regime fascista.

Già il 16 settembre il D. scriveva a Mussolini una lettera aspra, che Il Popolo d'Italia avrebbe pubblicato monca, togliendo il veleno dell'argomento. In sostanza egli diceva d'essere padrone di Fiume, "non c'è nulla da fare contro di me, nessuno può togliermi di qui", ma l'obiettivo doveva essere quello di rovesciare il governo di Roma, anzi il colpo di Fiume in qualsiasi altro paese, "anche la Lapponia", avrebbe già determinato la crisi. E rimproverava il nuovo capo del fascismo di starsene con i suoi inerte. Invero Mussolini, tra quanti in quei mesi sostennero il D., fu, verso questi progetti ulteriori, il più cauto. Nell'ottobre si recò a Fiume, ma già il 19 settembre aveva risposto al Comandante approvando le linee del suo piano eversivo, aggiungendo la clausola prudente: "prima delle decisioni estreme voglio conferire con voi l'elaborazione del piano nei suoi dettagli".

Più pressanti erano state le sollecitazioni di altri per una azione su Roma. V'era una disponibilità latente in larghi settori dell'esercito, essendo la popolarità del D. salita al diapason; anche E. Corradini, ancora indiscusso leader del nazionalismo, si era recato a Fiume per sollecitare il D. ad allargare l'azione a tutta la Venezia Giulia e poi a Roma. Emissari erano stati avviati a Trieste per preparare la marcia, ma avevano riscontrato le prime difficoltà. La rottura della legalità non avrebbe potuto assumere che una chiara marca repubblicana, l'ostilità dei socialisti e del movimento operaio organizzato era uno ostacolo non facilmente sormontabile. Sarebbe stata la guerra civile, e su questo l'opinione, e ancor più, la classe dirigente moderata, era divisa. Giorno per giorno le possibilità scemavano e il D. diveniva sempre più prigioniero di Fiume.

Intanto Nitti, per quanto colto di sorpresa, si muoveva con abilità. Si rese subito conto che un'azione di forza su Fiume non era possibile. Sostituì al comando dell'8ª armata il legittimista di Robilant con l'altrettanto sicuro, ma più politico, Badoglio. Il 25 settembre il re convocava il Consiglio della corona, che respinse l'idea di un'immediata annessione di Fiume, con il voto dello stesso Federzoni, confermando la fiducia a Nitti. Seguiva quella della Camera e la convocazione delle elezioni per il 16 novembre successivo. I nazionalisti, che sul movimento dannunziano continuavano ad avere la più forte influenza, preoccupati ormai che l'azione su Roma potesse sortire effetti opposti a quelli prima sperati, cercarono di dirottare l'irrequietudine del D. verso la Dalmazia. E, in effetti, il 14 novembre, da un cacciatorpediniere egli sbarcava a Zara, incontrandosi con il governatore della Dalmazia, generale E. Millo, a cui strappava l'impegno irresponsabile che non avrebbe sgomberato quelle terre, quale che fosse l'ordine, e lasciando al suo comando i 600 legionari che aveva portato con sé.

L'azione su Zara non suscitò entusiasmi; probabilmente influì anch'essa negativamente sul verdetto elettorale, i cui risultati furono negativi per i liberali, disastrosi per la Destra. Le elezioni del '19 seppellivano un modo di far politica della destra, che fin dalla guerra di Libia, e poi con la campagna interventista, era stato quello di muovere lo spirito pubblico e poi la piazza, per costringere l'asse moderato della maggioranza liberale a volgersi da questa o quella parte. Si rendeva necessario creare condizioni di consenso diverse, con metodi da sperimentare giorno per giorno, in una congiuntura interna sempre più difficile, in cui il nazionalismo perdeva molte delle sue carte e possibilità, mentre solo Mussolini avrebbe saputo tenacemente costruire pezzo a pezzo una via nuova.

Con l'eclissi del vecchio nazionalismo il D. perdeva il suo implicito sostegno politico. Iniziarono le trattative per un modus vivendi. Alla fine di novembre Giuriati era a Roma per trattare un'intesa, incontrandosi con Sforza e altri. Il D. aveva un abboccamento con Badoglio e sembrava delinearsi un compromesso, che vedeva la proclamazione di Fiume "città libera" sotto occupazione italiana, ma rimaneva come ostacolo la pretesa del D. di conservare il governatorato della città e i sempre difficili problemi d'amnistia per i sediziosi. Il D. tirò in lungo, in una situazione generale del paese che si faceva sempre più aspra, per il dilagare della conflittualità sociale, e quindi il sempre più profondo dividersi degli animi, che continuava a far affluire a Fiume disertori e facinorosi, attratti da quell'oasi ideale. Quando, tuttavia, per molteplici sforzi, l'intesa venne stesa in tutti i dettagli, il 15 dicembre il Consiglio nazionale di Fiume, praticamente l'organo rappresentativo della comunità italiana, la approvò a larga maggioranza. Il D. presentò queste volontà dal balcone, senza esprimere la sua opinione, e la folla, in prevalenza costituita da legionari, reagì violentemente. Il D. revocò allora la delibera del Consiglio nazionale; premuto dai consigli dei suoi più moderati e "politici" collaboratori, in particolare Rizzo e Giuriati, "ebbe luogo una scena molto emozionante e D'Annunzio ne rimase profondamente turbato" e promise di ritornare sulla sua decisione, ma, mezz'ora dopo, consultatosi con il Comitato di difesa e di salute pubblica, che, nella sostanziale illegalità e labilità dell'assetto istituzionale dato all'occupazione fiumana, era l'organo che esprimeva la voce degli elementi dannunziani più oltranzisti, si confermò nella sua decisione negativa. Si apriva così una prima frattura tra abitanti e occupanti, che in seguito doveva farsi sempre più acuta, e che, per essere sanata al momento, produsse la poco meditata idea di un referendum, convocato per il 18 dicembre, di cui immediatamente dopo si percepì che l'esito non poteva essere che plebiscitariamente favorevole all'intesa, cosicché il D. e la sua truppa si diedero in ogni modo a intimidire e a tener lontano dalle urne l'elettore fiumano, ottenendo un'astensione che fu del 60 per cento, ma che i primi spogli delle schede rivelarono subito insufficiente, così da decidere il D. ad ordinare l'interruzione dello scrutinio.

Fallito il modus vivendi, subentrava lo status quo: l'impresa di Fiume si trasformava in occupazione dannunziana. I migliori collaboratori lo abbandonarono, da Giuriati a Reina e Rizzo. Anche Badoglio lasciava il suo incarico a Caviglia, per assumere la carica di capo di Stato Maggiore dell'esercito, quasi a significare che la soluzione di Fiume non avrebbe potuto più essere "politica". L'occupazione dannunziana di Fiume durò tuttavia ancora un anno. Come nota ancora il Valeri "tutta la politica del D. sembra avvolta, in questo periodo, in una sorta di disperata vanità, lucidamente consapevole di essere tale" (1963, p. 35).

Numerosissime le testimonianze sulla vita a Fiume in quel periodo. Comisso e Kochnitzky ci parlano di un'"atmosfera di perpetuo quatorze juillet". Sono impressioni bozzettistiche su cui è sempre incauto applicare le categorie dell'immaginazione sociologica, sottolineare il tratto che congiunge festa e rivoluzione nel trapasso dal privato al collettivo. Ogni festa e ogni rivoluzione hanno una loro particolare cifra storica. Fiume ci ha lasciato i rituali cpsì ben sintetizzati da Ledeen: "il discorso dal balcone, il saluto romano, il grido 'eia, eia, alalà', il dialogo drammatico con la folla, il ricorso a simboli religiosi in una nuova ambientazione laica, l'elogio funebre dei 'martiri' della causa e l'uso delle loro 'reliquie' nelle cerimonie pubbliche", il cui innesto nell'immaginario collettivo della propaganda nazi-fascista è stato acutamente analizzato da Mosse. Ma che tutto ciò, oltre a quello che spontaneamente vi si svolgeva, fosse l'atmosfera d'una rivoluzione, piuttosto che di un piccolo accampamento militare, senza disciplina e senza futuro, pare difficile sostenere.

Di nuovo c'era il vuoto che il D. aveva determinato con la sua "disperata vanità" e che egli cercava di riempire con quella prensile sensibilità verso ciò che soffiava intorno a lui, che sempre aveva contraddistinto la sua natura, ma senza più una direzione politica e nemmeno "nazionale", alla quale bene o male si era fino ad allora attenuto. A colmare questo vuoto concorse per larga parte la forte ed entusiasta personalità del suo nuovo capogabinetto, il sindacalista rivoluzionario Alceste De Ambris, che stese la bozza della "Carta del Carnaro", un documento di cui si sono occupati molti, anche giuristi, ognuno col velo retorico che è proprio di ciascuna "scienza", e che fu, spogliata degli orpelli dannunziani, opera onesta di utopia socialisteggiante, configurando un ordinamento metà rappresentativo e metà corporativo, la cui chiave di volta originale stava in un poco meditato miscuglio di mazzininanesimo e proudhonismo, negli istituti chiave della proprietà e del credito, che subito suscitarono lo sgomento di un fiumano dell'ultima ora, Maffeo Pantaleoni.

La "Carta" ebbe il valore di un piccolo "manifesto" a cui si aggiunsero altre iniziative, la più ispirata delle quali fu la lega di Fiume, che doveva essere il mutuo patto di solidarietà e riscossa delle nazionalità oppresse, per cui furono presi contatti con rappresentanti dei movimenti nazionali egiziano e irlandese, a cui si aggiunsero belgi, indiani, armeni, montenegrini, croati, albanesi, mentre il D. intratteneva rapporti con membri dell'exgoverno di Béla Kun e dichiarava che sarebbe stato il primo a riconoscere la Russia dei soviet, arrischiandosi a dire che era per "il comunismo senza dittatura". Ma mentre davano forma a questo arcobaleno di iniziative, il D. e De Ambris trovavano difficoltà a dar esecuzione a quello che era diventato il loro programma minimo, cioè, in quella fase di stallo, alla proclamazione dell'indipendenza di Fiume e alla sua erezione a Repubblica (per cui la "Carta del Carnaro" era stata già redatta da un pezzo, sebbene tra le correzioni significative che il D. aveva apportato al testo del De Ambris ci fosse proprio la sostituzione del termine "repubblica" con quello di "reggenza"), per le difficoltà crescenti che avevano con la popolazione locale e per la sensibile spaccatura interna allo stesso fiumanesimo tra "scalmanati" e "ragionevoli" (De Felice, 1978, p. 32).

Così scarsa presa avevano i tentativi che in modo particolare il De Ambris si adoperava a tessere, cercando di legare la causa fiumana ai moti sociali che attraversavano allora il paese, imbastendo rapporti con gli anarchici del Malatesta, e con i sindacati operai, incominciando dai ferrovieri, e che trovarono ostacolo nella formale ripulsa della C.G.L. e dei socialisti, salvo la Federazione dei lavoratori del mare, con a capo il capitano Giulietti, che diede un supporto rilevante alla declinante causa fiumana, tra l'altro dirottando navigli, carichi di merci e armi.

Tra questo susseguirsi di incertezze e contraddizioni alla metà del '20 il D. (segno questo che, quando poteva, egli seguiva i suoi abituali sentieri) aveva intravisto uno spiraglio minimo nella possibilità di trasformare la "crociata dei popoli oppressi" in una sua "politica balcanica", che puntava a disgregare il composito tessuto etnico del costituendo Stato iugoslavo, fomentando gli irredentismi. Per questo aveva bisogno di tempo ed anche il tergiversare sull'annessione o la indipendenza di Fiume portava acqua a questa tattica attendista, a cui il trattato di Rapallo del 12 nov. 1920 toglieva definitivamente ogni plausibile spazio, confortato, com'era, inoltre, dal consenso pressoché unanime delle forze politiche, compreso Mussolini.

Risolta da Giolitti la questione adriatica, non restava che chiudere quella di Fiume. Intercorse un mese di trattative e tergiversazioni da parte del D., fino al "Natale di sangue", quando le truppe (reggimenti di nuova leva, del tutto atoni a sentimenti e motivazioni che poco più di un anno prima avevano favorito la marcia di Ronchi) del gen. Caviglia entrarono in Fiume, mentre l'"Andrea Doria" sparava i due fatidici colpi di cannone. Resterà probabilmente sempre incerta la interpretazione dell'atteggiamento tenuto dal D. in quelle ultime ore, sospeso tra l'arrendersi e il combattere, tra il morire e il sopravvivere. Certo egli si alienò molte simpatie, quelle di chi era disposto alla "finzione poetica", ma richiedeva si accompagnasse ad un minimo di "borghese coerenza". Ora, per coerenza, arrendersi non poteva; avrebbe dovuto morire, ma non volle o non ne fu capace, "per un improvviso rigurgito di scetticismo" (Valeri, 1963, p. 26).

Si ritirò a Cargnacco sul Garda, nella villa intorno a cui avrebbe poi costruito il Vittoriale, reliquiario e cimitero, strabocchevole di simboli mortuari, sparsi ovunque, nella casa, sui viali e sentieri, incisi sugli alberi e nelle pietre, che rispetto agli anni di guerra era una nuova variante del suo intrattenersi con la morte, forse l'idea di sfuggire così alla percezione del disfacimento della vecchiaia e di prepararsi al trapasso. Lo accompagnava un desiderio di quiete e, per la prima volta nella sua vita, il sentimento di un fallimento, soprattutto d'essere stato sorpassato dagli eventi, sopravvissuto ad essi, come un ingombrante arredo. Dell'ultima pagina di Fiume disse che non aveva accettato il sacrificio, "non per orrore dell'elsa e della lancia", ma per volere della "bontà coperta". Una nuova virtù che gli si faceva strada nell'animo, in cui c'erano gli echi umanitari e sociali dell'ultima esperienza fiumana, l'idea che bisognava collocarsi sopra le parti in lotta, da vindice farsi conciliatore, deluso dalle umane miserie, com'era stato abbandonato anche dal "caro compagno Mussolini".

Nel Libro ascetico della Giovane Italia si interrogava: "passavo di esilio in esilio? venivo a cercare il silenzio salubre e a ritrovare alcune delle mie arti? venivo a interpretare il sogno eroico e l'azione spaventosa, sottospecie di vanità? o a fare una breve sosta e un breve sonno per ricominciare la lotta?". A tutti questi interrogativi cercò negli anni seguenti di dare una risposta, ma poiché tutti insieme non portano un segno univoco, difficile resta interpretare quale di queste vocazioni volesse perseguire fino in fondo.

Questa sua disposizione d'animo risponde a quello che fu detto il "movimento spirituale dannunziano", e fu anche consono alle vocazioni e incertezze del "fiumanesimo", dopo Fiume. Ma si trattava ancora una volta di confrontarsi con l'evolversi degli avvenimenti politici e lo scontro naturale che di anno in anno, poi di mese in mese, maturava era quello tra "fiumanesimo" e fascismo, tra il D. e Mussolini. Stette per più di un anno quasi inerte a guardare, salvo a dare il suo avallo alla costituzione della Federazione nazionale legionari fiumani, nel gennaio del 1921, a rivolgere inviti all'autonomia e ai principi della "Carta del Carnaro", rifiutandosi di emettere tuttavia giudizi più impegnativi, com'era sollecitato da De Ambris e da altri, specie nel corso di quell'anno, in cui nelle lotte agrarie il fascismo assumeva il suo volto reazionario ed antipopolare.

Quel suo "buon ritiro" gli fece riacquistare parte di quel prestigio che aveva perduto con l'epilogo della questione fiumana, nel sempre più confuso precipitare degli avvenimenti politici. Su di lui si rivolse l'attenzione di ambienti liberali e democratici. Perfino Gramsci tentò nell'aprile del 1921 di prendere contatto con lui. D'altra parte i suoi rapporti con il "traditore" Mussolini erano freddi, ma questi, che non sopravvalutava le doti del D., ma neppure ne sottovalutava il prestigio e il ruolo che poteva assumere negli avvenimenti, tentò ripetuti approcci, fino all'incontro a Gardone del 5 apr. 1921. Il leader fascista ne trasse il vantaggio di mostrare che un dissidio col D. non c'era, o si era sanato; questi tuttavia non volle compromettersi, rifiutando per sé e per i suoi candidature nei blocchi nazionali, facendo presentare solo il De Ambris a Parma, come candidato unico dei "fiumani". Ma superata la scadenza delle elezioni del maggio 1921, resosi ancora più instabile l'equilibrio politico, anche per il D. non poteva che riprendere il momento di "ricominciare la lotta".

Il De Felice, che ha brillantemente ricostruito il succedersi degli avvenimenti fino alla marcia su Roma e oltre, attribuisce al D. una strategia politica. "Anche se molti non se ne resero neppure conto e se - per assurdo che possa sembrare - essa non fu combattuta, la vera e forse decisiva battaglia tra il D. e Mussolini ebbe luogo nei mesi immediatamente successivi alle elezioni, dal giugno 1921 al marzo '22", dando tutt'intera la vittoria a Mussolini. Il problema chiave su cui avrebbe puntato il D. sarebbe stato quello della "pacificazione".

L'estremismo mussoliniano aveva determinato una frattura profonda all'interno del movimento fascista e una larga parte di questo prese a guardare al D. come al suo possibile nuovo leader. Di questo ormai incipiente processo sarebbe mancato il punto di coagulazione necessario, cioè il D. stesso, che ancora una volta, sordo agli appelli, alla sua stessa "profezia", rimase silente sulle rive del Garda.

Si mosse solo dopo che Mussolini era riuscito a ricompattare le sue fila e che erano sfumate le ultime possibilità di un "rovesciamento della leadership mussoliniana sul fascismo" (De Felice, p. 171). Il D. prese allora a tentare una difficile mediazione politica. Incontrò Baldesi, D'Aragona, Cicerin, il 27 maggio, Facta, Orlando, Lusignoli, Nitti. Il 3 agosto aveva pronunciato l'equivoco discorso, ispirato alla concordia, di palazzo Marino, dinnanzi alla folla di squadristi esultanti che avevano bruciato l'Avanti!. Prese forma l'ipotesi di un governo D'Annunzio, Nitti, Mussolini. Dell'episodio le versioni sono contrastanti, ma è probabile che l'iniziativa partisse da Nitti. Tant'è, Tom Antongini e Giorgio Schiff-Giorgini iniziarono trattative con Nitti per conto del D'Annunzio. Mussolini si era dato abilmente ad assecondare questi tentativi di pacificazione, per non scoprire il fianco ed assumersi la paternità della rottura. L'incontro triangolare avrebbe dovuto tenersi il 15 agosto in Toscana. Ma proprio in quei frangenti avvenne il "volo dell'arcangelo" - il D. scivolò da una finestra della sua villa di Gardone (13 agosto) -, che lo immobilizzò per alcune settimane. Fu questo il secondo enigma del presunto duello tra l'eroe di Fiume e il capo del fascismo. L'11 ottobre Mussolini si recava a trovare il D. sul Garda e veniva incontro ad una sua pressante richiesta, quella di non osteggiare la Federazione dei lavoratori del mare del Giulietti, sottoscrivendo il 16 seguente un concordato tra questa e il Partito fascista. Era il via libera da parte del D. alla ormai progettata marcia su Roma?.

Dall'insieme di questi avvenimenti non sembra possibile ricostruire i lineamenti di una strategia del D. e tanto meno di un suo scontro politico con Mussolini. Piuttosto un oscuro alternarsi di lucide intuizioni e di insuperabili presentimenti. Nel Libro segreto di G. D. tentato di morire, in cui torna sull'incidente della sua caduta, dice ad un immaginario interlocutore: "eccoti un pugno della cenere. Ti getto la cenere di me stesso. Vattene!".

Accolse freddamente la marcia su Roma; i suoi "legionari" furono invitati a mantenersi neutrali in attesa di ordini. Ma di poi fu un lento declinare, con scatti d'ira, propositi di riemergere (ad esempio sollecitava l'Albertini ad accentuare l'opposizione al nuovo governo) e progressive nuove acquiescenze. Donava il Vittoriale allo Stato, formalizzando, per così dire, le ragioni di quel cospicuo segreto appannaggio dell'erario pubblico, che Mussolini gli garantiva, stringendo sempre di più intorno a lui la sorveglianza e il silenzio. Dopo l'ottobre '22 l'epistolario con Mussolini è una triste testimonianza di questo suo lento progressivo piatire, senza che nessuna delle cause magnanime che tentava di sostenere, come ancora una volta quella in difesa della Federazione dei lavoratori del mare, trovasse accoglimento.

Dopo il delitto Matteotti, nella crisi del regime che ne seguì, ebbe un soprassalto, sembrò muoversi, contro "la fetida ruina". Alla smentita che presto fu indotto a fare, Mussolini così si congratulava (settembre 1924): "ho visto la tua lettera... È uno stop decisivo... Tu capisci che io non mollo a nessun costo, nemmeno a costo di sangue... Come invidio la tua solitudine popolata di grandi ricordi, chiusa nel ritmo operoso della tua grande fatica. Tra poco sarà l'anniversario di quella Marcia che diede Fiume all'Italia. Lo ricordo per esserti vicino. Quando troverai due minuti di tempo, scrivimi, non di politica".

Insignito del titolo di principe di Montenevoso, chiuso nel funereo recinto del Vittoriale, da cui poco usciva, ossequiato, ma non amato dai rappresentanti del nuovo regime, sostanzialmente ignorato, come si ignorano i sorpassati, che si ricordano solo in alcune occasioni ufficiali, tra le quali la consegna alle stampe dell'editore Mondadori della sua Opera omnia in edizione nazionale, il D. si mantenne ai margini, invecchiando solitario e diffidente. Rifiutò il suo posto all'Accademia d'Italia, e solo, ormai sfatto dalla vecchiaia, dopo la morte di Guglielmo Marconi, ne accettò poi, su pressante richiesta di Mussolini, la presidenza. Ebbe solamente due soprassalti emotivi verso il regime e il suo vecchio "caro compagno": la guerra d'Etiopia, che risvegliò evidentemente il suo antico furore nazionalista; scese poi a Verona per incontrare alla stazione Mussolini, nel suo trionfale viaggio di ritorno da Monaco. Anche qui resta controverso cosa i due si dissero, ma è probabile nel D. lo scrupolo di esprimere al duce le sue vecchie diffidenze antigermaniche.