Filippo Meda

 

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di Alfredo Canavero

Nacque a Milano il 1° genn. 1869, primogenito di nove fratelli, da Luigi, negoziante di stoffe, e da Luigia Rainoldi.

Il M. frequentò le scuole elementari comunali e poi il ginnasio-liceo Cesare Beccaria. L’ambiente laico delle scuole pubbliche non modificò, tuttavia, i suoi profondi sentimenti religiosi. Culturalmente fu influenzato dalla filosofia tomistica, assorbita attraverso la lettura del Saggio teoretico di diritto naturale appoggiato sul fatto di L. Taparelli d’Azeglio (I-V, Palermo 1840-43). Fin dagli anni del liceo si interessò alla vita pubblica, aderendo alla sezione giovani di Milano dell’Opera dei congressi, di cui divenne subito l’organizzatore più autorevole e il propagandista più prolifico attraverso conferenze e scritti nel mensile Foglietto volante. Ad appena diciotto anni iniziò la collaborazione con numerosi periodici cattolici, come La Scintilla di Venezia, diretta da F. Saccardo, L’Eco di San Luigi di Milano, divenuto poi Eco della gioventù, la Rivista monzese, Il Cittadino di Monza e il Corriere della domenica. Collaborò anche con L’Osservatore cattolico, il battagliero quotidiano milanese diretto da don D. Albertario. Dopo un primo scritto dedicato a Le scuole secondarie governative (14-15 maggio 1887), gli articoli del M. si moltiplicarono, e il 1° ag. 1893 Albertario gli rilasciò una lettera di presentazione che lo accreditava come redattore de L’Osservatore cattolico.

Nella sua intensa attività di conferenziere e di pubblicista, il M. andò via via precisando un proprio originale pensiero, distinguendo la causa dei cattolici da quella dei legittimisti, che auspicavano il ritorno dei detronizzati sovrani preunitari. Appoggiandosi all’autorità di Leone XIII, che con l’enciclica Immortale Dei (1885) aveva lasciato ai cattolici libertà d’opinione sui sistemi politici e di governo, nel 1889 chiarì che i cattolici non volevano una «Italia in pillole con relativi duchi e granduchi», bensì una «Italia forte, grande, indipendente, una anche, ma in pace col pontefice sovrano effettivo» (Le cinque piaghe del movimento cattolico italiano, in F. Meda, Fatti ed idee, Milano 1898, p. 15).

La formazione politica del M. fu fortemente influenzata dall’incontro con G. Toniolo, di cui si dichiarò in seguito «figlio spirituale», pur non condividendone sempre le scelte. A partire dal 1893 collaborò alla Rivista internazionale di scienze sociali e discipline ausiliarie, fondata da Toniolo e da mons. S. Talamo, guardando con grande attenzione alle esperienze dei cattolici del resto d’Europa. Sempre nel 1893 fondò –insieme con don U. Benigni, A. Mauri e don L. Cerutti – La Rassegna sociale, che aveva come programma la «cristianizzazione dello Stato, rigettando il principio e la pratica tanto dello stato ateo quanto del gioseffista» (Programma del comitato promotore della Rassegna sociale, in La Rassegna sociale, 1° luglio 1893, p. 3).

I sempre più pressanti impegni politici e giornalistici, tuttavia, non ritardarono la carriera universitaria del M., che nel luglio 1891 si laureò in lettere presso la R. Accademia scientifico-letteraria di Milano discutendo una tesi su «Il melodramma e Rinuccini». Si iscrisse poi all’Università di Genova, dove prese una seconda laurea in giurisprudenza (novembre 1893), con una tesi sulle vicende storiche delle corporazioni di arti e mestieri del Comune di Milano, poi pubblicata (Le corporazioni milanesi d’arti e mestieri, Milano 1894). Nel frattempo adempì gli obblighi militari, raggiungendo il grado di sottotenente. Sostenuti gli esami per divenire procuratore legale e poi avvocato, il 1° maggio 1896 aprì a Milano uno studio legale in società con A. Cameroni. Il mese successivo sposò Maria Annunciata Branca, da cui ebbe due figli, Gerolamo, nato nel 1897, e Luigi, nato nel 1900.

Avendo compiuto la sua formazione dopo la fine del potere temporale dei papi, il M. non respingeva l’ipotesi di accettare l’Unità d’Italia con Roma capitale. Per lui la richiesta della sovranità territoriale del pontefice era legata alla volontà di questo, sicché «se domani il papa giudicasse diversamente per ipotesi, noi cesseremmo di volerla e di domandarla» (Noi e gli altri, in Fatti ed idee, cit., p. 49). Tali prese di posizione sconcertarono i più anziani esponenti del movimento cattolico, ma per il M. ben più importante del potere temporale erano la riconquista cristiana della società, attraverso la soluzione della «questione sociale», e la pace religiosa del Paese. Anche sull’astensionismo elettorale, considerato quasi un dogma dalla dirigenza dell’Opera dei congressi (G.B. Paganuzzi, G. Sacchetti, i fratelli Jacopo, Andrea e Gottardo Scotton ecc.), vi erano divergenze. Per il M. il non expedit doveva essere interpretato però come una fase contingente, transitoria, che serviva per educare i cattolici al buon uso del voto, secondo la formula «preparazione nell’astensione» che da tempo Albertario predicava.

Il M. si dedicò quindi con particolare attenzione alle elezioni comunali, fondando nel 1890 una organizzazione permanente, la Associazione degli elettori cattolici, che dotò di un proprio organo di stampa, L’Elettore cattolico milanese. Grazie anche a una certa spregiudicatezza nello stringere accordi elettorali coi cattolici transigenti e con alcuni moderati, il M. riuscì a fare eleggere nel 1893 quattro cattolici nel Consiglio comunale di Milano. L’anno successivo i cattolici si presentarono da soli, con un programma che, oltre all’insegnamento della religione cattolica nelle scuole, prevedeva il decentramento e l’autonomia dei Comuni e delle Province, il riposo festivo, l’abolizione delle tasse comunali più gravose e una migliore gestione dei servizi pubblici, raccogliendo un numero di suffragi non troppo inferiore a quello ottenuto dai moderati e dai radicali, i due principali gruppi politici milanesi. In occasione delle importanti elezioni amministrative generali del 1895 il M. si giovò della posizione di forza acquisita dai cattolici e concluse con i moderati un «contratto» che, senza snaturare la fisionomia del gruppo cattolico e senza trasformarsi in una alleanza, garantisse l’accettazione dei punti qualificanti del loro programma. Per i moderati l’accordo con i cattolici era essenziale, dovendo fronteggiare una lista composta da socialisti e radicali. La lista clerico-moderata ebbe successo, ma il gioco delle preferenze impedì a molti candidati cattolici l’accesso a palazzo Marino, ingenerando parecchio malcontento. Le capacità organizzative e manovriere del M. avevano comunque dato buona prova e indussero la dirigenza dell’Opera dei congressi, che pure considerava con molta perplessità alcune sue idee, ad affidargli il compito di comporre una guida pratica per gli elettori cattolici, che con il titolo Catechismo elettorale teorico-pratico fu pubblicata a Milano nel 1895.

Con una interpretazione estensiva delle encicliche di Leone XIII (la Diuturnum del 1881, la Immortale Dei del 1885 e la Libertas del 1888), il M. accettava le forme democratiche e difendeva le istituzioni rappresentative dello Stato liberale italiano. Fu quindi decisamente contrario ai tentativi autoritari di F. Crispi, così come, in seguito, a quelli di A. Starabba di Rudinì e di L. Pelloux.

«Dopo l’esperienza fatta in cinquant’anni io credo che ben pochi protesterebbero – scriveva nel 1896 – se oggi per esempio a Crispi venisse il ticchio di sbarrare per sempre Palazzo Madama e Montecitorio e di far procedere l’amministrazione dello Stato con decreti reali. Tra questi pochi però, prego i lettori a credere, ci sarei io» (Parlamentarismo e sistema rappresentativo, in Riv. internazionale di scienze sociali e discipline ausiliarie, 1896, marzo, p. 4).

In seguito ai moti milanesi della primavera del 1898 e alla repressione che ne seguì, il M. fu costretto ad allontanarsi da Milano per sfuggire all’arresto. Dopo la fine dello stato d’assedio, condannato al carcere don Albertario, il M. assunse la direzione de L’Osservatore cattolico e, per rilanciare il giornale, chiamò a collaborarvi i più brillanti giovani del movimento cattolico, da don R. Murri ad A. Mauri, da G. Micheli a P. Arcari.

L’Osservatore cattolico divenne il giornale dei democratici cristiani e si interessò sempre più ai temi economici e sociali e alla vita politica in Italia e all’estero. Senza cessare la lotta al liberalismo, il M. sottolineava che le istituzioni rappresentative non erano cattive in sé, ma lo diventavano per lo spirito liberale di cui erano imbevute. Compito dei cattolici era quello di impadronirsene, per modificarle dall’interno in senso cristiano e sociale, naturalmente non appena il pontefice avesse permesso la partecipazione alle elezioni politiche. Occorreva armarsi di pazienza e scoraggiare le accelerazioni di molti democratico cristiani insofferenti del conservatorismo dell’Opera dei congressi, all’interno della quale era necessario restare.

Il M. fu quindi contrario alla fondazione del Fascio democratico cristiano di L. Necchi e S. Bassi (estate 1899), come pure alle «fughe in avanti» di Murri e dei suoi amici. Nel 1899 ebbe con Murri una polemica giornalistica sul rapporto tra Chiesa e Stato.

Murri riteneva lo Stato uno strumento del dominio delle classi superiori e chiamava i cattolici a combatterlo per eliminarlo. Il M. era invece convinto che lo Stato fosse uno strumento necessario per la vita sociale, che andava quindi conquistato e riformato in senso sociale e cristiano.

Per superare i contrasti tra i vecchi dell’Opera dei congressi e i giovani democratico cristiani, Leone XIII emanò nel febbraio 1902 le Istruzioni, che imponevano di inquadrare il movimento democratico cristiano nell’Opera dei congressi. Mentre alcuni giovani si sentirono sconfessati e meditarono di abbandonare la lotta, il M. cominciò a pensare come trarre vantaggio dalla nuova situazione. Dopo la morte di don Albertario nel settembre del 1902, era rimasto unico direttore e proprietario de L’Osservatore cattolico, cui tolse le asprezze di modi e di tono che lo avevano caratterizzato nel passato, per sostituirvi un linguaggio molto più diplomatico e prudente, portandolo a una tiratura di 8000 copie.

Eletto nel Consiglio provinciale di Milano per il mandamento di Rho, poco dopo, nel giugno 1902, entrò nel nuovo comitato permanente dell’Opera dei congressi, contribuendo all’elezione del conte G. Grosoli alla presidenza al posto di Paganuzzi. Il M. sperava che fosse possibile modificare la vecchia organizzazione cattolica dall’interno, garantendo il successo della linea democratico cristiana. La morte di Leone XIII (20 luglio 1903) e l’elezione al pontificato di G. Sarto con il nome di Pio X impedirono tale soluzione; quando nel luglio 1904 Grosoli emanò una circolare, stesa in realtà da mons. G. Radini Tedeschi e dal M., in cui si affermava che il programma dell’Opera dei congressi era quello democratico cristiano, L’Osservatore romano intervenne per sottolineare che la circolare non era del tutto conforme alle istruzioni pontificie. Grosoli si dimise e pochi giorni dopo Pio X sciolse l’Opera dei Congressi (28 luglio 1904).

In quei giorni il M. aveva invitato a Milano alcuni esponenti del movimento cattolico per fondare una organizzazione di elettori amministrativi a livello nazionale. Non a tutti il momento parve opportuno, visto quanto era appena successo, ma, nonostante la contrarietà di G. Toniolo, S. Medolago e N. Rezzara, a Milano il 4 ag. 1904 giunsero alcune fra le più significative personalità del mondo cattolico italiano: L. Sturzo, G. Micheli, A. Mauri, F. Crispolti, A. Bürgisser. Fu fondata l’Unione nazionale tra gli elettori cattolici amministrativi, che non riscosse però un grande successo, attaccata per opposti motivi sia dai democratico cristiani sia dai conservatori, per non parlare dei sospetti della S. Sede, che temeva si volesse fondare un vero e proprio partito politico in vista dell’abolizione o della attenuazione del non expedit alle elezioni politiche che si sarebbero dovute tenere nella primavera successiva.

Avendo G. Giolitti anticipato le elezioni al novembre 1904 per sfruttare le reazioni antisocialiste suscitate dal primo sciopero generale italiano del settembre precedente, Pio X permise una attenuazione del non expedit, che condusse alle candidature di C.O. Cornaggia Medici a Milano e di A. Cameroni a Treviglio. Anche il M. fu candidato nel collegio di Rho, ma, per evitare le accuse di voler forzare l’abolizione del non expedit che i Paganuzzi e gli Scotton erano pronti a lanciargli, tenne un atteggiamento passivo. Ciononostante sfiorò il ballottaggio, raccogliendo il 30% dei voti.

I cattolici avevano affrontato le elezioni del 1904 in maniera dispersa e confusa e ciò convinse il M. che fosse necessario organizzare un partito politico che si presentasse alla prossima scadenza elettorale con un programma proprio e non a sostegno di altri. In un discorso tenuto a Rho il 28 dic. 1904 auspicò la costituzione di un partito cattolico non confessionale, «riformatore e moderatamente progressista», non più dedito a difendere esclusivamente gli interessi religiosi e i diritti lesi del pontefice, ma al servizio di un programma di «pace religiosa, di libertà politica, di giustizia sociale». Il modello doveva essere il partito cattolico della Germania, il Zentrum. Il nuovo partito avrebbe dovuto comprendere diverse tendenze, accettare lo Stato liberale italiano e le sue istituzioni e combattere i socialisti, ma senza l’ossessione antisocialista dei moderati. Quanto alla «questione, assai impropriamente detta romana», il M. ribadiva che essa era di esclusiva competenza del pontefice: «Né la sua potestà sarà mai diminuita dalla presenza in Parlamento di uno o più deputati cattolici, perché questi, come tutti i deputati, non riceveranno il mandato dalla Santa Sede, ma dai loro elettori» (Il discorso dell’avv. M. a Rho. I cattolici italiani nella vita politica, in L’Osservatore cattolico, 29 dic. 1904).

Le idee del M., diffuse attraverso L’Osservatore cattolico, causarono diverse polemiche coi settori più conservatori dell’intransigentismo, ma permisero un riavvicinamento al gruppo dei transigenti milanesi, che facevano capo al marchese Cornaggia Medici e al suo quotidiano La Lega lombarda. Divenne così possibile pensare alla fusione dei due giornali, auspicata tanto dal papa quanto dall’arcivescovo di Milano, il cardinale A. Ferrari. Superate non poche difficoltà, il 14 dic. 1907 comparve nelle edicole il primo numero de L’Unione, così chiamato per ricordare l’invito di Pio X a compiere l’unione dei due giornali. Il M. rimase direttore e proprietario del nuovo giornale, mentre Cornaggia Medici fu posto a capo del consiglio d’amministrazione.

La vita del quotidiano non fu facile. Il M. cercò di farne un quotidiano moderno, attento ai temi della politica e di facile lettura. Il pontefice lamentava invece che non parlasse abbastanza della situazione «iniqua» imposta al Papato, che i temi religiosi fossero trascurati, che si occupasse troppo di politica, recensisse libri moralmente discutibili e non mostrasse rispetto per periodici «veramente religiosi». Le accuse del papa vennero immediatamente riprese dai giornali cattolici più tradizionalisti e il M. dovette anche intentare causa a L’Unità cattolica, giornale fiorentino appartenente alla S. Sede, che aveva accusato L’Unione di tendenze moderniste, riportando frasi che il giornale milanese mai aveva scritto. La causa fu discussa a Firenze il 9 giugno 1909 e dette ragione al Meda. Ciononostante, la vita de L’Unione continuò tra ostacoli e perplessità: Pio X, in una lettera all’episcopato lombardo del 1° luglio 1911, lamentò che il giornale non sottolineasse abbastanza il fatto che libertà e indipendenza erano negate alla Chiesa in Italia.

Le critiche del pontefice non furono senza conseguenze sul piano economico e nel 1912 il M. fu costretto a cedere il quotidiano alla Società editrice romana, fondata nel 1907 da Grosoli, che già pubblicava altri giornali cattolici, tra cui Il Momento di Torino, L’Avvenire d’Italia di Bologna e Il Corriere d’Italia di Roma. Con il nuovo nome L’Italia, e sotto la direzione di P. Mattei Gentili, il 25 giugno 1912 uscì il primo numero del quotidiano. Al M. restò solo la rubrica politica del giornale.

Nel frattempo alle elezioni generali del 1909, con oltre il 66% dei voti, il M. era stato eletto deputato nel collegio di Rho, che dal 1902 già rappresentava al Consiglio provinciale di Milano.

Alla Camera si caratterizzò per interventi concreti, privi di retorica, che gli guadagnarono la simpatia anche di anticlericali di vecchio stampo. Doveva però fare attenzione a non destare sospetti di scarsa ortodossia nella S. Sede e in certi ambienti cattolici. In aula intervenne più volte a favore di una riforma dello Stato che garantisse una maggiore autonomia ai Comuni e alle Province, secondo una linea tradizionale del movimento cattolico. Durante la discussione della legge Daneo-Credaro, nel 1910, sostenne l’opportunità di mantenere ai Comuni la gestione della scuola elementare, perché lo Stato doveva basarsi sui governi locali, più vicini al sentire della popolazione e più attenti ai suoi bisogni fondamentali. Fu favorevole all’estensione del suffragio elettorale e all’introduzione del sistema proporzionale, per permettere la formazione di veri e propri partiti e spostare la lotta politica dal piano personale a quello delle idee e dei programmi. Per sostenere l’introduzione del sistema proporzionale, nel 1911 fondò, assieme con esponenti del socialismo e del radicalismo, l’Associazione proporzionalista milanese. La riforma elettorale giolittiana del 1912, invece, pur introducendo il suffragio quasi universale maschile, mantenne in vita il sistema uninominale.

In vista delle elezioni del 1913 ritenne giunto il momento di dare vita a un vero e proprio partito cattolico, non dipendente dalla gerarchia ecclesiastica, che si sarebbe dovuto chiamare Partito popolare cristiano, con un proprio statuto e programma. L’idea però non incontrò favore e il M. si dovette limitare a contribuire alla stesura dei sette punti del cosiddetto Patto Gentiloni, l’accordo segreto che permise la sospensione del non expedit in quei collegi in cui i candidati si fossero impegnati a non votare, qualora fossero stati eletti deputati, leggi contrarie agli interessi della Chiesa. Il 26 ott. 1913 il M. fu rieletto trionfalmente nel collegio di Rho, riportando quasi il doppio dei voti del suo antagonista socialista.

Allo scoppio della guerra mondiale, il M. si schierò per la neutralità, finché l’invasione tedesca del Belgio lo indusse ad accettare senza riserve l’intervento. Quando cadde il governo di A. Salandra e fu composto un ministero di unione nazionale, il più autorevole parlamentare cattolico non poteva esserne escluso. Il 18 giugno 1916 entrò quindi come ministro delle Finanze nel governo guidato da P. Boselli.

Primo cattolico ad assumere un incarico ministeriale nell’Italia unita, il M. intendeva contribuire a eliminare gli ultimi pregiudizi contro i cattolici, permettendo loro di diventare finalmente cittadini a pieno titolo al pari di tutti gli altri. Pur sapendo che la sua presenza nel ministero avrebbe suscitato aspre critiche, giudicava però essenziale che il passo fosse compiuto. Nonostante il parere contrario della S. Sede, decise di accettare, confortato dal giudizio favorevole di alcuni fra i principali esponenti del movimento cattolico italiano, come Sturzo, Grosoli o G.M. Longinotti. Con la sua caratteristica modestia, il M. si riteneva un umile strumento del disegno provvidenziale: «È un errore – scriveva a G. Toniolo il 19 giugno 1916 – l’attendere qualche cosa da me: la mia funzione si è esaurita nell’entrata al governo, perché era questo che importava alla realizzazione di un disegno che io credo provvidenziale, cioè che cadesse l’ultima barriera da cui i cattolici italiani erano ancora segregati, e che impediva loro di prendere contatto con la vita nazionale[…]: il mio compito – forse storico – è finito[…] mi chiederanno un giorno che cosa avrò fatto: io non potrò mai rispondere altro se non che ho reso possibile ad altri di fare» (lettera citata da F. Fonzi, F. M. nella storia e nella storiografia del movimento cattolico italiano, in F. M. tra economia, società e politica…, p. 37).

Il M. assumeva su di sé la responsabilità di coniugare le istanze pacifiste e sovranazionali della S. Sede e l’impegno nella guerra dell’Italia liberale. Alla fine anche in Vaticano ci si convinse dell’opportunità dell’entrata del M. nel ministero, pur senza mostrare entusiasmi.

Per il M. i problemi sorsero quando Benedetto XV inviò la celebre Nota alle potenze belligeranti (datata 1° ag. 1917, ma effettivamente trasmessa ai governi interessati a partire dal 9) in cui la guerra veniva definita una «inutile strage» e si invocava una pace senza vincitori né vinti. In un momento in cui le sorti della guerra sembravano volgere a favore delle potenze dell’Intesa, la Nota fu interpretata come un aiuto agli Imperi centrali o quantomeno come un’indebita ingerenza clericale nella condotta della guerra italiana che poteva affievolire lo spirito militare del Paese e spingere al disfattismo. La decisione del governo italiano di non dare risposta al pontefice mise il M. in grave imbarazzo. Attaccato tanto dagli anticlericali e dagli interventisti quanto da molti cattolici, fu sul punto di dimettersi, quando le drammatiche notizie che provenivano dal fronte orientale, dove gli Austro-Tedeschi avevano rotto le linee italiane a Caporetto, lo convinsero a restare in carica anche nel successivo governo di V.E. Orlando (30 ott. 1917 - 23 giugno 1919).

Come ministro delle Finanze elaborò un progetto di riforma tributaria, apprezzato da L. Einaudi e di grande modernità, che cercava di unificare diversi tributi in una sola imposta sui redditi, affiancata da un’imposta complessiva sul reddito della famiglia, intendendo con ciò un insieme di persone fisiche conviventi, ancorché non legate da vincoli di parentela o affinità. Veniva prevista poi una trattenuta alla fonte del 25% sui titoli azionari. Molto osteggiata, la riforma fu presentata alla Camera soltanto il 6 marzo 1919 e non ebbe seguito.

Il M. non aderì immediatamente al Partito popolare italiano (PPI) costituito nel gennaio 1919, sia perché riteneva che un membro del governo non potesse entrare in un partito sorto dopo la formazione del ministero, sia perché riluttante alla disciplina di partito. Solo per le insistenze di molti, tra cui il direttore de L’Italia, don A. Novelli, si convinse ad aderire (ottobre 1919), non senza aver contestualmente avviato l’iter di pubblicazione di una rivista attraverso la quale poter divulgare le sue idee. Nacque allora Civitas. Riv. bimensile di politica e di coltura sociale, il cui primo numero uscì il 16 dic. 1919.

Un mese prima era stato rieletto al Parlamento con un grande successo personale: 42.652 preferenze su un totale di 73.820 voti raccolti dal PPI nella provincia di Milano. Convinto dell’inopportunità per i popolari di partecipare al governo, si lasciò però piegare dalle insistenze di Giolitti, che lo volle ministro del Tesoro nel suo ultimo governo, entrato in carica il 16 giugno 1920.

In tale veste contribuì all’approvazione della legge sulla nominatività dei titoli azionari e si adoperò per una soluzione concordata nel corso della prima fase dell’occupazione delle fabbriche, cercando di convincere gli industriali a concedere gli aumenti salariali e i miglioramenti normativi richiesti dai metallurgici. Le resistenze degli industriali e l’atteggiamento neutrale di Giolitti fecero però fallire il suo tentativo.

Stanco della vita politica e nella necessità di dedicare più tempo all’attività professionale dopo la scomparsa del socio A. Cameroni, avvenuta nel settembre 1920, il 4 genn. 1921 presentò le proprie dimissioni a Giolitti, accettando però di tenerle in sospeso fino all’approvazione della legge che aboliva il prezzo politico del pane. Approvata la legge, si dimise il 29 marzo 1921. Nel frattempo era stato nominato presidente della Banca popolare di Milano, incarico che tenne fino al 1927. Fu anche impegnato a trovare le soluzioni giuridiche migliori perché l’Università cattolica del Sacro Cuore, fondata da padre A. Gemelli, fosse riconosciuta dallo Stato.

Alle elezioni del 1921 si presentò di nuovo come capolista nella circoscrizione Milano-Pavia e fu eletto con 58.568 preferenze su 101.131 voti andati al PPI. Non volle però assumere né l’incarico di ministro degli Affari esteri o quello della Giustizia e affari di culto propostigli da I. Bonomi, né l’incarico di presidente del Consiglio dopo la crisi ministeriale del febbraio 1922. Anche nel corso della crisi del luglio successivo rifiutò l’analogo incarico che gli venne offerto dal re, nonostante le insistenze di Sturzo e del figlio Gerolamo. Il rifiuto rese più difficili i suoi rapporti con Sturzo e con A. De Gasperi.

Dopo la marcia su Roma del 28 ott. 1922 fu contrario, come del resto Sturzo, alla partecipazione dei popolari al governo Mussolini. Riteneva però che il PPI non dovesse assumere posizioni di scontro frontale col fascismo e cercò di impedire la convocazione del congresso di Torino, che temeva avrebbe portato a una spaccatura all’interno del partito. Per lo stesso motivo fu a favore dell’accettazione della legge elettorale Acerbo, anche se non partecipò alla seduta in cui alcuni deputati popolari, contravvenendo alla disciplina di partito, votarono per il passaggio agli articoli. Cercò poi di ottenere la revoca della conseguente espulsione di costoro dal PPI. Nell’imminenza delle elezioni del 1924 pose una serie di condizioni per la sua ricandidatura che indussero il PPI a escluderlo. Rifiutò però l’offerta di B. Mussolini di entrare nel «listone» fascista. Non più deputato, restò vicino al PPI e combatté i clerico-fascisti, esponendo le sue idee su Civitas fino a quando, a seguito di ripetuti sequestri della rivista, ne sospese la pubblicazione (novembre 1925).

Da allora si dedicò alla professione di avvocato, senza più occuparsi di politica. Solo nel 1927 uscì dall’ombra per difendere De Gasperi dall’accusa di tentato espatrio clandestino. Continuò a collaborare a riviste cattoliche con articoli di carattere storico, rievocando cose e persone di un passato ormai irrimediabilmente finito, che implicitamente contrapponeva a un presente in cui non si poteva riconoscere.

Il M. morì a Milano il 31 dic. 1939.