Quaderno 6

1930-1932

 

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Q 6 §43 Il Comune come fase economico‑corporativa dello Stato. Nel 1400 lo spirito di iniziativa dei mercanti italiani era caduto; si preferiva investire le ricchezze acquistate in beni fondiari e avere un reddito certo dall’agricoltura, piuttosto che arrischiarle nuovamente in viaggi o in investimenti all’estero. Ma come si è verificata questa caduta? Gli elementi che vi hanno contribuito sono parecchi: le lotte di classe fierissime nelle città comunali, i fallimenti per insolvenza di debitori regali (fallimento dei Bardi e Peruzzi), l’assenza di un grande Stato che proteggesse i suoi cittadini all’estero: cioè la causa fondamentale è nella stessa struttura dello Stato comunale che non può svilupparsi in grande Stato territoriale. Da allora si è radicato in Italia lo spirito retrivo per cui si crede che sola ricchezza sicura è la proprietà fondiaria. Bisognerà studiare bene questa fase, in cui i mercanti diventano proprietari terrieri e vedere quali fossero i rischi inerenti allo scambio e al commercio bancario.

Q 6 §13 I comuni medioevali come fase economica‑corporativa dello sviluppo moderno. Il libro di Bernardino Barbadoro Le Finanze della repubblica fiorentina, Olschki, Firenze, 1929, L. 100.

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Nella recensione del libro del Barbadoro pubblicata nel «Pègaso» del luglio 1930, Antonio Panella ricorda il tentativo (incompiuto e difettoso) fatto da Giovanni Canestrini di pubblicare una serie di volumi sulla scienza e l’arte di Stato desunte dagli atti ufficiali della Repubblica di Firenze e dei Medici (nel 1862 uscì il primo e unico volume della serie promessa). La finanza del comune genovese fu trattata dal Sieveking, di Venezia dal Besta, dal Cessi, dal Luzzatto.

Il Barbadoro tratta ora della finanza fiorentina, cronologicamente giunge fino all’istituzione del Monte dopo la Signoria del Duca d’Atene, e per la materia comprende l’imposta diretta e il debito pubblico, cioè le basi essenziali della struttura economica del Comune (pare che il Barbadoro debba completare la trattazione, occupandosi delle imposte indirette).

Prima forma di tassazione, «il focatico»: essa risente ancora dei sistemi tributari feudali e sta a rappresentare il segno tangibile dell’affermarsi dell’autonomia del Comune, il quale si sostituisce ai diritti dell’Impero; forma più evoluta: l’«estimo», basato sulla valutazione globale della capacità contributiva del cittadino.

Sul sistema dell’imposta diretta come cespite principale di entrata reagisce l’interesse della classe dominante, che, come detentrice della ricchezza, tende a riversare i pesi fiscali sulla massa della popolazione con le imposte sul consumo; comincia allora la prima forma di debito pubblico, coi prestiti o anticipazioni che i ceti abbienti fanno per i bisogni dell’erario, assicurandosene il rimborso attraverso le gabelle. La lotta politica è caratterizzata dall’oscillazione tra «estimo» e imposta sul consumo: quando il Comune cade sotto una signoria forestiera (duca di Calabria e duca d’Atene) appare l’«estimo», mentre invece in certi momenti si giunge a ripudiare l’estimo in città (così nel 1315). Il regime signorile, sovrastando agli interessi delle classi sociali (così il Panella: ma realmente «rappresentando un certo equilibrio delle classi sociali, per cui il popolo riusciva a limitare lo strapotere delle classi ricche») può seguire un principio di giustizia distributiva e migliorare anche il sistema dell’imposta diretta, fino al 1427, agli albori del principato mediceo e al tramonto dell’oligarchia, in cui fu istituito il Catasto.

Questo libro del Barbadoro è indispensabile per vedere appunto come la borghesia comunale non riuscì a superare la fase economica‑corporativa, cioè a creare uno Stato «col consenso dei governati» e passibile di sviluppo. Lo sviluppo statale poteva avvenire solo come principato, non come repubblica comunale.

È interessante anche il libro per studiare l’importanza politica del debito pubblico, che si sviluppò per le guerre di espansione, cioè per assicurare alla borghesia un più ampio mercato e la libertà di transito. (Sarebbe da confrontare con ciò che Marx dice nel Capitale a proposito della funzione e dell’importanza del debito pubblico). Anche le conseguenze del debito pubblico sono interessanti: la classe abbiente che aveva creduto di trovare nei prestiti un mezzo per riversare sulla massa dei cittadini la parte maggiore dei pesi fiscali, si trovò punita dalla insolvenza del Comune che, coincidendo con la crisi economica, contribuì ad acuire il male e ad alimentare il dissesto del paese. Questa situazione portò al consolidamento del debito e alla sua irredimibilità (rendita perpetua e riduzione del saggio d’interesse) con la istituzione del Monte dopo la cacciata del Duca d’Atene e l’avvento al potere del popolo «minuto».

Met. Bibl.: Storia di Firenze nel '300 e '400

Q 6 §51 L’assedio di Firenze del 1529‑30. Rappresenta la conclusione della lotta tra fase corporativa‑economica della storia di Firenze e Stato moderno (relativamente).

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Le polemiche tra gli storici a proposito del significato dell’assedio (cfr polemica tra Antonio Panella e Aldo Valori, conclusa con la capitolazione scientifica del Valori, nel «Marzocco» e la sua meschina «vendetta» giornalistica nella «Critica Fascista»: della polemica accennerò in seguito) dipendono dal non saper apprezzare queste due fasi e ciò per la retorica sul Comune medioevale: che Maramaldo possa essere stato rappresentante del progresso storico e Ferrucci storicamente un retrivo, può spiacere moralmente, ma storicamente può e deve essere sostenuto.

Q 6 §86 Fase economica‑corporativa dello Stato. Il Guicciardini segna un passo indietro nella scienza politica di fronte al Machiavelli. Il maggiore «pessimismo» del Guicciardini significa solo questo. Il Guicciardini ritorna a un pensiero politico puramente italiano, mentre il Machiavelli si era innalzato a un pensiero europeo. Non si comprende il Machiavelli se non si tiene conto che egli supera l’esperienza italiana nell’esperienza europea (internazionale in quell’epoca): la sua «volontà» sarebbe utopistica, senza l’esperienza europea. La stessa concezione della «natura umana» diventa per questo fatto diversa nei due. Nella «natura umana» del Machiavelli è compreso l’«uomo europeo» e questo uomo in Francia e in Ispagna ha effettualmente superato la fase feudale disgregata nella monarchia assoluta: dunque non è la «natura umana» che si oppone a che in Italia sorga una monarchia assoluta unitaria, ma condizioni transitorie che la volontà può superare. Il Machiavelli è «pessimista» (o meglio «realista») nel considerare gli uomini e i moventi del loro operare; il Guicciardini non è pessimista, ma scettico e gretto.

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Paolo Treves (cfr Il realismo politico di Francesco Guicciardini, in «Nuova Rivista Storica», novembre‑dicembre 1930) commette molti errori nei giudizi sul Guicciardini e Machiavelli. Non distingue bene «politica» da «diplomazia», ma proprio in questa non distinzione è la causa dei suoi errati apprezzamenti.

Nella politica infatti l’elemento volitivo ha un’importanza molto più grande che nella diplomazia. La diplomazia sanziona e tende a conservare le situazioni create dall’urto delle politiche statali; è creativa solo per metafora o per convenzione filosofica (tutta l’attività umana è creativa). I rapporti internazionali riguardano un equilibrio di forze in cui ogni singolo elemento statale può influire molto debolmente: Firenze poteva influire rafforzando se stessa, per esempio, ma questo rafforzamento, se pure avesse migliorato la sua posizione nell’equilibrio italiano ed europeo non poteva certo essere pensato come decisivo per capovolgere l’insieme dell’equilibrio stesso. Perciò il diplomatico, per lo stesso abito professionale, è portato allo scetticismo e alla grettezza conservatrice.

Nei rapporti interni di uno Stato, la situazione è incomparabilmente più favorevole all’iniziativa centrale, a una volontà di comando, così come la intendeva il Machiavelli. Il giudizio dato dal De Sanctis del Guicciardini è molto più realistico di quanto il Treves creda. È da porre la domanda perché il De Sanctis fosse meglio preparato del Treves a dare questo giudizio storicamente e scientificamente più esatto.

Il De Sanctis partecipò a un momento creativo della storia politica italiana, a un momento in cui l’efficienza della volontà politica, rivolta a suscitare forze nuove ed originali e non solo a calcolare su quelle tradizionali, concepite come impossibili di sviluppo e di riorganizzazione (scetticismo politico guicciardinesco), aveva mostrato tutta la sua potenzialità non solo nell’arte di fondare uno Stato dall’interno ma anche di padroneggiare i rapporti internazionali, svecchiando i metodi professionali e abitudinari della diplomazia (con Cavour). L’atmosfera culturale era propizia a una concezione più comprensivamente realistica della scienza e dell’arte politica. Ma anche senza questa atmosfera era impossibile al De Sanctis di comprendere Machiavelli?

L’atmosfera data dal momento storico arricchisce i saggi del De Sanctis di un pathos sentimentale che rende più simpatico e appassionante l’argomento, più artisticamente espressiva e cattivante l’esposizione scientifica, ma il contenuto logico della scienza politica potrebbe essere stato pensato anche nei periodi di peggiore reazione. Non è forse la reazione anch’essa un atto costruttivo di volontà? E non è atto volontario la conservazione? Perché dunque sarebbe «utopistica» la volontà del Machiavelli perché rivoluzionaria e non utopistica la volontà di chi vuol conservare l’esistente e impedire il sorgere e l’organizzarsi di forze nuove che turberebbero e capovolgerebbero l’equilibrio tradizionale?

La scienza politica astrae l’elemento «volontà» e non tiene conto del fine a cui una volontà determinata è applicata. L’attributo di «utopistico» non è proprio della volontà politica in generale, ma delle particolari volontà che non sanno connettere il mezzo al fine e pertanto non sono neanche volontà, ma velleità, sogni, desideri, ecc.

Lo scetticismo del Guicciardini (non pessimismo dell’intelligenza, che può essere unito a un ottimismo della volontà nei politici realistici attivi) ha diverse origini: 1) l’abito diplomatico, cioè di una professione subalterna, subordinata, esecutivo‑burocratica che deve accettare una volontà estranea (quella politica del proprio governo o principe) alle convinzioni particolari del diplomatico (che può, è vero, sentire quella volontà come propria, in quanto corrisponde alle proprie convinzioni, ma può anche non sentirla: l’essere la diplomazia divenuta necessariamente una professione specializzata, ha portato a questa conseguenza, di poter staccare il diplomatico dalla politica dei governi mutevoli ecc.), quindi scetticismo e, nell’elaborazione scientifica, pregiudizi extrascientifici; 2) le convinzioni stesse del Guicciardini che era conservatore, nel quadro generale della politica italiana, e perciò teorizza le proprie opinioni, la propria posizione politica, ecc.

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Gli scritti del Guicciardini sono più segno dei tempi, che scienza politica, e questo è il giudizio del De Sanctis; come segno dei tempi e non saggio di storia della scienza politica è lo scritto di Paolo Treves.

Q 6 §148 Il genio nella storia. Nello scritto inedito di Niccolò Tommaseo Pio IX e Pellegrino Rossi pubblicato da Teresa Lodi nel «Pègaso» dell’ottobre 1931 si legge a proposito di Pio IX (p. 407): «E fosse stato anco un genio, gli conveniva trovare aiutatori ed interpreti; perché l’uomo che sorge solo, solo si rimane, e cade assai volte o deserto o calpesto. In ogni educazione e privata e pubblica importa conoscere lo strumento che s’ha tra mani, e chiedergli quel suono ch’ei può dare, e non altro; e prima d’ogni cosa saperlo suonare».

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Dello stesso Tommaseo: «Io non entro nelle cose private dell’uomo se non quanto aiutino a spiegare le pubbliche»; la proposizione è giusta, anche se il Tommaseo non vi si sia attenuto quasi mai.

Medio Evo

Q 6 §61 Federico II. Cfr Raffaello Morghen, Il tramonto della potenza sveva e la più recente storiografia, Nuova Antologia del 16 marzo 1930.

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Riporta alcuni recenti dati bibliografici su Federico II. Dal punto di vista del «senso» della storia italiana esposto nei paragrafi sui comuni medioevali e sulla funzione cosmopolita degli intellettuali italiani è interessante il volumetto di Michelangelo Schipa Sicilia e l’Italia sotto Federico II, Napoli, Società Napoletana di storia patria, 1929. (Naturalmente se è vero che lo Schipa «sembra sdegnarsi» con i Comuni e col Papa che resistettero a Federico, ciò è antistorico, ma si dimostra come il Papa si opponesse all’unificazione dell’Italia e come i Comuni non uscissero dal Medioevo).

Il Morghen cade in altro errore quando scrive che al tempo delle lotte tra Federico e il Papato (i Comuni) «si protendono ansiosi e impazienti verso l’avvenire ecc.»; «è l’Italia la quale si appresta a dare al mondo una nuova civiltà essenzialmente laica e nazionale quanto più la precedente era stata universalistica e chiesastica».

Sarebbe difficile al Morghen giustificare questa affermazione in altro modo che citando dei libri come il Principe. Ma che i libri siano una nazione e non solamente un elemento di cultura, ci vuole molta retorica per sostenerlo.

Fu Federico II ancora legato al Medio Evo? Certamente. Ma è anche vero che se ne staccava: la sua lotta contro la Chiesa, la sua tolleranza religiosa, l’essersi servito di tre civiltà: ebraica, latina, araba, e aver cercato di amalgamarle lo pone fuori del Medio Evo. Era un uomo del suo tempo, ma egli davvero poteva fondare una società laica e nazionale e fu più italiano che tedesco, ecc. Il problema va veduto interamente e anche questo articolo del Morghen può servire.

Umanesimo e Rinascimento

Q 6 §118 Il Rinascimento. Origini (cfr nota p. 50 bis). Si confondono due momenti della storia: 1) la rottura con la civiltà medioevale, il cui documento più importante fu l’apparizione dei volgari; 2) l’elaborazione di un «volgare illustre», cioè il fatto che si raggiunse una certa centralizzazione fra i gruppi intellettuali, cioè, meglio, tra i letterati di professione. In realtà i due momenti, pur essendo collegati, non si saldarono completamente.

I volgari incominciano ad apparire per ragioni religiose (giuramenti militari, testimonianze di carattere giuridico per fissare diritti di proprietà, prestate da contadini che non conoscevano il latino), frammentariamente, casualmente: che in volgare si scrivano opere letterarie, qualunque sia il loro valore, è ancora un fatto nuovo, è il fatto realmente importante.

Che tra i volgari locali, uno, quello toscano, raggiunga una egemonia, è un altro fatto ancora, che però occorre limitare: esso non è accompagnato da una egemonia politico‑sociale, e perciò rimane confinato a un puro fatto letterario.

Che il volgare scritto appaia in Lombardia come prima manifestazione di una certa portata, è fatto da mettere in grande rilievo; che sia legato al patarinismo è fatto anch’esso molto importante. In realtà la borghesia nascente impone i propri dialetti, ma non riesce a creare una lingua nazionale: se questa nasce, è confinata ai letterati e questi vengono assorbiti dalle classi reazionarie, dalle corti, non sono «letterati borghesi», ma aulici. E non avviene questo assorbimento senza contrasto. L’Umanesimo dimostra che il «latino» è molto forte, ecc. Un compromesso culturale, non una rivoluzione, ecc.

Risorgimento, fine Ottocento

Q 6 §78 Il Risorgimento italiano. Quando si deve porre l’inizio del movimento storico che ha preso il nome di Risorgimento italiano? Le risposte sono diverse e contradditorie, ma in generale esse si raggruppano in due serie:

1) di quelli che vogliono sostenere l’origine autonoma del movimento nazionale italiano e addirittura sostengono che la Rivoluzione francese ha falsificato la tradizione italiana e l’ha deviata;

2) e di quelli che sostengono che il movimento nazionale italiano è strettamente dipendente dalla Rivoluzione francese e dalle sue guerre.

La quistione storica è turbata da interferenze sentimentali e politiche e da pregiudizi di ogni genere. È già difficile far capire al senso comune che un’Italia come quella che si è formata nel 70 non era mai esistita prima e non poteva esistere: il senso comune è portato a credere che ciò che oggi esiste sia sempre esistito e che l’Italia sia sempre esistita come nazione unitaria, ma sia stata soffocata da forze estranee, ecc. Numerose ideologie hanno contribuito a rafforzare questa credenza, alimentata dal desiderio di apparire eredi del mondo antico, ecc.; queste ideologie, d’altronde, hanno avuto un ufficio notevole come terreno di organizzazione politica e culturale, ecc.

Mi pare che bisognerebbe analizzare tutto il movimento storico partendo da diversi punti di vista, fino al momento in cui gli elementi essenziali dell’unità nazionale si unificano e diventano una forza sufficiente per raggiungere lo scopo, ciò che mi pare avvenga solo dopo il 48. Questi elementi sono negativi (passivi) e positivi (attivi), nazionali e internazionali.

Un elemento abbastanza antico è la coscienza dell’«unità culturale», che è esistita fra gli intellettuali italiani almeno dal 1200 in poi, cioè da quando si è sviluppata una lingua letteraria unificata (il volgare illustre di Dante): ma è questo un elemento senza efficacia diretta sugli avvenimenti storici, sebbene sia il più sfruttato dalla retorica patriottica, né d’altronde esso coincide o è l’espressione di un sentimento nazionale concreto e operante.

Altro elemento è la coscienza della necessità dell’indipendenza della penisola italiana dall’influenza straniera, molto meno diffuso del primo, ma certo politicamente più importante e storicamente più fecondo di risultati pratici; ma anche di questo elemento non deve essere esagerata l’importanza e il significato e specialmente la diffusione e la profondità. Questi due elementi sono proprii di piccole minoranze di grandi intellettuali, e mai si sono manifestati come espressione di una diffusa e compatta coscienza nazionale unitaria.

Condizioni per l’unità nazionale: 1) esistenza di un certo equilibrio delle forze internazionali che fosse la premessa della unità italiana. Ciò si verificò dopo il 1748, dopo cioè la caduta della egemonia francese e l’esclusione assoluta dell’egemonia spagnola austriaca, ma sparì nuovamente dopo il 1815: tuttavia il periodo dal 1748 al 1815 ebbe una grande importanza nella preparazione dell’unità, o meglio per lo sviluppo degli elementi che dovevano condurre all’unità.

Tra gli elementi internazionali occorre considerare la posizione del papato, la cui forza nell’ambito italiano era legata alla forza internazionale: il regalismo e il giuseppinismo, cioè la prima affermazione liberale e laica dello Stato, sono elementi essenziali per la preparazione dell’unità.

Da elemento negativo e passivo, la situazione internazionale diventa elemento attivo dopo la Rivoluzione francese e le guerre napoleoniche, che allargano l’interesse politico e nazionale alla piccola borghesia e ai piccoli intellettuali, che danno una certa esperienza militare e creano un certo numero di ufficiali italiani. La formula: «repubblica una e indivisibile» acquista una certa popolarità e, nonostante tutto, il partito d’azione ha origine dalla Rivoluzione francese e dalle sue ripercussioni in Italia; questa formula si adatta in «Stato unico e indivisibile», in monarchia unica e indivisibile, accentrata ecc.

L’unità nazionale ha avuto un certo sviluppo e non un altro e di questo sviluppo fu motore lo Stato piemontese e la dinastia Savoia. Occorre perciò vedere quale sia stato lo svolgimento storico in Piemonte dal punto di vista nazionale. Il Piemonte aveva avuto interesse dal 1492 in poi (cioè nel periodo delle preponderanze straniere) a che ci fosse un certo equilibrio interno fra gli Stati italiani, come premessa dell’indipendenza (cioè del non‑influsso dei grandi Stati stranieri): naturalmente lo Stato piemontese avrebbe voluto essere l’egemone in Italia, almeno nell’Italia settentrionale e centrale, ma non riuscì: troppo forte era Venezia, ecc.

Lo Stato piemontese diventa motore reale dell’unità dopo il 48, dopo cioè la sconfitta della destra e del centro politico piemontese e l’avvento dei liberali con Cavour. La destra: Solaro della Margarita, cioè i «nazionalisti piemontesi esclusivisti» o municipalisti (l’espressione «municipalismo» dipende dalla concezione di una unità italiana latente e reale, secondo la retorica patriottica); il centro: Gioberti e i neoguelfi. Ma i liberali di Cavour non sono dei giacobini nazionali: essi in realtà superano la destra del Solaro, ma non qualitativamente, perché concepiscono l’unità come allargamento dello Stato piemontese e del patrimonio della dinastia, non come movimento nazionale dal basso, ma come conquista regia. Elemento più propriamente nazionale è il Partito d'Azione, ecc. (Vedi altre note).

Sarebbe interessante e necessario raccogliere tutte le affermazioni sulla quistione dell’origine del Risorgimento in senso proprio cioè del moto che portò all’unità territoriale e politica dell’Italia, ricordando che molti chiamano Risorgimento anche il risveglio delle forze «indigene» italiane dopo il Mille, cioè il moto che portò ai Comuni e al Rinascimento.

Tutte queste quistioni sulle origini hanno la loro ragione per il fatto che l’economia italiana era molto debole, e il capitalismo incipiente: non esisteva una forte e diffusa classe di borghesia economica, ma invece molti intellettuali e piccoli borghesi, ecc. Il problema non era tanto di liberare le forze economiche già sviluppate dalle pastoie giuridiche e politiche antiquate, quanto di creare le condizioni generali perché queste forze economiche potessero nascere e svilupparsi sul modello degli altri paesi.

La storia contemporanea offre un modello per comprendere il passato italiano: esiste oggi una coscienza culturale europea ed esiste una serie di manifestazioni di intellettuali e uomini politici che sostengono la necessità di una unione europea: si può anche dire che il processo storico tende a questa unione e che esistono molte forze materiali che solo in questa unione potranno svilupparsi: se fra x anni questa unione sarà realizzata la parola «nazionalismo» avrà lo stesso valore archeologico che l’attuale «municipalismo».

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Altro fatto contemporaneo che spiega il passato è la «non resistenza e non cooperazione» sostenuta da Gandhi: esse possono far capire le origini del cristianesimo e le ragioni del suo sviluppo nell’Impero Romano. Il tolstoismo aveva le stesse origini nella Russia zarista, ma non divenne una «credenza popolare» come il gandhismo: attraverso Tolstoi anche Gandhi si riallaccia al cristianesimo primitivo, rivive in tutta l’India una forma di cristianesimo primitivo, che il mondo cattolico e protestante non riesce neppure più a capire. Il rapporto tra Gandhismo e Impero Inglese è simile a quello tra cristianesimo‑ellenismo e impero romano. Paesi di antica civiltà, disarmati e tecnicamente (militarmente) inferiori, dominati da paesi tecnicamente sviluppati (i Romani avevano sviluppato la tecnica governativa e militare) sebbene come numero di abitanti trascurabili. Che molti uomini che si credono civili siano dominati da pochi uomini ritenuti meno civili ma materialmente invincibili, determina il rapporto cristianesimo primitivo ‑ gandhismo. La coscienza dell’impotenza materiale di una gran massa contro pochi oppressori porta all’esaltazione dei valori puramente spirituali ecc., alla passività, alla non resistenza, alla cooperazione, che però di fatto è una resistenza diluita e penosa, il materasso contro la pallottola.

Anche i movimenti religiosi popolari del Medio Evo, francescanesimo, ecc., rientrano in uno stesso rapporto di impotenza politica delle grandi masse di fronte a oppressori poco numerosi ma agguerriti e centralizzati: gli «umiliati e offesi» si trincerano nel pacifismo evangelico primitivo, nella nuda «esposizione» della loro «natura umana» misconosciuta e calpestata nonostante le affermazioni di fraternità in dio padre e di uguaglianza ecc. Nella storia delle eresie medioevali Francesco ha una sua posizione individuale ben distinta: egli non vuole lottare, cioè egli non pensa neppure a una qualsiasi lotta, a differenza degli altri innovatori (Valdo, ecc. e gli stessi francescani). La sua posizione è ritratta in un aneddoto raccontato dagli antichi testi francescani. «Ad un teologo domenicano che gli chiede come si debba intendere il verbo di Ezechia “se non manifesterete all’empio la sua iniquità, io chiederò conto a voi della sua anima”, così risponde Francesco: “il servo di Dio deve comportarsi nella sua vita e nel suo amore alla virtù così che con la luce del buon esempio e l’unzione della parola riesca di rimprovero a tutti gli empi; e così avverrà, credo, che lo splendore della vita di lui e l’odore della sua buona fama annunzieranno ai tristi la loro iniquità…”» (Cfr Antonio Viscardi, Francesco d’Assisi e la legge della povertà evangelica, nella «Nuova Italia» del gennaio 1931).

Q 6 §103 Risorgimento. Quando comincia il Risorgimento? Cfr Arrigo Solmi, L’unità fondamentale della storia italiana, Bologna, Zanichelli 1927, pp. 58, L. 6.

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Su questo scritto cfr Francesco Collotti, Pretesti oratori, nel «Leonardo» del 20 maggio 1927, la risposta del Solmi nel «Leonardo» del 20 agosto successivo e la nota di L. Russo alla risposta.

Il Solmi trova nella «città» questa unità fondamentale ed è certo notevole il fatto che in molte città autonome si verifichino simultaneamente le stesse riforme (non conosco il libretto del Solmi e non so quindi come egli spieghi questo fatto precisamente).

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È da vedere a questo proposito il libretto di Carlo Cattaneo, La Città considerata come principio ideale delle istorie italiane, a cura di G. A. Belloni, pp. 140, L. 8, Vallecchi, Firenze: il Solmi ha preso dal Cattaneo il suo principio? D’altronde cosa significa «città»? Non significa forse «borghesia», ecc.?

Q 6 §6 Risorgimento. L’Italia nel Settecento. Influenza francese in Italia nella politica, nella letteratura, nella filosofia, nell’arte, nei costumi.

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I Borboni regnano a Napoli e nel ducato di Parma. Sulle influenze francesi a Parma bisogna vedere le pubblicazioni minuziose di Henti Bédarida: Parme dans la politique française au XVIII e siècle, Paris, Alcan (cfr anche: Giuseppe Ortolani, Italie et France au XVIII e siècle. Mélanges de littérature et d’histoire publiés par l’Union intellectuelle franco‑italienne, Paris, Leroux) e altre due precedenti.

Nella politica francese l’Italia, per la sua posizione geografica, è destinata ad assumere la funzione di elemento di equilibrio dinanzi alla crescente potenza dell’Austria: quindi la Francia da Luigi XIV a Luigi XVI tende ad esercitare un’azione di predominio, anticipando la politica di Napoleone III, anticipazione che si palesa nei ripetuti progetti o tentativi di federare gli Stati italiani a servizio della Francia.

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(Questi elementi della politica francese sono da analizzare attentamente, per fissare il rapporto tra fattori internazionali e fattori nazionali nello sviluppo del Risorgimento).

Q 6 §8 Risorgimento italiano. La repubblica partenopea. Cfr Antonio Manes, Un cardinale condottiere. Fabrizio Ruffo e la repubblica partenopea, Aquila, Vecchioni, 1930. Il Manes cerca di riabilitare il cardinale Ruffo (si potrebbe citare il fatto nel paragrafo di Passato e Presente in cui si citano queste riabilitazioni: Solaro della Margarita, ecc. e si parla del fatto che alcuni insegnanti «polemizzano» col Settembrini e trovano in lui molta «demagogia» contro il Borbone), addossando la responsabilità delle repressioni e degli spergiuri sul Borbone e Nelson.

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Pare che il Manes non sappia orientarsi troppo nel fissare le divisioni politiche e sociali nel Napoletano; ora parla di taglio netto tra nobiltà e clero da una parte e popolo dall’altra, ora questo taglio netto si riconfonde e si vedono nobili e clero nelle due parti. Poi addirittura dice che il Ruffo «assume un carattere tutt’affatto nazionale, se può essere usata questa parola di colore troppo moderno e contemporaneo» (e allora non erano nazionali i «patriotti» sterminati dalle bande dei sanfedisti?)

Sulla divisione della nobiltà e del clero dal popolo cfr il libro del Rodolico sull’Italia Meridionale e il suo articolo nel «Marzocco» n. 11 del 1926.

Q 6 §72 Risorgimento. Su Melchiorre Gioia cfr la bibliografia (degli scritti del Gioia) pubblicata da Angelo Ottolini nei «Libri del Giorno» del gennaio 1929 (Il centenario di Melchiorre Gioia).

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Il primo libro del Gioia è una dissertazione del 1796 presentata a un concorso bandito dall’Istituto della Repubblica Cisalpina sul quesito «Quale dei governi liberi meglio convenga alla felicità dell’Italia». Il Gioia sostiene «la repubblica una e indivisibile»; la sua dissertazione fu premiata, ma bisognerebbe vedere in quanto essa è solo una elaborazione puramente ideologica della formula giacobina. Nel 1815 pubblica Della costituzione di una monarchia nazionale rappresentativa.

Q 6 §199 Risorgimento. La Costituzione spagnola del 12. Perché i primi liberali italiani (nel 21 e dopo) scelsero la costituzione spagnola come loro rivendicazione? Si trattò solamente di un fenomeno di mimetismo e quindi di primitività politica? O di un fenomeno di pigrizia mentale? Senza trascurare completamente l’influenza di questi elementi, espressione della immaturità politica e intellettuale e quindi dell’astrattismo dei ceti dirigenti della borghesia italiana, occorre non cadere nel giudizio superficiale che tutte le istituzioni italiane siano importate dall’estero meccanicamente e sovrapposte a un contenuto nazionale refrattario.

Intanto occorre distinguere tra Italia meridionale e il resto d’Italia: la rivendicazione della Carta Spagnola nasce nell’Italia meridionale ed è ripresa in altre parti d’Italia per la funzione che ebbero i profughi napoletani nel resto d’Italia dopo la caduta della Repubblica partenopea. Ora le necessità politico‑sociali dell’Italia meridionale erano davvero molto diverse che quelle della Spagna?

L’acuta analisi fatta dal Marx della Carta spagnola (cfr lo scritto sul generale Espartero nelle opere politiche) e la dimostrazione chiara dell’essere quella Carta l’espressione esatta di necessità storiche della società spagnola e non un’applicazione meccanica dei principi della Rivoluzione francese, inducono a credere che la rivendicazione napoletana fosse più «storicistica» di quanto paia. Bisognerebbe riprendere quindi l’analisi di Marx, confrontare con la costituzione siciliana del 12 e con i bisogni meridionali: il confronto potrebbe continuare con lo Statuto albertino.

Q 6 §70 Risorgimento. Niccolò Rodolico, La prima giovinezza di Carlo Alberto, nel «Pègaso» del novembre 1930.

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(Del Rodolico è annunziato, presso il Le Monnier, un libro su Carlo Alberto Principe di Carignano, del quale l’articolo di «Pègaso» è forse un estratto). Da studiare l’elaborazione, che avviene nella classe politica piemontese, durante l’impero napoleonico, ma specialmente dopo la sua caduta, del gruppo che si stacca dai conservatori municipalisti per indicare alla dinastia un compito di unificazione nazionale, gruppo che avrà la sua massima estrinsecazione nei neoguelfi del 48. Carattere dinastico e non nazionale di questo nuovo gruppo (di cui il De Maistre è elemento notevolissimo): politica furbesca, più che machiavellica, di esso, che però diventerà la politica prevalente dei dirigenti fino al 70 e anche dopo: sua debolezza organica che si mostra specialmente nel nodo 48‑49 e che è legata a questa politica di furberia meschina e angusta.

Q 6 §171 Risorgimento. Un centro di propaganda intellettuale per l’organizzazione e la «condensazione» del gruppo intellettuale dirigente della borghesia italiana del Risorgimento è quello costituito dal Vieusseux in Firenze, col Gabinetto letterario e le pubblicazioni periodiche: l’«Antologia», l’«Archivio Storico Italiano», il «Giornale Agrario», la «Guida dell’Educatore». Manca una pubblicazione tecnico‑industriale, come il «Politecnico» di Carlo Cattaneo (che nascerà, non a caso, a Milano).

Le iniziative del Vieusseux indicano quali fossero i problemi più importanti che interessavano gli elementi più progressivi del tempo: la scuola e l’istruzione pubblica, l’industria agricola, la cultura letteraria e storica. È vero che l’«Antologia» riassumeva tutte queste attività, ma sarà da vedere se in essa ebbe molta importanza (o quale) la tecnologia industriale. Manca anche un’attività specializzata di «economia politica».

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(Bisogna vedere se in quel tempo esistevano per l’economia politica e per la tecnologia riviste specializzate negli altri paesi, specialmente Inghilterra e Francia, o se esse venivano trattate e divulgate solo con libri. Il saggio di economia politica e di tecnologia è forse più tardo anche in questi paesi). Cfr sul movimento del Vieusseux: Francesco Baldasseroni, Il Rinnovamento civile in Toscana, Firenze, Olschki, 1931.

Q 6 §113 Risorgimento. Campagna e città. Pare che da questo punto di vista sia interessante il saggio di Carlo Cattaneo, La città considerata come principio ideale delle istorie italiane pubblicato da G. A. Belloni presso l’edit. Vallecchi (1930 o 31). Il saggio era apparso a puntate nel «Crepuscolo» del 1858 e non fu mai raccolto nelle opere del Cattaneo curate dal Bertani, da Gabriele Rosa e dalla Mario.

Secondo il Belloni il concetto esposto dal Cattaneo della necessità dell’unione tra città e campagna per il Risorgimento italiano era già stato affermato dal Romagnosi. Potrebbe il Cattaneo averlo preso anche dalla letteratura francese democratica del tempo, che seguiva la tradizione giacobina (cfr per es. I Misteri del Popolo del Sue che ebbero tanta diffusione anche in Italia). In ogni caso il fatto importante sarebbe stato non di esprimere quel concetto, ma di dargli un’espressione politica italiana immediata, ciò che appunto mancò e anzi fu voluto evitare sistematicamente dai partiti democratici del Risorgimento.

Q 6 §1 Risorgimento. Avvenimenti del febbraio 1853 e moderati milanesi.

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Nell’articolo su Francesco Brioschi nel «Marzocco» del 6 aprile 1930 (capitolo del volume Rievocazioni dell’Ottocento), Luca Beltrami ricorda che il Brioschi fu accusato di aver firmato l’indirizzo di devozione a Francesco Giuseppe nel febbraio 1853 (dopo l’attentato di un calzolaio viennese). Il Brioschi non firmò (se c’è un Brioschi tra i firmatari, non si trattava dell’illustre professore dell’Università di Pavia, e futuro organizzatore del Politecnico). Il Beltrami annota: «e non sarebbe nemmeno da definire atto di cortigianeria quello dei funzionari del governo, “invitati” a firmare la protesta contro l’atto insano e incosciente di un calzolaio viennese». Però il Beltrami dimentica che l’indirizzo fu firmato dopo le repressioni di Milano e alla vigilia di Belfiore.

Q 6 §119 Risorgimento. Tradizioni militari del Piemonte. Non esistevano in Piemonte fabbriche di armi: le armi dovevano tutte essere comprate all’estero. Come «tradizione» militare non c’è male.

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Su questo argomento sarà bene fare delle ricerche. Le armi che Carlo Alberto mandò al Sonderbund svizzero, e che sguarnirono il Piemonte prima del 48, furono vendute e a quanto o regalate? Il Piemonte ci perdette? Quando fu impiantata la prima fabbrica d’armi?

Nel discorso di Cavour al Senato del 23 maggio 1851 si dice appunto che non esistono fabbriche e che si spera, dopo il ribasso del prezzo del ferro che sarà determinato dalla politica liberista (trattato con l’Inghilterra) che fabbriche di armi potranno nascere.

Q 6 §114 Risorgimento. Cfr per alcuni episodi il libro di F. Martini, Confessioni e Ricordi (1859‑1892), Treves, Milano, 1928. Del libro sono interessanti alcuni capitoli: il primo «Per cominciare e per finire» è interessante per l’atteggiamento politico dei moderati toscani nel 1859 che non è stato solo un mero fatto di psicologia da descrivere bonariamente, come fa il Martini, ma un netto atteggiamento politico, legato a convinzioni e a una linea precisa, come dimostrano i documenti recentemente pubblicati (cfr articolo di Panella nel «Marzocco» e polemica col Puccioni). I moderati toscani non volevano la fine del granducato, erano federalisti reazionari. Gli episodi di abulia militare in Toscana nel 59 non sono solo da collegare con la «psicologia» del popolo toscano, come fa il Martini: fu un sabotaggio della guerra nazionale o per lo meno una forma di «neutralità» sabotatrice. Lo scarso numero dei «volontari» fu una conseguenza della cattiva volontà dei moderati.

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Anche l’importanza dell’intervento francese nel 59 è messa più in rilievo da questi fatti: come, dalle parole testuali del Martini, è posta in rilievo l’assenza completa di coscienza e orgoglio nazionale nei moderati, i quali dicevano che l’«imperatore deve far lui la guerra», cioè che non l’Italia deve liberarsi da sé, ma la Francia deve liberare l’Italia. Si capisce come nella tradizione burocratica francese della politica estera si siano formate certe convinzioni e si sia costituita una linea nei riguardi dell’apprezzamento del personale dirigente italiano.

Altro capitolo interessante è «Parlamentum indoctum», dove si possono trovare spunti sulla preparazione intellettuale di molti uomini politici del tempo. Il Martini bonariamente giustifica l’ignoranza crassa di uomini come Nicotera, affermando che le congiure e l’ergastolo non avevano loro lasciato il tempo di studiare. Certo la vita del Nicotera non era fatta per permettere studi «regolari»; ma il Settembrini fu anch’egli all’ergastolo e pure non perse il tempo. Qualche meridionale, seccato dalla letteratura retorica contro i Borboni (già prima della guerra, ricordo un articolo di Oreste Mosca nella «Vela latina» di F. Russo) scrisse che in Piemonte (con 5 milioni di abitanti) c’erano 5 ergastoli come a Napoli con 10 milioni di abitanti, per cui, o in Piemonte c’era più reazione, o c’era più delinquenza; in ogni caso Napoli non ci faceva poi tanto cattiva figura.

Detto in forma paradossale, il fatto è giusto: negli ergastoli napoletani i patriotti stavano relativamente meglio che negli ergastoli piemontesi dove dominarono i gesuiti per molto tempo e una burocrazia militare e civile ben più fiscale e «regolamentatrice» di quella napoletana. Gli ergastolani non avevano la catena ai piedi ed erano in compagnia: la loro condanna era «psicologicamente e moralmente» più grave di quella ai lavori forzati a tempo, ma non «materialmente»: la gravità consisteva che molti ergastolani erano stati condannati a morte, avevano «realmente» creduto di stare per essere giustiziati e poi, all’ultimo momento, furono graziati: per altro, l’ergastolo non poteva essere ritenuto veramente tale da uomini politici che non potevano ritenere che il regime borbonico sarebbe durato quanto la loro vita. Ciò sia detto senza togliere nulla alla valutazione dei loro patimenti.

Di fatto essi «potevano studiare», ma alcuni lo fecero (Settembrini, per es.), altri no (Nicotera, per es.) e quindi la ragione addotta dal Martini, per non essere universale, non è valida. La ragione deve essere ricercata altrove e cioè nella scarsa coscienza di classe rivoluzionaria di molti di quegli uomini e dei doveri che spettavano a ogni elemento di tale classe; cioè scarsa passione politica da non confondersi col fanatismo e settarismo, che invece abbondavano.

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Su Vittorio Emanuele II il Martini racconta a pp. 152-153 questo aneddoto riferitogli da Quintino Sella: Nell’ottobre 1870 Vittorio Emanuele ricevette a Palazzo Pitti la deputazione romana che gli portava il plebiscito di Roma. Presenti Lanza e Sella. Il Sella gli disse: «Vostra Maestà deve essere oggi molto lieta». Vittorio Emanuele rispose: «Ca staga ciutu; am resta nen aut che tireme un coulp de revolver; per l’on c’am resta da vive ai sarà pi nen da piè». Perciò il Sella chiamava Vittorio Emanuele «l’ultimo dei conquistatori».


Txt.: F. Martini - Confessioni e Ricordi

Q 6 §161 Risorgimento. Garibaldi. Cfr Emanuele Librino, L’attività politica di Garibaldi nel 1861, Nuova Antologia, 16 febbraio 1931. Pubblica una piccola nota di Garibaldi al generale Medici in cui si dice che la ragione principale del conflitto con Cavour è questa: Cavour vuole un governo costituzionale tipo francese, con un esercito stanziale che potrà essere impiegato contro il popolo; Garibaldi vuole un governo all’inglese, senza esercito stanziale, ma con la nazione armata. Tutto qui il contrasto Cavour-Garibaldi? Si può vedere la scarsezza di capacità politica del Garibaldi e la non sistematicità delle sue opinioni.

Q 6 §159 Risorgimento. Cfr Emanuele Librino, Agostino Depretis prodittatore in Sicilia (Documenti inediti sulla Spedizione dei Mille: lettere di Garibaldi, Cavour, Farini, Crispi, Bixio e Bertani), Nuova Antologia del 16 dicembre 1930.

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Quistione dell’annessione immediata: lotte tra partito d’azione e moderati. Di fronte al partito d’azione che non volle fare appello ai contadini, vittoria della politica di Cavour che trovò i suoi alleati nei latifondisti che volevano l’annessione immediata. Si trovano accenni interessanti a questo proposito: richieste di carabinieri sardi, ecc. I latifondisti non volevano restare sotto la minaccia di un movimento popolare per le terre ed erano diventati unitari spasimanti. (L’articolo deve essere messo insieme al libro di Crispi sui Mille).

Q 6 §46 La funzione dello zarismo in Europa. Cfr la lettera al conte Vimercati di Cavour (del 4 gennaio 1861) pubblicata da A. Luzio nella Nuova Antologia del 16 gennaio 1930 (I carteggi cavouriani). Cavour, dopo aver esposto i suoi accordi con l’emigrazione ungherese per la preparazione di un’insurrezione in Ungheria e nei paesi slavi dell’Impero austriaco, cui avrebbe seguito un attacco italiano per la liberazione delle Venezie, continua: «Depuis lors deux événements ont profondément modifié la situatìon. Les conférences de Varsovie et les concessions successives de l’Empereur d’Autriche. Si, comme il est à craindre, l’Empereur de Russie s’est montré disposé à Varsovie à intervenir en Hongrie dans le cas où une insurrection éclaterait dans ce pays, il est évident qu’un mouvement ne pourrait avoir lieu avec chance de succès qu’autant que la France serait disposée à s’opposer par la force à l’intervention Russe», ecc. ecc.

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Questo articolo del Luzio è anche interessante perché accenna alle mutilazioni subite dai documenti del Risorgimento nelle pubblicazioni di storia e nelle raccolte di materiali. Il Luzio doveva essere già all’Archivio di Stato di Torino (o all’Archivio reale) quando fu perquisita l’abitazione del prof. Bollea1 per la pubblicazione di lettere del D’Azeglio che pure non importavano quistioni diplomatiche (si era in guerra proprio contro l’Austria e la Germania). Sarebbe interessante sapere se il Luzio protestò allora per la perquisizione e i sequestri o se non fu lui a consigliarli alla questura di Torino.

Note

Primo Novecento

Q 6 §69 Caporetto. Sul libro del Volpe Ottobre 1917. Dall’Isonzo al Piave, cfr la recensione di Antonio Panella nel «Pègaso» dell’ottobre 1930. La recensione è benevola ma superficiale. Caporetto fu essenzialmente un «infortunio militare»; che il Volpe abbia dato, con tutta la sua autorità di storico e di uomo politico, a questa formula il valore di un luogo comune soddisfa molta gente che sentiva tutta l’insufficienza storica e morale (l’abbiezione morale) della polemica su Caporetto come «crimine» dei disfattisti o come «sciopero militare». Ma è troppa la compiacenza per la validità di questo nuovo luogo comune, perché non debba esserci una reazione, che d’altronde è più difficile di quella al precedente luogo comune, come appare dalla critica fatta dall’Omodeo al libro del Volpe.

«Assolti» i soldati, la massa militare esecutiva e strumentale («l’outil tactique élémentaire» come Anatole France fa dire a un generale dei soldati), si sente che il processo non è finito: la polemica tra il Volpe e l’Omodeo sugli «ufficiali di complemento» è interessante come indizio. Pare, dall’Omodeo, che il Volpe misconosca l’apporto bellico degli ufficiali di complemento, cioè della piccola borghesia intellettuale e quindi indirettamente indichi questa come responsabile dell’«infortunio», pur di salvare la classe superiore, che è già messa al sicuro dalla parola «infortunio».

La responsabilità storica deve essere cercata nei rapporti generali di classe in cui soldati, ufficiali di complemento e stati maggiori occupano una posizione determinata, quindi nella struttura nazionale, di cui sola responsabile è la classe dirigente appunto perché dirigente (vale anche qui l’«ubi maior, minor cessat»). Ma questa critica, che sarebbe veramente feconda, anche dal punto di vista nazionale, brucia le dita.

Q 6 §74 Caporetto. Cfr il libro del gen. Alberto Baldini sul generale Diaz (Diaz, in 8°, pp. 263, Barbèra ed., L. 15, 1929). Il generale Baldini pare critichi implicitamente Cadorna e cerchi di dimostrare che Diaz ebbe una importanza molto maggiore di quanto non gli sia riconosciuta.

In questa polemica sul significato di Caporetto bisognerebbe fissare alcuni punti chiari e precisi:

1) Caporetto fu un fatto puramente militare? Questa spiegazione pare ormai acquisita agli storici della guerra, ma essa è basata su un equivoco. Ogni fatto militare è anche un fatto politico e sociale. Subito dopo la sconfitta si cercò di diffondere la convinzione che le responsabilità politiche di Caporetto fossero da ricercare nella massa militare, cioè nel popolo e nei partiti che ne erano l’espressione politica. Questa tesi è oggi universalmente respinta, anche ufficialmente. Ma ciò non vuol dire che Caporetto perciò solo diventi puramente militare, come si tende a far credere, come se fattore politico fosse solo il popolo, cioè i responsabili della gestione politico‑militare. Anche se fosse dimostrato (come invece si esclude universalmente) che Caporetto sia stato uno «sciopero militare», ciò non vorrebbe dire che la responsabilità politica debba essere accollata al popolo ecc. (dal punto di vista giudiziario può spiegarsi, ma il punto di vista giudiziario è un atto di volontà unilaterale tendente a integrare col terrorismo l’insufficienza governativa): storicamente, cioè dal punto di vista politico più alto, la responsabilità sarebbe sempre dei governanti, e della loro incapacità a prevedere che determinati fatti avrebbero potuto portare allo sciopero militare e quindi a provvedere a tempo, con misure adeguate (sacrifici di classe) a impedire una tale possibile emergenza.

Che ai fini immediati di psicologia della resistenza, in caso di forza maggiore, si affermi che «occorre rompere i reticolati coi denti» è comprensibile, ma che si abbia la convinzione che in ogni caso i soldati debbano rompere i reticolati coi denti, perché così vuole l’astratto dovere militare, e si trascuri di provvederli delle tenaglie, è criminoso. Che si abbia la convinzione che la guerra non si fa senza vittime umane è comprensibile, ma che non si tenga conto che le vite umane non debbono essere sacrificate inutilmente, è criminoso ecc. Questo principio, dal rapporto militare si estende al rapporto sociale. Che si abbia la convinzione, e la si sostenga senza limitazioni, che la massa militare debba fare la guerra e sopportarne tutti i sacrifizi, è comprensibile, ma che si ritenga che ciò avverrà in ogni caso senza tener conto del carattere sociale della massa militare e senza venire incontro alle esigenze di questo carattere, è da semplicioni, cioè da politici incapaci.

2) Così la responsabilità, se è esclusa quella della massa militare, non può neanche essere del capo supremo, cioè di Cadorna, oltre certi limiti, cioè oltre i limiti segnati dalle possibilità di un capo supremo, della tecnica militare, e delle attribuzioni politiche che un capo supremo ha in ogni caso. Cadorna ha avuto gravi responsabilità, certamente, sia tecniche che politiche, ma queste ultime non possono essere state decisive. Se Cadorna non ha capito la necessità di un «governo politico determinato» delle masse comandate e non le ha esposte al governo, è certo responsabile, ma non quanto il governo e in generale quanto la classe dirigente, di cui, in ultima analisi, ha espresso la mentalità e la comprensione politica. Il fatto che non ci sia stata una analisi obbiettiva dei fattori che hanno determinato Caporetto e un’azione concreta per eliminarli, dimostra «storicamente» questa responsabilità estesa.

3) L’importanza di Caporetto nel decorso dell’intera guerra. La tendenza attuale tende a diminuire il significato di Caporetto e a farne un semplice episodio del quadro generale. Questa tendenza ha un significato politico e avrà delle ripercussioni politiche nazionali e internazionali: dimostra che non si vogliono eliminare i fattori generali che hanno determinato la sconfitta, ciò che ha un peso nel regime delle alleanze e nelle condizioni che saranno fatte al paese nel caso di una nuova combinazione bellica, poiché le critiche di se stessi che non si vogliono fare nel campo nazionale per evitare determinate conseguenze necessarie all’indirizzo politico‑sociale, saranno fatte indubbiamente dagli organismi responsabili degli altri paesi in quanto l’Italia è presunta poter far parte di alleanze belliche. Gli altri paesi, nei calcoli in vista di alleanze, dovranno tener conto di nuovi Caporetto e vorranno dei premi di assicurazione, cioè vorranno l’egemonia anche oltre certi limiti.

4) L’importanza di Caporetto nel quadro della guerra mondiale. È data anche dai mezzi forniti al nemico (tutti i magazzini di viveri e di munizioni ecc.) che permisero una più lunga resistenza, e la necessità imposta agli alleati di ricostituire questi depositi con turbamento di tutti i servizi e piani generali.

È vero che in tutte le guerre e anche in quella mondiale, si ebbero altri fatti simili a Caporetto. Ma occorre vedere (all’infuori della Russia) se ebbero la stessa importanza assoluta e relativa, se ebbero cause simili o paragonabili, se ebbero conseguenze simili o paragonabili per la posizione politica del paese il cui esercito subì la sconfitta. Dopo Caporetto l’Italia, materialmente (per gli armamenti, per gli approvvigionamenti, ecc.) cadde in balia degli alleati, la cui attrezzatura economica non era paragonabile per efficienza. L’assenza di autocritica significa non volontà di eliminare le cause del male ed è quindi un sintomo di grave debolezza politica.

Mat. Bibl.: Cadornismo

Q 6 §150 Passato e presente. Sulla marcia su Roma vedere il numero di «Gioventù Fascista» pubblicato per il nono anniversario (1931) con articoli molto interessanti di De Bono e Balbo. Balbo, tra l’altro, scrive: «Mussolini agì. Se non lo avesse fatto, il movimento fascista avrebbe perpetuato per decenni la guerriglia civile e non è escluso che altre forze, che militavano, come le nostre, al di fuori della legge dello Stato, ma con finalità anarchiche e distruttive, avrebbero finito per giovarsi della neutralità e dell’impotenza statale per compiere più tardi il gesto di rivolta da noi tentato nell’ottobre del ’22. In ogni modo è certo che senza la Marcia su Roma, cioè senza la soluzione rivoluzionaria, il nostro movimento sarebbe andato incontro a quelle fatali crisi di stanchezza, di tendenze e di indisciplina, che erano state la tomba dei vecchi partiti».

C’è qualche inesattezza: lo Stato non era «neutrale ed impotente» come si è soliti dire, appunto perché il movimento fascista ne era il principale sostegno in quel periodo; né ci poteva essere «guerra civile» tra lo Stato e il movimento fascista, ma solo un’azione violenta sporadica per mutare la direzione dello Stato e riformarne l’apparato amministrativo. Nella guerriglia civile il movimento fascista fu in linea con lo Stato, non contro lo Stato, altro che per metafora e secondo la forma esterna della legge.

Mat. Bibl.: Storia del Fascismo

Q 6 §76 La funzione europea dello zarismo nel secolo XIX . Il principe di Bülow nelle sue Memorie racconta di essersi trovato da Bethmann‑Holwegg subito dopo la dichiarazione di guerra della Germania alla Russia nell’agosto 1914. Bethmann, interrogato perché avesse cominciato dal dichiarare la guerra alla Russia, rispose: «Per aver subito dalla mia parte i socialdemocratici». Bülow fa a questo proposito alcune osservazioni sulla psicologia di Bethmann‑Holwegg, ma ciò che importa dal punto di vista di questa rubrica è la sicurezza del Cancelliere di poter avere dalla sua parte la socialdemocrazia contro lo zarismo russo; il Cancelliere sfruttava abilmente la tradizione del 48, ecc., del «gendarme d’Europa».

Q 6 §54 Su l’impero inglese. Funzione del re d’Inghilterra come nesso politico imperiale: cioè del Consiglio privato della Corona, e specialmente del Comitato giuridico del Consiglio privato, che non soltanto accoglie i reclami contro le decisioni delle Alte Corti dei Dominions, ma anche giudica le controversie tra i membri dello stesso Impero. Questo Comitato è il più forte legame organizzativo dell’Impero.

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Lo Stato libero d’Irlanda e l’Africa del Sud aspirano a sottrarsi al Comitato giuridico. Gli uomini politici responsabili non sanno come sostituirlo. Augur è favorevole alla massima libertà interna nell’Impero: chiunque può uscirne, ma ciò, secondo lui, dovrebbe anche voler dire che chiunque può domandare di entrarvi: egli prevede che il Commonwealth può diventare un organismo mondiale dopo però che siano chiarite le relazioni dell’Inghilterra con gli altri paesi, e specialmente con gli Stati Uniti (Augur sostiene l’egemonia inglese nell’Impero, dell’Inghilterra propriamente detta, data, anche in regime di uguaglianza, dal peso economico e culturale).

Q 6 §142 Passato e presente. La Corsica. Nell’«Italia Letteraria» del 9 agosto 1931 è pubblicato un articolo di Augusto Garsia Canti d’amore e di morte nella terra dei Corsi.

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Il Garsia pare sia stato recentemente in Corsica con Umberto Biscottini che notoriamente organizza a Livorno tutta l’attività irredentistica in Corsica (edizione corsa del «Telegrafo», «Giornale di Politica e di Letteratura», libri, zibaldoni, ecc.). Dall’articolo del Garsia appare che si stampa da poco tempo una rivista «31‑47», «che riporta molti articoli dell’edizione speciale fatta per i corsi del giornale “Il Telegrafo” e introdotta clandestinamente nell’isola». Anche da Raffaello Giusti di Livorno è ora edito l’«Archivio storico di Corsica», che usciìnel 25 a Milano e la cui direzione più tardi fu assunta da Gioacchino Volpe. Il «Giornale di Politica e di Letteratura» non può entrare in Francia (quindi in Corsica).

L’irredentismo italiano in Italia è sufficientemente diffuso; non so quanto in Corsica. C’è in Corsica il movimento della «Muvra» e del Partito Corso d’Azione, ma essi non vogliono uscire dai quadri francesi e tanto meno riunirsi all’Italia; vogliono tutt’al più una larga autonomia e partecipano al movimento autonomista francese (Bretagna, Alsazia, Lorena, ecc.).

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Ricordare l’avvocatino veneto che incontrai in treno nel 1914; era abbonato alla Muvra, all’«Archivio storico di Corsica», leggeva romanzi di autori corsi (per es. Pierre Dominique, che per lui era un rinnegato). Sosteneva la rivendicazione non solo della Corsica, ma anche di Nizza e della Savoia.

Anche il comm. Belloni, vice‑questore di Roma, quando nel settembre 1925 mi fece una perquisizione domiciliare di quattro ore, mi parlò a lungo di queste rivendicazioni. Il veterinario di Ghilarza, prima della guerra, dott. Nessi, brianzolo, rivendicava anche il Delfinato, Lione compresa, e trovava ascolto fra i piccoli intellettuali sardi che sono francofobi estremisti per ragioni economiche (la guerra di tariffe con la Francia dopo il 1889) e per ragioni nazionalistiche (i Sardi sostengono che neanche Napoleone ha potuto conquistare la Sardegna e la festa di S. Efisio a Cagliari non è altro che la riproduzione della vittoria dei Sardi sui francesi del 1794 con l’intera distruzione della flotta francese (40 fregate) e di un corpo di sbarco di 4000 uomini.

Politica

Politologia

Q 6 §75 Passato e presente. Dovrebbe essere una massima di governo cercare di elevare il livello della vita materiale del popolo oltre un certo livello. In questo indirizzo non è da ricercare uno speciale motivo «umanitario» e neppure una tendenza «democratica»: anche il governo più oligarchico e reazionario dovrebbe riconoscere la validità «obbiettiva» di questa massima, cioè il suo valore essenzialmente politico (universale nella sfera della politica, nell’arte di conservare e accrescere la potenza dello Stato).

Ogni governo non può prescindere dall’ipotesi di una crisi economica e specialmente non può prescindere dall’ipotesi di essere costretto a fare una guerra, cioè a dover superare la massima crisi cui può essere sottoposta una compagine statale e sociale. E poiché ogni crisi significa un arretramento del tenore di vita popolare, è evidente che occorre la preesistenza di una zona di arretramento sufficiente perché la resistenza «biologica» e quindi psicologica del popolo non crolli al primo urto con la nuova realtà. Il grado di potenza reale di uno Stato deve essere pertanto misurato anche alla stregua di questo elemento, che è poi coordinato agli altri elementi di giudizio sulla solidità strutturale di un paese.

Se infatti le classi dominanti di una nazione non sono riuscite a superare la fase economica‑corporativa che le porta a sfruttare le masse popolari fino all’estremo consentito dalle condizioni di forza, cioè a ridurle solo alla vegetatività biologica, è evidente che non si può parlare di potenza dello Stato, ma solo di mascheratura di potenza. Mi pare sia importante in questo esame di un punto essenziale di arte politica evitare sistematicamente ogni accenno extrapolitico (in senso tecnico, cioè fuori della sfera tecnicamente politica), cioè umanitario, o di una determinata ideologia politica (non perché l’«umanitarismo» non sia anch’esso una politica, ecc.). Per questo paragrafo è indispensabile ricorrere all’articolo del prof. Mario Camis pubblicato nel fascicolo gennaio‑febbraio della «Riforma Sociale» del 1926.

Q 6 §81 Egemonia (società civile) e divisione dei poteri. La divisione dei poteri e tutta la discussione avvenuta per la sua realizzazione e la dogmatica giuridica nata dal suo avvento, sono il risultato della lotta tra la società civile e la società politica di un determinato periodo storico, con un certo equilibrio instabile delle classi, determinato dal fatto che certe categorie d’intellettuali (al diretto servizio dello Stato, specialmente burocrazia civile e militare) sono ancora troppo legate alle vecchie classi dominanti.

Si verifica cioè nell’interno della società quello che il Croce chiama il «perpetuo conflitto tra Chiesa e Stato», in cui la Chiesa è presa a rappresentare la società civile nel suo insieme (mentre non ne è che un elemento gradatamente meno importante) e lo Stato ogni tentativo di cristallizzare permanentemente un determinato stadio di sviluppo, una determinata situazione. In questo senso la Chiesa stessa può diventare Stato e il conflitto può manifestarsi tra Società civile laica e laicizzante e Stato‑Chiesa (quando la Chiesa è diventata una parte integrante dello Stato, della società politica monopolizzata da un determinato gruppo privilegiato che si aggrega la Chiesa per sostenere meglio il suo monopolio col sostegno di quella zona di società civile rappresentata dalla Chiesa).

Importanza essenziale della divisione dei poteri per il liberalismo politico ed economico: tutta l’ideologia liberale, con le sue forze e le sue debolezze, può essere racchiusa nel principio della divisione dei poteri e appare quale sia la fonte della debolezza del liberalismo: è la burocrazia, cioè la cristallizzazione del personale dirigente che esercita il potere coercitivo e che a un certo punto diventa casta. Onde la rivendicazione popolare della eleggibilità di tutte le cariche, rivendicazione che è estremo liberalismo e nel tempo stesso sua dissoluzione (principio della Costituente in permanenza ecc.; nelle Repubbliche l’elezione a tempo del capo dello Stato dà una soddisfazione illusoria a questa rivendicazione popolare elementare).

Unità dello Stato nella distinzione dei poteri: il Parlamento più legato alla società civile, il potere giudiziario tra Governo e Parlamento, rappresenta la continuità della legge scritta (anche contro il Governo). Naturalmente tutti e tre i poteri sono anche organi dell’egemonia politica, ma in diversa misura: 1) Parlamento; 2) Magistratura; 3) Governo. È da notare come nel pubblico facciano specialmente impressione disastrosa le scorrettezze della amministrazione della giustizia: l’apparato egemonico è più sensibile in questo settore, al quale possono ricondursi anche gli arbitri della polizia e dell’amministrazione politica.

Q 6 §97 Passato e presente. Grande ambizione e piccole ambizioni. Può esistere politica, cioè storia in atto, senza ambizione? «L’ambizione» ha assunto un significato deteriore e spregevole per due ragioni principali: 1) perché è stata confusa l’ambizione (grande) con le piccole ambizioni; 2) perché l’ambizione ha troppo spesso condotto al più basso opportunismo, al tradimento dei vecchi principii e delle vecchie formazioni sociali che avevano dato all’ambizioso le condizioni per passare a servizio più lucrativo e di più pronto rendimento. In fondo anche questo secondo motivo si può ridurre al primo: si tratta di piccole ambizioni, poiché hanno fretta e non vogliono aver da superare soverchie difficoltà o troppo grandi difficoltà, o correre troppo grandi pericoli.

È nel carattere di ogni capo di essere ambizioso, cioè di aspirare con ogni sua forza all’esercizio del potere statale. Un capo non ambizioso non è un capo, ed è un elemento pericoloso per i suoi seguaci: egli è un inetto o un vigliacco. Ricordare l’affermazione di Arturo Vella: «Il nostro partito non sarà mai un partito di governo», cioè sarà sempre partito di opposizione: ma che significa proporsi di stare sempre all’opposizione? Significa preparare i peggiori disastri, perché se l’essere all’opposizione è comodo per gli oppositori, non è «comodo» (a seconda, naturalmente, delle forze oppositrici e della loro natura) per i dirigenti del governo, i quali a un certo punto dovranno porsi il problema di spezzare e spazzare l’opposizione. La grande ambizione, oltre che necessaria per la lotta, non è neanche spregevole moralmente, tutt’altro: tutto sta nel vedere se l’«ambizioso» si eleva dopo aver fatto il deserto intorno a sé, o se il suo elevarsi è condizionato consapevolmente dall’elevarsi di tutto uno strato sociale e se l’ambizioso vede appunto la propria elevazione come elemento dell’elevazione generale.

Di solito si vede la lotta delle piccole ambizioni (del proprio particulare) contro la grande ambizione (che è indissolubile dal bene collettivo). Queste osservazioni sull’ambizione possono e devono essere collegate con altre sulla così detta demagogia.

Demagogia vuol dire parecchie cose: nel senso deteriore significa servirsi delle masse popolari, delle loro passioni sapientemente eccitate e nutrite, per i propri fini particolari, per le proprie piccole ambizioni (il parlamentarismo e l’elezionismo offrono un terreno propizio per questa forma particolare di demagogia, che culmina nel cesarismo e nel bonapartismo coi suoi regimi plebiscitari). Ma se il capo non considera le masse umane come uno strumento servile, buono per raggiungere i propri scopi e poi buttar via, ma tende a raggiungere fini politici organici di cui queste masse sono il necessario protagonista storico, se il capo svolge opera «costituente» costruttiva, allora si ha una «demagogia» superiore; le masse non possono non essere aiutate a elevarsi attraverso l’elevarsi di singoli individui e di interi strati «culturali».

Il «demagogo» deteriore pone se stesso come insostituibile, crea il deserto intorno a sé, sistematicamente schiaccia ed elimina i possibili concorrenti, vuole entrare in rapporto con le masse direttamente (plebiscito, ecc., grande oratoria, colpi di scena, apparato coreografico fantasmagorico: si tratta di ciò che il Michels ha chiamato «capo carismatico»).

Il capo politico dalla grande ambizione invece tende a suscitare uno strato intermedio tra sé e la massa, a suscitare possibili «concorrenti» ed eguali, a elevare il livello di capacità delle masse, a creare elementi che possano sostituirlo nella funzione di capo. Egli pensa secondo gli interessi della massa e questi vogliono che un apparecchio di conquista o di dominio non si sfasci per la morte o il venir meno del singolo capo, ripiombando la massa nel caos e nell’impotenza primitiva. Se è vero che ogni partito è partito di una sola classe, il capo deve poggiare su di questa ed elaborarne uno stato maggiore e tutta una gerarchia; se il capo è di origine «carismatica», deve rinnegare la sua origine e lavorare a rendere organica la funzione della direzione, organica e coi caratteri della permanenza e continuità.

Q 6 §154 I sansimoniani. La forza espansiva dei sansimoniani.

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È da ricordare l’osservazione di Goethe nelle Memorie (cfr) scritte nel 1828: «Questi signori del “Globe”... sono penetrati da uno stesso spirito. In Germania un giornale simile sarebbe impossibile. Noi siamo solamente dei particolari; non si può pensare ad una intesa; ognuno ha l’opinione della sua provincia, della sua città, del suo proprio individuo e ci vorrà molto tempo prima che si creino dei sentimenti comuni».

Q 6 §107 Passato e presente. Giolitti e Croce. Si può osservare, e bisognerà documentare cronologicamente come Giolitti e Croce, uno nell’ordine della politica attuale, l’altro nell’ordine della politica culturale e intellettuale, abbiano commesso gli stessi e precisi errori. L’uno e l’altro non compresero dove andava la corrente storica e praticamente aiutarono ciò che poi avrebbero voluto evitare e cercarono di combattere. In realtà, come Giolitti non comprese quale mutamento aveva portato nel meccanismo della vita politica italiana l’ingresso delle grandi masse popolari, così Croce non capì, praticamente, quale potente influsso culturale (nel senso di modificare i quadri direttivi intellettuali) avrebbero avuto le passioni immediate di queste masse.

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Da questo punto di vista è da vedere la collaborazione del Croce alla «Politica» di F. Coppola (anche il De Ruggiero vi collaborò nello stesso periodo): come mai il Croce, che aveva assunto un determinato atteggiamento verso Coppola e C. nel periodo 1914‑15 con gli articoli dell’«Italia Nostra» e della «Critica» (e il Coppola era specialmente preso di mira dalle noterelle di «Italia Nostra» scritte, mi pare, dal De Lollis) poté nel 1919‑20 dare a questo gruppo l’appoggio della sua collaborazione, proprio con articoli in cui il sistema liberale era criticato e limitato? ecc. ecc.

Q 6 §87 Armi e religione. Affermazione del Guicciardini che per la vita di uno Stato due cose sono assolutamente necessarie: le armi e la religione. La formula del Guicciardini può essere tradotta in varie altre formule, meno drastiche: forza e consenso, coercizione e persuasione, Stato e Chiesa, società politica e società civile, politica e morale (storia etico‑politica del Croce), diritto e libertà, ordine e disciplina, o, con un giudizio implicito di sapore libertario, violenza e frode. In ogni caso nella concezione politica del Rinascimento la religione era il consenso e la Chiesa era la Società civile, l’apparato di egemonia del gruppo dirigente, che non aveva un apparato proprio, cioè non aveva una propria organizzazione culturale e intellettuale, ma sentiva come tale l’organizzazione ecclesiastica universale. Non si è fuori del Medio Evo che per il fatto che apertamente si concepisce e si analizza la religione come «instrumentum regni».

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Da questo punto di vista è da studiare l’iniziativa giacobina dell’istituzione del culto dell’«Ente supremo», che appare pertanto come un tentativo di creare identità tra Stato e società civile, di unificare dittatorialmente gli elementi costitutivi dello Stato in senso organico e più largo (Stato propriamente detto e società civile) in una disperata ricerca di stringere in pugno tutta la vita popolare e nazionale, ma appare anche come la prima radice dello Stato moderno laico, indipendente dalla Chiesa, che cerca e trova in se stesso, nella sua vita complessa, tutti gli elementi della sua personalità storica.

Q 6 §12 Stato e società regolata. Nelle nuove tendenze «giuridiche» rappresentate specialmente dai «Nuovi Studi» del Volpicelli e dello Spirito è da notare, come spunto critico iniziale, la confusione tra il concetto di Stato‑classe e il concetto di società regolata. Questa confusione è specialmente notevole nella memoria La libertà economica svolta dallo Spirito nella XIX Riunione della Società per il progresso delle Scienze tenuta a Bolzano nel settembre 1930 e stampata nei «Nuovi Studi» del settembre‑ottobre 1930. Finché esiste lo Stato‑classe non può esistere la società regolata, altro che per metafora, cioè solo nel senso che anche lo Stato‑classe è una società regolata.

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Gli utopisti, in quanto esprimevano una critica della società esistente al loro tempo, comprendevano benissimo che lo Stato‑classe non poteva essere la società regolata, tanto vero che nei tipi di società rappresentati dalle diverse utopie, s’introduce l’uguaglianza economica come base necessaria della riforma progettata: ora in questo gli utopisti non erano utopisti, ma concreti scienziati della politica e critici congruenti. Il carattere utopistico di alcuni di essi era dato dal fatto che ritenevano si potesse introdurre la uguaglianza economica con leggi arbitrarie, con un atto di volontà, ecc.

Rimane però esatto il concetto, che si trova anche in altri scrittori di politica (anche di destra, cioè nei critici della democrazia, in quanto essa si serve del modello svizzero o danese per ritenere il sistema ragionevole in tutti i paesi) che non può esistere eguaglianza politica completa e perfetta senza eguaglianza economica: negli scrittori del Seicento questo concetto si ritrova, per esempio, in Ludovico Zuccolo e nel suo libro Il Belluzzi e credo anche in Machiavelli. Il Maurras ritiene che in Svizzera sia possibile quella certa forma di democrazia, appunto perché c’è una certa mediocrità delle fortune economiche, ecc.

La confusione di Stato‑classe e Società regolata è propria delle classi medie e dei piccoli intellettuali, che sarebbero lieti di una qualsiasi regolarizzazione che impedisse le lotte acute e le catastrofi: è concezione tipicamente reazionaria e regressiva.

Q 6 §82 Passato e presente. Società politica e civile. Polemica intorno alle critiche di Ugo Spirito all’economia tradizionale.

Nella polemica ci sono molti sottintesi e presupposti ideologici che si evita di discutere, almeno finora, da parte degli «economisti» e anche da parte dello Spirito, a quanto pare. È evidente che gli economisti non vogliono discutere la concezione dello Stato dello Spirito, ma è proprio questa la radice del dissenso.

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Lo Spirito, d’altronde, non vuole o esita a spingerli e incalzarli su questo terreno, perché la conseguenza sarebbe di suscitare una discussione politica generale e di far apparire l’esistenza di più partiti nello stesso partito, uno dei quali, collegato strettamente con sedicenti senza partito: apparirebbe esistere un partito degli scienziati e dell’alta cultura. Da parte degli scienziati, d’altronde, sarebbe facile dimostrare tutta l’arbitrarietà delle proposizioni dello Spirito, e della sua concezione dello Stato, ma essi non vogliono uscire da certi limiti, che raramente trascendono l’indulgenza e la cortesia personale.

Quello che è comico è la pretensione dello Spirito, che gli economisti gli costruiscano una scienza economica secondo il suo punto di vista. Ma nella polemica dello Spirito non tutto è da buttar via: ci sono alcune esigenze reali, affogate nella farragine delle parole «speculative». L’episodio perciò è da notare come un momento della lotta culturale‑politica.

Nell’esposizione occorre appunto partire dalla concezione dello Stato propria dello Spirito e dell’idealismo gentiliano, che è ben lungi dall’essere stata fatta propria dallo «Stato» stesso, cioè dalle classi dominanti e dal personale politico più attivo, cioè non è per nulla diventata (tutt’altro!) elemento di una politica culturale governativa.

A ciò si oppone il Concordato (si oppone implicitamente, s’intende) ed è nota l’avversione del Gentile al Concordato, espressa nel 1928 (cfr articoli nel «Corriere della Sera» e discorsi di quel tempo); occorre tener conto del discorso di Paolo Orano alla Camera (confrontare), nel 1930, tanto più significativo se si tien conto che Paolo Orano spesso ha parlato alla Camera in senso «ufficioso». Da tener conto anche della breve ma violenta critica del libro dello Spirito (Critica dell’Economia liberale) pubblicata nella «Rivista di Politica Economica» (dicembre 1930) da A. De Pietri Tonelli, dato che la rivista è emanazione degli industriali italiani (cfr la direzione: nel passato era organo dell’Associazione delle Società Anonime). Ancora: all’Accademia è stato chiamato P. Jannaccone, noto economista ortodosso, che ha demolito lo Spirito nella «Riforma Sociale» (dicembre 1930). Cfr anche la Postilla del Croce nella «Critica» del gennaio 1931. Dalle pubblicazioni dello Spirito apparse nei «Nuovi Studi» appare come le sue tesi sono finora state accettate integralmente solo da… Massimo Fovel, noto avventuriero della politica e dell’economia. Tuttavia allo Spirito si lascia fare la voce grossa e si danno incarichi di fiducia (dal ministro Bottai, credo, che ha fondato l’«Archivio di Studi corporativi» con ampia partecipazione dello Spirito e C.).

La concezione dello Stato nello Spirito non è molto chiara e rigorosa. Talvolta sembra sostenga addirittura che prima che egli diventasse «la filosofia», nessuno abbia capito nulla dello Stato e lo Stato non sia esistito o non fosse un «vero» Stato ecc. Ma siccome vuol essere storicista, quando se ne ricorda, ammette che anche nel passato sia esistito lo Stato, ma che ormai tutto è cambiato e lo Stato (o il concetto dello Stato) è stato approfondito e posto su «ben altre» basi speculative che nel passato e poiché «quanto più una scienza è speculativa tanto più è pratica», così pare che queste basi speculative debbano ipso facto diventare basi pratiche e tutta la costruzione reale dello Stato mutare perché lo Spirito ne ha mutato le basi speculative (naturalmente non lo Spirito uomo empirico, ma Ugo Spirito ‑ Filosofia).

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Confrontare Critica dell’economia liberale, p. 180: «Il mio saggio sul Pareto voleva essere un atto di fede e di buona volontà: di fede in quanto con esso volevo iniziare lo svolgimento del programma dei “Nuovi Studi” e cioè il raccostamento e la collaborazione effettiva della filosofia e della scienza», e le illazioni sono lì: filosofia = realtà, quindi anche scienza e anche economia, cioè Ugo Spirito = sole raggiante di tutta la filosofia‑realtà, che invita gli scienziati specialisti a collaborare con lui, a lasciarsi riscaldare dai suoi raggi‑principi, anzi a essere i suoi raggi stessi per diventare «veri» scienziati, cioè «veri» filosofi.

Poiché gli scienziati non vogliono lasciarsi fare e solo qualcuno si lascia indurre a entrare in rapporto epistolare con lui ecco che lo Spirito li sfida nel suo terreno, e se non accettano ancora, sorride sardonicamente e trionfalmente: non accettano la sfida perché hanno paura o qualcosa di simile. Lo Spirito non può supporre che gli scienziati non vogliono occuparsi di lui perché non ne vale la pena e perché hanno altro da fare. Poiché egli è la «filosofia» e filosofia = scienza ecc., quegli scienziati non sono «veri» scienziati, anzi la «vera» scienza non è mai esistita ecc.

Volpicelli e Spirito, direttori dei «Nuovi Studi», i Bouvard e Pécuchet della filosofia, della politica, dell’economia, del diritto, della scienza, ecc. ecc. Quistione fondamentale: l’utopia di Spirito e Volpicelli consiste nel confondere lo Stato con la società regolata, confusione che si verifica per una puramente «razionalistica» concatenazione di concetti: individuo = società (l’individuo non è un «atomo», ma l’individuazione storica dell’intera società), società = Stato, dunque individuo = Stato.

Il carattere che differenzia questa «utopia» dalle utopie tradizionali e dalle ricerche, in generale, dell’«ottimo stato» è che Spirito e Volpicelli danno come già esistente questa loro «fantastica» entità, esistente ma non riconosciuta da altri che da loro, depositari della «vera verità», mentre gli altri (specialmente gli economisti e in generale gli scienziati di scienze sociali) non capiscono nulla, sono nell’«errore», ecc.

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Per quale «coda del diavolo» avvenga che solo Spirito e Volpicelli posseggano questa verità e gli altri non la vogliano possedere, non è stato ancora spiegato dai due, ma appare qua e là un barlume dei mezzi con cui i due ritengono che la verità dovrà essere diffusa e diventare autocoscienza: è la polizia (ricordare il discorso Gentile a Palermo nel 24). Per ragioni politiche è stato detto alle masse: «ciò che voi aspettavate e vi era stato promesso dai ciarlatani, ecco, esiste già», cioè la società regolata, l’uguaglianza economica, ecc. Spirito e Volpicelli (dietro Gentile, che però non è così sciocco come i due) hanno allargato l’affermazione, e l’hanno «speculata», «filosofizzata», sistemata, e si battono come leoni impagliati contro tutto il mondo, che sa bene cosa pensare di tutto ciò.

Ma la critica di questa «utopia» domanderebbe ben altra critica, avrebbe ben altre conseguenze che la carriera più o meno brillante dei due Aiaci dell’«attualismo» e allora assistiamo alla giostra attuale. In ogni modo è ben meritato che il mondo intellettuale sia sotto la ferula di questi due pagliacci, come fu ben meritato che l’aristocrazia milanese sia rimasta tanti anni sotto il tallone della triade. (La sottoscrizione per le nozze di donna Franca, potrebbe essere paragonata con l’atto di omaggio a Francesco Giuseppe nel 1853: da Francesco Giuseppe a donna Franca indica la caduta della aristocrazia milanese»). Bisognerebbe anche osservare come la concezione di Spirito e Volpicelli sia un derivato logico delle più scempie e «razionali» teorie democratiche. Ancora essa è legata alla concezione della «natura umana» identica e senza sviluppo come era concepita prima di Marx per cui tutti gli uomini sono fondamentalmente uguali nel regno dello Spirito (= in questo caso allo Spirito Santo e a Dio padre di tutti gli uomini).

Questa concezione è espressa nella citazione che Benedetto Croce fa nel capitolo A proposito del positivismo italiano (in Cultura e Vita morale, p. 45) da «una vecchia dissertazione tedesca»: «Omnis enim Philosophia, cum ad communem hominum cogitandi facultatem revocet, per se democratica est; ideoque ab optimatibus non iniuria sibi existimatur perniciosa». Questa «comune facoltà di pensare» diventata «natura umana», ha dato luogo a tante utopie di cui si riscontra traccia in tante scienze che partono dal concetto dell’uguaglianza perfetta fra gli uomini ecc.

Q 6 §40 Passato e presente. Il governo inglese. Un articolo interessante di Ramsay Muir sul sistema di governo inglese è stato pubblicato nel fascicolo di novembre 1930 della «Nineteenth Century» (riportato nella «Rassegna settimanale della Stampa Estera», del 9 dicembre 1930). Il Muir sostiene che in Inghilterra non si può parlare di regime parlamentare, perché non esiste controllo del Parlamento sul governo e sulla burocrazia ma solo di una dittatura di partito e ancora di una dittatura inorganica perché il potere oscilla tra partiti estremi. Nel Parlamento la discussione non è quale dovrebbe essere, cioè discussione di Consiglio di Stato, ma discussione di partiti per contendersi il corpo elettorale alla prossima elezione con promesse da parte del governo, screditando il governo da parte dell’opposizione.

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Le deficienze del sistema di governo inglese si sono manifestate crudamente nel dopoguerra, per i grandi problemi di ricostruzione e di adattamento alla nuova situazione (ma anche alla vigilia della guerra: cfr caso Carson nell’Irlanda settentrionale. Il Carson traeva la sua audacia e la sicurezza d’impunità appunto dal sistema di governo, per cui le sue azioni sovversive sarebbero state sanate da un ritorno d conservatori al potere).

Il Muir trova l’origine della dittatura di partito nel sistema elettorale senza ballottaggio e specialmente senza proporzionale; ciò rende difficile i compromessi e le opinioni medie (o almeno costringe i partiti a un opportunismo interno peggiore del compromesso parlamentare). Il Muir non osserva altri fenomeni: nello stesso governo, c’è un gruppo ristretto che domina sull’intero gabinetto e ancora c’è una personalità che esercita una funzione bonapartista.

Q 6 §60 Le quistioni navali.

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Differenza tra gli armamenti terrestri e quelli marittimi: quelli marittimi sono difficilmente nascondibili; ci possono essere fabbriche d’armi e munizioni segrete, non ci possono essere cantieri segreti né incrociatori fabbricati in segreto. La «visibilità», la possibilità di calcolare tutto il potenziale navale, fa nascere le quistioni di prestigio, cioè trova la sua massima espressione nella flotta di guerra, quindi le lotte per la parità tra due potenze.

Esempio classico: Inghilterra e Stati Uniti. In ultima analisi la base della flotta, come di tutto l’apparato militare è posta nella potenzialità produttiva e in quella finanziaria dei vari paesi, ma le quistioni vengono poste su basi «razionalistiche». L’Inghilterra mette in vista la sua posizione insulare e la necessità vitale per lei di mantenere permanentemente i collegamenti con i domini per l’approvvigionamento della sua popolazione, mentre l’America è un continente che basta a se stesso, ha due oceani uniti dal canale di Panama ecc.

Ma perché uno Stato dovrebbe rinunziare alle sue superiorità strategiche geografiche, se queste gli danno condizioni favorevoli per l’egemonia mondiale? Perché l’Inghilterra dovrebbe avere una certa egemonia su una serie di paesi, basata su certe sue tradizionali condizioni favorevoli di superiorità, se gli Stati Uniti possono essere superiori all’Inghilterra ed assorbirla con tutto l’Impero, se possibile? Non c’è nessuna «razionalità» in queste cose, ma solo quistioni di forza e la figura del sor Panera che vuole infilzare l’avversario acquiescente è ridicola in tutti i casi.

Q 6 §99 Concetto di grande potenza. (Cfr altre note precedenti). Secondo il capo del governo italiano: «Sono le marine da guerra che classificano le grandi potenze». È da notare che le marine a guerra possono essere misurate in ogni momento col sistema matematico assoluto, ciò che non può avvenire per gli eserciti terrestri. Ricordare l’epigramma di Anatole France: «Tutti gli eserciti sono i primi del mondo, ma per la marina è il numero delle navi che conta».

Q 6 §138 Passato e presente. Passaggio dalla guerra manovrata (e dall’attacco frontale) alla guerra di posizione anche nel campo politico. Questa mi pare la quistione di teoria politica la più importante, posta dal periodo del dopo guerra e la più difficile ad essere risolta giustamente. Essa è legata alle quistioni sollevate dal Bronstein [Trotsky n.d.c.], che in un modo o nell’altro, può ritenersi il teorico politico dell’attacco frontale in un periodo in cui esso è solo causa di disfatta1.

Solo indirettamente questo passaggio nella scienza politica è legato a quello avvenuto nel campo militare, sebbene certamente un legame esista ed essenziale. La guerra di posizione domanda enormi sacrifizi a masse sterminate di popolazione; perciò è necessaria una concentrazione inaudita dell’egemonia e quindi una forma di governo più «intervenzionista», che più apertamente prenda l’offensiva contro gli oppositori e organizzi permanentemente l’«impossibilità» di disgregazione interna: controlli d’ogni genere, politici, amministrativi, ecc., rafforzamento delle «posizioni» egemoniche del gruppo dominante, ecc. Tutto ciò indica che si è entrati in una fase culminante della situazione politico‑storica, poiché nella politica la «guerra di posizione», una volta vinta, è decisiva definitivamente.

Nella politica cioè sussiste la guerra di movimento fino a quando si tratta di conquistare posizioni non decisive e quindi non sono mobilizzabili tutte le risorse dell’egemonia e dello Stato, ma quando, per una ragione o per l’altra, queste posizioni hanno perduto il loro valore e solo quelle decisive hanno importanza, allora si passa alla guerra d’assedio, compressa, difficile, in cui si domandano qualità eccezionali di pazienza e di spirito inventivo. Nella politica l’assedio è reciproco, nonostante tutte le apparenze e il solo fatto che il dominante debba fare sfoggio di tutte le sue risorse dimostra quale calcolo esso faccia dell’avversario.

Cfr Q7 §16

Q 6 §155 Passato e presente. Politica e arte militare. Tattica delle grandi masse e tattica immediata di piccoli gruppi. Rientra nella discussione sulla guerra di posizione e quella di movimento, in quanto si riflette nella psicologia dei grandi capi (strateghi) e dei subalterni. È anche (se si può dire) il punto di connessione tra la strategia e la tattica, sia in politica che nell’arte militare.

I singoli individui (anche come componenti di vaste masse) sono portati a concepire la guerra istintivamente, come «guerra di partigiani» o «guerra garibaldina» (che è un aspetto superiore della «guerra di partigiani»). Nella politica l’errore avviene per una inesatta comprensione di ciò che è lo Stato (nel significato integrale: dittatura + egemonia), nella guerra si ha un errore simile, trasportato nel campo nemico (incomprensione non solo del proprio Stato, ma anche dello Stato nemico).

L’errore nell’uno e nell’altro caso è legato al particolarismo individuale, di municipio, di regione che porta a sottovalutare l’avversario e la sua organizzazione di lotta.

Stato

Q 6 §88 Stato gendarme ‑ guardiano notturno, ecc. È da meditare questo argomento: la concezione dello Stato gendarme ‑ guardiano notturno, ecc. (a parte la specificazione di carattere polemico: gendarme, guardiano notturno, ecc.) non è poi la concezione dello Stato che sola superi le estreme fasi «corporative‑economiche»? Siamo sempre nel terreno della identificazione di Stato e Governo, identificazione che appunto è un ripresentarsi della forma corporativa‑economica, cioè della confusione tra società civile e società politica, poiché è da notare che nella nozione generale di Stato entrano elementi che sono da riportare alla nozione di società civile (nel senso, si potrebbe dire, che Stato = società politica + società civile, cioè egemonia corazzata di coercizione). In una dottrina dello Stato che concepisca questo come possibile tendenzialmente di esaurimento e di risoluzione della società regolata, l’argomento è fondamentale. L’elemento Stato‑coercizione si può immaginare esaurentesi mano a mano che si affermano elementi sempre più cospicui di società regolata (o Stato etico o società civile).

Le espressioni di Stato etico o di società civile verrebbero a significare che quest’«immagine» di Stato senza Stato era presente ai maggiori scienziati della politica e del diritto in quanto si ponevano nel terreno della pura scienza (= pura utopia, in quanto basata sul presupposto che tutti gli uomini sono realmente uguali e quindi ugualmente ragionevoli e morali, cioè passibili di accettare la legge spontaneamente, liberamente e non per coercizione, come imposta da altra classe, come cosa esterna alla coscienza). Occorre ricordare che l’espressione di guardiano notturno per lo Stato liberale è di Lassalle, cioè di uno statalista dogmatico e non dialettico. (Cfr bene la dottrina di Lassalle su questo punto e sullo Stato in generale, in contrasto col marxismo).

Nella dottrina dello Stato-società regolata, da una fase in cui Stato sarà uguale Governo, e Stato si identificherà con società civile, si dovrà passare a una fase di Stato ‑ guardiano notturno, cioè di una organizzazione coercitiva che tutelerà lo sviluppo degli elementi di società regolata in continuo incremento, e pertanto riducente gradatamente i suoi interventi autoritari e coattivi. Né ciò può far pensare a un nuovo «liberalismo», sebbene sia per essere l’inizio di un’era di libertà organica.

Q 6 §137 Concetto di Stato. Che il concetto comune di Stato sia unilaterale e conduca a errori madornali si può dimostrare parlando del recente libro di Daniele Halévy Decadenza della libertà di cui ho letto una recensione nelle «Nouvelles Littéraires». Per Halévy «Stato» è l’apparato rappresentativo ed egli scopre che i fatti più importanti della storia francese dal 70 ad oggi non sono dovuti ad iniziative degli organismi politici derivanti dal suffragio universale, ma o da organismi privati (società capitalistiche, Stato maggiore, ecc.) o da grandi funzionari sconosciuti al paese, ecc. Ma cosa significa ciò se non che per Stato deve intendersi oltre all’apparato governativo anche l’apparato «privato» di egemonia o società civile. È da notare come da questa critica dello «Stato» che non interviene, che è alla coda degli avvenimenti, ecc., nasce la corrente ideologica dittatoriale di destra, col suo rafforzamento dell’esecutivo, ecc. Bisognerebbe però leggere il libro dell’Halévy per vedere se anch’egli è entrato in questa via: non è difficile in linea di principio, dati i suoi precedenti (simpatie soreliane, per Maurras, ecc.).

Classi

Q 6 §158 Storia delle classi subalterne. Cfr l’articolo di Armando Cavalli, Correnti messianiche dopo il ’70, Nuova Antologia del 16 novembre 1930. Il Cavalli si è occupato anche altre volte di argomenti simili (vedere i suoi articoli nelle riviste di Gobetti, «Rivoluzione Liberale» e «Baretti» e altrove) sebbene con molta superficialità. In questo articolo accenna a Davide Lazzaretti, alle Bande di Benevento, ai movimenti repubblicani (Barsanti) e internazionalisti in Romagna e nel Mezzogiorno. Chiamare «correnti messianiche» è esagerato, perché si tratta di fatti singoli e isolati, che dimostrano più la «passività» delle grandi masse rurali che non una loro vibrazione per sentirsi attraversate da «correnti».

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Così il Cavalli esagera l’importanza di certe affermazioni «protestantiche» o «riforrnatrici in generale» della religione che si verificano non solo dopo il 70, ma anche prima, da parte di R. Bonghi e altri liberali (è noto che la «Perseveranza» prima del 70 credeva di far pressione sul papato con queste minacce di una adesione italiana al protestantesimo) e il suo errore è mostruoso quando pare che voglia porre sullo stesso piano queste affermazioni riformatrici e Davide Lazzaretti. La conclusione è giusta formalmente: dittatura della destra, esclusione dalla vita politica dei partiti repubblicano e clericale, indifferenza del governo per la miseria delle masse agricole.

Il concetto di «ideale» formatosi nelle masse di sinistra; nella sua vacuità formale, serve bene a caratterizzare la situazione: non fini e programmi politici concreti e definiti, ma uno stato d’animo vago e oscillante che trovava il suo appagamento in una vuota formula, perché vuota capace di contenere ogni cosa la più disparata. La parola «ideale» è complementare a quella di «sovversivo»: è la formula utile per fare delle frasi ai piccoli intellettuali che formavano l’organizzazione di sinistra. L’«ideale» è un residuo del mazzinianismo popolare in cui si innesta il bakuninismo, e si trascinò fino ai tempi più moderni, mostrando così che una vera direzione politica delle masse non si era formata.

Partiti

Q 6 §136 Organizzazione delle società nazionali. Ho notato altra volta che in una determinata società nessuno è disorganizzato e senza partito, purché si intendano organizzazione e partito in senso largo e non formale. In questa molteplicità di società particolari, di carattere duplice, naturale e contrattuale o volontario, una o più prevalgono relativamente o assolutamente, costituendo l’apparato egemonico di un gruppo sociale sul resto della popolazione (o società civile), base dello Stato inteso strettamente come apparato governativo‑coercitivo.

Avviene sempre che le singole persone appartengano a più di una società particolare e spesso a società che essenzialmente sono in contrasto fra loro. Una politica totalitaria tende appunto: 1) a ottenere che i membri di un determinato partito trovino in questo solo partito tutte le soddisfazioni che prima trovavano in una molteplicità di organizzazioni, cioè a rompere tutti i fili che legano questi membri ad organismi culturali estranei; 2) a distruggere tutte le altre organizzazioni o a incorporarle in un sistema di cui il partito sia il solo regolatore. Ciò avviene: 1) quando il partito dato è portatore di una nuova cultura e si ha una fase progressiva; 2) quando il partito dato vuole impedire che un’altra forza, portatrice di una nuova cultura, diventi essa «totalitaria»; e si ha una fase regressiva e reazionaria oggettivamente, anche se la reazione (come sempre avviene) non confessi se stessa e cerchi di sembrare essa portatrice di una nuova cultura.

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Luigi Einaudi, nella «Riforma Sociale» del maggio‑giugno 1931, recensisce un volume francese Les sociétés de la nation. Étude sur les éléments constitutifs de la nation française, di Etienne Martin ‑ Saint‑Léon (vol. di pp. 415, Ed. Spes, 17, rue Soufflot, Parigi 1930, frs. 45) dove una parte di queste organizzazioni sono studiate, ma solo quelle che esistono formalmente. (Per es., i lettori di un giornale formano o no una organizzazione?, ecc.). In ogni modo, se l’argomento fosse trattato, vedere il libro e anche la recensione dell’Einaudi.

Politica internazionale

Diplomazia

Q 6 §89 Politica e diplomazia. Cavour. (Cfr nota a p. 38 bis su Machiavelli e Guicciardini). Aneddoto riportato da Ferdinando Martini in Confessioni e Ricordi, 1859-1892 (ed. Treves, 1928), pp. 150‑51: per Crispi, il Cavour non doveva essere considerato come un elemento di prima linea nella storia del Risorgimento, ma solo Vittorio Emanuele, Garibaldi e Mazzini. «Il Cavour? Che cosa fece il Cavour? Niente altro che diplomatizzare la rivoluzione…» Il Martini annota: «Non osai dirlo, ma pensai: E scusate se è poco!»

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Mi pare che il Crispi e il Martini seguano due ordini diversi di pensieri. Il Crispi intende riferirsi agli elementi attivi, ai «creatori» del movimento nazionale rivoluzione, cioè ai politici propriamente detti. Pertanto la diplomazia è per lui attività subalterna e subordinata: il diplomatico non crea nuovi nessi storici, ma lavora a far sanzionare quelli che il politico ha creato: Talleyrand non può essere paragonato con Napoleone.

In realtà il Crispi ha torto, ma non per ciò che il Martini crede. Il Cavour non fu solo un diplomatico, ma anzi essenzialmente un politico «creatore», solo che il suo modo di «creare» non era da rivoluzionario, ma da conservatore: e in ultima analisi non il programma di Mazzini e di Garibaldi, ma quello di Cavour trionfò. Né si capisce come il Crispi ponga accanto Vittorio Emanuele a Mazzini e Garibaldi; Vittorio Emanuele sta con Cavour ed è attraverso Vittorio Emanuele che Cavour domina Garibaldi e anche Mazzini.

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E certo che Crispi non avrebbe potuto riconoscere giusta questa analisi per «l’affetto che l’intelletto lega»; la sua passione settaria era ancor viva, come rimase viva sempre in lui, pur nelle mutazioni radicali delle sue posizioni politiche. D’altronde neanche il Martini avrebbe mai ammesso (almeno in pubblico) che Cavour sia stato essenzialmente un «pompiere», o si potrebbe dire «un termidoriano preventivo» poiché né in Mazzini né in Garibaldi né in Crispi stesso c’era la stoffa dei giacobini del Comitato di Salute Pubblica.

Come ho notato altrove Crispi era un temperamento giacobino, non un «giacobino politico‑economico», cioè non aveva un programma il cui contenuto potesse essere paragonato a quello dei giacobini e neppure la loro feroce intransigenza. D’altronde: c’erano in Italia alcune delle condizioni necessarie per un movimento come quello dei giacobini francesi? La Francia da molti secoli era una nazione egemonica: la sua autonomia internazionale era molto ampia. Per l’Italia niente di simile: essa non aveva nessuna autonomia internazionale. In tali speciali condizioni si capisce che la diplomazia fosse concretamente superiore alla politica creativa, fosse la «sola politica creativa».

Il problema non era di suscitare una nazione che avesse il primato in Europa e nel mondo, o uno Stato unitario che strappasse alla Francia l’iniziativa civile, ma di rappezzare uno Stato unitario purchessia. I grandi programmi di Gioberti e di Mazzini dovevano cedere al realismo politico e all’empirismo di Cavour. Questa assenza di «autonomia internazionale» è la ragione che spiega molta storia italiana e non solo delle classi borghesi. Si spiega anche così il perché di molte vittorie diplomatiche italiane, nonostante la debolezza relativa politica‑militare: non è la diplomazia italiana che vince come tale, ma si tratta di abilità nel saper trarre partito dall’equilibrio delle forze internazionali: è un’abilità subalterna, tuttavia fruttuosa. Non si è forti per sé, ma nessun sistema internazionale sarebbe il più forte senza l’Italia.

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A proposito del giacobinismo di Crispi è anche interessante il capitolo Guerra di successione dello stesso libro del Martini (pp. 209‑24, specialmente p. 224). Dopo la morte di Depretis i settentrionali non volevano la successione di Crispi siciliano. Già Presidente del Consiglio, Crispi si sfoga col Martini, proclama il suo unitarismo ecc., afferma che non esistono più regionalismi ecc. Sembra questa una dote positiva di Crispi: mi pare invece giusto il giudizio contrario. La debolezza di Crispi fu appunto di legarsi strettamente al gruppo settentrionale, subendone il ricatto, e di avere sistematicamente sacrificato il Meridione, cioè i contadini, cioè di non avere osato, come i giacobini osarono, di posporre agli interessi corporativi del piccolo gruppo dirigente immediato, gli interessi storici della classe futura, risvegliandone le energie latenti con una riforma agraria. Anche il Crispi è un termidoriano preventivo, cioè un termidoriano che non prende il potere quando le forze latenti sono state messe in movimento, ma prende il potere per impedire che tali forze si scatenino: un «fogliante» era nella Rivoluzione francese un termidoriano in anticipo, ecc.

Sarà da ricercare attentamente se nel periodo del Risorgimento sia apparso almeno qualche accenno di un programma in cui l’unità della struttura economico‑sociale italiana sia stata vista in questo modo concreto: ho l’impressione che stringi, stringi, il solo Cavour ebbe una concezione di tal genere, cioè nel quadro della politica nazionale, pose le classi agrarie meridionali come fattore primario, classi agrarie e non contadine naturalmente, cioè blocco agrario diretto da grandi proprietari e grandi intellettuali. Sarà bene da studiare perciò il volume speciale dei carteggi cavourriani dedicato alla «Quistione meridionale». (Altro da studiare a questo riguardo: Giuseppe Ferrari, prima e dopo il 60: dopo il 60 i discorsi parlamentari sui fatti del Mezzogiorno).

Q 6 §110 Machiavelli e Guicciardini. Nel libro di Clemenceau, Grandeurs et misères d’une victoire, Plon, 1930, nel capitolo «Les critiques de l’escalier» sono contenute alcune delle osservazioni generali da me fatte nella nota sull’articolo di Paolo Treves, Il realismo politico di Guicciardini: per es. la distinzione tra politici e diplomatici. I diplomatici sono stati formati (dressés) per l’esecuzione, non per l’iniziativa, dice Clemenceau, ecc. Il capitolo è tutto di polemica contro Poincaré che aveva rimproverato il non impiego dei diplomatici nella preparazione del trattato di Versailles.

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Clemenceau, da puro uomo d’azione, da puro politico, è estremamente sarcastico contro Poincaré, il suo spirito avvocatesco, le sue illusioni che si possa creare la storia coi cavilli, coi sotterfugi, con le abilità formali, ecc. «La diplomatie est instituée plutôt pour le maintien des inconciliables que pour l’innovation des imprévus. Dans le mot “diplomate” il y a la racine double, au sens de plier». (È vero però che questo concetto di doppio non si riferisce ai «diplomatici» ma ai «diplomi» che i diplomatici conservavano e aveva un significato materiale, di foglio piegato).

Economia e Lavoro

Q 6 §90 Psicologia e politica. Specialmente nei periodi di crisi finanziaria si sente molto parlare di «psicologia» come di causa efficiente di determinati fenomeni marginali. Psicologia (sfiducia), panico, ecc. Ma cosa significa in questo caso «psicologia»? E una pudica foglia di fico per indicare la «politica», cioè una determinata situazione politica. Poiché di solito per «politica» s’intende l’azione delle frazioni parlamentari, dei partiti, dei giornali e in generale ogni azione che si esplica secondo una direttiva palese e predeterminata, si dà il nome di «psicologia» ai fenomeni elementari di massa, non predeterminati, non organizzati, non diretti palesemente, i quali manifestano una frattura nell’unità sociale tra governati e governanti. Attraverso queste «pressioni psicologiche» i governati esprimono la loro sfiducia nei dirigenti e domandano che siano mutate le persone e gli indirizzi dell’attività finanziaria e quindi economica. I risparmiatori non investono risparmi e disinvestono da determinate attività che appaiono particolarmente rischiose, ecc.: si accontentano di interessi minimi e anche di interessi zero; qualche volta preferiscono perdere addirittura una parte del capitale per mettere al sicuro il resto.

Può bastare l’«educazione» per evitare queste crisi di sfiducia generica? Esse sono sintomatiche appunto perché «generiche» e contro la «genericità» è difficile educare una nuova fiducia. Il succedersi frequente di tali crisi psicologiche indica che un organismo è malato, cioè che l’insieme sociale non è più in grado di esprimere dirigenti capaci. Si tratta dunque di crisi politiche e anzi politico‑sociali del raggruppamento dirigente.

Q 6 §109 Passato e presente. L’individuo e lo Stato. Come la situazione economica è mutata a «danno» del vecchio liberalismo: è vero che ogni cittadino conosce i suoi affari meglio di chiunque altro nelle attuali condizioni? è vero che avviene, nelle attuali condizioni, una selezione secondo i meriti? «Ogni cittadino», in quanto non può conoscere e specialmente non può controllare le condizioni generali in cui gli affari si svolgono data l’ampiezza del mercato mondiale e la sua complessità, in realtà non conosce neanche i propri affari: necessità delle grandi organizzazioni industriali, ecc.

Inoltre lo Stato, col regime sempre più gravoso delle imposte, colpisce i cittadini propri, ma non può colpire i cittadini delle altre nazioni (meno tassate, o con regimi di tasse che distribuiscono diversamente le imposte); i grandi Stati, che devono avere grandi spese per servizi pubblici imponenti (compresi esercito, marina, ecc.) colpiscono di più i cittadini propri (si aggiunge la disoccupazione sussidiata, ecc.). Ma l’intervento dello Stato con le tariffe doganali crea una nuova base? Lo Stato, con le tariffe «sceglie» tra i cittadini quelli da proteggere anche se non «meritevoli», ecc., scatena una lotta tra i gruppi per la divisione del reddito nazionale, ecc.

Q 6 §91 Funzionari e funzioni. Cosa significa, dal punto di vista dei «funzionari e delle funzioni», il distacco tra i prezzi all’ingrosso e quelli al minuto? Che esiste un «esercito» di funzionari che si mangia la differenza sulle spalle e consumatore e del produttore. E che significano i fallimenti saliti a cifre iperboliche? Che i «concorsi» per questo esercito di funzionari vanno male assai: e sono «concorsi» di un tipo speciale: i «bocciati» distruggono una massa ingente di ricchezza e sono bocciati solo «pro tempore»: anche se «bocciati» riprendono a funzionare e a distruggere nuova ricchezza. Quanti di tali funzionari esistono? Essi stessi si creano le funzioni, si assegnano lo stipendio e mettono da parte la pensione.

Q 6 §100 Passato e presente. Industriali e agrari. Tutta la storia passata, dal nascere di una certa industria in poi, è caratterizzata da un difficile e complicato sforzo di dividere il reddito nazionale tra industriali e agrari, sforzo complicato dall’esistenza di una relativamente vasta categoria di medi e piccoli proprietari terrieri non coltivatori ma abitanti in città (nelle cento città), divoratori parassitari di rendita agraria.

Poiché il sistema così costruito (protezionismo industriale e protezionismo agricolo) non può non essere insufficiente, esso si regge sul basso tenor di vita delle grandi masse, per la mancanza di materie prime (che non permette un grande sviluppo industriale) e per l’impossibilità di risparmio notevole, perché i margini sono inghiottiti dai ceti parassitari e manca l’accumulazione (nonostante il basso tenor di vita delle grandi masse).

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Così si spiega anche lo stento in cui vivono certe industrie esportatrici, come la seta, che si avvantaggerebbe enormemente dal basso prezzo dei viveri e potrebbe entrare in vittoriosa concorrenza con la Francia, alla quale l’Italia cede la materia prima (i bozzoli). Calcolare quanti bozzoli sono venduti all’estero e quanti trasformati in Italia e calcolare la differenza che passa tra l’esportazione della seta lavorata e quella dei bozzoli grezzi. Altro calcolo per lo zucchero, che è più protetto del grano, ecc. Analisi delle industrie d’esportazione che potrebbero nascere o svilupparsi sia nella città che nell’agricoltura senza il sistema doganale vigente.

Quando l’assenza di materie prime assurge a motivo di politica militarista e nazionalista (non certo imperialista, che è grado più sviluppato dello stesso processo) è naturale domandarsi se le materie prime esistenti sono bene sfruttate, perché altrimenti non si tratta di politica nazionale (cioè di una intera classe) ma di una oligarchia parassitaria e privilegiata, cioè non si tratta di politica estera, ma di politica interna di corruzione e di deperimento delle forze nazionali.

Q 6 §123 Passato e presente. Osservazioni sulla crisi 29‑30. Cfr numero di «Economia» del marzo 1931 dedicato a La depressione economica mondiale: i due articoli di P. Jannaccone e di Gino Arias. Lo Jannaccone osserva che «la causa prima» (! sic) della crisi «è un eccesso, non un difetto di consumo», cioè che siamo di fronte a una profonda e, assai probabilmente, non passeggera perturbazione dell’equilibrio dinamico fra la quota consumata e la quota risparmiata del reddito nazionale e il ritmo della produzione necessario per mantenere in un tenore di vita, immutato o progrediente, una popolazione che aumenta a un determinato saggio di incremento netto.

La rottura di tale equilibrio può verificarsi in più modi: espansione della quota di reddito consumata a danno di quella risparmiata e reinvestita per la produzione futura; diminuzione del saggio di produttività dei capitali, aumento del saggio di incremento netto della popolazione. A un certo punto, cioè, il reddito medio individuale da crescente diviene costante e da costante progressivamente decrescente: scoppiano a questo punto le crisi, la diminuzione del reddito medio porta a una contrazione anche assoluta del consumo e per riflesso a ulteriori riduzioni della produzione, ecc. La crisi mondiale, così, sarebbe crisi di risparmio e «il rimedio sovrano per arginarla, senza che si abbassi il saggio d’incremento (netto) della popolazione, sta nell’aumentare la quota di reddito destinata al risparmio e alla formazione di capitali nuovi. Questo è l’ammonimento di alto valore morale che sgorga dai ragionamenti della scienza economica».

Le osservazioni dello Jannaccone sono indubbiamente acute: l’Arias ne trae però delle conclusioni puramente tendenziose e in parte imbecilli. Ammessa la tesi dello Jannaccone è da domandare: a che cosa è da attribuire l’eccesso di consumo? Si può provare che le masse lavoratrici abbiano aumentato il loro tenore di vita in tale proporzione da rappresentare un eccesso di consumo? Cioè il rapporto tra salari e profitti è diventato catastrofico per i profitti? Una statistica non potrebbe dimostrare questo neppure per l’America.

L’Arias «trascura» un elemento «storico» di qualche importanza: non è avvenuto che nella distribuzione del reddito nazionale attraverso specialmente il commercio e la borsa, si sia introdotta, nel dopoguerra (o sia aumentata in confronto del periodo precedente), una categoria di «prelevatori» che non rappresenta nessuna funzione produttiva necessaria e indispensabile, mentre assorbe una quota di reddito imponente? Non si bada che il «salario» è sempre legato necessariamente a un lavoro (bisognerebbe distinguere però il salario o la mercede che assorbe la categoria di lavoratori addetti al servizio delle categorie sociali improduttive e assolutamente parassitarie), (ci sono inoltre lavoratori infermi o disoccupati che vivono di pubblica carità o di sussidi) e il reddito assorbito dal salariato è identificabile quasi al centesimo. Mentre è difficile identificare il reddito assorbito dai non‑salariati che non hanno una funzione necessaria e indispensabile nel commercio e nell’industria. Un rapporto tra operai «occupati» e il resto della popolazione darebbe l’immagine del peso «parassitario» che grava sulla produzione. Disoccupazione di non‑salariati: essi non sono passibili di statistica, perché «vivono» in qualche modo di mezzi propri, ecc.

Nel dopoguerra la categoria degli improduttivi parassitari in senso assoluto e relativo è cresciuta enormemente ed è essa che divora il risparmio. Nei paesi europei essa è ancora superiore che in America, ecc. Le cause della crisi non sono quindi «morali» (godimenti, ecc.) né politiche, ma economico‑sociali, cioè della stessa natura della crisi stessa: la società crea i suoi propri veleni, deve far vivere delle masse (non solo di salariati disoccupati) di popolazione che impediscono il risparmio e rompono così l’equilibrio dinamico.

Q 6 §127 Quistioni industriali. Nella «Revue des Deux Mondes» del 15 novembre 1930 è pubblicata la memoria letta all’Accademia di Scienze morali e politiche di Parigi da Eugenio Schneider, il capo della ditta del Creusot su Les relations entre patrons et ouvriers. Les délégués de corporation.

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La memoria è molto importante, specialmente per il mio assunto. Come a Torino, lo Schneider (per fini diversi, di disgregazione) ha organizzato le delegazioni come «delegati professionali» (corporation). Ma i delegati non formano un corpo deliberante e non hanno un comitato direttivo, ecc. Tuttavia il tentativo dello Schneider è di primo ordine, ecc. Analizzarlo. Cercare altre pubblicazioni in proposito.

Q 6 §128 Centralismo organico ecc. Lo Schneider cita queste parole di Foch: «Commander n’est rien. Ce qu’il faut, c’est bien comprendre ceux avec qui on a affaire et bien se faire comprendre d’eux. Le bien comprendre, c’est tout le secret de la vie...». Tendenza a separare il «comando» da ogni altro elemento e a farne un «toccasana» di nuovo genere. E ancora occorre distinguere tra il «comando» espressione di diversi gruppi sociali: da gruppo a gruppo l’arte del comando e il suo modo di esplicarsi muta di molto, ecc. Il centralismo organico, col comando caporalesco e «astrattamente» concepito, è legato a una concezione meccanica della storia e del movimento, ecc.

Q 6 §156 Sul capitalismo antico o meglio sull’industrialismo antico è da leggere l’articolo di G. C. Speziale Delle navi di Nemi e dell’archeologia navale nella Nuova Antologia del 1° novembre 1930 (polemica col prof. Giuseppe Lugli che scrisse nel «Pègaso»; articoli in giornali quotidiani dello stesso tempo). L’articolo dello Speziale è molto interessante, ma pare che egli esageri nell’importanza data alle possibilità industriali nell’antichità (cfr la quistione sul capitalismo antico discussa nella «Nuova Rivista Storica»).

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Manca, mi pare, allo Speziale la nozione esatta di ciò che era la «macchina» nel mondo classico e quello che è oggi (questa osservazione vale specialmente per Barbagallo e C.). Le «novità» su cui insiste lo Speziale non escono ancora dalla definizione che della macchina dava Vitruvio, cioè di ordigni atti a facilitare il movimento e il trasporto di corpi pesanti (vedere con esattezza la definizione di Vitruvio) e perciò non sono che novità relative: la macchina moderna è ben altra cosa: essa non solo «aiuta» il lavoratore ma lo «sostituisce»: che anche le «macchine» di Vitruvio continuino ad esistere accanto alle «moderne» e che in quella direzione i romani potessero essere giunti a una certa perfezione, ancora ignota, può darsi e non maraviglia, ma in ciò non c’è nulla di «moderno» nel senso proprio della parola, che è stato stabilito dalla «rivoluzione» industriale, cioè dall’invenzione e diffusione di macchine che «sostituiscono» il lavoro umano precedente.

Diritto

Q 6 §84 Passato e presente. Continuità e tradizione. Un aspetto della quistione accennata a p. 33 «Dilettantismo e disciplina», dal punto di vista del centro organizzativo di un raggruppamento è quello della «continuità» che tende a creare una «tradizione» intesa, naturalmente, in senso attivo e non passivo come continuità in continuo sviluppo, ma «sviluppo organico».

Questo problema contiene in nuce tutto il «problema giuridico», cioè il problema di assimilare alla frazione più avanzata del raggruppamento tutto il raggruppamento: è un problema di educazione delle masse, della loro «conformazione» secondo le esigenze del fine da raggiungere. Questa appunto è la funzione del diritto nello Stato e nella Società; attraverso il «diritto» lo Stato rende «omogeneo» il gruppo dominante e tende a creare un conformismo sociale che sia utile alla linea di sviluppo del gruppo dirigente.

L’attività generale del diritto (che è più ampia dell’attività puramente statale e governativa e include anche l’attività direttiva della società civile, in quelle zone che i tecnici del diritto chiamano di indifferenza giuridica, cioè nella moralità e nel costume in genere) serve a capire meglio, concretamente, il problema etico, che in pratica è la corrispondenza «spontaneamente e liberamente accolta» tra gli atti e le omissioni di ogni individuo, tra la condotta di ogni individuo e i fini che la società si pone come necessari, corrispondenza che è coattiva nella sfera del diritto positivo tecnicamente inteso, ed è spontanea e libera (più strettamente etica) in quelle zone in cui la «coazione» non è statale, ma di opinione pubblica, di ambiente morale ecc.

La continuità «giuridica» del centro organizzativo non deve essere di tipo bizantino‑napoleonico, cioè secondo un codice concepito come perpetuo, ma romano‑anglosassone, cioè la cui caratteristica essenziale consiste nel metodo, realistico, sempre aderente alla concreta vita in perpetuo sviluppo. Questa continuità organica richiede un buon archivio, bene attrezzato e di facile consultazione, in cui tutta l’attività passata sia facilmente riscontrabile e «criticabile». Le manifestazioni più importanti di questa attività non sono tanto le «decisioni organiche» quanto le circolari esplicative e ragionate (educative).

C’è il pericolo di «burocratizzarsi», è vero, ma ogni continuità organica presenta questo pericolo, che occorre vigilare. Il pericolo della discontinuità, dell’improvvisazione, è ancora più grande. Organo, «il bollettino» che [...] tre sezioni principali: 1) articoli direttivi; 2) decisioni e circolari; 3) critica del passato, cioè richiamo continuo dal presente al passato, per mostrare le differenziazioni e le precisazioni e per giustificarle criticamente.

Q 6 §63 Diritto romano o diritto bizantino? Il «diritto» romano consisteva essenzialmente in un metodo di creazione del diritto, nella risoluzione continua della casistica giurisprudenziale. I bizantini (Giustiniano) raccolsero la massa dei casi di diritto risolti dall’attività giuridica concreta dei Romani, non come documentazione storica, ma come codice ossificato e permanente. Questo passaggio da un «metodo» a un «codice» permanente può anche assumersi come la fine di un’età, il passaggio da una storia in continuo e rapido sviluppo, a una fase storica relativamente stagnante. La rinascita del «diritto romano», cioè, della codificazione bizantina del metodo romano di risolvere le quistioni di diritto, coincide con l’affiorare di un gruppo sociale che vuole una «legislazione» permanente, superiore agli arbitri dei magistrati (movimento che culmina nel «costituzionalismo») perché solo in un quadro permanente di «concordia discorde», di lotta entro una cornice legale che fissi i limiti dell’arbitrio individuale, può sviluppare le forze implicite nella sua funzione storica.

Filosofia

 

Benedetto Croce

Q 6 §112 Passato e presente. L’utopia crociana.

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Cfr la nota in cui si ricorda la collaborazione data dal Croce negli anni 19‑20‑21 (vedere) alla «Politica» del Coppola, in contraddizione con l’atteggiamento che verso Coppola, la sua ideologia e la sua particolare forma mentis, aveva assunto nel 15 l’«Italia Nostra». Da questo si può vedere e giudicare il carattere «utopistico» della attività teorica e pratica del Croce, dico «utopistico» nel senso che le conseguenze che dipendono dall’atteggiamento del Croce sono contrarie alle sue «intenzioni» quali risultano dall’atteggiamento successivo verso queste conseguenze.

Il Croce crede di fare della «scienza pura», della pura «storia», della pura «filosofia», ma in realtà fa dell’«ideologia», offre strumenti pratici di azione a determinati gruppi politici; poi si maraviglia che essi non siano stati «compresi» come «scienza pura» ma «distolti» dal loro fine proprio che era puramente scientifico. Cfr per es. nel volume Cultura e vita morale i due capitoli: «Fissazione filosofica» a p. 296 e il capitolo «Fatti politici e interpretazioni storiche» a p. 270.

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A p. 296 il Croce protesta contro il famoso discorso del Gentile tenuto a Palermo nel 1924: «Ma, se in un certo luogo del pianeta che si chiama Terra, i cittadini di uno Stato che prima avevano l’uso di dibattere i loro affari mercè quei «modi di forza» che sono la critica e l’oratoria e l’associazione e la votazione e altri siffatti, hanno adottato l’altro uso di ricorrere al bastone o al pugnale, e c’è tra essi di coloro che rimpiangono il vecchio costume e si adoperano a far cessare il nuovo che qualificano come selvaggio, quale mai parte adempie il filosofo che, intervenendo nella contesa, sentenzia che ogni forza, e perciò anche quella del bastone e del pugnale, è forza spirituale?» ecc. ecc. (la continuazione è interessante e deve essere citata, se del caso); ma egli stesso a p. 270 aveva scritto: «Fare poesia è un conto e fare a pugni è un altro, mi sembra; e chi non riesce nel primo mestiere, non è detto che non possa riuscire benissimo nel secondo, e nemmeno che la eventuale pioggia di pugni non sia, in certi casi, utilmente ed opportunamente somministrata». Così scrisse il Croce nel 1924: è probabile che il Gentile nel 24 abbia proprio voluto filosofare quell’«utilmente ed opportunamente» e ai pugni abbia aggiunto il bastone e magari il pugnale. Né il Croce arriverà solo fino ai «pugni» e non oltre (d’altronde anche coi pugni si ammazza, e c’è anzi una misura di pubblica sicurezza contro i «pugni proibiti»).

Il Gentile ha posto in linguaggio «attualistico» la proposizione crociana basata sulla distinzione di logica e di pratica; per il Croce ciò è grossolano, ma intanto così avviene sempre ed è una bella pretesa quella di volere essere intesi alla perfezione e di giustificarsi per non essere stato compreso. Si può confrontare in altri capitoli ciò che il Croce ha scritto sull’intolleranza, sull’inquisizione, ecc. e vedere i suoi diversi stati d’animo: dai punti esclamativi, che egli diceva essere anch’essi mezzi da Santa Inquisizione per premere sull’altrui volontà, è dovuto ritornare al bastone e al pugnale che si è visto riapparire dinanzi come mezzi di persuasione della verità.

Q 6 §124 Croce e la critica letteraria. L’estetica di Croce sta diventando normativa, sta diventando una «rettorica»? Bisognerebbe aver letto la sua Aesthetica in nuce (che è l’articolo sull’estetica dell’ultima edizione dell’Encyclopedia Britannica). Un’affermazione di essa dice che compito precipuo dell’estetica moderna ha da essere «la restaurazione e difesa della classicità contro il romanticismo, del momento sintetico e formale e teoretico, in cui è il proprio dell’arte, contro quello affettivo, che l’arte ha per istituto di risolvere in sé». Questo brano mostra quali siano le preoccupazioni «morali» del Croce, oltre che le sue preoccupazioni estetiche, cioè le sue preoccupazioni «culturali» e quindi «politiche». Si potrebbe domandare se l’estetica, come scienza, possa avere altro compito oltre quello di elaborare una teoria dell’arte e della bellezza, dell’espressione. Qui estetica significa «critica in atto» in «concreto», ma la critica in atto non dovrebbe solo criticare, cioè fare la storia dell’arte in concreto, delle «espressioni artistiche individuali»?

Cattolicesimo e altre religioni

Chiesa e Stato

Q 6 §202 Il Concordato. Quando incominciarono le trattative per il Concordato?

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Il discorso del 1° gennaio 1926 si riferiva al Concordato?. Le trattative dovrebbero avere fasi varie, di maggiore o minore ufficiosità, prima di entrare nella fase ufficiale, diplomatica: perciò l’inizio di esse può essere spostato ed è naturale la tendenza a spostarle per farne apparire più rapido il decorso. Nella «Civiltà Cattolica» del 19 dicembre 1931 a p. 548 (nota bibliografica sul libro: Wilfred Parsons, The Pope and Italy, Washington, Tip. Ed. The America Press, 1929, in 16°, pp. 134: il Parsons è direttore della rivista «America») si dice: «in fine rievoca fedelmente la storia delle trattative, che dal 1926 si protrassero fino all’anno 1929».

Q 6 §23 Passato e presente. I cattolici dopo il Concordato. È molto importante la risposta del Papa all’augurio natalizio del S. Collegio dei Cardinali pubblicata nella «Civiltà Cattolica» del 4 gennaio 1930. Nella «Civiltà Cattolica» del 18 gennaio è pubblicata l’Enciclica papale Quinquagesimo ante anno (per il cinquantesimo anno di Sacerdozio di Pio XI) dove è ripetuto che Trattato e Concordato sono inscindibili e inseparabili «o tutti e due restano, o ambedue necessariamente vengono meno».

Questa affermazione reiterata del Papa ha un grande valore: essa forse è stata fatta e ribadita, non solo nei riguardi del governo italiano col quale i due atti sono stati compiuti, ma specialmente come salvaguardia nel caso di mutamento di governo.

La difficoltà è nel fatto che cadendo il Trattato, il Papa dovrebbe restituire le somme che intanto sono state versate dallo Stato Italiano in virtù del Trattato: né avrebbe valore il cavillo possibile basato sulla legge delle guarentigie. Bisognerà vedere come mai nei bilanci dello Stato era impostata la somma che lo Stato aveva assegnato al Vaticano dopo le guarentigie, quando esisteva una diffida che tale obbligo veniva a cadere se entro i cinque anni dopo la legge, il Vaticano ne avesse rifiutato la riscossione.

Q 6 §24 Nozioni enciclopediche. La società civile. Occorre distinguere la società civile come è intesa dallo Hegel e nel senso in cui è spesso adoperata in queste note (cioè nel senso di egemonia politica e culturale di un gruppo sociale sull’intera società, come contenuto etico dello Stato) dal senso che le danno i cattolici, per i quali la società civile è invece la società politica o lo Stato, in confronto della società famigliare e della Chiesa. Dice Pio XI nella sua Enciclica sull’educazione («Civiltà Cattolica» del 1° febbraio 1930): «Tre sono le società necessarie, distinte e pur armonicamente congiunte da Dio, in seno alle quali nasce l’uomo: due società di ordine naturale, quali sono la famiglia e la società civile; la terza, la Chiesa, di ordine soprannaturale. Dapprima la famiglia, istituita immediatamente da Dio al fine suo proprio, che è la procreazione ed educazione della prole, la quale perciò ha la priorità di natura e quindi una priorità di diritti, rispetto alla società civile. Nondimeno, la famiglia è società imperfetta, perché non ha in sé tutti i mezzi per il proprio perfezionamento: laddove la società civile è società perfetta, avendo in sé tutti i mezzi al fine proprio che è il bene comune temporale, onde, per questo rispetto, cioè in ordine al bene comune, essa ha preminenza sulla famiglia, la quale raggiunge appunto nella società civile la sua conveniente perfezione temporale. La terza società, nella quale nasce l’uomo, mediante il Battesimo, alla vita divina della Grazia, è la Chiesa, società di ordine soprannaturale e universale, società perfetta, perché ha in sé tutti i mezzi al suo fine, che è la salvezza eterna degli uomini, e pertanto suprema nel suo ordine».

Per il cattolicismo, quella che si chiama «società civile» in linguaggio hegeliano, non è «necessaria», cioè è puramente storica o contingente. Nella concezione cattolica, lo Stato è solo la Chiesa, ed è uno Stato universale e soprannaturale: la concezione medioevale teoricamente è mantenuta in pieno.

MB.: La concezione cattolica dello Stato

Q 6 §139 Conflitto tra Stato e Chiesa come categoria eterna storica. Cfr a questo proposito il capitolo corrispondente di Croce nel suo libro sulla politica. Si potrebbe aggiungere che, in un certo senso, il conflitto tra «Stato e Chiesa» simbolizza il conflitto tra ogni sistema di idee cristallizzate, che rappresentano una fase passata della storia, e le necessità pratiche attuali. Lotta tra conservazione e rivoluzione, ecc., tra il pensato e il nuovo pensiero, tra il vecchio che non vuol morire e il nuovo che vuol vivere, ecc.

Q 6 §140 Passato e presente. Il Cattolicismo italiano.

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A proposito della quistione di una possibile riforma protestante in Italia è da notare la «scoperta» fatta nel luglio-agosto 1931 (dopo l’enciclica sull’Azione Cattolica) di ciò che è realmente il cattolicismo da parte di alcune riviste italiane (specialmente notevole l’articolo editoriale di «Critica fascista» sull’Enciclica). Questi cattolici hanno scoperto con grande stupore e senso di scandalo che cattolicismo è uguale a «papismo». Questa scoperta non deve aver fatto molto piacere in Vaticano: essa è un potenziale protestantesimo, come tale è l’avversione a ogni ingerenza papale nella vita interna nazionale e il considerare e proclamare il papato un «potere straniero». Queste conseguenze del Concordato devono essere state sorprendenti per i «grandi» politici del Vaticano.

Clero

Q 6 §174 Chiesa Cattolica. Atlas Hierarchicus.

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Descriptio geographica et statistica Sanctae Romanae Ecclesiae tum Orientis, tum Occidentis juxta statum praesentem. Consilio et hortatu Sanctae Sedis Apostolicae, elaboravit P. Carulus Streit, Paderbornae, 1929 (Casa Ed. di S. Bonifacio, Paderborn). Sulla seconda edizione cfr «Civiltà Cattolica», 7 giugno 1930; sulla prima edizione «Civiltà Cattolica», 1914, vol. III, p. 69. Contiene tutti i dati sulla struttura mondiale della Chiesa Cattolica. Tra la prima e la seconda edizione le variazioni avvenute per la guerra nel numero del personale chiericale può essere interessante. (In Ispagna i preti, per esempio, sono aumentati in questo periodo, in Italia invece pare siano diminuiti, per ricrescere probabilmente dopo il Concordato e gli aumenti di prebende, ecc.).

Azione Cattolica

Q 6 §200 Intellettuali italiani. Perché ad un certo punto la maggioranza dei cardinali fu composta di italiani e i papi furono sempre scelti tra italiani? Questo fatto ha una certa importanza nello sviluppo intellettuale nazionale italiano e qualcuno potrebbe anche vedere in esso l’origine del Risorgimento. Esso certamente fu dovuto a necessità interne di difesa e sviluppo della Chiesa e della sua indipendenza di fronte alle grandi monarchie straniere europee, tuttavia la sua importanza nei riflessi italiani non è perciò diminuita.

Se positivamente il Risorgimento può dirsi incominci con l’inizio delle lotte tra Stato e Chiesa, cioè con la rivendicazione di un potere governativo puramente laico, quindi col regalismo e il giurisdizionalismo (onde l’importanza del Giannone), negativamente è anche certo che le necessità di difesa della sua indipendenza portarono la Chiesa a cercare sempre più in Italia la base della sua supremazia e negli italiani il personale del suo apparato organizzativo.

È da questo inizio che si svilupperanno le correnti neoguelfe del Risorgimento, attraverso le diverse fasi (quella del Sanfedismo italiano per esempio) più o meno retrive e primitive.

Questa nota perciò interessa oltre la rubrica degli intellettuali anche quella del Risorgimento e quella delle origini dell’Azione Cattolica «italiana».

Nello sviluppo di una classe nazionale, accanto al processo della sua formazione nel terreno economico, occorre tener conto del parallelo sviluppo nei terreni ideologico, giuridico, religioso, intellettuale, filosofico, ecc.: si deve dire anzi che non c’è sviluppo sul terreno economico, senza questi altri sviluppi paralleli. Ma ogni movimento della «tesi» porta a movimenti della «antitesi» e quindi a «sintesi» parziali e provvisorie.

Il movimento di nazionalizzazione della Chiesa in Italia è imposto non proposto: la Chiesa si nazionalizza in Italia in forme ben diverse da ciò che avviene in Francia col gallicanismo, ecc. In Italia la Chiesa si nazionalizza in modo «italiano», perché deve nello stesso tempo rimanere universale: intanto nazionalizza il suo personale dirigente e questo vede sempre più l’aspetto nazionale della funzione storica dell’Italia come sede del Papato.

Q 6 §151 Azione cattolica. Santificazione di Roberto Bellarmino, segno dei tempi e del creduto impulso di nuova potenza della Chiesa cattolica; rafforzamento dei gesuiti, ecc. Il Bellarmino condusse il processo contro Galileo e redasse gli otto motivi che portarono Giordano Bruno al rogo. Santificato il 29 giugno 1930; ma ha importanza non questa data, ma la data in cui fu iniziato il processo di santificazione. Cfr la Vita di Galileo del Banfi (ed. La Cultura) e la recensione di G. De Ruggiero nella «Critica» in cui si documentano le gherminelle gesuitiche in cui il Galilei rimase impigliato. Il Bellarmino è autore della formula del potere indiretto della Chiesa su tutte le sovranità civili. La festa di Cristo re (istituita nel 1925 o 26?) per l’ultima domenica di ottobre di ogni anno.

Q 6 §173 Azione Cattolica. Cfr «Civiltà Cattolica» del 19 aprile 1930: Azione Cattolica e Associazioni religiose. Riporta una lettera del card. Pacelli e il riassunto di un discorso del Papa. Nel marzo precedente il Segretario del P.N.F. aveva diramato una circolare sulla non incompatibilità per la contemporanea partecipazione all’Azione Cattolica e al P.N.F.1

Note

Q 6 §175 Azione Cattolica. Per l’attività in Francia cfr Les nouvelles conditions de la vie industrielle, Semaines Sociales de France, XXI Session, 1929, Parigi, 1930, in 8°, pp. 574. Sarebbe interessante vedere quali argomenti hanno trattato le Settimane Sociali nei vari paesi e perché certe quistioni non sono mai trattate in certi paesi, ecc.

Q 6 §183 Azione Cattolica. Per la preistoria dell’Azione Cattolica cfr nella «Civiltà Cattolica» del 2 agosto 1930 l’articolo: Cesare D’Azeglio e gli albori della stampa cattolica in Italia.

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Per «stampa cattolica» si intende «stampa dei cattolici militanti» fra il laicato, all’infuori della «stampa» cattolica in senso stretto ossia espressione dell’organizzazione ecclesiastica.

Nel «Corriere d’Italia» dell’8 luglio 1926 è apparsa una lettera di Filippo Crispolti che dev’essere molto interessante, nel senso che il Crispolti «faceva osservare che chi volesse ricercare i primi impulsi di quel movimento donde uscì anche in Italia la schiera dei «cattolici militanti», cioè l’innovazione che nel campo nostro ne produsse ogni altra, dovrebbe prendere le mosse da quelle singolari società piemontesi, dette “Amicizie”, che furono fondate o animate dall’abate Pio Brunone Lanteri». Il Crispolti cioè riconosce che l’Azione Cattolica è una innovazione e non già, come sempre dicono le encicliche papali, una attività sempre esistita dagli Apostoli in poi. Essa è una attività strettamente legata, come reazione, all’illuminismo francese, al liberalismo, ecc. e all’attività degli Stati moderni per la separazione dalla Chiesa, cioè alla riforma intellettuale e morale laicistica ben più radicale (per le classi dirigenti) della Riforma protestante; attività cattolica che si configura specialmente dopo il 48, cioè con la fine della Restaurazione e della Santa Alleanza.

Il movimento per la stampa cattolica, di cui parla la «Civiltà Cattolica», legato al nome di Cesare D’Azeglio è interessante anche per l’atteggiamento del Manzoni al riguardo: si può dire che il Manzoni comprese il carattere reazionario dell’iniziativa del D’Azeglio e si rifiutò elegantemente di collaborarvi, eludendo le aspettazioni del D’Azeglio con l’invio della famosa lettera sul Romanticismo, che, scrive la «Civiltà Cattolica», «dato il motivo che la provocò, può considerarsi come una dichiarazione di principii. Evidentemente il vessillo letterario non era che lo schermo di altre idee, di altri sentimenti, che li divideva», e cioè il diverso atteggiamento nel problema della difesa della religione.

L’articolo della «Civiltà Cattolica» è essenziale per lo studio della preparazione dell’Azione Cattolica.

Q 6 §186 Azione Cattolica. In Ispagna. Cfr M. De Burgos y Mazo, El problema social y la democracia cristiana. Nel 1929 è uscita la Parte prima, Tomo V (?), di pp. 790, a Barcellona, ed. L. Gili. Dev’essere un’opera mastodontica. Questo Tomo V della prima parte costa pesete 18,70.

Q 6 §187 Azione Cattolica. Stati Uniti. È interessante la corrispondenza dagli Stati Uniti pubblicata nella «Civiltà Cattolica» del 20 settembre 1930. I cattolici ricorrono spesso all’esempio degli Stati Uniti per ricordare la loro compattezza e il loro fervore religioso in confronto dei protestanti divisi in tante sette e continuamente rosi dalla tendenza a cadere nell’indifferentismo o nell’areligiosità, onde l’imponente numero di cittadini che nei censimenti dichiarano di essere senza religione. Pare però, da questa corrispondenza, che, anche tra i cattolici, l’indifferentismo non sia scarso.

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Si riportano i dati pubblicati in una serie di articoli pubblicati dalla «rinomata» «Ecclesiastical Review» di Philadelphia pubblicati nei mesi precedenti: un parroco afferma che il 44% dei suoi fedeli rimase, per tutta una lunga serie di anni, interamente sconosciuto, nonostante gli sforzi fatti ripetutamente e da parte sua e dai suoi assistenti ecclesiastici, per arrivare ad un esatto censimento. Con tutta sincerità ammette che circa una metà del gregge restò del tutto estraneo alle sue cure, né altro contatto si ebbe fuori di quello che può dare una irregolare frequenza alla messa ed ai sacramenti. Sono fatti, a detta degli stessi parroci, che si avverano in pressoché tutte le parrocchie degli Stati Uniti.

I cattolici mantengono a loro spese 7664 scuole parrocchiali frequentate da 2 201 942 alunni sotto la guida di religiosi d’ambo i sessi. Rimangono altri 2 750 000 alunni (cioè più del 50%) che «o per infingardaggine dei genitori o per lontananza di luogo sono costretti a frequentare le scuole governative, areligiose, dove non si ode mai una parola su Dio, sui doveri verso il Creatore e neppure sull’esistenza di un’anima immortale».

Un elemento di indifferentismo è dato dai matrimoni misti: «il 20% delle famiglie validamente congiunte in matrimonio misto tralasciano la Messa, se il padre non appartiene alla fede cattolica; ma qualora la madre non sia cattolica, la statistica dà il 40%. Di più, questi genitori trascurano totalmente la educazione cristiana della prole». Si cercò di restringere questi matrimoni misti e anche di proibirli; ma le condizioni «peggiorarono» perché i «recalcitranti» in questi casi abbandonarono la chiesa (con la prole) contraendo unioni «invalide»; questi casi sono il 61% se il padre è «eretico», il 94% se «eretica» è la madre. Perciò si largheggiò: rifiutando la dispensa di matrimonio misto a donne cattoliche si ha una perdita del 58%, se si dà la dispensa la perdita è «solo» del 16%.

Appare quindi che il numero dei cattolici negli Stati Uniti è solo un numero statistico, da censimenti, cioè più difficilmente uno di origine cattolica dichiara di essere senza religione, a differenza di quelli d’origine protestante. Più ipocrisia, insomma. Da questo si può giudicare l’esattezza e la sincerità delle statistiche nei paesi a maggioranza cattolica.

Q 6 §188 Azione Cattolica. Sulle origini dell’Azione Cattolica cfr l’articolo La fortuna del La Mennais e le prime manifestazioni d’Azione Cattolica in Italia

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(«Civiltà Cattolica» del 4 ottobre 1930: è la prima parte dell’articolo; la continuazione appare molto più tardi, come sarà notato), che si riallaccia al precedente articolo su Cesare D’Azeglio ecc. La «Civiltà Cattolica» parla di «quell’ampio moto d’azione e di idee che si manifestò, in Italia come negli altri paesi cattolici di Europa, durante il periodo corso tra la prima e la seconda rivoluzione (1821‑1831), quando furono seminati alcuni di quei germi (se buoni o malvagi non diremo), che dovevano poi dare i loro frutti in tempi più maturi». Ciò significa che il primo moto di Azione Cattolica sorse per l’impossibilità della Restaurazione di essere realmente tale, cioè di ricondurre le cose nei quadri dell’Ancien Régime. Come il legittimismo così anche il cattolicismo, da posizioni integrali e totalitarie nel campo della cultura e della politica, diventano partiti in contrapposto di altri partiti e, di più, partiti in posizione di difesa e di conservazione, quindi costretti a fare molte concessioni agli avversari per meglio sostenersi. Del resto questo è il significato di tutta la Restaurazione come fenomeno complessivo europeo e in ciò consiste il suo carattere fondamentalmente «liberale».

L’articolo della «Civiltà Cattolica» pone un problema essenziale: se il Lamennais è all’origine dell’Azione Cattolica, questa origine non contiene il germe del posteriore cattolicismo liberale, il germe che, sviluppandosi in seguito, darà il Lamennais seconda maniera? È da notare che tutte le innovazioni nel seno della Chiesa quando non sono dovute a iniziativa del centro, hanno in sé qualcosa di ereticale e finiscono con assumere esplicitamente questo carattere finché il centro reagisce energicamente, scompigliando le forze innovatrici, riassorbendo i tentennanti ed escludendo i refrattari.

È notevole che la Chiesa non ha mai avuto molto sviluppato il senso dell’autocritica come funzione centrale; ciò nonostante la tanto vantata sua adesione alle grandi masse dei fedeli. Perciò le innovazioni sono sempre state imposte e non proposte e accolte solo obtorto collo.

Lo sviluppo storico della Chiesa è avvenuto per frazionamento (le diverse compagnie religiose sono in realtà frazioni assorbite e disciplinate come «ordini religiosi»).

Altro fatto della Restaurazione: i governi fanno concessioni alle correnti liberali a spese della Chiesa e dei suoi privilegi e questo è un elemento che crea la necessità di un partito della Chiesa ossia dell’Azione Cattolica.

Lo studio delle origini dell’Azione Cattolica porta così a uno studio del Lamennaisismo e della sua diversa fortuna e diffusione.

Cattolici integralisti, gesuiti e modernisti

Q 6 §164 Cattolici integrali, gesuiti, modernisti. Vedere l’effetto che nell’equilibrio delle forze cattoliche ha avuto la crisi religiosa in Ispagna.<7

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In Ispagna la lotta anticlericale ha avuto come principale bersaglio i gesuiti, ma mi pare che appunto in Ispagna avrebbero dovuto essere forti gli integralisti, e che i gesuiti dovevano essere un contrappeso a queste forze: il tentativo di accordo tra il Vaticano e Alcalà Zamora, troncato dalla Costituente, doveva appunto tendere a mettere in valore la politica gesuitica, eliminando o sacrificando gli integralisti (Segura, ecc.). Ma la situazione spagnola era complicata dal fatto che i gesuiti svolgevano un’attività capitalistica rilevante: essi dominavano alcune società importanti tranviarie e d’altro genere (verificare l’esattezza di questi accenni). In Ispagna i gesuiti avevano una tradizione particolare: loro lotta contro l’Inquisizione e i domenicani (vedere che significato ebbe questa lotta; cfr il libro del Lea sull’Inquisizione di Spagna).

Q 6 §182 Cattolici integrali, gesuiti e modernisti. Giovanni Papini. Dalla recensione del libro su Sant’Agostino di Giovanni Papini, pubblicata dalla «Civiltà Cattolica» del 19 luglio 1930 (p. 155), appare che i cattolici integrali si sono schierati contro il Papini:

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«Le invettive del Tilgher erano poi superate da quelle di uno scrittore anonimo e di una notoria «Agenzia» clandestina, che le passava ai giornali di vario colore, come noi sappiamo: e sebbene si ammantasse di cattolicismo «integrale», essa non aveva certo né la fede né gli interessi delle anime fra le sue prime sollecitudini; molto meno poteva o può rappresentare, con quei suoi metodi di critica, una porzione qualsiasi dei veri e schietti cattolici. Del bollore di quello zelo critico e della sincerità di quelle invettive non avevano dunque le persone saggie da occuparsi; molto meno da edificarsi. E il Papini ha fatto molto bene a non curarsi di loro; ed anche i suoi amici a non darvi peso».

La recensione dev’essere del padre Rosa come appare dalla grammatica alquanto sbilenca e da preziosità come quella di un’«Agenzia» che è notoria ma è anche clandestina. Il Papini, così difeso dai gesuiti e attaccato dagli integrali, non essendo modernista, deve essere senza dubbio di errore catalogato fra i gesuiti.

Q 6 §195 Cattolici integrali, gesuiti, modernisti. Il caso Turmel. Cfr l’articolo La catastrofe del caso Turmel e i metodi del modernismo critico, nella «Civiltà Cattolica» del 6 dicembre 1930. Lo scritto è molto importante e il caso Turmel è di sommo interesse nella quistione.

Questo Turmel, pur rimanendo sacerdote, per oltre venti anni, con svariatissimi pseudonimi, scrisse articoli e libri di carattere eterodosso, fino ad essere apertamente ateistici. Nel 1930 i gesuiti riuscirono a smascherarlo e a farlo dichiarare scomunicato vitando: nel decreto del Santo Uffizio è contenuta la lista delle sue pubblicazioni e dei suoi pseudonimi. La sua attività ha del romanzesco.

Risulta così che dopo la crisi modernistica, nell’organizzazione ecclesiastica si formarono delle formazioni segrete: oltre a quella dei gesuiti (che d’altronde non sono omogenei e concordi, ma hanno avuto un’ala modernistica – il Tyrrell era gesuita – e una integralista – il cardinale Billot era integralista) esisteva ed esisterà ancora una formazione segreta integralista e una modernista.

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La identificazione del Turmel coi suoi pseudonimi ha anch’essa qualcosa di romanzesco: indubbiamente il centro gesuitico aveva teso intorno a lui una vasta tela che andò restringendosi mano mano fino a imprigionarlo. Appare che il Turmel aveva delle protezioni nelle Congregazioni romane, ciò che dimostra che i modernisti non sono tutti stati identificati, nonostante il giuramento, ma operano segretamente ancora. Turmel aveva scritto articoli e libri con quindici pseudonimi: Louis Coulange, Henri Delafosse, Armand Dulac, Antoine Dupin, Hippolyte Gallerand, Guillaume Herzog, André Lagard, Robert Lawson, Denys Lenain, Paul Letourneur, Goulven Lézurec, Alphonse Michel, Edmond Perrin, Alexis Vanbeck, Siouville. Avveniva che il Turmel con un pseudonimo confutasse o lodasse articoli e libri scritti con altro pseudonimo, ecc. Collaborava alla rivista «Revue d’histoire des religions» e alla collezione «Christianisme» diretta dal Couchoud presso l’editore Rieder.

È da tener conto anche di un altro articolo pubblicato nella «Civiltà Cattolica» del 20 dicembre 1930: Lo spirito dell’«Action Française» a proposito di «intelligenza» e di «mistica», dove si parla del volume di Jean Héritier Intelligence et Mystique (Parigi, Librairie de France, 1930, in 8°, pp. 230) nella collezione «Les Cahiers d’Occident» che si propone di diffondere i principi sulla difesa dell’occidente secondo lo spirito del noto libro di Henri Massis. Per i gesuiti il Massis e le sue teorie sono sospette: d’altronde è notorio il contatto tra il Massis e Maurras. Il movimento del Massis è da porre tra quelli del «cattolicismo integrale» o del forcaiolismo cattolico. (Anche il movimento dell’Action Française è da porre tra quelli sostenuti dall’integralismo).

In Francia la nascita dell’integralismo è da connettere col movimento del Ralliement propugnato da Leone XIII: sono integralisti quelli che disobbediscono a Leone XIII e ne sabotano l’iniziativa. La lotta di Pio X contro il Combismo sembra dar loro ragione e Pio X è il loro papa, come è il papa di Maurras. In appendice al volume dell’Héritier sono stampati articoli di altri scrittori che trattano del Ralliement e sostengono anche nelle quistioni di storia religiosa la tesi del Maurras sull’anarchismo dissolvente del cristianesimo giudaico e sulla romanizzazione del cattolicismo.

Encicliche

Q 6 §25 Passato e presente. L’enciclica del papa sull’educazione (pubblicata nella «Civiltà Cattolica» del 1° febbraio 1930): discussioni che ha sollevato, problemi che ha posto, teoricamente e praticamente. (Questo è un comma del paragrafo generale sulla quistione della scuola, o dell’aspetto scolastico del problema nazionale della cultura o della lotta per la cultura).

Q 6 §163 Passato e presente. Le encicliche papali. Un esame critico‑letterario delle encicliche papali. Esse sono per il 90% un centone di citazioni generiche e vaghe, il cui scopo pare essere quello di affermare in ogni occasione la continuità della dottrina ecclesiastica dagli Evangeli ad oggi. In Vaticano devono avere uno schedario formidabile di citazioni per ogni argomento: quando si deve compilare un’enciclica, si comincia con il fissare preventivamente le schede contenenti la dose necessaria di citazioni: tante dall’Evangelio, tante dai padri della Chiesa, tante dalle precedenti encicliche. L’impressione che se ne ottiene è di grande freddezza. Si parla della carità, non perché ci sia un tal sentimento verso gli uomini attuali, ma perché così ha detto Matteo, e Agostino, e il «nostro predecessore di felice memoria», ecc. Solo quando il papa scrive o parla di politica immediata, si sente un certo calore.

Altro

Q 6 §181 Chiesa cattolica. Santi e beati.

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La Congregazione dei Riti ha pubblicato (cfr «Corriere della Sera» del 2 dicembre 1931) il catalogo ufficiale delle cause di beatificazione e canonizzazione che sono attualmente in corso. Il precedente catalogo era uscito 10 anni fa e contava 328 processi; l’attuale ne conta 551. Nell’elenco l’Italia figura con 271 cause, la Francia con 116, ecc. Sarebbe interessante esaminare, ai fini di una statistica politico‑sociale, i cataloghi di un periodo di tempo un po’ lungo e distribuire i processi per nazioni, per condizioni sociali, ecc. Bisognerebbe tener conto di varie condizioni: chi propone le cause, come, ecc. Se ne potrebbero trarre dei criteri della politica che il Vaticano segue in queste faccende e dei cambiamenti che una tale politica ha subito nel tempo.

Q 6 §196 Politica del Vaticano. Malta.

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Cfr nella «Civiltà Cattolica» del 20 dicembre 1930: Nel decimo anno della diarchia maltese. La «Civiltà Cattolica» chiama diarchia o doppio governo la posizione politica creata a Malta nel 1921 con la concessione di una costituzione per cui, pur rimanendo all’Inghilterra la sovranità, il governo veniva affidato ai cittadini. Interpretazione evidentemente tendenziosa, ma utile ai cattolici per impostare le loro agitazioni contro l’Inghilterra protestante e impedire che i cattolici perdano la supremazia a Malta.

Altre religioni

Q 6 §190 Cultura sud‑americana. Cfr l’articolo Il protestantesimo degli Stati Uniti e l’Evangelizzazione protestante nell’America latina nella «Civiltà Cattolica» del 18 ottobre 1930. L’articolo è interessante e istruttivo per apprendere come lottano tra loro cattolici e protestanti: naturalmente i cattolici presentano le missioni protestanti come l’avanguardia della penetrazione economica e politica degli Stati Uniti e lottano contro sollevando il sentimento nazionale. Lo stesso rimprovero fanno i protestanti ai cattolici, presentando la Chiesa e il papa come potenze terrene che si ammantano di religione, ecc.

Q 6 §178 Nozioni enciclopediche. Teopanismo. Termine usato dai gesuiti per esempio per indicare una caratteristica della religione induista (ma teopanismo non significa panteismo? oppure si adopera per indicare una particolare concezione religioso‑mitologica, per distinguerla dal «panteismo» filosofico‑superiore?) Cfr «Civiltà Cattolica», 5 luglio 1930 (articolo «L’Induismo», pp. 17‑18):

«Per l’induismo non vi ha differenza sostanziale tra Dio, uomo, animale e pianta: tutto è Dio, non solo nella credenza delle classi inferiori, presso le quali siffatto panteismo è concepito animisticamente, ma anche presso le alte classi e le persone colte, nella cui maniera di pensare l’essenza divina si rivela, in senso teopanistico, come mondo delle anime e delle cose visibili. Benché in sostanza sia lo stesso errore, nondimeno, nella maniera di concepirlo ed esprimerlo, si distingue il panteismo, che immagina il mondo come un essere assoluto, oggetto di culto religioso: “il tutto è Dio”, dal teopanismo, che concepisce Dio come la realtà spirituale-reale, da cui emanano tutte le cose: “Dio diventa tutto”, necessariamente, incessantemente, senza principio e senza fine. Il teopanismo è (accanto a pochi sistemi dualistici) la maniera più comune della filosofia induista, di concepire Dio e il mondo».

Q 6 §22 Gli inglesi e la religione.

Da un articolo della «Civiltà Cattolica» del 4 gennaio 1930, L’opera della grazia in una recente conversione dall’anglicanismo, tolgo questa citazione dal libro di Vernon Johnson One Lord, one Faith (Un signore, una fede; Londra, Sheed and Ward, 1929; il Johnson è appunto il convertito): «L’inglese medio non pensa quasi mai alla questione dell’autorità nella sua religione. Egli accetta quella forma d’insegnamento della Chiesa anglicana, in cui è stato allevato, sia anglocattolica, sia latitudinarista, sia evangelica, e la segue sino al punto in cui comincia a non soddisfare ai suoi bisogni o viene in conflitto con la sua personale opinione. Perciò, essendo sostanzialmente onesto e sincero, non volendo professare più di quello che egli realmente crede, scarta tutto quello che non può accettare e si forma una religione personale sua propria».   

continua

Lo scrittore della «Civiltà Cattolica» continua, forse parafrasando: «Egli (l’inglese medio) considera la religione come un affare esclusivamente privato tra Dio e l’anima; ed in tale atteggiamento, è estremamente cauto, diffidente e restio ad ammettere l’intervento di qualsiasi autorità. Onde va crescendo il numero di coloro che nella loro mente accolgono sempre più il dubbio: se veramente i Vangeli siano degni di fede, se la religione cristiana sia obbligatoria per tutto il mondo e se si possa conoscere con certezza quale fosse realmente la dottrina di Cristo. Quindi esita ad ammettere che Gesù Cristo fosse veramente Dio».

E ancora: «... La maggiore di tutte (le difficoltà al ritorno degli Inglesi alla Chiesa Romana): l’amore per l’indipendenza in ogni inglese. Egli non ammette nessuna ingerenza, molto meno in religione e meno ancora da parte di uno straniero. Innato e profondamente radicato nel suo animo è l’istinto che l’indipendenza nazionale e l’indipendenza religiosa siano inseparabili. Egli sostiene che l’Inghilterra non accetterà mai una Chiesa governata da italiani».

Teorie sulla religione

Q 6 §41 Religione. «Viaggiando, potrai trovare città senza mura e senza lettere, senza re e senza case (!), senza ricchezze e senza l’uso della moneta, prive di teatri e di ginnasi (palestre). Ma una città senza templi e senza dei, che non pratichi né preghiere, né giuramenti, né divinazioni, né i sacrifizi per impetrare i beni e deprecare i mali, nessuno l’ha mai veduta, né la vedrà mai». Plutarco, adv. Col., 31.

Definizione della religione del Turchi (Storia delle religioni, Bocca 1922): «La parola religione nel suo significato più ampio, denota un legame di dipendenza che riannoda l’uomo a una o più potenze superiori dalle quali sente di dipendere ed a cui tributa atti di culto sia individuali che collettivi». Cioè nel concetto di religione si presuppongono questi elementi costitutivi: 1° la credenza che esistano una o più divinità personali trascendenti le condizioni terrestri e temporali; 2° il sentimento degli uomini di dipendere da questi esseri superiori che governano la vita del cosmo totalmente; 3° l’esistenza di un sistema di rapporti (culto) tra gli uomini e gli dei.

Salomone Reinach nell’Orpheus definisce la religione senza presupporre la credenza in potenze superiori: «Un insieme di scrupoli (tabù) che fanno ostacolo al libero esercizio delle nostre facoltà». Questa definizione è troppo ampia e può comprendere non solo le religioni ma anche qualsiasi ideologia sociale che tende a rendere possibile la convivenza e perciò ostacola (con scrupoli) il libero (o arbitrario) esercizio delle nostre facoltà.

Sarebbe da vedere anche se può chiamarsi «religione» una fede che non abbia per oggetto un dio personale, ma solo delle forze impersonali e indeterminate. Nel mondo moderno si abusa delle parole «religione» e «religioso» attribuendole a sentimenti che nulla hanno che vedere con le religioni positive. Anche il puro «teismo» non è da ritenersi una religione; manca in esso il culto, cioè un rapporto determinato fra l’uomo e la divinità.

Intellettuali

Italiani

Machiavelli

Q 6 §50 Machiavelli. Fortuna «pratica» di Machiavelli: Carlo V lo studiava. Enrico IV. Sisto V ne fece un sunto. Caterina de’ Medici lo portò in Francia e se ne ispirò forse per la lotta contro gli Ugonotti e la strage di S. Bartolomeo. Richelieu, ecc. Cioè Machiavelli servì realmente gli Stati assoluti nella loro formazione, perché era stato l’espressione della «filosofia dell’epoca» europea più che italiana.

Q 6 §52 Machiavelli. Machiavelli come figura di transizione tra lo Stato corporativo repubblicano e lo Stato monarchico assoluto. Non sa staccarsi dalla repubblica ma capisce che solo un monarca assoluto può risolvere i problemi dell’epoca. Questo dissidio tragico della personalità umana Machiavellica (dell’uomo Machiavelli) sarebbe da vedere.

Q 6 §152 Storia degli intellettuali italiani. Il processo di Galileo, di Giordano Bruno, ecc. e l’efficacia della Controriforma nell’impedire lo sviluppo scientifico in Italia. Sviluppo delle scienze nei paesi protestanti o dove la Chiesa era meno immediatamente forte che in Italia. La Chiesa avrebbe contribuito alla snazionalizzazione degli intellettuali italiani in due modi: positivamente, come organismo universale che preparava personale a tutto il mondo cattolico, e negativamente, costringendo ad emigrare quegli intellettuali che non volevano sottomettersi alla disciplina controriformistica.

Q 6 §7 Funzione cosmopolita degli intellettuali italiani. La borghesia medioevale e il suo rimanere nella fase economico‑corporativa. È da fissare in che consista concretamente l’indipendenza e l’autonomia di uno Stato e in che consistesse nel periodo dopo il Mille. Già oggi le alleanze, con l’egemonia di una grande potenza, rendono problematica la libertà d’azione ma specialmente la libertà di fissare la propria linea di condotta, di moltissimi Stati: questo fatto si doveva manifestare in modo molto più marcato dopo il Mille, data la funzione internazionale dell’Impero e del Papato e il monopolio degli eserciti detenuto dall’Impero.

Q 6 §14 Funzione internazionale degli intellettuali italiani. Monsignor Della Casa. Nella puntata del suo studio su La lirica del Cinquecento, pubblicata nella «Critica» del novembre 1930 B. Croce scrive sul Galateo: «... esso non ha niente di accademico e pesante ed è una serie di garbati avvertimenti sul modo gradevole di comportarsi in società e uno di quei libri iniziatori che l’Italia del Cinquecento dette al mondo moderno» (p. 410). È esatto dire che sia un libro «iniziatore» dato al «mondo moderno»? Chi è più «iniziatore» al «mondo moderno», il Casa e il Castiglione o Leon Battista Alberti? Chi si occupava dei rapporti fra cortigiani o chi dava consigli per l’edificazione del tipo del borghese nella società civile? Tuttavia occorre tener conto del Casa in questa ricerca ed è certamente giusto non considerarlo solo «accademico e pesante» (ma in questo giudizio del «mondo moderno» non è implicito un «distacco» ‑ e non un rapporto di iniziazione ‑ tra il Casa e il mondo moderno?)

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Il Casa scrisse altre operette politiche, le orazioni e inoltre un trattatello in latino, De officiis inter potentiores et tenuiores amicos, «intorno al rapporto che corre tra gli amici potenti e inferiori, tra quelli che, stretti dal bisogno di vivere e di avvantaggiarsi, si danno a servire come cortigiani e coloro che li impiegano; rapporto che egli giudica, qual è, di carattere utilitario e non pretende convertirlo in legame regolato da una legge di giustizia, ma che si argomenta di far accettare da entrambe le parti e introdurvi qualche lume di bontà, con lo spiegare agli uni e agli altri la realtà delle loro rispettive posizioni e il tatto che esse richiedono».

Q 6 §177 Storia degli intellettuali italiani. Cfr Angelo Scarpellini, La Battaglia intorno al latino nel settecento in «Glossa Perenne», 1929.

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(Riassume i termini della lotta combattuta nel 700 pro e contro lo studio del latino e specialmente l’uso di esso nelle scritture, che è la quistione fondamentale dal punto di vista di un rivolgimento nell’attitudine e nei rapporti dei ceti intellettuali verso il popolo).

Q 6 §21 La funzione cosmopolita degli intellettuali italiani. Su gli scrittori politici e moralisti del Seicento, rilevati dal Croce nel suo volume Storia dell’età barocca,

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cfr la recensione di Domenico Petrini (nel «Pègaso» dell’agosto 1930) Politici e moralisti del Seicento, del libro con lo stesso titolo Politici e moralisti del Seicento (Strada, Zuccolo, Settala, Accetto, Brignole Sale, Malvezzi), a cura di Benedetto Croce e Santino Caramella, Laterza, Bari, 1930, L. 25 (nella collezione «Scrittori d’Italia»).

Q 6 §197 Gli intellettuali. Alla Università di Madrid, Eugenio D’Ors sta (1931) svolgendo un largo corso di conferenze su La scienza e la storia della Cultura che, da alcuni cenni pubblicati nelle «Nouvelles Littéraires» del 31 Ottobre 1931 pare debba essere una enorme sociologia del fatto culturale o della civiltà. Il corso sarà pubblicato in volumi, certamente.

Q 6 §42 Tendenze della cultura italiana. Giovanni Cena. Sul Cena è molto interessante l’articolo di Arrigo Cajumi Lo strano caso di Giovanni Cena («Italia letteraria», 24 novembre 1929).

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Del Cajumi sarà utile ricercare le raccolte di articoli; il Cajumi è molto capace nel trovare certi nessi nel mondo della cultura italiana. Del Cajumi occorre ricordare la quistione di Arrigo ed Enrico: Enrico segretario di redazione dell’«Italia Nostra» il settimanale dei neutralisti intellettuali del 1914‑15 e direttore dell’«Ambrosiano» nel periodo in cui l’«Ambrosiano» era controllato da Gualino; mi pare che nel giornale, come direttore responsabile, firmasse cav. o comm. Enrico Cajumi; Arrigo, scrittore di articoli letterari e di cultura nella «Stampa», corrispondente della «Stampa» da Ginevra, durante le sessioni della S.d.N., esaltatore della politica e dell’oratoria di Briand.

Perché questo cambiamento di Arrigo in Enrico e di Enrico in Arrigo? Il Cajumi era in terz’anno della Università di Torino quando io ero in primo anno: era un giovane brillante come studente e come conversatore. Ricordare l’episodio di Berra, nel 18 o nel 19, cioè appena nella «Stampa» cominciò ad apparire la firma di Arrigo Cajumi; il Berra mi racconto d’aver incontrato Enrico Cajumi e di aver parlato con lui di questi articoli: il Cajumi si mostrava offeso che lo si potesse credere l’autore per l’Enrico‑Arrigo. Dall’Università di Torino il Cajumi si trasferì nel 12‑13 all’Università di Roma e divenne amico, oltre che allievo di Cesare De Lollis, specializzandosi nella letteratura francese. Che si tratti della stessa persona è dimostrato dall’attuale culto di Arrigo per il De Lollis e dal fatto che egli è del gruppo che ha continuato «La Cultura».

Ancora: il Cajumi, col nome di Enrico, continuò a firmare l’«Ambrosiano» anche quando se ne era allontanato, credo per un ammutinamento della redazione; in un articolo della «Stampa» su Marco Ramperti, ricordava in questo tempo, di aver conosciuto personalmente il Ramperti durante una sua avventura giornalistica, e di averlo visto lavorare da vicino: ora il Ramperti era appunto il critico drammatico dell’«Ambrosiano». Adesso il Cajumi è impiegato presso la ditta Bemporad di Firenze e scrive solo articoli di riviste e di letteratura nella «Stampa» (credo) e nell’«Italia Letteraria».

Dall’articolo su Cena stralcio qualche brano: «Nato nel 1870, morto nel 1917, Giovanni Cena ci appare come una figura rappresentativa del movimento intellettuale che la parte migliore della nostra borghesia compì al rimorchio delle nuove idee che venivano di Francia e di Russia; con un apporto personalmente più amaro ed energico, causato dalle origini proletarie (! o contadine?) e dagli anni di miseria. Autodidatta uscito per miracolo dall’abbrutimento del lavoro paterno e del natìo paesello, Cena entrò inconsciamente nella corrente che in Francia – proseguendo una tradizione (!) derivata (!) da Proudhon via via (!) attraverso Vallès e i comunardi sino ai Quatre évangiles zoliani, all’affare Dreyfus, alle Università popolari di Daniel Halévy e che oggi continua in Guéhenno (!) (piuttosto in Pierre Dominique e in altri) – fu definita come l’andata al popolo (il Cajumi trasporta nel passato una parola d’ordine odierna, dei populisti; nel passato tra popolo e scrittori in Francia non ci fu mai scissione dopo la Rivoluzione francese e fino a Zola: la reazione simbolista scavò un fosso tra popolo e scrittori, tra scrittori e vita e Anatole France è il tipo più compiuto di scrittore libresco e di casta).

Il nostro (Cena) veniva dal popolo, di qui l’originalità (!) della sua posizione, ma l’ambiente della lotta era sempre lo stesso, quello dove si affermò il socialismo di un Prampolini, Era la seconda generazione piccolo‑borghese dopo l’unità italiana (della prima ha scritto magistralmente la cronistoria Augusto Monti nei Sansoussî), estranea alla politica delle classi conservatrici dominanti, in letteratura più connessa al De Amicis o allo Stecchetti che al Carducci, lontana da d’Annunzio, e che preferirà formarsi su Tolstoi, considerato piuttosto come pensatore che quale artista, scoprirà Wagner, crederà vagamente ai simbolisti, alla poesia sociale (simbolisti e poesia sociale?), alla pace perpetua, insulterà i governanti perché poco idealisti, e non si ridesterà dai suoi sogni neppure per le cannonate del 1914» (un po’ di maniera e stiracchiato tutto ciò).

«Cresciuto fra incredibili stenti, sapeva di essere anfibio, né borghese, né popolano: “Come mi facessi un’istruzione accademica e prendessi diplomi, è cosa che mi fa perdere spesso ogni calma a pensarci. E quando, pensandoci, sento che potrò perdonare, allora ho veramente il senso di essere un vittorioso”. “Sento profondamente che soltanto lo sfogo della letteratura e la fede nel suo potere di liberazione e di elevazione mi hanno salvato dal diventare un Ravachol” ».

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Nel primo abbozzo degli Ammonitori il Cena immaginò che il suicida si gettasse sotto un’automobile reale, ma nell’edizione definitiva non mantenne la scena: «… Studioso di cose sociali, estraneo a Croce, a Missiroli, Jaurès, Oriani, alle vere esigenze del proletariato settentrionale che lui, contadino, non poteva sentire. Torinese, era ostile al giornale che rappresentava la borghesia liberale, anzi socialdemocratica. Di sindacalismo non v’è traccia, di Sorel manca il nome. Il modernismo non lo preoccupava».

Questo brano mostra quanto sia superficiale la cultura politica del Cajumi. Il Cena è volta a volta popolano, proletario, contadino. La «Stampa» è socialdemocratica, anzi esiste una borghesia torinese socialdemocratica: il Cajumi imita in ciò certi uomini politici siciliani che fondavano partiti democratici sociali o addirittura laburisti e cade nel tranello di molti pubblicisti da ridere che hanno cucinato la parola socialdemocrazia in tutte le salse. Il Caiumi dimentica che a Torino la «Stampa» era, prima della guerra, a destra della «Gazzetta del Popolo», giornale democratico moderato. È poi grazioso l’accoppiamento Croce‑Missiroli‑Jaurès‑Oriani per gli studi sociali.

Nello scritto Che fare? il Cena voleva fondere i nazionalisti coi filosocialisti come lui; ma in fondo tutto questo socialismo piccolo borghese alla De Amicis non era un embrione di socialismo nazionale, o nazionalsocialismo, che ha cercato di farsi strada in tanti modi in Italia e che ha trovato nel dopoguerra un terreno propizio?

Q 6 §57 Poesia così detta sociale italiana. Rapisardi. Cfr l’articolo molto interessante di Nunzio Vaccalluzzo La poesia di Mario Rapisardi nella Nuova Antologia del 16 febbraio 1930. Il Rapisardi fu fatto passare per materialista e anzi per materialista storico. È ciò vero? O non piuttosto fu egli un «mistico» del naturalismo e del panteismo? Però legato al popolo, specialmente al popolo siciliano, alle miserie del contadino siciliano ecc.

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L’articolo del Vaccalluzzo può servire per iniziare uno studio sul Rapisardi anche per le indicazioni che dà. Procurarsi un prospetto delle opere del Rapisardi, ecc. Importa specialmente la raccolta Giustizia che, dice il Vaccalluzzo, l’aveva cantata come poeta proletario (!), «più con veemenza di parole che di sentimento»: ma appunto questa Giustizia è poesia da democratico‑contadino, secondo i miei ricordi.

Q 6 §68 Alfredo Oriani. Floriano Del Secolo, Contributo alla biografia di Oriani. Con lettere inedite, nel «Pègaso» dell’ottobre 1930.

Appare l’Oriani nella così detta «tragedia» della sua vita intellettuale di «genio» incompreso dal pubblico nazionale, di apostolo senza seguaci ecc. Ma fu poi Oriani «incompreso», o si trattava di una sfinge senza enigmi, di un vulcano che eruttava solo topolini? E adesso è Oriani diventato «popolare», «maestro di vita», ecc.? Molto si pubblica su di lui, ma l’edizione nazionale delle sue opere è comprata e letta? C’è da dubitarne. Oriani e Sorel (in Francia). Ma Sorel è stato enormemente più attuale di Oriani.

Perché Oriani non riuscì a formarsi una scuola, un gruppo di discepoli, perché non organizzò una rivista? Voleva essere «riconosciuto» senza sforzo da parte sua (oltre ai lamenti presso gli amici più intimi). Mancava di volontà, di attitudini pratiche, e voleva influire sulla vita politica e morale della nazione. Ciò che lo rendeva antipatico a molti doveva essere appunto questo giudizio istintivo che si trattava di un velleitario che voleva essere pagato prima d’aver compiuto l’opera, che voleva esser riconosciuto «genio», «capo», «maestro», per un diritto divino da lui affermato perentoriamente. Certo Oriani deve essere avvicinato al Crispi come psicologia e a tutto uno strato di intellettuali italiani, che, in certi rappresentanti più bassi, cade nel ridicolo e nella farsa intellettuale.

Ant.: Gramsci su Oriani

Mat. Bibl.: Articoli su Oriani

Q 6 §129 Passato e presente. La politica di D’Annunzio. Sono interessanti alcune pagine del volume Per l’Italia degli Italiani, Milano, «Bottega di Poesia», 1923. In un punto ricorda la sua tragedia La Gloria e se ne richiama per la sua politica verso i contadini che devono «regnare» perché sono i «migliori». Concetti politici reali neanche uno: frasi ed emozioni, ecc.

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A proposito delle 2000 lire date per gli affamati della carestia del 1921 cerca, in fondo, di farle dimenticare, presentando l’offerta come un tratto di politica «machiavellica»: avrebbe dato per ringraziare di aver liberato il mondo da un’illusione, ecc.1 Si potrebbe studiare la politica di D’Annunzio come uno dei tanti ripetuti tentativi di letterati (Pascoli, ma forse bisogna risalire a Garibaldi) per promuovere un nazionalsocialismo in Italia (cioè per condurre le grandi masse all’«idea» nazionale o nazionalista‑imperialista).

Note

Q 6 §144 G. Pascoli e Davide Lazzaretti.

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Nella «Nota per gli alunni» che precede l’antologia Sul limitare, il Pascoli, accennando alla pubblicazione di Giacomo Barzellotti sul Lazzaretti così scrive: «Io ho sentito dalla lettura del libro elevarsi il mio pensiero all’avvenire così dubbioso della nostra civiltà. Il secolo è finito: che ci porterà il secolo ventesimo? La pace tra i popoli, la pace tra le classi, la pace della coscienza? o la lotta e la guerra? Ebbene, codesto barrocciaio commosso da un nuovo impulso di fede viva, che cade nel suo sangue, e cotesto pensatore (il Barzellotti), coscienza e mente dei nostri tempi, che lo studia, lo narra, lo compiange, mi sembrano come un simbolo: l’umanità sapiente che piange e ammonisce, col petto alto e col capo chino, tra la sicurezza del suo pensiero e la pietà del suo sentimento, sull’altra umanità, su quella che delira e muore».

Questo brano interessa: 1) per il pensiero politico del Pascoli nel 1899‑900. 2) Per mostrare l’efficacia ideologica della morte del Lazzaretti. 3) Per vedere quali rapporti il Pascoli voleva tra gli intellettuali e il popolo.

Q 6 §145 Storia degli intellettuali italiani. Giovanni B. Botero.

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Cfr Il numero come forza nel pensiero di Giovanni Botero di Emilio Zanette, nella «Nuova Antologia» del 1° settembre del 1930. È un articolo superficiale e di tipo giornalistico‑d’occasione. Il significato dell’importanza data da Botero al «fatto» della popolazione non ha lo stesso valore di quello che può avere attualmente.

Il Botero è uno degli scrittori del tempo della Controriforma più tipicamente cosmopoliti e a‑italiani. Egli parla dell’Italia come di qualsiasi altro paese e i suoi problemi politici non lo interessano specificatamente. Critica la «boria» degli Italiani che si considerano superiori ad altri paesi e dimostra infondata tale pretesa. È da studiare per tanti rispetti (ragion di Stato, machiavellismo, tendenza gesuitica, ecc.). Il Gioda ha scritto sul Botero: più recentemente saggi, ecc. Per questo articolo lo Zanette potrebbe entrare nel paragrafo degli «Italiani meschini».

Q 6 §146 Storia degli intellettuali italiani. Gli ebrei.

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Cfr Yoseph Colombo, Lettere inedite del p. Hyacinthe Loyson, «Nuova Antologia», 1° settembre 1930. Si parla del rabbino livornese Benamozegh, della sua concezione dell’ebraismo in rapporto al cristianesimo, dei suoi scritti, dei suoi rapporti col Loyson; si accenna all’importanza della comunità ebraica di Livorno come centro di cultura rabbinica, ecc.

Q 6 §209 Intellettuali. Intellettuali tradizionali. Per una categoria di questi intellettuali, la più importante forse, dopo quella «ecclesiastica», per il prestigio e la funzione sociale che ha svolto nelle società primitive – la categoria dei medici in senso largo, cioè di tutti quelli che «lottano» o appaiono lottare contro la morte e le malattie – occorrerà confrontare la Storia della medicina di Arturo Castiglioni.

Ricordare che c’è stata connessione tra la religione e la medicina e ancora in certe zone, continua ad esserci: ospedali in mano a religiosi per certe funzioni organizzative, oltre al fatto che dove appare il medico appare il prete (esorcismi, assistenze varie, ecc.). Molte grandi figure religiose erano anche o furono concepite come grandi «terapeuti»: l’idea del miracolo fino alla resurrezione dei morti. Anche per i re continuò a lungo ad esservi la credenza che guarissero con l’imposizione delle mani ecc.

Q 6 §211 Intellettuali. Le Accademie. Funzione che esse hanno avuto nello sviluppo della cultura in Italia, nel cristallizzarla e nel farne una cosa da museo, lontana dalla vita nazionale‑popolare (ma le accademie sono state causa o effetto? Non si sono moltiplicate forse per dare una soddisfazione parziale all’attività che non trovava sfogo nella vita pubblica ecc.?) L’Enciclopedia (edizione del 1778) assicura che l’Italia contava allora 550 Accademie.

Stranieri

Q 6 §33 Gli intellettuali. Un ricco materiale da spigolare sulle concezioni diffuse tra gli intellettuali si potrà trovare nelle raccolte di interviste pubblicate nelle «Nouvelles Littéraires» da Frédéric Lefèvre col titolo Une heure avec…. Ne sono già usciti più volumi. In queste interviste non si trattano solo quistioni letterarie e artistiche, ma anche politiche, economiche, ecc., ideologiche in generale. Il modo di pensare è espresso con maggiore spontaneità ed evidenza che nei libri degli autori.

Q 6 §34 Georges Renard. Morto nell’ottobre 1930. Era professore di Storia del Lavoro al Collège de France. Partecipò alla Comune. Ha diretto queste collezioni: Le Socialisme à l’œuvre, l’Histoire Universelle du Travail, la Bibliothèque Sociale des Métiers. Libro teorico: Le Régime Socialiste in cui difende la tradizione del socialismo francese contro Marx.

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Deve aver scritto un libro, Les Cités Imaginaires, sulla letteratura utopistica (ma forse era solo il tema del suo corso universitario per l’anno 30‑31, non tenuto per la morte); ma nei suoi libri molti accenni certamente. Sarà utile compilare una bibliografia completa del Renard, identificando quelle opere che hanno un’importanza scientifica e storica.

Q 6 §141 Sul sentimento nazionale. L’editore Grasset ha pubblicato un gruppo di Lettres de jeunesse dell’allora capitano Lyautey. Le lettere sono del 1883 e il Lyautey era allora monarchico, devoto al conte di Chambord; il Lyautey apparteneva alla grande borghesia che era strettamente alleata all’aristocrazia. Più tardi, morto il conte di Chambord e dopo l’azione di Leone XIII per il ralliement, il Lyautey si unì al movimento di Albert de Mun che seguì le direttive di Leone XIII, e così divenne un alto funzionario della Repubblica, conquistò il Marocco, ecc.

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Il Lyautey era ed è rimasto un nazionalista integrale, ma ecco come concepiva nell’83 la solidarietà nazionale: a Roma aveva conosciuto il tedesco conte von Dillen, capitano degli ulani, e così ne scrisse al suo amico Antoine de Margerie: «Un gentleman, d’une éducation parfaite, de façons charmantes, ayant en toutes choses, religion, politique, toutes nos idées. Nous parlons la même langue et nous nous entendons à merveille. Que veux‑tu? J’ai au coeur, une haine féroce, celle du désordre, de la revolution. Je me sens, certes, plus près de tous ceux qui la combattent, de quelque nationalité qu’ils soient, que de tels de nos compatriotes avec qui je n’ai pas une idée commune et que je regarde comme des ennemis publics».

Letteratura

Critica letteraria

Q 6 §64 I nipotini di padre Bresciani. «L’arte è educatrice in quanto arte, ma non in quanto arte educatrice», perché in tal caso è nulla, e il nulla non può educare. Certo, sembra che tutti concordemente desideriamo un’arte che somigli a quella del Risorgimento e non, per esempio, a quella del periodo dannunziano; ma, in verità, se ben si consideri, in questo desiderio non c’è il desiderio di un’arte a preferenza di un’altra, sì bene di una realtà morale a preferenza di un’altra. Allo stesso modo chi desideri che uno specchio rifletta una bella anziché una brutta persona, non si augura già uno specchio che sia diverso da quello che ha innanzi, ma una persona diversa». (Croce, Cultura e Vita morale, pp. 169‑70; cap. Fede e programmi del 1911).

«Quando un’opera di poesia o un ciclo di opere poetiche si è formato, è impossibile proseguire quel ciclo con lo studio e con l’imitazione e con le variazioni intorno a quelle opere; per questa via si ottiene solamente la cosiddetta scuola poetica, il servum pecus degli epigoni. Poesia non genera poesia; la partenogenesi non ha luogo; si richiede l’intervento dell’elemento maschile, di ciò che è reale, passionale, pratico, morale. I più alti critici di poesia ammoniscono, in questo caso, di non ricorrere a ricette letterarie, ma, com’essi dicono, di «rifare l’uomo». Rifatto l’uomo, rinfrescato lo spirito, sorta una nuova vita di affetti, da essa sorgerà, se sorgerà, una nuova poesia». (B. Croce, Cultura e Vita morale, pp. 241‑42; capitolo Troppa filosofia del 1922).

Questa osservazione può essere propria del materialismo storico. La letteratura non genera letteratura ecc., cioè le ideologie non creano ideologie, le superstrutture non generano superstrutture altro che come eredità di inerzia e di passività: esse sono generate, non per «partenogenesi» ma per l’intervento dell’elemento «maschile» – la storia – l’attività rivoluzionaria che crea il «nuovo uomo», cioè nuovi rapporti sociali.

Da ciò si deduce anche questo: che il vecchio «uomo», per il cambiamento, diventa anch’esso «nuovo», poiché entra in nuovi rapporti, essendo stati quelli primitivi capovolti. Donde il fatto che, prima che il «nuovo uomo» creato positivamente abbia dato poesia, si possa assistere al «canto del cigno» del vecchio uomo rinnovato negativamente: e spesso questo canto del cigno è di mirabile splendore; il nuovo vi si unisce al vecchio, le passioni vi si arroventano in modo incomparabile ecc. (Non è forse la Divina Commedia un po’ il canto del cigno medioevale, che pure anticipa i nuovi tempi e la nuova storia?)

Q 6 §116 Il Rinascimento (Fase economica‑corporativa della storia italiana). Origini della letteratura e della poesia volgare. Vedere gli studi di Ezio Levi su Uguccione da Lodi e i primordi della poesia italiana e altri studi posteriori (1921) su gli antichi poeti lombardi, con l’edizione delle rime, commento e piccole biografie. Il Levi sostiene che si tratta di un «fenomeno letterario», «accompagnato da un movimento di pensiero» e rappresentante «il primo affermarsi della nuova coscienza italiana, in contrapposizione alla età medioevale, pigra e sonnolenta» (cfr S. Battaglia, Gli studi sul nostro duecento letterario, nel «Leonardo» del febbraio 1927). La tesi del Levi è interessante e deve essere approfondita. Naturalmente come tesi di storia della cultura e non di storia dell’arte.

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Il Battaglia scrive che «il Levi scambia questa modesta produzione rimata, che serba i caratteri e gli atteggiamenti di evidente natura popolare, per un fenomeno letterario» ed è possibile che il Levi, come spesso avviene in tali casi, esageri l’importanza artistica di questi scrittori; ma che significa ciò? E che significa la «natura popolare» contrapposta alla «letteraria»?

Quando una nuova civiltà sorge, non è naturale che essa assuma forme «popolari» e primitive, che siano uomini «modesti» ad esserne i portatori? E ciò non è tanto più naturale in tempi quando la cultura e la letteratura erano monopolio di caste chiuse? Ma poi, al tempo di Uguccione da Lodi, ecc., anche nel ceto colto, esistevano grandi artisti e letterati? Il problema posto dal Levi è interessante perché le sue ricerche tendono a dimostrare che i primi elementi del Rinascimento non furono di origine aulica o scolastica, ma popolare, e furono espressione di un movimento generale culturale religioso (patarino) di ribellione agli istituti medioevali, chiesa e impero. La statura poetica di questi scrittori lombardi non sarà stata molto alta, la loro importanza storico-culturale non è perciò diminuita.

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Altro pregiudizio sia del Battaglia che del Levi è che nel Duecento debba cercarsi e trovarsi l’origine di una «nuova, civiltà italiana»; una ricerca di tal genere è puramente retorica e segue interessi pratici moderni. La nuova civiltà non è «nazionale», ma di classe e assumerà forma «comunale» e locale non unitaria, non solo «politicamente», ma neanche «culturalmente». Nasce «dialettale» pertanto e dovrà aspettare la maggior fioritura del 300 toscano per unificarsi, fino a un certo punto, linguisticamente. L’unità culturale non era un dato esistente precedentemente, tutt’altro; esisteva una «universalità europeo‑cattolica» culturale e la nuova civiltà reagisce a questo universalismo, di cui l’Italia era la base, con i dialetti locali e col portare in primo piano gli interessi pratici dei gruppi borghesi municipali. Ci troviamo quindi in un periodo di disfacimento e disgregazione del mondo culturale esistente, in quanto le forze nuove non si inseriscono in questo mondo, ma vi reagiscono contro sia pure inconsapevolmente e rappresentano elementi embrionali di una nuova cultura. Lo studio delle eresie medioevali diventa necessario (Tocco, Volpe, ecc.). Lo studio del Battaglia, Gli studi sul nostro duecento letterario, «Leonardo», gennaio‑febbraio‑marzo 1927, è utile per i richiami bibliografici, ecc.

Q 6 §44 Sulla letteratura italiana. Cfr il saggio di G. A. Borgese Il senso della letteratura italiana nella Nuova Antologia del 1° gennaio 1930. «Un epiteto, un motto, non può riassumere lo spirito di un’epoca o di un popolo, ma giova qualche volta come riferimento o appiglio mnemonico. Per la letteratura francese si suol dire: grazia, ovvero: chiarezza, logica. Si potrebbe dire: cavalleresca lealtà dell’analisi. Diremmo per la letteratura inglese: lirismo dell’intimità; per la tedesca: audacia della libertà; per la russa: coraggio della verità. Le parole di cui possiamo servirci per la letteratura italiana sono quelle appunto che ci sono servite per questi ricordi visivi: maestà, magnificenza, grandezza».

Insomma il Borgese trova che il carattere della letteratura italiana è «teologico‑assoluto‑metafisico‑antiromantico» ecc., e forse, il suo linguaggio da ierofante si potrebbe appunto tradurre nel giudizio in parole povere che la letteratura italiana è staccata dallo sviluppo reale del popolo italiano, è di casta, non sente il dramma della storia, non è cioè popolare‑nazionale.

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Parla del libro del Bonghi: «L’autore e i suoi amici si accorsero presto, ma troppo tardi per correggere un titolo divenuto in breve tempo eccessivamente famoso, che il piccolo libro avrebbe dovuto intitolarsi piuttosto: perché la prosa italiana non sia popolare in Italia. Questo appunto è debole relativamente nella letteratura italiana: la prosa, o, meglio ancora che la prosa intesa come genere letterario e ritmo verbale, diremo il senso del prosaico: l’interesse, la curiosità osservatrice, l’amore paziente per la vita storica e contingente quale si svolge sotto i nostri occhi, per il mondo nel suo divenire, per l’attuazione drammatica e progressiva del divino».

È interessante poco prima un brano sul De Sanctis e il rimprovero buffo: «Vedeva vivere la letteratura italiana da più di sei secoli e le chiedeva di nascere». In realtà il De Sanctis voleva che la «letteratura» si rinnovasse perché si erano rinnovati gli italiani, perché sparito il distacco tra letteratura e vita ecc. È interessante osservare che il De Sanctis è progressista anche oggi nei confronti dei tanti Borgesi della critica attuale.

«La sua limitata popolarità della letteratura italiana, il singolare e quasi aristocratico e appartato genere di fortuna che le toccò per tanto tempo, non si spiega soltanto (!) con la sua inferiorità: si spiega più completamente (!) con le sue altezze (! altezze mescolate con inferiorità!), con l’aria rarefatta in cui si sviluppò. Non‑popolarità è come dire non-divulgazione; conseguenza che discende dalla premessa: odi profanum vulgus et arceo. Tutt’altro che popolana e profana, questa letteratura nacque sacra, con un poema, che il suo stesso poeta chiamò sacro (sacro perché parla di Dio, ma quale argomento più popolare di Dio? E nella Divina Commedia non si parla solo di Dio ma anche dei diavoli e della loro “nuova cennamella”) ecc. ecc.». «Il destino politico, che, togliendo all’Italia libertà e potenza materiale, ne fece quello che biblicamente, leviticamente, si chiamerebbe un popolo di sacerdoti».

Il saggio conchiude, meno male, che il carattere della letteratura italiana può cambiare, anzi deve cambiare ecc. ma ciò è stonato con il complesso del saggio stesso.

Q 6 §133 Per una nuova letteratura (arte) attraverso una nuova cultura. Cfr nel volume di B. Croce, Nuovi saggi sulla letteratura italiana del seicento (1931), il capitolo in cui parla delle accademie gesuitiche di poesia e le ravvicina alle «scuole di poesia» create in Russia (il Croce avrà preso lo spunto dal solito Fülöp‑Miller). Ma perché non le avvicina alle botteghe di pittura e di scultura del 400‑500? Erano anche quelle «accademie gesuitiche»? E perché ciò che si faceva per la pittura e la scultura non potrebbe farsi per la poesia?

Il Croce non tiene conto dell’elemento sociale che «vuole avere» una propria poesia, elemento «senza scuola», cioè che non si è impadronito della «tecnica» e dello stesso linguaggio: in realtà si tratta di una «scuola» per adulti, che educa il gusto e crea il sentimento «critico» in senso largo. Un pittore che «copia» un quadro di Raffaello fa «accademia gesuitica»? Egli nel modo migliore «si cala» nell’arte di Raffaello, cerca di ricrearsela, ecc. E perché non potrebbero farsi esercizi di versificazione fra operai? Non servirà ciò a educare l’orecchio alla musicalità del verso, ecc.

Q 6 §147 Popolarità della letteratura italiana. «Nuova Antologia», 1° ottobre 1930: Ercole Reggio, Perché la letteratura italiana non è popolare in Europa. «La poca fortuna che incontrano, presso di noi, libri italiani anche illustri, a paragone con quella di tanti libri stranieri, dovrebbe farci persuasi che le ragioni della scarsa popolarità della nostra letteratura in Europa sono probabilmente le stesse che la rendono poco popolare da noi; e che perciò, tutto sommato, non ci sarà nemmeno da chiedere agli altri quello che noi, per i primi, non ci attendiamo in casa nostra. A detta anche d’italianizzanti, di simpatizzanti stranieri, la nostra letteratura manca in massima di qualità modeste e necessarie, di ciò che s’indirizza all’uomo medio, all’uomo degli economisti (?!); ed è in ragione delle sue prerogative, di quanto ne costituisce l’originalità, come il merito, ch’essa non tocca né potrà mai toccare alla popolarità delle altre grandi letterature europee».

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Il Reggio accenna al fatto che invece le arti figurative italiane (dimentica la musica) sono popolari in Europa e si domanda: o esiste un abisso tra la letteratura e le altre arti italiane, e questo abisso sarebbe impossibile da spiegare, oppure il fatto deve essere spiegato con ragioni secondarie, extrartistiche, cioè mentre le arti figurative (e la musica) parlano un linguaggio europeo e universale, la letteratura ha i suoi limiti nei confini della lingua nazionale. Non mi pare che l’obbiezione regga: 1) perché c’è stato un periodo storico in cui anche la letteratura italiana fu popolare in Europa (Rinascimento) oltre alle arti figurative e anzi insieme a queste: cioè l’intera cultura italiana fu popolare. 2) Perché in Italia, oltre alla letteratura, non sono popolari neanche le arti figurative (sono popolari invece Verdi, Puccini, Mascagni ecc.). 3) Perché la popolarità delle arti figurative italiane in Europa è relativa: si limita agli intellettuali e in alcune altre zone della popolazione europea, è popolare perché legata a ricordi classici o romantici; non come arte. 4) Invece la musica italiana è popolare tanto in Europa come in Italia.

L’articolo del Reggio continua sui binari della solita retorica, quantunque qua e là contenga osservazioni sagaci.

Letteratura popolare

Q 6 §153 Carattere popolare nazionale della letteratura italiana. Goldoni. Perché il Goldoni è popolare anche oggi? Goldoni è quasi «unico» nella tradizione letteraria italiana. I suoi atteggiamenti ideologici: democratico prima di aver letto Rousseau e della Rivoluzione francese. Contenuto popolare delle sue commedie: lingua popolare nella sua espressione, mordace critica dell’aristocrazia corrotta e imputridita.

Conflitto Goldoni ‑ Carlo Gozzi. Gozzi reazionario. Le sue Fiabe, scritte per dimostrare che il popolo accorre alle più insulse strampalerie, e che invece hanno successo: in verità anche le Fiabe hanno un contenuto popolare, sono un aspetto della cultura popolare o folclore, in cui il meraviglioso e l’inverosimile (presentato come tale in un mondo fiabesco) è parte integrante. (Fortuna delle Mille e una notte anche oggi, ecc.).

Q 6 §5 Letteratura popolare. Romanzi d’appendice. Confrontare Henry Jagot, Vidocq, Berger‑Levrault edit., Parigi, 1930. Vidocq ha dato lo spunto al Vautrin di Balzac e ad Alessandro Dumas. (Lo si ritrova un po’ anche nel Jean Valjean di V. Hugo e specialmente nel Rocambole). Vidocq fu condannato a otto anni per falsa moneta, per una sua imprudenza. Venti evasioni, ecc. Nel 1812 entra nella polizia di Napoleone e per 15 anni comanda una squadra di poliziotti creata apposta per lui, diventa famoso per gli arresti sensazionali. È congedato da Luigi Filippo; fonda un’agenzia privata di detectives, ma fallisce. Poteva operare solo nella polizia regolare. Morto nel 1857. Ha lasciato le sue Memorie che non sono state scritte solo da lui, e in cui sono molte esagerazioni e vanterie.

Q 6 §17 Letteratura popolare. Il romanzo poliziesco. Cfr Aldo Sorani Conan Doyle e la fortuna del romanzo poliziesco, nel «Pègaso» dell’agosto 1930. Molto interessante per questo genere di letteratura e per le diverse specificazioni che essa ha avuto.

   continua

Parlando del Chesterton e del suo poliziotto padre Brown, il Sorani però non tiene conto dell’atmosfera un po’ caricaturale delle novelle del Chesterton, che mi pare essenziale e che anzi è l’elemento artistico che nobilita la novella poliziesca del Chesterton quando, non sempre, l’espressione è riuscita perfetta. Nel suo articolo il Sorani riferisce su i diversi tentativi, specialmente anglosassoni e di maggior valore, per perfezionare tecnicamente il romanzo poliziesco. L’archetipo è Sherlock Holmes nelle sue due fondamentali caratteristiche: di scienziato‑poliziotto e di psicologo. I romanzieri perfezionano l’una o l’altra di queste caratteristiche o ambedue insieme. Il Chesterton ha appunto insistito sulla psicologia, nel gioco delle induzioni e deduzioni con padre Brown (che diventa l’eroe di una letteratura «apologetica» del cattolicismo romano contro lo «scientismo» protestantico del Conan Doyle, altro elemento culturale che il Sorani non accenna), ma pare che abbia ancora esagerato nella sua tendenza col tipo del poeta‑poliziotto Gabriel Gale.

Il Sorani schizza un quadro della inaudita fortuna del romanzo poliziesco in tutti gli ordini della società e cerca di identificarne la causa: sarebbe una manifestazione di rivolta contro la meccanicità e la standardizzazione della vita moderna, un modo di evadere dal tritume quotidiano. Naturalmente questa spiegazione si può applicare a tutte le forme di letteratura popolare: dal poema cavalleresco (e Don Chisciotte non cerca di evadere anch’egli, praticamente, dal tritume della vita quotidiana?) al romanzo d’appendice di vario genere. In ogni modo l’articolo del Sorani sarà indispensabile per una futura ricerca più organica su questa branca di letteratura popolare.

Il problema: perché è diffusa la letteratura poliziesca? è un aspetto determinato del problema più vasto: perché è diffusa la letteratura non‑artistica? Per ragioni pratiche (morali e politiche), indubbiamente, e questa risposta generica è la più precisa anche. Ma anche la letteratura artistica non si diffonde anch’essa per ragioni pratico‑politiche e morali, e solo mediatamente per ragioni artistiche? In realtà si legge un libro per impulsi pratici e si rilegge certi libri per ragioni artistiche: l’emozione estetica non è mai di prima lettura. Così avviene nel teatro, in cui l’emozione estetica è una «percentuale» minima dell’interesse dello spettatore, perché nel teatro giocano altri elementi, molti dei quali non sono di ordine intellettuale, ma di ordine fisiologico, come può essere l’«appello del sesso», ecc. In altri casi l’emozione estetica nel teatro non è data dall’opera letteraria, ma dall’interpretazione degli attori: in questi casi occorre però che l’opera letteraria non sia «difficile», ma piuttosto che sia «elementare», «popolare», nel senso che le passioni rappresentate siano le più profondamente umane e di immediata esperienza (vendetta d’onore, amor materno, ecc.) e quindi l’analisi si complica anche in questo caso.

I grandi attori venivano applauditi nella Morte Civile, nella Gerla di papà Martin, ecc., ma non nelle complicate macchine psicologiche; nel primo caso l’applauso era senza riserve, nel secondo era freddo, destinato a separare l’attore amato dal pubblico, dal lavoro che sarebbe stato fischiato ecc.

Q 6 §28 Letteratura popolare. Nell’«Italia letteraria» del 9 novembre 1930 è riportato qualche brano di un articolo di Filippo Burzio (nella «Stampa» del 22 ottobre) sui Tre Moschettieri di Dumas. Il Burzio li considera una felicissima personificazione, come il Don Chisciotte o l’Orlando Furioso, del mito dell’avventura, «cioè di qualcosa di essenziale alla natura umana, che sembra gravemente e progressivamente straniarsi dalla vita moderna. Quanto più l’esistenza si fa razionale e organizzata, la disciplina sociale ferrea, il compito assegnato all’individuo preciso e prevedibile, tanto più il margine dell’avventura si riduce, come la libera selva di tutti fra i muretti soffocanti della proprietà privata... Il taylorismo è una bella cosa e l’uomo è un animale adattabile, però forse ci sono dei limiti alla sua meccanizzazione. Se a me chiedessero le ragioni profonde dell’inquietudine occidentale, risponderei senza esitare: la decadenza della fede e la mortificazione dell’avventura». «Vincerà il taylorismo o vinceranno i Moschettieri? Questo è un altro discorso e la risposta, che trent’anni fa sembrava certa, sarà meglio tenerla in sospeso. Se l’attuale civiltà non precipita, assisteremo forse a interessanti miscugli dei due».

La quistione è questa: che c’è sempre stata una parte di umanità la cui vita è stata sempre taylorizzata, e che questa umanità ha cercato di evadere dai limiti angusti dell’organizzazione esistente che la schiacciava, con la fantasia e col sogno. La più grande avventura, la più grande «utopia», che l’umanità ha creato collettivamente, la religione, non è un modo di evadere dal mondo terreno? E non è in questo senso che Marx parla di «oppio del popolo»? Adesso la quistione si «aggrava» per il fatto che la razionalizzazione della vita minaccia di colpire le classi medie e intellettuali in una misura inaudita: quindi preoccupazioni e scongiuri ed esorcismi. Ma il fenomeno è vecchio almeno come le religioni. Letteratura popolare come «oppio del popolo»: lo spunto è stato già annotato in altro quaderno a proposito del Conte di Montecristo.

Q 6 §108 Letteratura popolare. Cfr il numero della «Cultura» del 1931 dedicato a Dostojevskij. In un articolo del Pozner si sostiene giustamente che i romanzi di Dostojevskij sono derivati (culturalmente) dai romanzi tipo Sue, ecc. Questa «derivazione» è utile tener presente per svolgere questa rubrica sulla letteratura popolare in quanto mostra come un certo tipo «culturale» di letteratura (motivi, interessi morali, sensibilità ideologia, ecc.) può avere una doppia espressione: quella meccanica (tipo Sue) e quella «lirica» (Dostojevskij); i contemporanei non si accorgono che si tratta di manifestazione deteriore per certe manifestazioni, come avvenne per il Sue che fu letto da tutte le classi e «commoveva» anche le persone di coltura mentre poi decadde a «scrittore letto dal popolo». (La «prima lettura» dà sensazioni puramente, o quasi, «culturali» o di contenuto e il «popolo» è lettore di prima lettura, per l’«ideologia»).

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Su questo stesso argomento: Mario Praz, La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica, in 160, pp. x-505, Milano‑Roma, Soc. Ed. La Cultura, L. 40, e la recensione di L. F. Benedetto nel «Leonardo» del marzo 1931. Mi pare da questa recensione (il libro non l’ho letto) che il Praz non abbia fatto con esattezza la distinzione tra i vari gradi di cultura, onde alcune obbiezioni del Benedetto, che d’altronde non coglie il nesso esatto della questione storica.

Q 6 §111 Letteratura popolare. Romanzi d’appendice.

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Cfr Servais Étienne, Le genre romanesque en France depuis l’apparition de la «Nouvelle Héloise» jusqu’aux approches de la Révolution, ed. Armand Colin; Reginald W. Hartland, Le Roman terrifiant ou «Roman noir» de Walpole à Anne Radcliffe, et son influence sur la littérature française jusqu’en 1860 (ed. Champion), e Walter Scott et le «Roman frénétique» (ed. Champion).

L’affermazione del Pozner registrata in una nota precedente, che il romanzo di Dostojevskij sia romanzo «d’avventure» è probabilmente derivata da uno studio di Jacques Rivière sul «romanzo d’avventure» (forse uscito nella «N.R.F.»), che significherebbe «una vasta rappresentazione di azioni che sono insieme drammatiche e psicologiche» così come l’hanno concepito Balzac, Dostojevskij, Dickens e Giorgio Eliot.

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Su Le style du roman‑feuilleton ha scritto un saggio André Moufflet nel «Mercure de France» del 1° febbraio 1931.

Q 6 §134 Letteratura popolare. Romanzo d’appendice. Cfr ciò che ho scritto a proposito del Conte di Montecristo come modello esemplare di romanzo d’appendice. Il romanzo d’appendice sostituisce (e favorisce nel tempo stesso) il fantasticare dell’uomo del popolo, è un vero sognare ad occhi aperti. Si può vedere ciò che sostengono Freud e i psicanalisti sul sognare ad occhi aperti. In questo caso si può dire che nel popolo il fantasticare è dipendente dal «complesso di inferiorità» (sociale) che determina lunghe fantasticherie sull’idea di vendetta, di punizione dei colpevoli dei mali sopportati, ecc. Nel Conte di Montecristo ci sono tutti gli elementi per cullare queste fantasticherie e per quindi propinare un narcotico che attutisca il senso del male, ecc.

Q 6 §168 Letteratura popolare. Cfr Alberto Consiglio, Populismo e nuove tendenze della letteratura francese, Nuova Antologia, 1° aprile 1931. Il Consiglio prende le mosse dall’inchiesta delle «Nouvelles Littéraires» sul «Romanzo operaio e contadino» (nei mesi luglio‑agosto 1930). L’articolo è da rileggere, quando l’argomento volesse esser trattato organicamente.

La tesi del Consiglio (più o meno esplicita e consapevole) è questa: di fronte al crescere della potenza politica e sociale del proletariato e della sua ideologia, alcune sezioni dell’intellettualismo francese reagiscono con questi movimenti «verso il popolo».

L’avvicinamento al popolo significherebbe quindi una ripresa del pensiero borghese che non vuole perdere la sua egemonia sulle classi popolari e che, per esercitare meglio questa egemonia, accoglie una parte dell’ideologia proletaria. Sarebbe un ritorno a forme «democratiche» più sostanziali del corrente «democratismo» formale.

È da vedere se anche un fenomeno di questo genere non sia molto significativo e importante storicamente e non rappresenti una fase necessaria di transizione e un episodio dell’«educazione popolare» indiretta. Una lista delle tendenze «populiste» e una analisi di ciascuna di esse sarebbe interessante: si potrebbe «scoprire» una di quelle che Vico chiama «astuzie della natura», cioè come un impulso sociale, tendente a un fine, realizzi il suo contrario.

Q 6 §172 Letteratura popolare. Cfr Antonio Baldini, Stonature di cinquant’anni fa: la Farlalla petroliera, Nuova Antologia, 16 giugno 1931. «La Farfalla», fondata da Angelo Sommaruga a Cagliari e dopo due anni trasportata a Milano (verso il 1880). Il periodico finì col diventare la rivista di un gruppo di «artisti… proletari».

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Vi scrissero Paolo Valera e Filippo Turati. Valera dirigeva allora «La Plebe» (quale? vedere) e scriveva i suoi romanzi: Milano sconosciuta e Gli scamiciati, séguito alla Milano sconosciuta. Vi scrivevano Cesario Testa, che dirigeva l’«Anticristo», e Ulisse Barbieri.

La stessa impresa editoriale della «Farfalla» pubblicava una «Biblioteca naturalista» e una «Biblioteca socialista». Almanacco degli Atei per il 1881. Zola, Vallès, di Goncourt, romanzi sui bassi fondi, galere, postriboli, ospedali, strade (Lumpenproletariat), anticlericalismo, ateismo, naturalismo (Stecchetti «poeta civile»). G. Aurelio Costanzo, Gli eroi della soffitta (da ragazzi, in casa, avendo visto il libro, pensavamo che si parlasse di lotte fra i topi). Carducci dell’Inno a Satana, ecc. Stile barocco come quello di Turati (ricordare i suoi versi riportati da Schiavi nell’antologia Fiorita di canti sociali): «Budda, Socrate, Cristo han detto il vero: – Per Satanasso un infedel vel giura. – Vivono i morti e strangolarli è vano».

(Questo «episodio» di vita «artistica» milanese potrà essere studiato e ricostruito a titolo di curiosità e anche non senza un interesse critico ed educativo). Sulla «Farfalla» del periodo cagliaritano ha scritto Raffa Garzia, Per la storia del nostro giornalismo letterario, in «Glossa Perenne», febbraio 1929.

Q 6 §207 Letteratura popolare. Il Guerin Meschino. Nel «Corriere della Sera» del 7 gennaio 1932 è pubblicato un articolo firmato Radius con questi titoli: I classici del popolo. Guerino detto il Meschino. Il sopratitolo I classici del popolo è vago e incerto: il Guerino, con tutta una serie di libri simili (I Reali di Francia, Bertoldo, storie di briganti, storie di cavalieri, ecc.) rappresenta una determinata letteratura popolare, la più elementare e primitiva, diffusa tra gli strati più arretrati e «isolati» del popolo: specialmente nel Mezzogiorno, nelle montagne, ecc. I lettori del Guerino non leggono Dumas o i Miserabili e tanto meno Sherlock Holmes. A questi strati corrisponde un determinato folclore e un determinato «senso comune».

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Radius ha solo leggiucchiato il libro e non ha molta dimestichezza con la filologia. Egli dà di Meschino un significato cervellotico: «il nomignolo fu appioppato all’eroe per via della sua grande meschinità genealogica»: errore colossale che muta tutta la psicologia popolare del libro e muta il rapporto psicologico‑sentimentale dei lettori popolari verso il libro. Appare subito che Guerino è di stirpe regia, ma la sua sfortuna lo fa diventare «servo», cioè «meschino» come si diceva nel Medio Evo e come si trova in Dante (nella Vita Nova, ricordo perfettamente). Si tratta dunque di un figlio di re, ridotto in ischiavitù, che riconquista, coi suoi propri mezzi e con la sua volontà, il suo rango naturale: c’è nel «popolo» più primitivo questo ossequio tradizionale alla nascita che diventa «affettuoso» quando la sfortuna colpisce l’eroe e diventa entusiasmo quando l’eroe riconquista, contro la sfortuna, la sua posizione sociale.

Guerino come poema popolare «italiano»: è da notare, da questo punto di vista, quanto sia rozzo e incondito il libro, cioè come non abbia subito nessuna elaborazione e perfezionamento, dato l’isolamento culturale del popolo, lasciato a se stesso. Forse per questa ragione si spiega l’assenza di intrighi amorosi, l’assenza completa di erotismo nel Guerino.

Il Guerino come «enciclopedia popolare»: da osservare quanto debba essere bassa la cultura degli strati che leggono il Guerino e quanto poco interesse abbiano per la «geografia», per esempio, per accontentarsi e prendere sul serio il Guerino. Si potrebbe analizzare il Guerino come «enciclopedia» per averne indicazioni sulla rozzezza mentale e sulla indifferenza culturale del vasto strato di popolo che ancora se ne pasce.

Q 6 §208 Letteratura popolare. Lo «Spartaco» di R. Giovagnoli. Nel «Corriere della Sera» dell’8 gennaio 1932 è pubblicata la lettera inviata da Garibaldi a Raffaele Giovagnoli il 25 giugno 1874 da Caprera, subito dopo la lettura del romanzo Spartaco. La lettera è molto interessante per questa rubrica sulla «letteratura popolare» poiché il Garibaldi ha scritto anche egli dei «romanzi popolari» e nella lettera sono gli spunti principali della sua «poetica» in questo genere. Spartaco del Giovagnoli, d’altronde, è uno dei pochissimi romanzi popolari italiani che ha avuto diffusione anche all’estero, in un periodo in cui il «romanzo» popolare da noi era «anticlericale» e «nazionale», aveva cioè caratteri e limiti strettamente paesani.

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>Per ciò che ricordo, mi pare che Spartaco si presterebbe specialmente a un tentativo che, entro certi limiti, potrebbe diventare un metodo: si potrebbe cioè «tradurlo» in lingua moderna: purgarlo delle forme retoriche e barocche come lingua narrativa, ripulirlo di qualche idiosincrasia tecnica e stilistica, rendendolo «attuale». Si tratterebbe di fare, consapevolmente, quel lavorio di adattamento ai tempi e ai nuovi sentimenti e nuovi stili che la letteratura popolare subiva tradizionalmente quando si trasmetteva per via orale e non era stata fissata e fossilizzata dalla scrittura e dalla stampa. Se questo si fa da una lingua in un’altra, per i capolavori del mondo classico che ogni età ha tradotto e imitato secondo le nuove culture, perché non si potrebbe e dovrebbe fare per lavori come Spartaco e altri, che hanno un valore «culturale‑popolare» più che artistico? (Motivo da svolgere). Questo lavorio di adattamento si verifica ancora nella musica popolare, per i motivi musicali popolarmente diffusi: quante canzoni d’amore non sono diventate politiche, passando per due tre elaborazioni? Ciò avviene in tutti i paesi e si potrebbero citare dei casi abbastanza curiosi (per es. l’inno tirolese di Andreas Hofer che ha dato la forma musicale alla Molodaia Gvardia).

Per i romanzi ci sarebbe l’impedimento dei diritti d’autore che oggi mi pare durino fino a ottanta anni dalla prima pubblicazione (non si potrebbe però eseguire il rimodernamento per certe opere: per esempio I Miserabili, l’Ebreo Errante, Il conte di Montecristo, ecc. che sono troppo fissati nella forma originale).

Romanzi filosofici, Utopie

Q 6 §157 Romanzi filosofici, utopie, ecc. Controriforma e utopie: desiderio di ricostruire la civiltà europea secondo un piano razionale. Altra origine e forse la più frequente: modo di esporre un pensiero eterodosso, non conformista e ciò specialmente prima della Rivoluzione francese. Dalle Utopie sarebbe derivata quindi la moda di attribuire a popoli stranieri le istituzioni che si desidererebbero nel proprio paese, o di far la critica delle supposte istituzioni di un popolo straniero per criticare quelle del proprio paese. Così dalle Utopie sarebbe nata anche la moda di esaltare i popoli primitivi, selvaggi (il buon selvaggio) presunti essere più vicini alla natura. (Ciò si ripeterebbe nell’esaltazione del «contadino», idealizzato, da parte dei movimenti populisti). Tutta questa letteratura ha avuto non piccola importanza nella storia della diffusione delle opinioni politico‑sociali fra determinate masse e quindi nella storia della cultura.

Si potrebbe osservare che questa letteratura politica «romanzata» reagisce alla letteratura «cavalleresca» in decadenza (Don Chisciotte, Orlando Furioso, Utopia di Tommaso Moro, Città del sole) e indica quindi il passaggio dall’esaltazione di un tipo sociale feudale all’esaltazione delle masse popolari genericamente, con tutti i suoi bisogni elementari (nutrirsi, vestirsi, ripararsi, riprodursi) ai quali si cerca di dare razionalmente una soddisfazione. Si trascura nello studio di questi scritti di tener conto delle impressioni profonde che dovevano lasciare, spesso per generazioni, le grandi carestie e le grandi pestilenze, che decimavano e stremavano le grandi masse popolari: questi disastri elementari, accanto ai fenomeni di morbosità religiosa, cioè di passività rassegnata, destavano anche sentimenti critici «elementari», quindi spinte a una certa attività che appunto trovavano la loro espressione in questa letteratura utopistica, anche parecchie generazioni dopo che i disastri erano avvenuti, ecc.

Stampa

Q 6 §58 Storia del giornalismo italiano. Quali giornali italiani hanno pubblicato supplementi del tipo dei giornali inglesi e di quelli tedeschi? L’esempio classico è il «Fanfulla della Domenica» del «Fanfulla», e dico classico perché il supplemento aveva una sua personalità e autorità propria. I tipi di supplemento come la «Domenica del Corriere» o la «Tribuna illustrata» sono un’altra cosa e a mala pena si possono chiamare supplementi. La «Gazzetta del Popolo» fece dei tentativi di «pagine» dedicate a un solo argomento ed ebbe la «Gazzetta letteraria» ed oggi l’«Illustrazione del Popolo». Il tentativo più organico fu fatto dal «Tempo» di Roma nel 1919‑20 con veri e propri supplementi come quello «economico» e quello «sindacale», per l’Italia assai bene riuscito. Così ha avuto fortuna il «Giornale d’Italia agricolo». Un quotidiano ben fatto e che tenda a introdursi attraverso i supplementi anche dove difficilmente penetrerebbe come quotidiano dovrebbe avere una serie di supplementi mensili, di formato diverso da quello del quotidiano ma col titolo del quotidiano seguito dalla speciale materia che vuole trattare.

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I supplementi principali dovrebbero essere almeno: 1) letterario, 2) economico industriale sindacale, 3) agricolo. Nel letterario dovrebbe essere trattata anche la filosofia, l’arte, il teatro. Il più difficile da farsi è quello agrario: tecnico‑agrario o politico agrario per i contadini più intelligenti? Questo secondo tipo dovrebbe avvicinarsi a un settimanale politico, cioè riassumere tutta la politica della settimana e in più avere una parte specificatamente agricola (non del tipo della «Domenica dell’Agricoltore»): sarebbe agricolo solo nel senso principale che è destinato ai contadini che non leggono i quotidiani, quindi tipo «Amico delle famiglie» più parte tecnica agricola più popolare. Supplemento sportivo ecc.

Il supplemento letterario dovrebbe avere anche la parte scolastica, ecc. Tutto di diverso formato, secondo il contenuto, e mensili. (Il letterario come l’«Ordine Nuovo» settimanale ecc., agrario come «Amico delle famiglie», economico come «Times» letterario ecc.).

Q 6 §65 Giornalismo. Ciò che Napoleone III disse del giornalismo durante la sua prigionia in Germania al giornalista inglese Mels‑Cohn (cfr Paul Guériot, La captivité de Napoléon III en Allemagne, pp. 250, Parigi, Perrin). Napoleone avrebbe voluto fare del giornale ufficiale un foglio modello, da mandare gratuitamente a ogni elettore, con la collaborazione delle penne più illustri del tempo e con le informazioni più sicure e più controllate da ogni parte del mondo. La polemica, esclusa, sarebbe rimasta confinata nei giornali particolari ecc.

La concezione del giornale di Stato è logicamente legata alle strutture governative illiberali (cioè a quelle in cui la società civile si confonde con la società politica), siano esse dispotiche o democratiche (ossia in quelle in cui la minoranza oligarchica pretende essere tutta la società, o in quelle in cui il popolo indistinto pretende e crede di essere veramente lo Stato). Se la scuola è di Stato, perché non sarà di Stato anche il giornalismo, che è la scuola degli adulti?

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Napoleone argomentava partendo dal concetto che se è vero l’assioma giuridico che l’ignoranza delle leggi non è scusa per l’imputabilità, lo Stato deve gratuitamente tenere informati i cittadini di tutta la sua attività, deve cioè educarli: argomento democratico che si trasforma in giustificazione dell’attività oligarchica. L’argomento però non è senza pregio: esso può essere «democratico» solo nelle società in cui la unità storica di società civile e società politica è intesa dialetticamente (nella dialettica reale e non solo concettuale) e lo Stato è concepito come superabile dalla «società regolata»: in questa società il partito dominante non si confonde organicamente col governo, ma è strumento per il passaggio dalla società civile‑politica alla «società regolata», in quanto assorbe in sé ambedue, per superarle (non per perpetuarne la contraddizione), ecc.

A proposito del regime giornalistico sotto Napoleone III, ricordare l’episodio del prefetto di polizia che ammonisce un giornale perché in un articolo sui concimi non era fissato risolutamente quale concime era il migliore: ciò, secondo il prefetto, contribuiva a lasciare nell’incertezza il pubblico ed era perciò biasimevole e degno di richiamo da parte della polizia.

Q 6 §79 Riviste tipo. Dilettantismo e disciplina. Necessità di una critica interna severa e rigorosa, senza convenzionalismi e mezze misure. Esiste una tendenza del materialismo storico che solletica e favorisce tutte le cattive tradizioni della media cultura italiana e sembra aderire ad alcuni tratti del carattere italiano: l’improvvisazione, il «talentismo», la pigrizia fatalistica, il dilettantismo scervellato, la mancanza di disciplina intellettuale, l’irresponsabilità e la slealtà morale e intellettuale. Il materialismo storico distrugge tutta una serie di pregiudizi e di convenzionalità, di falsi doveri, di ipocrite obbligazioni: ma non perciò giustifica che si cada nello scetticismo e nel cinismo snobistico.

Lo stesso risultato aveva avuto il Machiavellismo, per una arbitraria estensione o confusione tra la «morale» politica e la «morale» privata, cioè tra la politica e l’etica, confusione che non esisteva certo nel Machiavelli, tutt’altro, poiché anzi la grandezza del Machiavelli consiste nell’aver distinto la politica dall’etica.

Non può esistere associazione permanente e con capacità di sviluppo che non sia sostenuta da determinati principii etici, che l’associazione stessa pone ai suoi singoli componenti in vista della compattezza interna e dell’omogeneità necessarie per raggiungere il fine. Non perciò questi principii sono sprovvisti di carattere universale. Così sarebbe se l’associazione avesse fine in se stessa, fosse cioè una setta o un’associazione a delinquere (in questo solo caso mi pare si possa dire che politica ed etica si confondono, appunto perché il «particulare» è elevato a «universale»).

Ma un’associazione normale concepisce se stessa come aristocrazia, una élite, un’avanguardia, cioè concepisce se stessa come legata da milioni di fili a un dato raggruppamento sociale e per il suo tramite a tutta l’umanità. Pertanto questa associazione non si pone come un qualche cosa di definitivo e di irrigidito, ma come tendente ad allargarsi a tutto un raggruppamento sociale, che anch’esso è concepito come tendente a unificare tutta l’umanità. Tutti questi rapporti danno carattere tendenzialmente universale all’etica di gruppo che dev’essere concepita come capace di diventare norma di condotta di tutta l’umanità.

La politica è concepita come un processo che sboccherà nella morale, cioè come tendente a sboccare in una forma di convivenza in cui politica e quindi morale saranno superate entrambe. (Da questo punto di vista storicistico può solo spiegarsi l’angoscia di molti sul contrasto tra morale privata e morale pubblica-politica: essa è un riflesso inconsapevole e sentimentalmente acritico delle contraddizioni della attuale società, cioè dell’assenza di uguaglianza dei soggetti morali).

Ma non può parlarsi di élite‑aristocrazia‑avanguardia come di una collettività indistinta e caotica; in cui, per grazia di un misterioso spirito santo o di altra misteriosa e metafisica deità ignota, cali la grazia dell’intelligenza, della capacità, dell’educazione, della preparazione tecnica ecc.; eppure questo modo di concepire è comune. Si riflette in piccolo ciò che avveniva su scala nazionale, quando lo Stato era concepito come qualcosa di astratto dalla collettività dei cittadini, come un padre eterno che avrebbe pensato a tutto, provveduto a tutto ecc.; da ciò l’assenza di una democrazia reale, di una reale volontà collettiva nazionale e quindi, in questa passività dei singoli, la necessità di un dispotismo più o meno larvato della burocrazia.

La collettività deve essere intesa come prodotto di una elaborazione di volontà e pensiero collettivo raggiunto attraverso lo sforzo individuale concreto, e non per un processo fatale estraneo ai singoli: quindi obbligo della disciplina interiore e non solo di quella esterna e meccanica. Se ci devono essere polemiche e scissioni, non bisogna aver paura di affrontarle e superarle: esse sono inevitabili in questi processi di sviluppo ed evitarle significa solo rimandarle a quando saranno precisamente pericolose o addirittura catastrofiche, ecc.

Q 6 §96 Riviste‑tipo. Economia. Rassegna di studi economici italiani.

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1) L’Italia nell’economia mondiale. Opere generali in cui l’economia italiana è confrontata e inserita nell’economia mondiale. Libri tipo: Mortara, Prospettive economiche; Annuario economico della Società delle Nazioni; pubblicazioni della Dresdner Bank sulle forze economiche mondiali, ecc. Libri sulla Bilancia commerciale, sull’esportazione ed importazione, sui prestiti internazionali, sulle rimesse degli emigranti (e quindi sull’emigrazione e suoi caratteri), sul turismo internazionale in Italia e suo significato economico, sui trattati commerciali, sulle crisi economiche mondiali e suoi riflessi in Italia, sulla flotta marittima e introito dei noli, sui porti franchi, sul protezionismo e liberismo, sul commercio di transito e suoi risultati per l’economia italiana, quindi sui porti e loro hinterland non italiano (Genova e la Svizzera, Trieste e i Balcani, ecc.), pesca nei mari non italiani, cartelli e trusts internazionali e loro effetti per l’Italia, Banche e loro espansione all’estero (Banca Commerciale all’estero, Banco di Roma all’estero, ecc.), capitale straniero in Italia e capitale italiano all’estero.

2) Attrezzatura economica e produzione nazionale. Libri d’insieme sulla produzione italiana e sulla politica economica italiana, sul regime delle imposte, sulla distribuzione regionale tra industria e agricoltura e attività economiche minori; distribuzione delle grandi zone economiche nazionali e loro caratteristiche: Italia settentrionale, Italia centrale, Mezzogiorno, Sicilia, Sardegna.

3) Studi sulle economie regionali (Piemonte, Lombardia, ecc.).

4) Studi sulle economie provinciali o di zone provinciali. Pubblicazioni delle Camere di Commercio, dei Consorzi Agrari e dei Consigli Provinciali di Economia; pubblicazioni delle Banche locali, Bollettini Municipali per i capoluoghi di provincia, Studi di singoli studiosi, Pubblicazioni di Osservatori Economici come quello di Palermo per la Sicilia o quello di Bari per le Puglie, ecc. La Rassegna deve avere carattere attuale, ma nelle singole parti deve avere anche carattere storico, cioè è bene accennare a studi ormai superati, ecc. A questa Rassegna può seguire o precedere un’altra Rassegna sugli studi e le scuole di scienza economica e le pubblicazioni periodiche di economia e di politica economica, e sulle personalità di singoli scienziati morti e viventi.

Q 6 §104 Giornalismo. Il tipo di settimanale provinciale che era diffuso tradizionalmente in Italia, coltivato specialmente dai cattolici e dai socialisti, rappresentava adeguatamente le condizioni culturali della provincia (villaggio e piccola città). Nessun interesse per la vita internazionale (altro che come curiosità e stranezza), poco interesse per la stessa vita nazionale, se non in quanto legata agli interessi locali, specialmente elettorali; tutto l’interesse per la vita locale, anche per i pettegolezzi e le minuzie. Grande importanza per la polemica personale (di carattere gaglioffesco e provinciale; far apparire stupido, ridicolo, disonesto l’avversario, ecc.). L’informazione ridotta solo alle corrispondenze dai vari villaggi. Commenti politici generici che presupponevano la informazione data dai quotidiani, che i lettori del settimanale non leggevano e si supponeva appunto non leggessero (perciò si faceva per loro il settimanale).

Il redattore di questi settimanali era di solito un intellettuale mediocre, pretenzioso e ignorante, pieno di cavilli e di sofismi banali. Riassumere il quotidiano sarebbe stato per lui una «vergogna»: pretendeva fare un settimanale tutto di articoli di fondo e di pezzi «brillanti», e inventare teorie con tanto di barba in economia, in politica, in filosofia.

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Proprio in Italia, data la infelice disposizione geografica e l’assenza di un centro politico e intellettuale nazionale, avrebbe invece dovuto aver fortuna il tipo di settimanale inglese («Observer», «Times Sunday», ecc.) che è redatto sul tipo del quotidiano: cioè ogni settimana informa i lettori che non leggono il giornale, o vogliono avere, ogni settimana, un quadro riassuntivo della vita di tutta la settimana. Questo tipo inglese è da studiare e adattare teoricamente alle condizioni italiane. Esso dovrebbe (settimanale, bisettimanale) sostituire il quotidiano in larghe zone dove il quotidiano non avrebbe le premesse sufficienti (Napoli, Firenze, Palermo, ecc.; in generale nei capoluoghi di regione e anche di provincia non industriali: ricordare esempi come Biella, Como, Tortona, che volevano il settimanale benché industriali e consumatori di giornali. Così Alessandria, Cuneo, Fossano, ecc. In Italia il settimanale così redatto avrebbe lo stesso ufficio dei tanti piccoli quotidiani provinciali tedeschi e svizzeri).

Q 6 §105 Riviste‑tipo. Tradizione e sue sedimentazioni psicologiche. Che il libertarismo generico (cfr concetto tutto italiano di «sovversivo») sia molto radicato nelle tradizioni popolari, si può studiare attraverso un esame della poesia e dei discorsi di P. Gori, che poeticamente (!) può essere paragonato (subordinatamente) al Cavallotti. C’è nel Gori tutto un modo di pensare e di esprimersi che sente di sagrestia e di eroismo di cartone. Tuttavia quei modi e quelle forme, lasciate diffondere senza contrasto e senza critica, sono penetrate molto profondamente nel popolo e hanno costituito un gusto (e forse lo costituiscono ancora).

Q 6 §106 Giornalismo. Capocronista. Difficoltà di creare dei buoni capi cronisti, cioè dei giornalisti tecnicamente preparati a comprendere ed analizzare la vita organica di una grande città, impostando in questo quadro (senza pedanteria, ma anche non superficialmente e senza «brillanti» improvvisazioni) ogni singolo problema mano mano che diventa d’attualità.

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Ciò che si dice del capocronista può estendersi a tutta una serie d’attività pubbliche: un buon capocronista dovrebbe avere la preparazione tecnica sufficiente e necessaria per diventare podestà o anche prefetto, o presidente (effettivo) di un Consiglio provinciale d’economia tipo attuale; e, dal punto di vista giornalistico, dovrebbe corrispondere al corrispondente locale di una grande città (e via via, in ordine di competenza e di ampiezza decrescente dei problemi, delle medie, piccole città e dei villaggi).

In generale, le funzioni di un giornale dovrebbero essere equiparate a corrispondenti funzioni dirigenti della vita amministrativa e da questo punto di vista dovrebbero essere impostate le scuole di giornalismo, se si vuole che tale professione esca dallo stadio primitivo e dilettantesco in cui oggi si trova, diventi qualificata e abbia una compiuta indipendenza, cioè il giornale sia in grado di offrire al pubblico informazioni e giudizi non legati a interessi particolari. Se un capocronista informa il pubblico «giornalisticamente», come si dice, ciò significa che il capocronista accetta senza critica e senza giudizio indipendente informazioni e giudizi, attraverso interviste o tuyaux, di persone che intendono servirsi del giornale per promuovere determinati interessi particolari.

Dovrebbero esistere due tipi di capocronaca: 1) il tipo organico e 2) il tipo di più spiccata attualità. Col tipo organico, per dare un punto di vista comprensivo, dovrebbe essere possibile compilare dei volumi sugli aspetti più generali e costanti della vita di una città, dopo aver depurato gli articoli di quegli elementi d’attualità che devono esistere sempre in ogni pubblicazione giornalistica; ma per intendersi, in questi articoli «organici» l’elemento di attualità deve essere subordinato e non principale. Questi articoli organici perciò non devono essere molto frequenti. Il capocronista studia l’organismo urbano nel suo complesso e nella sua generalità, per avere la sua qualifica professionale (solo limitatamente, un capocronista può cambiare di città: la sua superiore qualifica non può non essere legata a una determinata città): i risultati originali, o utili in generale, di questo studio organico, è giusto che non siano completamente disinteressati, che non siano solo premessa, ma si manifestino anche immediatamente, cogliendo uno spunto di attualità. La verità è che il lavoro di un capocronista è altrettanto vasto di quello di un redattore capo, o di un caposervizio in una organizzazione giornalistica con divisione del lavoro organica. In una scuola di giornalismo occorrerebbe avere una serie di monografie su grandi città e sulla loro vita complessa. Il solo problema dell’approvvigionamento di una grande città è tale da assorbire molto lavoro e molta attività (su altre branche d’attività di un capocronista ho scritto altre note). Cfr il libro di W. P. Hedden, How great cities are fed, Boston, Heath, 1929, Doll. 2.80, recensito nel «Giornale degli Economisti» del gennaio 1931. Lo Hedden prende in esame l’approvvigionamento di alcune città degli Stati Uniti, specialmente di New‑York.

Q 6 §120 Riviste‑tipo.

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L’essere evolutivo finale. Aneddoto del corso di storia della filosofia del prof. D’Ercole e dell’«essere evolutivo finale».

Per quarant’anni non parlò che della filosofia cinese e di Lao‑tse: ogni anno «nuovi allievi» che non avevano sentito le lezioni dell’anno precedente e quindi occorreva ricominciare. Così tra le generazioni di allievi «l’essere evolutivo finale» diventò una leggenda.

In certi movimenti culturali, che arruolano i loro elementi tra chi inizia solo allora la propria vita culturale, per il rapido estendersi del movimento stesso che conquista sempre nuovi adepti, e perché i già conquistati non hanno autoiniziativa culturale, non pare possibile uscire mai dall’abc. Questo fatto ha gravi ripercussioni nell’attività giornalistica in generale, quotidiani, settimanali, riviste, ecc.; pare che non si debba mai superare un certo livello. D’altronde, il non tener conto di questo ordine di esigenze, spiega il lavoro di Sisifo delle così dette «piccole riviste», che si rivolgono a tutti e a nessuno e a un certo punto diventano veramente del tutto inutili.

L’esempio più tipico è stato quello della «Voce», che a un certo punto si scisse in «Lacerba» «La Voce» e l’«Unità» con la tendenza in ognuna a scindersi all’infinito. Le redazioni, se non sono legate a un movimento disciplinato di base, tendono, o a diventare conventicole di «profeti disarmati», o a scindersi secondo i movimenti incomposti e caotici che si determinano tra i diversi gruppi e strati di lettori.

Bisogna quindi riconoscere apertamente che le riviste di per sé sono sterili, se non diventano la forza motrice e formatrice di istituzioni culturali a tipo associativo di massa, cioè non a quadri chiusi.

Ciò deve dirsi anche per le riviste di partito; non bisogna credere che il partito costituisca di per sé l’«istituzione» culturale di massa della rivista. Il partito è essenzialmente politico e anche la sua attività culturale è attività di politica culturale: le «istituzioni» culturali devono essere non solo di «politica culturale», ma di «tecnica culturale».

Esempio: in un partito ci sono degli analfabeti e la politica culturale del partito è la lotta contro l’analfabetismo. Un gruppo per la lotta contro l’analfabetismo non è ancora precisamente una «scuola per analfabeti»; in una scuola per analfabeti si insegna a leggere e a scrivere; in un gruppo per la lotta contro l’analfabetismo si predispongono tutti i mezzi più efficaci per estirpare l’analfabetismo dalle grandi masse della popolazione di un paese, ecc.

Q 6 §121 Giornalismo. Albert Rival, Le journalisme appris en 18 leçons, Albin Michel, 1931, L. 3,50.

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In quattro parti: 1) Storia del giornalismo: Origini del giornalismo. I grandi giornalisti. 2) Come si fa un giornale: Redazione. Impressione: composizione, correzione, impaginazione, clichérie, tiratura. 3) Qualità richieste a un giornalista: Cos’è un giornalista? Attitudini richieste. Qualità richieste. La donna può aspirare al giornalismo? 4) Lo stile del giornalista: Stile in generale. Generi di stile. Della composizione. La descrizione. Come non bisogna scrivere. L’articolo d’informazione. Il grande reportage: come vien fatto. L’articolo di fondo. L’articolo polemico. Organizzazione d’un giornale. (Schema elementare e difettoso. Manca l’accenno ai diversi tipi di giornali, ecc.).

Q 6 §122 Riviste‑tipo. Rassegne. Rassegne su argomenti di giurisprudenza che interessano determinati movimenti.

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Per esempio: il concetto di «impiegato» secondo la giurisprudenza italiana, il concetto di «mezzadro», di «capotecnico», ecc., ciò che significa: quale posizione hanno, nella giurisprudenza italiana, le figure economiche di «impiegato», di «mezzadro», di «capotecnico», ecc. e per quali ragioni teorico‑pratiche?

Le collezioni di riviste come «Il Foro italiano», ecc., con le sentenze pubblicate e gli articoli scritti da specialisti che le commentano, dovrebbero essere attentamente compulsate, per vedere quando certe quistioni si pongono e per quali ragioni, come si sviluppano, a quale sistemazione giungono (se giungono), ecc. In fondo anche questo è un aspetto (e molto importante) della storia del lavoro, cioè il riflesso giuridico‑legislativo del movimento storico reale: vedere come questo riflesso si atteggi significa studiare un aspetto della reazione statale al movimento stesso, ecc. Accanto alle sentenze e agli articoli di queste riviste tecniche, bisognerebbe vedere le altre pubblicazioni di diritto (libri, riviste, ecc.), che in questi ultimi anni si sono moltiplicate in modo impressionante, anche se la qualità è scadente.

Q 6 §125 Riviste‑tipo. Storia e «progresso». La storia ha raggiunto un certo stadio; pare che perciò sia antistorico ogni movimento che appare in contrasto con quel certo stadio, in quanto «riproduce» uno stadio precedente; in questi casi si arriva a parlare di reazione, ecc. La quistione nasce dal non concepire la storia come storia di classi. Una classe ha raggiunto un certo stadio, ha costruito una certa forma di vita statale: la classe dominata, che insorge, in quanto spezza questa realtà acquisita, è perciò reazionaria?

Stati unitari, movimenti autonomisti; lo Stato unitario è stato un progresso storico, necessario, ma non perciò si può dire che ogni movimento tendente a spezzare gli Stati unitari sia antistorico e reazionario; se la classe dominata non può raggiungere la sua storicità altro che spezzando questi involucri, significa che si tratta di «unità» amministrative militari‑fiscali, non di «unità» moderne; può darsi che la creazione di tale unità moderna domandi che sia spezzata l’unità «formale» precedente, ecc. Dove esiste più unità moderna: nella Germania «federale» o nella «Spagna» unitaria di Alfonso e dei proprietari‑generali‑gesuiti? ecc.

Questa osservazione può essere estesa a molte altre manifestazioni storiche, per esempio al grado di «cosmopolitismo» raggiunto nei diversi periodi dello sviluppo culturale internazionale. Nel 700 il cosmopolitismo degli intellettuali è stato «massimo», ma quanta frazione dell’insieme sociale esso toccava? E non si trattava in gran parte di una manifestazione egemonica della cultura e dei grandi intellettuali francesi?

È certo tuttavia che ogni classe dominante nazionale è più vicina alle altre classi dominanti, come cultura e costumi, che non avvenga tra classi subalterne, anche se queste sono «cosmopolite» per programma e destinazione storica. Un gruppo sociale può essere «cosmopolita» per la sua politica e la sua economia e non esserlo per i costumi e anche per la cultura (reale).

Q 6 §126 Riviste‑tipo. Serie di guide o manualetti per il lettore di giornali (e per il lettore in generale). Come si legge un listino di borsa, un bilancio di società industriale, ecc. (Non lunghi e solo i dati schematici fondamentali). Il riferimento dovrebbe essere il lettore medio italiano, che in generale è poco informato di queste nozioni, ecc.

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L’insieme di questi manualetti potrebbe formare una collezione popolare di primo grado, che potrebbe svilupparsi in una seconda collezione di «secondo grado» di testi più complessi e comprensivi, ecc. – ambedue di tipo scolastico e compilati come sussidio a ipotetiche lezioni – e le due collezioni dovrebbero essere come introduttive alle collezioni dei testi scientifici di cultura generale e alle collezioni per specialisti. Cioè quattro collezioni: due scolastiche e due generali, graduate in più e meno elementari ognuna nel suo genere.

I nipotini di padre Bresciani

Q 6 §29 I nipotini di padre Bresciani. È da notare come in Italia il concetto di cultura sia prettamente libresco: i giornali letterari si occupano di libri o di chi scrive libri. Articoli di impressioni sulla vita collettiva, sui modi di pensare, sui «segni del tempo», sulle modificazioni che avvengono nei costumi, ecc., non se ne leggono mai. Differenza tra la letteratura italiana e le altre letterature. In Italia mancano i memorialisti e sono rari i biografi e gli autobiografi. Manca l’interesse per l’uomo vivente, per la vita vissuta.

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(Le Cose viste di Ugo Ojettì sono poi quel gran capolavoro di cui si è incominciato a parlare da quando Ojetti è stato direttore del «Corriere della Sera» e cioè dell’organismo letterario che paga meglio gli scrittori e dà più fama? Anche nelle Cose viste si parla specialmente di scrittori, da quelle che io ho letto anni fa, almeno. Si potrebbe rivedere). È un altro segno del distacco degli intellettuali italiani dalla realtà popolare‑nazionale.

Sugli intellettuali questa osservazione di Prezzolini (Mi pare…, p. 16) scritta nel 1920: «L’intellettuale da noi ha la pretesa di fare il parassita. Si considera come l’uccellino fatto per la gabbietta d’oro che dev’essere mantenuto a pastone e a chicchini di miglio. Lo sdegno che c’è ancora per tutto quello che somiglia al lavoro, le carezze che si fanno sempre alla concezione romantica di un estro che bisogna aspettare dal cielo, come la Pitia aspettava i suoi invasamenti, sono dei sintomi piuttosto puzzolenti di marcia interiore. Bisogna che gli intellettuali capiscano che i bei tempi per queste mascherate interessanti sono passati. Di qui a qualche anno non sarà permesso essere ammalati di letteratura o restare inutili». Gli intellettuali concepiscono la letteratura come una «professione» a sé, che dovrebbe «rendere» anche quando non si produce nulla immediatamente e dovrebbe dar diritto a una pensione. Ma chi stabilisce che Tizio è veramente un «letterato» e che la società può mantenerlo in attesa del «capolavoro»? Il letterato rivendica il diritto di stare in «ozio» («otium et non negotium»), di viaggiare, di fantasticare, senza preoccupazioni di carattere economico. Questo modo di pensare è legato al mecenatismo delle corti, male interpretato del resto, perché i grandi letterati del Rinascimento, oltre a scrivere, lavoravano in qualche modo (anche l’Ariosto, letterato per eccellenza, aveva incombenze amministrative e politiche): un’immagine del letterato del Rinascimento falsa e sbagliata. Oggi il letterato è professore e giornalista o semplice letterato (nel senso che tende a diventarlo, se è funzionario, ecc.).

Si può dire che la «letteratura» è una funzione sociale, ma che i letterati, presi singolarmente, non sono necessari alla funzione, sebbene ciò sembri paradossale. Ma è vero nel senso, che mentre le altre professioni sono collettive, e la funzione sociale si scompone nei singoli, ciò non avviene nella letteratura. La quistione è dell’«apprendissaggio»: ma si può parlare di «apprendissaggio» artistico letterario?

La funzione intellettuale non può essere staccata dal lavoro produttivo generale neanche per gli artisti: se non quando essi hanno dimostrato di essere effettivamente produttivi «artisticamente». Né ciò nuocerà all’«arte», forse anzi le gioverà: nuocerà solo alla «bohème» artistica e non sarà un male, tutt’altro.

Q 6 §2 I nipotini di padre Bresciani. Giulio Bechi.

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Morto il 28 agosto 1917 al fronte (cfr giornali del tempo: ne scrisse Guido Biagi nel «Marzocco»; cfr Profili e caratteri di Ermenegildo Pistelli, e Mario Puccioni, Militarismo ed italianità negli scritti di Giulio Bechi, nel «Marzocco» del 13 luglio 1930). Secondo il Puccioni: «La mentalità dei parlamentari sardi volle vedere in Caccia grossa solo un attacco spietato contro usi e persone e riuscì a fargli passare un guaio – così Giulio diceva con frase partenopea – di due mesi d’arresti nella fortezza di Belvedere». Il Bechi andò in Sardegna col 67° fanteria.

La quistione del suo contegno nella repressione del brigantaggio, condotta come le spedizioni coloniali e del suo libro, il cui tono generale è caratteristico, fin dallo stesso titolo, è molto più complessa di quanto paia al Puccioni, il quale cerca di mettere in rilievo come il Bechi protestasse per l’abbandono in cui era lasciata la Sardegna e come esaltasse le virtù native dei Sardi.

Q 6 §9 I nipotini di padre Bresciani. Lina Pietravalle. Dalla recensione, dovuta a Giulio Marzot, del romanzo Le catene (A. Mondadori, Milano, 1930, pp. 320, L. 12) della Pietravalle: «A chi domanda con quale sentimento partecipa alla vita dei contadini, Felicia risponde: «Li amo come la terra, ma non mischierò la terra col mio pane». C’è dunque la coscienza di un distacco: si ammette che anche il contadino possa avere la sua dignità umana, ma lo si costringe entro i limiti della sua condizione sociale». Il Marzot ha scritto un saggio su Giovanni Verga ed è un critico talvolta intelligente.

Sarebbe da studiare questo punto: se il naturalismo francese non contenesse già in germe la posizione ideologica che poi ha grande sviluppo nel naturalismo o realismo provinciale italiano e specialmente nel Verga: il popolo della campagna è visto con «distacco», come «natura» estrinseca allo scrittore, come spettacolo naturale, ecc. È la posizione di Io e le belve di Hagenbeck. In Italia il motivo «naturalistico» si innestò in una posizione ideologica preesistente, come si vede nei Promessi Sposi del Manzoni, in cui esiste lo stesso «distacco» dagli elementi popolari, distacco appena velato da un benevolo sorriso ironico e caricaturale.

Q 6 §16 I nipotini del padre Bresciani. La cultura nazionale italiana. Nella Lettera a Umberto Fracchia sulla critica di Ugo Ojetti («Pègaso», agosto 1930) sono due osservazioni notevoli: 1) Ricorda l’Ojetti che il Thibaudet divide la critica in tre classi: quella dei critici di professione, quella degli stessi autori, e quella «des honnêtes gens», cioè del pubblico, che alla fine è la vera Borsa dei valori letterari, visto che in Francia esiste un pubblico largo ed attento a seguire tutte le vicende della letteratura. In Italia manca appunto la critica del pubblico, «manca la persuasione o, se si vuole, l’illusione che questi (lo scrittore) compia opera d’importanza nazionale anzi, i migliori, storica, perché, come ella (il Fracchia) dice, «ogni anno e ogni giorno che passa ha ugualmente la sua letteratura, e così è sempre stato, e così sarà sempre, ed è assurdo aspettare o pronosticare o invocare per domani ciò che oggi è. Ogni secolo, ogni porzione di secolo, ha sempre esaltato le proprie opere; è anzi stato portato se mai ad esagerarne l’importanza, la grandezza, il valore e la durata». Giusto, ma non in Italia ecc.»

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(Il Fracchia scrisse un articolo dopo un discorso di Gioachino Volpe alla seduta dell’Accademia in cui furono distribuiti dei premi: il Volpe aveva detto: «Non si vedono spuntare grandi opere pittoriche, grandi opere storiche, grandi romanzi. Ma chi guarda attentamente, vede nella presente letteratura forze latenti, aneliti all’ascesa, alcune buone e promettenti realizzazioni». Di questo discorso del Volpe darò le indicazioni precise in altra nota più oltre).

2) L’altra osservazione notevole dell’Ojetti è questa: «La scarsa popolarità della nostra letteratura passata, cioè dei nostri classici. È vero: nella critica inglese e francese si leggono spesso paragoni tra gli autori viventi e i classici, ecc. ecc.». Questa osservazione è fondamentale per un giudizio storico sulla presente cultura italiana; il passato non è vivente nel presente, non è un elemento essenziale del presente, cioè nella storia della cultura nazionale non c’è continuità e unità. L’affermazione di questa continuità ed unità è un’affermazione retorica o ha un valore di propaganda, è un atto pratico, in quanto la si vuol creare artificialmente, ma non è una realtà in atto.

Il passato, la letteratura compresa, è visto come elemento di cultura scolastica, non come elemento di vita: ciò che poi significa che il sentimento nazionale e recente, se addirittura non si vuol dire che esso è in via di formazione, in quanto la letteratura in Italia non è mai stato un fatto nazionale, ma di carattere «cosmopolitico».

Q 6 §18 I nipotini di padre Bresciani. Il sentimento nazionale degli scrittori. Dalla Lettera a Piero Parini sugli scrittori sedentari di Ugo Ojetti nel «Pègaso» del settembre 1930: «Come mai noi italiani che abbiamo portato su tutta la terra il nostro lavoro e non soltanto il lavoro manuale, e che da Melbourne a Rio, da S. Francisco a Marsiglia, da Lima a Tunisi abbiamo dense colonie nostre, siamo i soli a non avere romanzi in cui i nostri costumi e la nostra coscienza siano rivelati in contrasto con la coscienza e i costumi di quelli stranieri fra i quali siamo capitati a vivere, a lottare, a soffrire, e talvolta anche a vincere? D’Italiani, in basso e in alto, manovali o banchieri, minatori o medici, camerieri o ingegneri, muratori o mercanti, se ne trovano in ogni angolo del mondo. La letteratissima letteratura nostra li ignora, anzi li ha sempre ignorati. Se non v’è romanzo o dramma senza un progrediente contrasto d’anime, quale contrasto più profondo e concreto di questo tra due razze, e la più antica delle due, la più ricca cioè d’usi e riti immemorabili, spatriata e ridotta a vivere senza altro soccorso che quello della propria energia e resistenza?». Né libri sugli italiani all’estero, ma neanche libri sugli stranieri (eccettuata la letteratura giornalistica).

Q 6 §26 I nipotini di padre Bresciani. Pirandello. Pirandello non appartiene a questa categoria di scrittori, tutt’altro. Lo noto qui per raggruppare insieme le note di cultura letteraria.

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Su Pirandello occorrerà scrivere un saggio speciale, utilizzando tutte le note da me scritte durante la guerra1, quando Pìrandello era combattuto dalla critica, che era incapace persino di riassumere i suoi drammi (ricordare le recensioni dell’Innesto nei giornali torinesi dopo la prima rappresentazione e le profferte di colleganza fattemi da Nino Berrini) e suscitava le furie di una parte del pubblico. Ricordare che Liolà fu da Pirandello tolta dal repertorio per le dimostrazioni ostili dei giovani cattolici torinesi alla seconda replica2. Cfr l’articolo della «Civiltà Cattolica» del 5 aprile 1930 Lazzaro ossia un mito di Luigi Pirandello3.

L’importanza del Pirandello mi pare di carattere intellettuale e morale, cioè culturale, più che artistica: egli ha cercato di introdurre nella cultura popolare la «dialettica» della filosofia moderna, in opposizione al modo aristotelico‑cattolico di concepire l’«oggettività del reale». L’ha fatto come si può fare nel teatro e come può farlo il Pirandello stesso: questa concezione dialettica dell’oggettività si presenta al pubblico come accettabile, in quanto essa è impersonata da caratteri di eccezione, quindi sotto veste romantica, di lotta paradossale contro il senso comune e il buon senso. Ma potrebbe essere altrimenti? Solo così i drammi del Pirandello mostrano meno il carattere di «dialoghi filosofici», che tuttavia hanno abbastanza, poiché i protagonisti devono troppo spesso «spiegare e giustificare» il nuovo modo di concepire il reale; d’altronde il Pirandello stesso non sempre sfugge da un vero e proprio solipsismo, poiché la «dialettica» in lui è più sofistica che dialettica.

Note

MB.: Gramsci e Pirandello

Q 6 §27 I nipotini di padre Bresciani. Stracittà e strapaese. Confrontare nell’«Italia Letteraria» del 16 novembre 1930 la lettera aperta di Massimo Bontempelli a G. B. Angioletti con postilla di quest’ultimo (Il Novecentismo è vivo o è morto?). La lettera è stata scritta dal Bontempelli subito dopo la sua nomina ad Accademico e sprizza da ogni parola la soddisfazione dell’autore di poter dire d’aver «fatto mordere la polvere» ai suoi nemici, Malaparte e la banda dell’«Italiano».

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Questa polemica di Strapaese contro Stracittà, secondo il Bontempelli, era mossa da sentimenti oscuri e ignobili, cosa che si può accettare, a chi tenga conto dell’arrivismo dimostrato dal Malaparte in tutto il periodo dopo la guerra: era una lotta di un gruppetto di letterati «ortodossi» che si vedevano colpiti dalla «concorrenza sleale» dei letterati già scrittori del «Mondo», come il Bontempelli, l’Alvaro, ecc., e vollero dare un contenuto di tendenza ideologico‑artistico‑culturale alla loro resistenza ecc. Meschinità da una parte e dall’altra. La postilla dell’Angioletti è ancora più meschina della lettera del Bontempelli.

Q 6 §38 I nipotini di padre Bresciani. La lettera aperta di Umberto Fracchia a S. E. Gioachino Volpe è nell’«Italia Letteraria» del 22 giugno 1930 (cfr nota precedente): il discorso del Volpe all’Accademia è di quindici giorni prima. Brano tipico del Fracchia: «Solo un po’ più di coraggio, di abbandono, di fede basterebbero per trasformare l’elogio a denti stretti che Ella ha fatto della presente letteratura in un elogio aperto ed esplicito; per dire che la presente letteratura italiana ha forze non solo latenti, ma anche scoperte, visibili (!) le quali non aspettano (!) che di essere vedute e riconosciute da quanti le ignorano, ecc. ecc.».

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Il Volpe un po’ aveva «sul serio» parafrasato i versi giocosi del Giusti: «Eroi, eroi che fate voi? – Ponziamo il poi!», e il Fracchia si lamenta miserevolmente che non si riconoscono le ponzature già attuate.

Il Fracchia parecchie volte ha minacciato gli editori che stampano troppe traduzioni di misure legislative‑corporative di protezione per gli scrittori italiani. (Ricordare l’ordinanza del sottosegretario all’interno Bianchi, poi interpretata e di fatto ritirata e che era connessa a una campagna del Fracchia).

Il ragionamento del Fracchia nella lettera al Volpe è impagabile: Ogni secolo, ogni frazione di secolo ha la sua letteratura, non solo, ma la esalta; tanto che le storie letterarie hanno dovuto mettere a posto molte opere esaltatissime e che oggi si riconosce non valgono nulla. (Questo è giusto, ma significa solo questo: che l’attuale periodo non sa interpretare il suo tempo, è staccato dalla vita, sicché neanche per «ragioni pratiche» vengono esaltate opere che poi magari saranno riconosciute artisticamente nulle e la cui «praticità» è stata superata; ma è vero che non ci siano opere molto lette? ci sono, ma sono straniere, o ci sarebbero, se fossero tradotte come il libro di Remarque, ecc.). Realmente il tempo presente non ha letteratura, perché la letteratura esistente, salvo rare eccezioni, non è legata alla vita popolare‑nazionale, ma a gruppi castali avulsi dalla vita, ecc.

Il Fracchia si lamenta della critica, che si pone solo dal punto di vista dei grandi capolavori, che si è rarefatta nella perfezione delle teorie estetiche, ecc. Ma se i libri fossero criticati dal punto di vista del contenuto, si lamenterebbe lo stesso perché il suo contenuto non rappresenta che zero nel mondo della cultura, così come i libri della maggior parte degli scrittori attuali.

Non è vero che non esista in Italia una critica del pubblico (come scrive Ojetti nella lettera del «Pègaso» ricordata in altra nota); esiste, ma di un pubblico al quale piacciono ancora i romanzi di Dumas o i romanzi polizieschi stranieri, o di Carolina Invernizio. Questa critica è rappresentata dai direttori dei quotidiani e delle riviste popolari a grande tiratura e si manifesta nella scelta delle appendici; è rappresentata dagli editori e si manifesta nelle traduzioni di libri stranieri e non solo attuali, ma vecchi, molto vecchi; si manifesta nei repertori delle compagnie teatrali, ecc. Né si tratta di «esotismo» al cento per cento, perché in musica il pubblico vuole Verdi, e Puccini e Mascagni, che non hanno il corrispondente in prosa, evidentemente. E all’estero Verdi, Puccini, Mascagni sono preferiti dai pubblici stranieri ai loro stessi musicisti nazionali e attuali. C’è dunque distacco tra scrittori e pubblico e il pubblico cerca la sua letteratura all’estero e la sente più sua di quella nazionale. Questo è il problema.

Perché se è vero che ogni secolo o frazione di secolo ha la sua letteratura non è sempre vero che questa letteratura si ritrovi nella stessa comunità nazionale: ogni popolo ha la sua letteratura ma questa può venirgli da un altro popolo, cioè il popolo in parola può essere subordinato all’egemonia intellettuale di altri popoli.

Questo è spesso il paradosso più stridente per molte tendenze monopolistiche di carattere nazionalistico e repressivo: che, mentre fanno grandi piani di loro egemonie, non si accorgono di essere soggetti ad egemonie straniere, così come, mentre fanno piani imperialistici, in realtà sono oggetto di altri imperialismi, ecc. D’altronde non si sa se il centro dirigente politico non capisca benissimo la situazione di fatto e per accontentare i cervelli vuoti esalti il proprio imperialismo per non far sentire quello a cui si è soggetti di fatto.

Q 6 §56 I nipotini di padre Bresciani. Filippo Crispolti. Ho già notato in altro paragrafo come il Crispolti non esiti a porre se stesso come paradigma per giudicare il dolore del Leopardi. Nel suo articolo Ombre di romanzi manzoniani il Manzoni diventa paradigma per autogiudicare il romanzo effettivamente scritto dal Crispolti Il duello e un altro romanzo Pio X che poi non fu scritto.<7

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L’arroganza del Crispolti è persino ridicola: i Promessi sposi trattano di un «impedimento brutale ad un matrimonio», il Duello del Crispolti tratta del duello; ambedue si riferiscono al dissidio che esiste nella società tra l’adesione al Vangelo che condanna la violenza, e l’uso brutale della violenza. C’è una differenza tra il Manzoni e il Crispolti; il Manzoni proveniva dal giansenismo, il Crispolti è un gesuita laico; il Manzoni era un liberale e un democratico del cattolicesimo (sebbene di tipo aristocratico) ed era favorevole alla caduta del potere temporale; il Crispolti era un reazionario nerissimo e lo è rimasto; se si staccò dagli intransigenti papalini e accettò di essere senatore è stato solo perché voleva che i cattolici diventassero il partito ultradestro della nazione.

È interessante la trama del romanzo non scritto Pio X solo perché riferisce alcune difficoltà obbiettive che si presentano nella convivenza a Roma di due potenze come la monarchia e il papa, riconosciuto come sovrano già dalle guarentigie. Ogni uscita del papa dal Vaticano per attraversare Roma domanda: 1) ingenti spese statali per l’apparato d’onore dovuto al papa; 2) è una minaccia di guerra civile perché bisogna obbligare i partiti progressivi a non fare dimostrazioni e implicitamente pone la quistione se questi partiti possano mai andare al potere col loro programma, cioè interferisce sulla sovranità dello Stato sinistramente.

Q 6 §73 I nipotini di padre Bresciani. Cfr l’articolo Dell’interesse di Carlo Linati nei «Libri del giorno» del febbraio 1929. Il Linati si domanda in che consista quel «quid» per cui i libri interessano e finisce col non trovare una risposta. Ed è certo che una risposta precisa non si può trovare, nel senso almeno che intende il Linati, il quale vorrebbe trovare il «quid» per essere in grado o per mettere gli altri in grado di scrivere libri interessanti. Il Linati dice che il problema in questi ultimi tempi è diventato «scottante» ed è vero, come è naturale che sia. C’è stato un certo risveglio di sentimenti nazionalistici: è spiegabile che si ponga il problema del perché i libri italiani non siano letti, del perché essi siano ritenuti «noiosi» e «interessanti» invece quelli stranieri, ecc.

Il risveglio nazionalistico fa sentire che la letteratura italiana non è «nazionale» nel senso che non è popolare e che si subisce come popolo l’egemonia straniera. Onde programmi, polemiche, tentativi, che non riescono però in nulla.

Sarebbe necessaria una critica spietata della tradizione e un rinnovamento culturale‑morale da cui dovrebbe nascere una nuova letteratura. Ma ciò appunto non può avvenire per la contraddizione ecc.: risveglio nazionalistico ha assunto il significato di esaltazione del passato. Marinetti è diventato accademico e lotta contro la tradizione della pastasciutta.

Q 6 §80 I nipotini di padre Bresciani. Répaci.

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Osservare il suo carattere di linguaiolo che pare si sia ancor più sviluppato in questi ultimi tempi, come appare dalle ultime novelle, per es. Guerra di fanciulli. Le parolette infilzate a serie, l’uso di ribobolerie toscane per racconti di ambiente calabrese fanno l’effetto più buffo: e ancora, come diventa meccanico il tentativo fatto dall’esterno di costruire novelle «psicoanalitiche» quando invece si è spinti da un superficiale impulso del pittoresco folcloristico!

Q 6 §115 I nipotini di padre Bresciani. Angelo Gatti. Suo romanzo Ilia e Alberto pubblicato nel 1931 (vedi): romanzo autobiografico.

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Il Gatti si è convertito al cattolicismo gesuitico. Tutta la chiave, il nodo centrale del romanzo, è in questo fatto: Ilia, donna sana, riceve in bocca gocciole di saliva di un tubercolotico, per uno starnuto o un colpo di tosse (o che so io – non ho letto il romanzo, ma solo delle recensioni) o altro; diventa tubercolotica e muore.

Mi pare strano e puerile che il Gatti abbia insistito su questo particolare meccanico ed esterno, che pure nel romanzo deve essere importante, se un recensore ci si è trattenuto. Ricorda le solite sciocchezze che le comari dicono per spiegare le infezioni. Forse Ilia stava sempre a bocca aperta dinanzi alla gente che le tossiva e le starnutava sul viso in tramvai e nelle calche dove si sta pigiati? E come ha potuto accertare che proprio quella sia stata la causa del contagio? O si tratta di un ammalato che a bella posta infettava la gente sana? È veramente strabiliante che il Gatti si sia servito di questa ficelle per il suo romanzo.

Q 6 §94 Cultura italiana. Sentimento nazionale, non popolare‑nazionale (cfr note disperse), cioè un sentimento puramente «soggettivo», non legato a realtà, a fattori, a istituzioni oggettive. È perciò ancora un sentimento da «intellettuali», che sentono la continuità della loro categoria e della loro storia, unica categoria che abbia avuto una storia ininterrotta.

Un elemento oggettivo è la lingua, ma essa in Italia si alimenta poco, nel suo sviluppo, dalla lingua popolare che non esiste (eccetto in Toscana), mentre esistono i dialetti. Altro elemento è la coltura, ma essa è troppo ristretta ed ha carattere di casta: i ceti intellettuali sono piccolissimi e angusti. ùI partiti politici: erano poco solidi e non avevano vitalità permanente ma entravano in azione solo nel periodo elettorale.

I giornali: non coincidevano coi partiti che debolmente, e poco letti.

La Chiesa era l’elemento popolare‑nazionale più valido ed esteso, ma la lotta tra Chiesa e Stato ne faceva un elemento di disgregazione più che di unità e oggi le cose non sono molto cambiate perché tutta l’impostazione del problema morale‑popolare è cambiato.

La monarchia. – Il parlamento. – L’università e la scuola. – La città. – Organizzazioni private come la massoneria. – L’Università popolare. – L’esercito. – I sindacati operai. – La scienza (verso il popolo, – i medici, i veterinari, le cattedre ambulanti, gli ospedali). – Il teatro. – Il libro.

Q 6 §67 Cultura italiana. Valentino Piccoli.

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Del Piccoli sarà utile ricordare la nota Un libro per gli immemori (nei «Libri del giorno» dell’ottobre 1928) in cui recensisce il libro di Mario Giampaoli 1919, (Roma‑Milano, Libreria del Littorio, in 16°, pp. 335 con 40 illustrazioni fuori testo, L. 15). Il Piccoli adopera per il Giampaoli gli stessi aggettivi che adopera per Dante, per Leopardi e per qualsiasi grande scrittore che egli passa il tempo a coprire delle sue allumacature. Ricorre spesso l’aggettivo «austero», ecc., «pagine d’antologia», ecc.

Q 6 §35 Cultura italiana. Esiste un «razzismo» in Italia? Molti tentativi sono stati fatti, ma tutti di carattere letterario e astratto. Da questo punto di vista l’Italia si differenzia dalla Germania, quantunque tra i due paesi ci siano alcune somiglianze estrinseche interessanti: 1) La tradizione localistica e quindi il tardo raggiungimento dell’unità nazionale e statale. (Somiglianza estrinseca perché il regionalismo italiano ha avuto altre origini che quello tedesco: in Italia hanno contribuito due elementi principali: a) la rinascita delle razze locali dopo la caduta dell’Impero Romano; b) le invasioni barbariche prima, i domini stranieri dopo. In Germania i rapporti internazionali hanno influito, ma non con l’occupazione diretta di stranieri). 2) L’universalismo medioevale influì più in Italia che in Germania, dove l’Impero e la laicità trionfarono molto prima che in Italia, durante la Riforma. 3) Il dominio nei tempi moderni delle classi proprietarie della campagna, ma con rapporti molto diversi. Il tedesco sente più la razza che l’Italiano. Razzismo: il ritorno storico al romanesimo, poco sentito oltre la letteratura. Esaltazione generica della stirpe, ecc.

Lo strano è che a sostenere il razzismo oggi (con l’Italia Barbara Arcitaliano e lo strapaesismo) sia Kurt Erich Suckert, nome evidentemente razzista e strapaesano; ricordare durante la guerra Arturo Foà e le sue esaltazioni della stirpe italica, altrettanto congruenti che nel Suckert.

Q 6 §201 I nipotini di padre Bresciani. Bruno Cicognani. Il romanzo Villa Beatrice. Storia di una donna, pubblicato nel «Pègaso» del 1931. Il Cicognani appartiene al gruppo di scrittori cattolici fiorentini: Papini, Enrico Pea, Domenico Giuliotti. Villa Beatrice può chiamarsi il romanzo della filosofia neoscolastica di padre Gemelli, il romanzo del «materialismo» cattolico, un romanzo della «psicologia sperimentale» tanto cara ai neoscolastici e ai gesuiti? Confronto tra romanzi psicoanalitici e il romanzo di Cicognani.

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È difficile dire in che cosa la dottrina e la religiosità del cattolicismo contribuiscano alla costruzione del romanzo (dei caratteri del dramma): nella conclusione, l’intervento del prete è esteriore, il risveglio religioso in Beatrice è solamente affermato, e i mutamenti nella protagonista potrebbero anche solo essere giustificati da ragioni fisiologiche.

Tutta la personalità, se può parlarsi di personalità, di Beatrice, è descritta minuziosamente come un fenomeno di storia naturale, non è rappresentata artisticamente: il Cicognani «scrive bene», nel senso volgare della parola, come «scriverebbe bene» un trattato del gioco degli scacchi. Beatrice è «descritta» come la freddezza sentimentale impersonificata e tipizzata. Perché essa è «incapace» di amare e di entrare in relazione affettiva con chiunque altro (anche la madre e il padre) in un modo esasperato e da decalcomania? Ella è fisiologicamente imperfetta negli organi genitali, soffre fisiologicamente nell’abbraccio e non potrebbe partorire? Ma questa imperfezione intima (e perché la natura non la costruì brutta esteriormente, indesiderabile ecc.? Contraddizione della natura!) è dovuta al fatto che ella soffre di cuore.

Il Cicognani crede che fin dallo stato di ovulo fecondato il nuovo essere che eredita una malattia organica si prepara alla difesa contro l’attacco futuro del male: ecco che l’ovulo‑Beatrice, nata con il cuore debole, si costruisce un organo sessuale imperfetto che la farà repugnare dall’amore e da ogni emotività ecc. ecc.

Tutta questa teoria è del Cicognani, è il quadro generale del romanzo: naturalmente Beatrice non è cosciente di questa determinazione della sua esistenza psichica; essa non opera perché crede di essere così, ma opera perché è così all’infuori della sua coscienza: in realtà la sua coscienza non è rappresentata, non è un motore che spieghi il dramma. Beatrice è un «pezzo anatomico» non una donna.

Il Cicognani non evita le contraddizioni, perché pare che talvolta Beatrice soffra di dover essere fredda, come se questa sofferenza non fosse essa stessa una «passione» che potrebbe precipitare il mal di cuore; pare quindi che solo l’unione sessuale e il concepimento col parto siano pericolosi «per la natura», ma allora la natura avrebbe dovuto provvedere altrimenti alla «salvaguardia» dell’ovaia di Beatrice: avrebbe dovuto costruirla «sterile» o meglio «fisiologicamente» incapace di unione sessuale. Tutto questo pasticcio Ugo Ojetti ha esaltato come il raggiungimento da parte del Cicognani della «classicità artistica».

Il modo di pensare del Cicognani potrebbe essere incoerente ed egli potrebbe aver scritto tuttavia un bel romanzo: ma questo appunto non è il caso.

Lorianesimo

Q 6 §189 Lorianesimo.

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Il 12 dicembre 1931, nel culmine della crisi mondiale, Achille Loria discute al Senato una sua interrogazione: se il ministero dell’interno «non ritenga opportuno evitare gli spettacoli di equilibrismo che non adempiono a nessuna funzione educativa, mentre sono troppo frequentemente occasione di sciagure mortali». Dalla risposta dell’on. Arpinati pare che «gli spettacoli di equilibrismo appartengano a quelle attività improduttive che il sen. Loria ha analizzato nel Trattato di Economia», e quindi la quistione, secondo il Loria, potrebbe essere un contributo alla soluzione della crisi economica. Si potrebbe fare dello spirito a buon mercato sugli spettacoli di equilibrismo del Loria stesso, che non gli hanno procurato finora nessuna sciagura mortale.

Q 6 §36 Lorianesimo. Trombetti e l’etrusco.

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Cfr Luigi Pareti, Alla vigilia del 1° Congresso Internazionale etrusco, «Marzocco» del 29 aprile 1928, e Pareti, Dopo il Congresso etrusco, «Marzocco», 13 maggio 1928, e Consensi e dissensi storici archeologici al Congresso Etrusco, «Marzocco», 20 maggio 1928.

A proposito delle ricerche linguistiche il Pareti scrive nel primo articolo: «Assicurati della precisione dei testi trascritti, e della completezza delle nostre raccolte, si potrà rielaborarli, in maniera non comune, per quanto concerne la linguistica. Poiché è ormai indispensabile, non solo condurre avanti i tentativi di interpretazione, ma procedere storicamente, considerando cioè i termini lessicali ed i fenomeni fonetici nello spazio e nel tempo: distinguendo quel ch’è antico dal recente, e individuando le differenze dialettali di ogni regione. Fissata questa base storico‑linguistica, sarà più facile e sicuro sia risalire dai termini e fenomeni più antichi, ai confronti con altre lingue che interessino per il problema delle parentele originarie; sia, all’opposto, discendere da alcune peculiarità dei dialetti etruschi nella loro ultima fase, avvicinando termini e fenomeni dialettali attuali. Altrettanto meticolosa ha da essere, naturalmente, l’indagine per sceverare i vari strati, utilizzabili storicamente, della toponomastica. Poiché, in teoria, per ogni nome, occorre rintracciare l’età e lo strato etnico a cui risale, è indispensabile che per ognuno di essi siano raccolte le più antiche testimonianze, e registrata la forma precisa iniziale, accanto alle posteriori deformazioni. E ciò per evitare la rischiosa comparazione di termini che si possono dimostrare imparagonabili, o per reale disformità fonetica, o per impossibilità cronologica. Di tutto il materiale vagliato sarà poi opportuno redigere lessici e carte topografiche, di comoda e perspicua consultazione».

Questi articoli del Pareti sono molto ben fatti e danno un’idea perspicua delle attuali condizioni degli studi sugli Etruschi.

Costume e Senso comune

Q 6 §98 I costumi e le leggi. È opinione molto diffusa e anzi è opinione ritenuta realistica e intelligente che le leggi devono essere precedute dal costume, che la legge è efficace solo in quanto sanziona i costumi. Questa opinione è contro la storia reale dello sviluppo del diritto, che ha domandato sempre una lotta per affermarsi e che in realtà è lotta per la creazione di un nuovo costume. Nell’opinione su citata esiste un residuo molto appariscente di moralismo intruso nella politica.

Si suppone che il diritto sia espressione integrale dell’intera società, ciò che è falso: invece espressione più aderente della società sono quelle regole di condotta che i giuristi chiamano «giuridicamente indifferenti» e la cui zona cambia coi tempi e con l’estensione dell’intervento statale nella vita dei cittadini. Il diritto non esprime tutta la società (per cui i violatori del diritto sarebbero esseri antisociali per natura, o minorati psichici), ma la classe dirigente, che «impone» a tutta la società quelle norme di condotta che sono più legate alla sua ragion d’essere e al suo sviluppo. La funzione massima del diritto è questa: di presupporre che tutti i cittadini devono accettare liberamente il conformismo segnato dal diritto, in quanto tutti possono diventare elementi della classe dirigente; nel diritto moderno cioè è implicita l’utopia democratica del secolo XVIII.

Qualche cosa di vero tuttavia esiste nell’opinione che il costume deve precedere il diritto: infatti nelle rivoluzioni contro gli Stati assoluti, esisteva già come costume e come aspirazione una gran parte di ciò che poi divenne diritto obbligatorio: è con il nascere e lo svilupparsi delle disuguaglianze che il carattere obbligatorio del diritto andò aumentando, così come andò aumentando la zona dell’intervento statale e dell’obbligazionismo giuridico. Ma in questa seconda fase, pur affermando che il conformismo deve essere libero e spontaneo, si tratta di ben altro: si tratta di reprimere e soffocare un diritto nascente e non di conformare.

L’argomento rientra in quello più generale della diversa posizione che hanno avuto le classi subalterne prima di diventare dominanti. Certe classi subalterne devono avere un lungo periodo di intervento giuridico rigoroso e poi attenuato, a differenza di altre; c’è differenza anche nei modi: in certe classi l’espansività non cessa mai, fino all’assorbimento completo della società; in altre, al primo periodo di espansione succede un periodo di repressione.

Questo carattere educativo, creativo, formativo del diritto è stato messo poco in luce da certe correnti intellettuali: si tratta di un residuo dello spontaneismo, del razionalismo astratto che si basa su un concetto della «natura umana» astrattamente ottimistico e facilone. Un altro problema si pone per queste correnti: quale deve essere l’organo legislativo «in senso lato», cioè la necessità di portare le discussioni legislative in tutti gli organismi di massa: una trasformazione organica del concetto di «referendum», pur mantenendo al governo la funzione di ultima istanza legislativa.

Folklore

Q 6 §48 Ritratto del contadino italiano. Cfr Fiabe e leggende popolari del Pitré (p. 207), una novellina popolare siciliana, alla quale (secondo D. Bulferetti nella «Fiera Letteraria» del 29 gennaio 1928) corrisponde una xilografia di vecchie stampe veneziane, in cui si vede Iddio impartire dal cielo questi ordini: al papa: tu prega, all’imperatore: tu proteggi, al contadino: e tu affatica.

Lo spirito delle novelline popolari dà la concezione che di se stesso e della sua posizione nel mondo il contadino si è rassegnato ad assorbire dalla religione.

Argomenti di Cultura

Linguistica

Q 6 §20 Quistioni di linguistica. Giulio Bertoni. È stupefacente la recensione benevola che Natalino Sapegno ha pubblicato nel «Pègaso» del settembre 1930 di Linguaggio e Poesia («Bibliotheca» editrice, Rieti, 1930, L. 5). Il Sapegno non s’accorge che la teoria del Bertoni essere la nuova linguistica una «sottile analisi discriminativa delle voci poetiche da quelle strumentali» è tutt’altro che una novità perché si tratta del ritorno a una vecchissima concezione retorica e pedantesca, per cui si dividono le parole in «brutte» e «belle», in poetiche e non poetiche o antipoetiche ecc., così come si erano similmente divise le lingue in belle e brutte, civili o barbariche, poetiche e prosastiche ecc. Il Bertoni non aggiunge nulla alla linguistica, altro che vecchi pregiudizi, ed è maraviglioso che queste stoltezze gli siano passate per buone dal Croce e dagli allievi del Croce.<7

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Cosa sono le parole avulse e astratte dall’opera letteraria? Non più elemento estetico, ma elemento di storia della cultura e come tali il linguista le studia. E cos’è la giustificazione che il Bertoni fa dell’«esame naturalistico delle lingue, come fatto fisico e come fatto sociale»? Come fatto fisico? Cosa significa? Che anche l’uomo, oltre che elemento della storia politica deve essere studiato come fatto biologico? Che di una pittura si deve fare anche l’analisi chimica? ecc.? Che sarebbe utile esaminare quanto sforzo meccanico sia costato a Michelangelo lo scolpire il Mosè?

Che questi crociani non si accorgano di tutto questo è stupefacente e serve a indicare quale confusione il Bertoni abbia contribuito a diffondere in questo campo. Addirittura scrive il Sapegno che per questa indagine del Bertoni (sulla bellezza delle singole parole astratte: come se il vocabolo più «frusto e meccanicizzato» non riacquistasse nella concreta opera d’arte tutta la sua freschezza e ingenuità primitiva) «è difficile e delicata, ma non perciò meno necessaria: per essa la glottologia, meglio che scienza del linguaggio, rivolta a scoprire leggi più o meno fisse e sicure, si avvierà a diventare storia della lingua, attenta ai fatti particolari e al loro significato spirituale». E ancora: «Il nucleo di questo ragionamento (del Bertoni) è, come ognuno può vedere, un concetto tuttora vivo e fecondo dell’estetica crociana. Ma l’originalità del Bertoni consiste nell’averlo sviluppato ed arricchito per una concreta via, dal Croce soltanto additata, o magari iniziata, ma non mai seguita fino in fondo e di proposito», ecc. Se il Bertoni «rivive il pensiero crociano» ma anzi lo arricchisce, e il Croce si riconosce nel Bertoni, occorre dire che il Croce stesso deve essere riveduto e corretto: ma a me pare che il Croce sia stato solo molto indulgente col Bertoni, per non aver approfondito la quistione e per ragioni «didattiche».

Le ricerche del Bertoni sono in parte e sotto un certo aspetto un ritorno a vecchi sistemi etimologici: «sol quia solus est», come è bello che il «sole» contenga in sé implicita l’immagine della «solitudine» nell’immenso cielo e via via: «come è bello che in Puglia la libellula con le sue alucce in forma di Croce, sia detta la morte», e così via. Ricordare in uno scritto di Carlo Dossi la storiella del professore che spiega la formazione delle parole: «all’inizio cadde un frutto, facendo pum! ed ecco il «pomo», ecc. «E se fosse caduta una pera?» domanda il giovanetto Dossi.

Ant.: Il problema del linguaggio in Gramsci

Q 6 §71 Linguistica. Antonio Pagliaro, Sommario di linguistica arioeuropea. Fasc. I: Cenni storici e quistioni teoriche, Libreria di Scienze e Lettere del dott. G. Bardi, Roma, 1930 (nelle «Pubblicazioni della Scuola di Filologia Classica dell’Università di Roma, Serie seconda: Sussidi e materiali, II, I»). Sul libro del Pagliaro cfr la recensione di Goffredo Coppola nel «Pègaso» del novembre 1930.

Il libro è indispensabile per vedere i progressi fatti dalla linguistica in questi ultimi tempi. Mi pare ci sia molto di cambiato (a giudicare dalla recensione) ma che tuttavia non sia stata trovata la base in cui collocare gli studi linguistici. L’identificazione di arte e lingua, fatta dal Croce ha permesso un certo progresso e ha permesso di risolvere alcuni problemi e di dichiararne altri inesistenti o arbitrari, ma i linguisti, che sono essenzialmente storici, si trovano dinanzi l’altro problema: è possibile la storia delle lingue all’infuori della storia dell’arte e ancora è possibile la storia dell’arte?

Ma i linguisti precisamente studiano le lingue in quanto non sono arte, ma «materiale» dell’arte, in quanto prodotto sociale, in quanto espressione culturale di un dato popolo ecc. Queste quistioni non sono risolte, o lo sono con un ritorno alla vecchia rettorica rimbellettata (cfr Bertoni).

Per il Perrotto1 (anche per il Pagliaro?), l’identificazione tra arte e lingua ha condotto a riconoscere come insolubile (o arbitrario?) il problema dell’origine del linguaggio, che significherebbe domandarsi perché l’uomo è uomo (linguaggio = fantasia, pensiero): mi pare che non sia molto preciso; il problema non può risolversi per mancanza di documenti e quindi è arbitrario: si può fare, oltre un certo limite storico, della storia ipotetica, congetturale e sociologica, ma non storia «storica». Questa identificazione permetterebbe anche di determinare ciò che nella lingua è errore, cioè non lingua. «Errore è la creazione artificiale, razionalistica, voluta, che non s’afferma perché nulla rivela, che è particolare all’individuo fuori della sua società». Mi pare che allora si dovrebbe dire che lingua = storia e non lingua = arbitrio. Le lingue artificiali sono come i gerghi: non è vero che siano assolutamente non lingue perché sono in qualche modo utili: hanno un contenuto storico‑sociale molto limitato. Ma ciò avviene anche tra dialetto e lingua nazionale‑letteraria. Eppure anche il dialetto è lingua‑arte.

Ma tra il dialetto e la lingua nazionale‑letteraria qualcosa è mutato: precisamente l’ambiente culturale, politico‑morale‑sentimentale. La storia delle lingue è storia delle innovazioni linguistiche, ma queste innovazioni non sono individuali (come avviene nell’arte) ma sono di un’intera comunità sociale che ha innovato la sua cultura, che ha «progredito» storicamente: naturalmente anch’esse diventano individuali, ma non dell’individuo‑artista, dell’individuo ‑ elemento storico‑culturale completo determinato.

Anche nella lingua non c’è partenogenesi, cioè la lingua che produce altra lingua, ma c’è innovazione per interferenze di culture diverse ecc., ciò che avviene in modi molto diversi e ancora avviene per intere masse di elementi linguistici, e avviene molecolarmente (per esempio: il latino ha come «massa» innovato il celtico delle Gallie, e ha invece influenzato il germanico «molecolarmente», cioè imprestandogli singole parole o forme ecc.). L’interferenza e l’influenza «molecolare» può avvenire nello stesso seno di una nazione, tra diversi strati ecc.; una nuova classe che diventa dirigente innova come «massa»; il gergo dei mestieri ecc. cioè delle società particolari, innovano molecolarmente. Il giudizio artistico in queste innovazioni ha il carattere del «gusto culturale», non del gusto artistico, cioè per la stessa ragione per cui piacciono le brune o le bionde e mutano gli «ideali» estetici, legati a determinate culture.

Note

Q 6 §62 I nipotini di padre Bresciani. Il De Sanctis in qualche parte scrive che egli, prima di scrivere un saggio o fare una lezione su un canto di Dante, per esempio, leggeva parecchie volte ad alta voce il canto, lo studiava a memoria ecc. ecc. Ciò si ricorda per sostenere l’osservazione che l’elemento artistico di un’opera non può essere, eccettuate rare occasioni (e si vedrà quali), gustato a prima lettura, spesso neppure dai grandi specialisti come era il De Sanctis. La prima lettura dà solo la possibilità di introdursi nel mondo culturale e sentimentale dello scrittore, e neanche questo è sempre vero, specialmente per gli scrittori non contemporanei, il cui mondo culturale e sentimentale è diverso dall’attuale: una poesia di un cannibale sulla gioia di un lauto banchetto di carne umana, può essere concepita come bella, e domandare per essere artisticamente gustata, senza pregiudizi «extraestetici», un certo distacco psicologico dalla cultura odierna. Ma l’opera d’arte contiene anche altri elementi «storicistici» oltre al determinato mondo culturale e sentimentale, ed è il linguaggio, inteso non solo come espressione puramente verbale, quale può essere fotografato in un certo tempo e luogo dalla grammatica, ma come un insieme di immagini e modi di esprimersi che non rientrano nella grammatica. Questi elementi appaiono più chiaramente nelle altre arti.

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La lingua giapponese appare subito diversa dalla lingua italiana, non così il linguaggio della pittura, della musica e delle arti figurative in genere: eppure esistono anche queste differenze di linguaggio ed esse sono tanto più appariscenti quanto più dalle manifestazioni artistiche degli artisti si scende alle manifestazioni artistiche del folklore in cui il linguaggio di queste arti è ridotto all’elemento più autoctono e primordiale (ricordare l’aneddoto del disegnatore che fa il profilo di un negro e gli altri negri scherniscono il ritrattato perché il pittore gli ha riprodotto «solo mezza faccia»).

Esiste però, dal punto di vista culturale e storico, una grande differenza tra l’espressione linguistica della parola scritta e parlata e le espressioni linguistiche delle altre arti. Il linguaggio «letterario» è strettamente legato alla vita delle moltitudini nazionali e si sviluppa lentamente e solo molecolarmente; se si può dire che ogni gruppo sociale ha una sua «lingua», tuttavia occorre notare (salvo rare eccezioni) che tra la lingua popolare e quella delle classi colte c’è una continua aderenza e un continuo scambio.

Ciò non avviene per i linguaggi delle altre arti, per i quali, si può notare che attualmente si verificano due ordini di fenomeni: 1) in essi sono sempre vivi, per lo meno in quantità enormemente maggiore che per la lingua letteraria, gli elementi espressivi del passato, si può dire di tutto il passato; 2) in essi si forma rapidamente una lingua cosmopolita che assorbe gli elementi tecnico‑espressivi di tutte le nazioni che volta per volta producono grandi pittori, scrittori, musicisti, ecc.

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Wagner ha dato alla musica elementi linguistici che tutta la letteratura tedesca non ha dato in tutta la sua storia, ecc. Ciò avviene perché il popolo partecipa scarsamente alla produzione di questi linguaggi, che sono propri di una élite internazionale ecc., mentre può abbastanza rapidamente (e come collettività, non come singoli) giungere alla loro comprensione. Tutto ciò per indicare che realmente il «gusto» puramente estetico, se può chiamarsi primario come forma e attività dello spirito, non è tale praticamente, in senso cronologico, cioè.

È stato detto da taluno (per esempio da Prezzolini, nel volumetto Mi pare…) che il teatro non può dirsi un’arte ma uno svago di carattere meccanicistico. Ciò perché gli spettatori non possono gustare esteticamente il dramma rappresentato, ma si interessano solo all’intrigo ecc. (o qualcosa di simile). L’osservazione è falsa nel senso che, nella rappresentazione teatrale, l’elemento artistico non è dato solo dal dramma nel senso letterario, il creatore non è solo lo scrittore: l’autore interviene nella rappresentazione teatrale con le parole e con le didascalie che limitano l’arbitrio dell’attore e del régisseur, ma realmente nella rappresentazione l’elemento letterario diventa occasione a nuove creazioni artistiche, che da complementari e critico‑interpretative stanno diventando sempre più importanti: l’interpretazione dell’autore singolo e il complesso scenico creato dal régisscur. È giusto però che solo la lettura ripetuta può far gustare il dramma così come l’autore l’ha prodotto.

La conclusione è questa: un’opera d’arte è tanto più «artisticamente» popolare quanto più il suo contenuto morale, culturale, sentimentale è aderente alla moralità, alla cultura, ai sentimenti nazionali, e non intesi come qualcosa di statico, ma come un’attività in continuo sviluppo. L’immediata presa di contatto tra lettore e scrittore avviene quando nel lettore l’unità di contenuto e forma ha la premessa di unità del mondo poetico e sentimentale: altrimenti il lettore deve incominciare a tradurre la «lingua» del contenuto nella sua propria lingua: si può dire che si forma la situazione come di uno che ha imparato l’inglese in un corso accelerato Berlitz e poi legge Shakespeare; la fatica della comprensione letterale, ottenuta con il continuo sussidio di un mediocre dizionario, riduce la lettura a un esercizio scolastico pedantesco e nulla più.

Q 6 §77 Individui e nazioni. A proposito della quistione delle glorie nazionali legate alle invenzioni di singoli individui geniali, le cui scoperte e invenzioni non hanno però avuto applicazione o riconoscimento nel paese d’origine si può ancora osservare: che le invenzioni e le scoperte possono essere e sono spesso infatti casuali, non solo, ma che i singoli inventori possono essere legati a correnti culturali e scientifiche che hanno avuto origine e sviluppo in altri paesi, presso altre nazioni.

Perciò una invenzione o scoperta perde il carattere individuale e casuale e può essere giudicata nazionale quando: l’individuo è strettamente e necessariamente collegato a una organizzazione di cultura che ha caratteri nazionali o quando l’invenzione è approfondita, applicata, sviluppata in tutte le sue possibilità dall’organizzazione culturale della nazione d’origine.

Fuori di queste condizioni non rimane che l’elemento «razza» cioè una entità imponderabile e che d’altronde può essere rivendicato da tutti i paesi e che in ultima analisi si confonde con la così detta «natura umana».

Si può dunque chiamare nazionale l’individuo che è conseguenza della realtà concreta nazionale e che inizia una fase determinata dell’operosità pratica o teorica nazionale.

Bisognerebbe poi mettere in luce che una nuova scoperta che rimane cosa inerte non è un valore: l’«originalità» consiste tanto nello «scoprire» quanto nell’«approfondire» e nello «sviluppare» e nel «socializzare», cioè nel trasformare in elemento di civiltà universale: ma appunto in queti campi si manifesta l’energia nazionale, che è collettiva, che è l’insieme dei rapporti interni di una nazione.

Altre culture

Q 6 §32 Noterelle di cultura indiana. Dall’intervista di F. Lefèvre con Aldous Huxley (nelle «Nouvelles Littéraires» del 1° novembre 1930):<7

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«Qu’est‑ce que vous pensez des révoltes et de tout ce qui se passe aux Indes? – Je pense qu’on y a commencé la civilisation du mauvais côté. On a créé des hautes universités, on n’a pas fondé d’écoles primaires. On a cru qu’il suffisait de donner des lumières à une caste et qu’elle pourrait ensuite élever les masses, mais je ne vois pas que les résultats obtenus aient été très heureux. Ces gens qui ont bénéficié de la civilisation occidentale sont tous chattryas ou brahmanes. Une fois instruits, ils demeurent sans travail et deviennent dangereux. Ce sont eux qui veulent prendre le gouvernement. C’est en visitant les Indes que j’ai le mieux compris la différence qu’il pouvait y avoir au moyen âge entre un vilain et un cardinal. L’Inde est un pays où la supériorité de droit divin est ancore acceptée par les intouchables qui reconnaissent eux‑mêmes leur indignité».

C’è qualcosa di vero, ma quanto poco. Come creare le scuole elementari per le masse indiane senza aver creato il personale adeguato: e per creare questo non bisognerà rivolgersi inizialmente alle classi intellettuali già esistenti? E poi, il solo fatto che dei gruppi intellettuali sono disoccupati, può creare una situazione come quella indiana? (Ricordare la famigerata teoria di Loria sugli intellettuali disoccupati). Questi intellettuali sono «isolati» o non sono piuttosto divenuti l’espressione delle classi medie e industriali che lo sviluppo economico ha prodotto nell’India?

Passato e presente

Q 6 §198 Passato e presente. «Sollecitare i testi». Cioè far dire ai testi, per amor di tesi, più di quanto i testi realmente dicono. Questo errore di metodo filologico si verifica anche all’infuori della filologia, in tutte le analisi e gli esami delle manifestazioni di vita. Corrisponde, nel diritto penale, a vendere a meno peso e di differente qualità da quelli pattuiti, ma non è ritenuto crimine, a meno che non sia palese la volontà di ingannare: ma la trascuratezza e l’incompetenza non meritano sanzione, almeno una sanzione intellettuale e morale se non giudiziaria?

Q 6 §10 Passato e presente. Nella «Critica» del 20 novembre 1930, in una recensione dei Feinde Bismarcks di Otto Westphal, B. Croce scrive che «il motivo del favore che incontrano i volumi» del Ludwig «e i molti altri simili ai suoi nasce da… un certo indebolimento e infrivolimento mentale, che la guerra ha prodotto nel mondo». Cosa può significare questa affermazione? Ad analizzarla, essa non significa nulla, proprio nulla. Mi pare che il fenomeno possa essere spiegato in modo più realistico: nel dopo guerra è affiorato al mondo della cultura e dell’interesse per la storia uno strato sociale abbastanza importante, del quale gli scrittori tipo Ludwig sono l’espressione letteraria.

Il fenomeno Ludwig significa progresso o regresso intellettuale? Mi pare che indichi progresso, purché il giudizio sia inteso esattamente: i lettori attuali della «bellettristica storica» (secondo l’espressione del Croce) corrispondono a quegli elementi sociali che nel passato leggevano i romanzi storici, apprendevano la storia nei romanzi del Dumas, dell’Hugo, ecc. Perciò mi pare che ci sia stato «progresso».

Perché si possa parlare di indebolimento mentale e di infrivolimento bisognerebbe che fosse sparita la storia degli storici, ma ciò non è: forse avviene il contrario, che cioè anche la storia seria sia oggi più letta, come dimostra, in Italia almeno, il moltiplicarsi delle collezioni storiche (cfr la collezione Vallecchi e della «Nuova Italia», per esempio).

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Anche i libri storici del Croce sono oggi più letti di quello che sarebbero stati prima della guerra: c’è oggi più interesse intellettuale per la politica e quindi per la storia negli strati piccolo borghesi, che immediatamente soddisfano le loro esigenze con la «bellettristica storica». Un fatto però è certo: che cioè nell’organizzazione della cultura, la statura relativa degli «storici serii» è diminuita per l’entrata in campo dei Ludwig e C.: il Croce esprime il rammarico per questo fatto, che rappresenta una «crisi d’autorità» nella sfera della scienza e dell’alta cultura. La funzione dei grandi intellettuali, se permane intatta, trova però un ambiente molto più difficile per affermarsi e svilupparsi: il grande intellettuale deve anch’egli tuffarsi nella vita pratica, diventare un organizzatore degli aspetti pratici della cultura, se vuole continuare a dirigere; deve democratizzarsi, essere più attuale: l’uomo del Rinascimento non è più possibile nel mondo moderno, quando alla storia partecipano attivamente e direttamente masse umane sempre più ingenti.

In realtà il fenomeno Ludwig e la «bellettristica storica» non sono novità del dopo guerra: questi fenomeni sono contenuti in nuce nel giornalismo, nel grande giornale popolare: precursori di Ludwig e C. sono gli articolisti di terza pagina, gli scrittori di bozzetti storici, ecc. Il fenomeno è dunque essenzialmente politico, pratico; appartiene a quella serie di movimenti pratici che il Croce abbraccia sotto la rubrica generale di «antistoricismo», che, analizzata da questo punto di vista, si potrebbe definire: – critica dei movimenti pratici che tendono a diventare storia, che non hanno ancora avuto il crisma del successo, che sono ancora episodi staccati e quindi «astratti», irrazionali, del movimento storico, dello sviluppo generale della storia mondiale.

Si dimentica spesso (e quando il critico della storia in fieri dimentica questo, significa che egli non è storico, ma uomo politico in atto) che in ogni attimo della storia in fieri c’è lotta tra razionale e irrazionale, inteso per irrazionale ciò che non trionferà in ultima analisi, non diventerà mai storia effettuale, ma che in realtà è razionale anch’esso perché è necessariamente legato al razionale, ne è un momento imprescindibile; che nella storia, se trionfa sempre il generale, anche il «particulare» lotta per imporsi e in ultima analisi si impone anch’esso in quanto determina un certo sviluppo del generale e non un altro.

Ma nella storia moderna, «particulare» non ha più lo stesso significato che aveva nel Machiavelli e nel Guicciardini, non indica più il mero interesse individuale, perché nella storia moderna l’«individuo» storico‑politico non è l’individuo «biologico» ma il gruppo sociale. Solo la lotta, col suo esito, e neanche col suo esito immediato, ma con quello che si manifesta in una permanente vittoria, dirà ciò che è razionale o irrazionale, ciò che è «degno» di vincere perché continua, a suo modo, e supera il passato.

L’atteggiamento pratico del Croce è un elemento per l’analisi e la critica del suo atteggiamento filosofico: ne è anzi l’elemento fondamentale: nel Croce filosofia e «ideologia» finalmente si identificano, anche la filosofia si mostra niente altro che uno «strumento pratico» di organizzazione e di azione: di organizzazione di un partito, anzi di una internazionale di partiti, e di una linea di azione pratica.

Il discorso di Croce al Congresso di filosofia di Oxford è in realtà un manifesto politico, di una unione internazionale dei grandi intellettuali di ogni nazione, specialmente dell’Europa; e non si può negare che questo possa diventare un partito importante che può avere una funzione non piccola. Si potrebbe già dire, così all’ingrosso, che già oggi si verifica nel mondo moderno un fenomeno simile a quello del distacco tra «spirituale» e «temporale» nel Medio Evo: fenomeno molto più complesso di quello d’allora, di quanto è diventata più complessa la vita moderna.

I raggruppamenti sociali regressivi e conservativi si riducono sempre più alla loro fase iniziale economica‑corporativa, mentre i raggruppamenti progressivi e innovatori si trovano ancora nella fase iniziale appunto economica‑corporativa; gli intellettuali tradizionali, staccandosi dal raggruppamento sociale al quale avevano dato finora la forma più alta e comprensiva e quindi la coscienza più vasta e perfetta dello Stato moderno, in realtà compiono un atto di incalcolabile portata storica: segnano e sanzionano la crisi statale nella sua forma decisiva.

Ma questi intellettuali non hanno né l’organizzazione chiesastica, né qualcosa che le rassomigli e in ciò la crisi moderna è aggravata in confronto alla crisi medioevale che si svolse per parecchi secoli, fino alla Rivoluzione francese quando il raggruppamento sociale che dopo il Mille fu la forza motrice economica dell’Europa, poté presentarsi come «Stato» integrale, con tutte le forze intellettuali e morali necessarie e sufficienti per organizzare una società completa e perfetta.

Oggi lo «spirituale» che si stacca dal «temporale» e se ne distingue come a se stante, è un qualcosa di disorganico, di discentrato, un pulviscolo instabile di grandi personalità culturali «senza Papa» e senza territorio. Questo processo di disintegrazione dello Stato moderno è pertanto molto più catastrofico del processo storico medioevale che era disintegrativo e integrativo nello stesso tempo, dato lo speciale raggruppamento che era il motore del processo storico stesso e dato il tipo di Stato esistito dopo il Mille in Europa, che non conosceva la centralizzazione moderna e si potrebbe chiamare più «federativo di classi dominanti» che Stato di una sola classe dominante.

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È da vedere in quanto l’«attualismo» di Gentile corrisponde alla fase statale positiva, a cui invece fa opposizione il Croce. L’«unità nell’atto» dà la possibilità al Gentile di riconoscere come «storia» ciò che per il Croce è antistoria. Per il Gentile la storia è tutta storia dello Stato; per il Croce è invece «etico‑politica», cioè il Croce vuole mantenere una distinzione tra società civile e società politica, tra egemonia e dittatura; i grandi intellettuali esercitano l’egemonia, che presuppone una certa collaborazione, cioè un consenso attivo e volontario (libero), cioè un regime liberale‑democratico. Il Gentile pone la fase corporativo ‑ economica come fase etica nell’atto storico: egemonia e dittatura sono indistinguibili, la forza è consenso senz’altro: non si può distinguere la società politica dalla società civile: esiste solo lo Stato e naturalmente lo Stato‑governo, ecc.

La stessa posizione contrastante che, nella sfera filosofica, si verifica tra Croce e Gentile, si verifica nel campo dell’economia politica tra Einaudi e i discepoli di Gentile (cfr la polemica Einaudi‑BeniniSpirito in «Nuovi Studi» del 1930); il concetto di cittadino‑funzionario dello Stato proprio dello Spirito discende direttamente dalla mancata divisione tra società politica e società civile, tra egemonia politica e governo politico‑statale, in realtà quindi dalla antistoricità o astoricità della concezione dello Stato che è implicita nella concezione dello Spirito, nonostante le sue affermazioni perentorie e i suoi sbraitamenti polemici. Lo Spirito non vuole riconoscere che per il fatto che ogni forma di proprietà è legata allo Stato, anche per gli economisti classici lo Stato interviene in ogni momento nella vita economica, che è un tessuto continuo di passaggi di proprietà. La concezione dello Spirito, concretamente, rappresenta un ritorno alla pura economicità, che egli rimprovera ai suoi contradditori.

È interessante notare che in questa concezione è contenuto l’«americanismo», poiché l’America non ha ancora superato la fase economica‑corporativa, attraversata dagli Europei nel Medio Evo, cioè non ha ancora creato una concezione del mondo e un gruppo di grandi intellettuali che dirigano il popolo nell’ambito della società civile: in questo senso è vero che l’America è sotto l’influsso Europeo, della storia europea. (Questa quistione della forma‑fase statale degli Stati Uniti è molto complessa, ma il nocciolo della quistione mi pare proprio questo).

Q 6 §31 Passato e presente. Dal libro Mi pare… di Prezzolini: «L’irreligiosità moderna è una nuova freschezza di spirito, un atto morale, una liberazione. L’irreligiosità è una difficoltà, un carico, un obbligo, un dovere maggiore.

In questo senso ci rende nobili. È l’emulazione con la virtù passata. Noi, irreligiosi, possiamo e dobbiamo essere da tanto quanto gli uomini passati, religiosi. Anzi di più; o meglio: diversamente».

Q 6 §45 Passato e presente. Un pensiero del Guicciardini: «Quanto s’ingannano coloro che ad ogni parola allegano e’ Romani. Bisognerebbe avere una città condizionata come era la loro, e poi governarsi secondo quello esempio; il quale, a chi ha le qualità disproporzionate, è tanto disproporzionato quanto sarebbe volere che un asino facesse il corso di un cavallo». (È nei Ricordi?; cercare e controllare).

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Franco Ciarlantini nel 1929 (forse in «Augustea») ha domandato agli scrittori italiani se essi pensino che, per far valere la cultura italiana nel mondo, convenga piuttosto l’apologia senza riserve o la critica sincera. Problema caratteristico.

Q 6 §47 Passato e presente. Ricordare il libretto di un certo Ghezzi o Ghersi forse Raoul?

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da me ricevuto alla fine del 23 o agli inizi del 24 (stampato a Torino) in cui si difendeva l’atteggiamento di Agnelli specialmente, ma anche di altri industriali nel 21‑22, si spiegava l’organizzazione finanziaria della «Stampa» e della «Gazzetta del Popolo» ecc. Era scritto molto male letterariamente ma conteneva alcuni dati interessanti sulla organizzazione della vita industriale torinese.

Q 6 §55 Passato e presente. Arturo Calza, il «Farmacista» del «Giornale d’Italia» con Bergamini e Vettori.

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Cominciò a scrivere nella Nuova Antologia con lo pseudonimo di Diogene Laerzio le sue note melense e zuppificatrici; poi apparve il suo nome vero di Arturo Calza. Nella Nuova Antologia del 1° febbraio 1930 scrisse una delle solite note tetramente sciocche: La «questione dei giovani» e il manifesto dell’«Universalismo»; fu attaccato da «Critica fascista» che ricordò il suo passato bergaminiano e il sen. Tittoni pensò bene di disfarsene sui due piedi. La rubrica almeno fu abolita, sostituita da brevi riassunti di articoli di rivista che per la scempiaggine potrebbero essere anche scritti dal Calza: sono firmati XXX, ma forse sono dovuti al Marchetti‑Ferranti.

(Il Calza scrisse l’ultima nota nella Nuova Antologia del 16 febbraio seguente: vedere quando apparve l’attacco della «Critica Fascista»).

Q 6 §92 Passato e presente. Nel «19», rivista fascista diretta a Milano da Mario Giampaoli, è stato pubblicato nel 1927 (o prima o dopo; lessi l’articolo nel carcere di Milano) un articoluccio di Antonio Aniante,

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da cui appariva che l’Aniante, con qualche altro siciliano, aveva preso sul serio il programma, nato nel cervello di alcuni intellettuali sardi (C. Bell. e qualche altro: ricordo che Em. Lu. cercava di fare dimenticare l’episodio ridendone) di creare uno Stato federale mediterraneo che avrebbe dovuto comprendere: la Catalogna, le Baleari, Corsica e Sardegna, la Sicilia e Candia. L’Aniante ne scrive con un fare scemo da ammazzasette e bisogna far la tara nel suo racconto: per es. è credibile che egli sia stato mandato all’estero (a Parigi, mi pare) per incontrarsi con altri «congiurati»? E chi l’avrebbe mandato? E chi avrebbe dato i soldi?

Q 6 §102 Passato e presente. Contadini e vita della campagna.

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Elementi direttivi per una ricerca: condizioni materiali di vita: abitazione, alimentazione, alcoolismo, pratiche igieniche, abbigliamento, movimento demografico (mortalità, natalità, mortalità infantile, nuzialità, nascite illegittime, inurbamento, frequenza dei reati di sangue e altri reati non economici, litigiosità giudiziaria per quistioni di proprietà ipoteche, subaste per imposte non pagate, movimento della proprietà terriera, inventario agricolo, costruzioni di case rurali, reati di carattere economico, frodi, furti, falsi ecc., inurbamento di donne per servizi domestici emigrazione, popolazione passiva famigliare). Orientamento della psicologia popolare nei problemi della religione e della politica, frequenza scolastica dei fanciulli, analfabetismo delle reclute e delle donne.

Q 6 §117 Passato e presente. «Una resistenza che si prolunga troppo in una piazza assediata è demoralizzante di per se stessa. Essa implica sofferenze, fatiche, privazioni di riposo, malattie e la imminenzaNel ms una variante interlineare: «presenza». continua non già del pericolo acuto che tempra, ma del pericolo cronico che abbatte». Carlo Marx, Quistione Orientale, articolo del 14 settembre 1855 (Opere politiche, tomo VIII, p. 22).

Q 6 §131 Passato e presente. Caratteri. Etica e politica. È da notare la virulenza di certe polemiche tra uomini politici per il loro carattere personalistico e moralistico. Se si vuole diminuire o annientare l’influsso politico di una personalità o di un partito, non si tenta di dimostrare che la loro politica è inetta o nociva, ma che determinate persone sono canaglie, ecc., che non c’è «buona fede», che determinate azioni sono «interessate» (in senso personale e privato), ecc.

È una prova di elementarietà del senso politico, di livello ancor basso della vita nazionale; è dovuto al fatto che realmente esiste un vasto ceto che «vive» della politica in «mala fede» cioè senza avere convinzioni; è legato alla miseria generale, per cui facilmente si crede che un atto politico è dovuto a cause pecuniarie, ecc. «Inetto ma galantuomo», modi di dire curiosi in politica: si riconosce uno inetto, ma poiché lo si crede «galantuomo», ci si affida a lui; ma «inetto» in politica non corrisponde a «briccone» in morale?

È vero che le conseguenze di queste campagne moralistiche lasciano di solito il tempo che trovano, se non sono uno strumento per determinare l’opinione pubblica popolare ad accettare una determinata «liquidazione» politica, o a domandarla, ecc.

Q 6 §166 Passato e presente. Apoliticità. Aldo Valori, nel «Corriere della Sera» del 17 novembre 1931, pubblica un articolo (L’Esercito di una volta) sul libro di Emilio De Bono Nell’esercito italiano prima della guerra (Mondadori, 1931) che deve essere interessante, e riporta questo brano: «Si leggeva poco, poco i giornali, poco i romanzi, poco il “Giornale ufficiale” e le circolari di servizio… Nessuno si occupava di politica. Io, per esempio, mi ricordo di non aver mai badato alle crisi ministeriali, di aver saputo per puro caso il nome del Presidente del Consiglio… Ci interessavano i periodi elettorali perché davano diritto a dodici giorni di licenza per andare a votare. L’ottanta per cento però si godeva la licenza e non guardava le urne neppure in fotografia».

E il Valori osserva: «Può parere un’esagerazione e invece non è. Astenersi dalla politica non voleva dire estraniarsi dalla vita della Nazione, ma dagli aspetti più bassi della lotta fra partiti. Così comportandosi, l’Esercito rimase immune dalla degenerazione di molti altri pubblici istituti e costituì la grande riserva delle forze dell’ordine; il che era il modo più sicuro per giovare, anche politicamente, alla Nazione».

Questa situazione, per essere apprezzata, deve essere paragonata alle aspirazioni del Risorgimento per rispetto all’Esercito, di cui si può vedere un’espressione nel libro di Giulio Cesare Abba dedicato ai soldati, libro divenuto ufficiale, premiato, ecc. ecc. [Giuseppe Cesare Abba, Uomini e soldati. Letture per l'esercito e pel popolo, Zanichelli, Bologna 1890. L’Abba, con la sua corrente, pensava all’Esercito come a un istituto che doveva inserire le forze popolari nella vita nazionale e statale, in quanto l’Esercito rappresentava la nazione in armi, la forza materiale su cui poggiava il costituzionalismo e la rappresentanza parlamentare, la forza che doveva impedire i colpi di Stato e le avventure reazionarie: il soldato doveva diventare il soldato‑cittadino, e l’obbligo militare non doveva essere concepito come un servizio, ma invece attivamente, come l’esercizio di un diritto, della libertà popolare armata.

Utopie, evidentemente, perché, come appare dal libro del De Bono, si ricadde nell’apoliticismo, quindi l’esercito non fu che un nuovo tipo di esercito professionale e non di esercito nazionale, poiché questo e niente altro significa l’apoliticismo. Per le «forze dell’ordine» questo stato di cose era l’ideale: quanto meno il popolo partecipava alla vita politica statale, tanto più queste forze erano forze. Ma come giudicare dei partiti che continuavano il Partito d’Azione! E ciò che si dice dell’esercito si può estendere a tutto il personale impiegato dall’apparato statale, burocrazia, magistratura, polizia, ecc. Un’educazione «costituzionale» del popolo non poteva essere fatta dalle forze dell’ordine: essa era compito del Partito d'Azione, che fallì completamente ad esso; anzi fu un elemento per rincalzare l’atteggiamento delle forze dell’ordine.

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Per ciò che riguarda il De Bono è da osservare che verso il 18‑19 le opinioni del De Bono a proposito dei rapporti tra politica ed esercito non erano precisamente le stesse di ora: le sue note militari nel «Mondo» e una sua pubblicazione di quel tempo, in cui era vivo il ricordo degli insegnamenti dati dalla rotta di Caporetto, sarebbero da rivedere.

Q 6 §170 Passato e presente. Governi e livelli culturali nazionali. Ogni governo ha una politica culturale e può difenderla dal suo punto di vista e dimostrare di aver innalzato il livello culturale nazionale. Tutto sta nel vedere quale sia la misura di questo livello. Un governo può organizzare meglio l’alta cultura e deprimere la cultura popolare, e ancora: dell’alta cultura può organizzare meglio la sezione riguardante la tecnologia e le scienze naturali, paternalisticamente mettendo a sua disposizione somme di denaro come prima non si faceva, ecc.

Il criterio di giudizio può essere solo questo: un sistema di governo è repressivo o espansivo? e anche questo criterio deve essere precisato: un governo repressivo per alcuni aspetti, è espansivo per altri? Un sistema di governo è espansivo quando facilita e promuove lo sviluppo dal basso in alto, quando eleva il livello di cultura nazionale‑popolare e tende quindi possibile una selezione di «cime intellettuali» su più vasta area. Un deserto con un gruppo di alte palme è sempre un deserto: anzi è proprio del deserto avere delle piccole oasi con gruppi di alte palme.

Q 6 §176 Passato e presente. Il Memorandum storico-politico di Clemente Solaro della Margarita

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è stato ristampato nel 1930 (Torino, Bocca, pp. XX, 488, L. 20) per cura del «Centro di Studi monarchici» di Torino. Da chi sarà costituito questo centro? È forse una continuazione dell’«Associazione monarchica» di Giuseppe Brunati e C.? Ricordare che questa associazione aveva per organo il settimanale «Il Sovrano» che si pubblicava a Milano; verso il 1925 vi fu scissione e il Brunati pubblicò a Torino un settimanale «Il Sabaudo», che pubblicava degli articoli molto curiosi per gli operai (si giunse a pubblicare che solo il sovrano poteva realizzare il comunismo o qualcosa di questo genere).

Q 6 §194 Passato e presente. La riforma Gentile e la religione nelle scuole. Cfr l’articolo L’ignoto e la religione naturale secondo il senator Gentile, nella «Civiltà Cattolica» del 6 dicembre 1930. Si esamina la concezione del Gentile sulla religione, ma naturalmente gli si è grati per aver introdotto l’insegnamento della religione nella scuola.

Q 6 §203 Passato e presente. Lo Stato e i funzionari. Un’opinione diffusa è questa: che mentre per i cittadini l’osservanza delle leggi è un obbligo giuridico, per lo «Stato» l’osservanza è solo un obbligo morale, cioè un obbligo senza sanzioni punitive per l’evasione. Si pone la quistione: che cosa si intende per «Stato», cioè chi ha solo l’obbligo «morale» di osservare la legge e non si finisce mai di constatare quanta gente crede di non avere obblighi «giuridici» e di godere dell’immunità e dell’impunità. Questo «stato d’animo» è legato a un costume o ha creato un costume? L’una cosa e l’altra sono vere. Cioè lo Stato, in quanto legge scritta permanente, non è stato mai concepito (e fatto concepire) come un obbligo oggettivo e universale.

Questo modo di pensare è legato alla curiosa concezione del «dovere civico» indipendente dai «diritti», come se esistessero doveri senza diritti e viceversa: questa concezione è legata appunto all’altra della non obbligatorietà giuridica delle leggi per lo Stato, cioè per i funzionari e agenti statali i quali pare abbiano troppo da fare per obbligare gli altri perché rimanga loro tempo di obbligare se stessi.

Americanismo e fordismo

Q 6 §49 Americanismo. Ancora Babbitt. Il piccolo borghese europeo ride di Babbitt e quindi ride dell’America, che sarebbe popolata di 120 milioni di Babbitt. Il piccolo borghese non può uscire da se stesso, comprendere se stesso come l’imbecille non può comprendere di essere imbecille (senza dimostrare con ciò di essere un uomo intelligente) per cui sono imbecilli quelli che non sanno di esserlo e sono piccoli borghesi i filistei che non sanno di esserlo. Il piccolo borghese europeo ride del particolare filisteismo americano, ma non si accorge del proprio, non sa di essere il Babbitt europeo, inferiore al Babbitt del romanzo del Lewis, in quanto questo cerca di evadere, di non essere più Babbitt; il Babbitt europeo non lotta col suo filisteismo ma ci si crogiola e crede che il suo verso, e il suo qua‑qua da ranocchio infisso nel pantano sia un canto da usignolo. Nonostante tutto, Babbitt è il filisteo di un paese in movimento, il piccolo borghese europeo è il filisteo di paesi conservatori, che imputridiscono nella palude stagnante del luogo comune della grande tradizione e della grande cultura. Il filisteo europeo crede di aver scoperto l’America con Cristoforo Colombo e che Babbitt sia un pupazzo per il suo divertimento di uomo gravato da millenni di storia. Intanto nessuno scrittore europeo è stato capace di rappresentarci il Babbitt europeo, cioè di dimostrarsi capace di autocritica: appunto è imbecille e filisteo solo chi sa di non esserlo.

Q 6 §135 Passato e presente. Il fordismo. A parte il fatto che gli alti salari non rappresentano nella pratica industriale del Ford ciò che Ford teoricamente vuol far loro significare (cfr note sul significato essenziale degli alti salari come mezzo per selezionare una maestranza adatta al fordismo sia come metodo di produzione e di lavoro, sia come sistema commerciale e finanziario: necessità di non avere interruzioni nel lavoro, quindi open shop, ecc.) è da notare: in certi paesi di capitalismo arretrato e di composizione economica in cui si equilibrano la grande industria moderna, l’artigianato, la piccola e media cultura agricola e il latifondismo, le masse operaie e contadine non sono considerate come un «mercato».

Il mercato per l’industria è pensato all’estero, e in paesi arretrati dell’estero, dove sia più possibile la penetrazione politica per la creazione di colonie e di zone d’influenza. L’industria, col protezionismo interno e i bassi salari, si procura mercati all’estero con un vero e proprio dumping permanente.

Paesi dove esiste nazionalismo, ma non una situazione «nazionale-popolare», dove cioè le grandi masse popolari sono considerate come il bestiame. Il permanere di tanto ceto artigianesco industriale in alcuni paesi non è appunto legato al fatto che le grandi masse contadine non sono considerate un mercato per la grande industria, la quale ha prevalentemente un mercato estero? E la così detta rinascita o difesa dell’artigianato non esprime appunto la volontà di mantenere questa situazione ai danni dei contadini più poveri, ai quali è precluso ogni progresso?

Q 6 §191 America e massoneria. Cfr lo studio: La Massoneria americana e la riorganizzazione della Massoneria in Europa, pubblicato nella «Civiltà Cattolica» del 1° novembre 1930 e 3 gennaio 1931. Lo studio è molto interessante e pare abbastanza oggettivo. La situazione internazionale attuale della Massoneria, con le sue lotte interne eredità della guerra (Francia contro Germania), risalta in modo chiaro.

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Dopo la guerra fu fondata l’«Association Maçonnique Internationale» con sede a Ginevra, per impulso della massoneria franco‑belga, il cui scopo era di riorganizzare le forze. Il primo problema era di ricondurre la massoneria tedesca e anglosassone sotto la guida della massoneria franco-belga, sotto il patrocinio della massoneria americana. Sull’A.M.I. il padre Pirri (che è lo scrittore di quistioni massoniche della «Civiltà Cattolica») ha pubblicato un opuscolo di estratti dalla rivista. Pare che l’A.M.I. sia fallita completamente, e gli americani abbiano ritirato il loro patrocinio alla Francia. A questa iniziativa i tedeschi risposero ampliando le basi di una «Esperanto Framasona» esistente già prima della guerra e riorganizzata come «Universala Framasona Ligo» (Allgemeine Freimaurerliga), che sulla base della diffusione dell’Esperanto volle creare un nuovo tipo di massoneria agnostica nelle quistioni di religione e di politica (la Massoneria francese è illuministica e democratica).

La Massoneria americana pare aiuti ora i massoni tedeschi (di Germania e Austria) contro il Grande Oriente francese. Ossian Lang, massone americano, viaggia continuamente in Europa per questo lavoro di organizzazione. (Ricordare che la massoneria americana è molto ricca e può finanziare queste iniziative. La «Ligo» si diffonde in tutta Europa: essa pare si mostri più conciliante e tollerante verso il Cattolicismo della vecchia massoneria tipo francese. Su questo atteggiamento che dette luogo a un incontro di tre rappresentanti della «Ligo» col gesuita padre Gruber, studioso di quistioni massoniche, la «Civiltà Cattolica» si diffonde e di questa parte occorre ricordarsi, perché ha un certo valore per la storia della cultura. Rito Simbolico e Rito Scozzese: pare che il Rito Simbolico sia più forte nei paesi latini e il Rito Scozzese nei paesi anglosassoni, quindi tutta questa attività americana porterebbe a rafforzare la Massoneria di Rito Scozzese.

Scuola e Educazione

Q 6 §179 Passato e presente. La scuola professionale. Nel novembre 1931 si è svolta alla Camera dei Deputati un’ampia discussione sull’insegnamento professionale e in essa tutti gli elementi teorici e pratici per lo studio del problema sono affiorati in modo abbastanza perspicuo e organico.

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Tre tipi di scuola: 1) professionale, 2) media tecnica, 3) classica. La prima per gli operai e contadini, la seconda per i piccoli borghesi, la terza per la classe dirigente.

La quistione si è svolta sull’argomento se le scuole professionali devono essere strettamente pratiche e fine a se stesse, tanto da non dare possibilità di passaggio non solo alla scuola classica ma neanche a quella tecnica. La larghezza di vedute è consistita nell’affermazione che deve essere data la possibilità del passaggio alla scuola tecnica (il passaggio a quella classica è stato escluso a priori da tutti). (Il problema è legato all’organico militare: un soldato può diventare sottufficiale? e se il soldato può diventare sottufficiale, può diventare ufficiale subalterno, ecc.? e a ogni organico in generale: nella burocrazia, ecc.).

Sarebbe interessante ricostruire la storia delle scuole professionali e tecniche nelle discussioni parlamentari e nelle discussioni dei principali Consigli municipali, dato che alcune delle maggiori scuole professionali sono state fondate dai Municipi oppure da lasciti privati, amministrati o controllati o integrati sui bilanci municipali. Lo studio delle scuole professionali collegato alla coscienza delle necessità della produzione e dei suoi sviluppi. Scuole professionali agrarie: un capitolo molto importante: molte iniziative private (ricordare le scuole Faina nell’Abruzzo e in Italia Centrale). Scuole agrarie specializzate (per la vinicultura, ecc.). Scuole agrarie per medi e piccoli proprietari, per creare cioè capi azienda o direttori d’azienda: ma è esistito un tipo di scuola agraria professionale, cioè diretta alla creazione dell’operaio agrario specializzato?

Q 6 §206 Quistioni scolastiche. Cfr l’articolo Il facile e il difficile di Metron nel «Corriere della Sera» del 7 gennaio 1932.

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Metron fa due osservazioni interessanti (riferendosi ai corsi d’ingegneria e agli esami di Stato per gli ingegneri): 1) Che durante il corso l’insegnante parla per cento e lo studente assorbe per uno o due. 2) Che negli esami di Stato i candidati sanno rispondere alle quistioni «difficili» e falliscono nelle quistioni «facili».

Metron non analizza però esattamente le ragioni di questi due problemi e non indica nessun rimedio «tendenziale». Mi pare che le due deficienze siano legate al sistema scolastico delle lezioni‑conferenze senza «seminario» e al carattere tradizionale degli esami che ha creato una psicologia tradizionale degli esami.

Appunti e dispense. Gli appunti e le dispense si fermano specialmente sulle quistioni «difficili»: nell’insegnamento stesso si insiste sul «difficile», nell’ipotesi di una attività indipendente dello studente per le «cose facili». Quanto più si avvicinano gli esami tanto più si riassume la materia del corso, fino alla vigilia, quando si «ripassano» solo appunto le quistioni più difficili: lo studente è come ipnotizzato dal difficile, tutte le sue facoltà mnemoniche e la sua sensibilità intellettuale si concentrano sulle quistioni difficili, ecc.

Per l’assorbimento minimo: il sistema delle lezioni‑conferenze porta l’insegnante a non ripetersi o a ripetersi il meno possibile: le quistioni sono così presentate solo entro un quadro determinato, ciò che le rende unilaterali per lo studente. Lo studente assorbe uno o due del cento detto dall’insegnante; ma se il cento è formato di cento unilateralità diverse, l’assorbimento non può essere che molto basso.

Un corso universitario è concepito come un libro sull’argomento: ma si può diventare colti con la lettura di un solo libro? Si tratta quindi della quistione del metodo nell’insegnamento universitario: all’Università si deve studiare o studiare per saper studiare? Si devono studiare «fatti» o il metodo per studiare i «fatti»? La pratica del «seminario» dovrebbe appunto integrare e vivificare l’insegnamento orale.

Scienza

Q 6 §165 Nozioni enciclopediche. Scienza e scientifico. Il Dubreuil, nel libro Standards1 nota giustamente che l’aggettivo «scientifico» tanto usato per accompagnare le parole: Direzione scientifica del lavoro, Organizzazione scientifica, ecc., non ha il significato pedantesco e minaccioso che molti gli attribuiscono, ma non spiega poi esattamente come debba essere inteso. In realtà scientifico significa «razionale» e più precisamente «razionalmente conforme al fine» da raggiungere, cioè di produrre il massimo col minimo sforzo, di ottenere il massimo di efficienza economica, ecc. razionalmente scegliendo e fissando tutte le operazioni e gli atti che conducono al fine.

L’aggettivo «scientifico» è oggi adoperato estensivamente, ma sempre il suo significato può essere ridotto a quello di «conforme al fine», in quanto tale «conformità» sia razionalmente (metodicamente) ricercata dopo un’analisi minutissima di tutti gli elementi (fino alla capillarità) costitutivi e necessariamente costitutivi (eliminazione degli elementi emotivi compresa nel calcolo).

Note

Q 6 §180 Nozioni enciclopediche. «Scientifico». Che cosa è «scientifico»? L’equivoco intorno ai termini «scienza» e «scientifico» è nato da ciò che essi hanno assunto il loro significato da un gruppo determinato di scienze e precisamente dalle scienze naturali e fisiche. Si chiamò «scientifico» ogni metodo che fosse simile al metodo di ricerca e di esame delle scienze naturali, divenute le scienze per eccellenza, le scienze‑feticcio. Non esistono scienze per eccellenza e non esiste un metodo per eccellenza, «un metodo in sé». Ogni ricerca scientifica si crea un metodo adeguato, una propria logica, la cui generalità e universalità consiste solo nell’essere «conforme al fine».

La metodologia più generica e universale non è altro che la logica formale o matematica, cioè l’insieme di quei congegni astratti del pensiero che si sono venuti scoprendo, depurando, raffinando attraverso la storia della filosofia e della cultura. Questa metodologia astratta, cioè la logica formale, è spregiata dai filosofi idealisti ma erroneamente: il suo studio corrisponde allo studio della grammatica, cioè corrisponde non solo a un approfondimento delle esperienze passate di metodologia del pensiero (della tecnica del pensiero), a un assorbimento della scienza passata, ma è una condizione per lo sviluppo ulteriore della scienza stessa.

Studiare il fatto per cui la «logica» formale è diventata sempre più una disciplina legata alle scienze matematiche – Russell in Inghilterra, Peano in Italia – fino ad essere elevata, come dal Russell, alla pretesa di «sola filosofia» reale.

Il punto di partenza potrebbe essere preso dall’affermazione di Engels in cui «scientifico» è contrapposto a «utopistico»; il sottotitolo della «Critica Sociale» del Turati ha lo stesso significato che in Engels? Certo no; per Turati «scientifico» si avvicina al significato di «metodo proprio alle scienze fisiche» (il sottotitolo sparì a un certo punto: vedere quando; certo già nel 1917) e anche questo in senso molto generico e tendenzioso.

Ant.: La Scienza nei Quaderni

Nozioni enciclopediche

Q 6 §3 Nozioni enciclopediche. Il naso di Cleopatra. Cercare il senso esatto che Pascal dava a questa sua espressione divenuta tanto famosa (Pascal ne parla nelle Pensées) e il suo legame con le opinioni generali dello scrittore francese. (Caducità e frivolità della storia degli uomini, pessimismo giansenistico, ecc.).

Q 6 §11 Nozioni enciclopediche. Libertà‑disciplina. Al concetto di libertà si dovrebbe accompagnare quello di responsabilità che genera la disciplina e non immediatamente la disciplina, che in questo caso si intende imposta dal di fuori, come limitazione coatta della libertà. Responsabilità contro arbitrio individuale: è sola libertà quella «responsabile» cioè «universale», in quanto si pone come aspetto individuale di una «libertà» collettiva o di gruppo, come espressione individuale di una legge.

Q 6 §15 Nozioni enciclopediche. «Spesso ciò che la gente chiama intelligenza, non è che la facoltà di intendere le verità secondarie a scàpito delle verità fondamentali». «Cìò che maggiormente può farci disperati degli uomini è la frivolità». (Due aforismi di Ugo Bernasconi nel «Pègaso» dell’agosto 1930: Parole alla buona gente).

Questa intelligenza è chiamata anche «talento» genericamente ed è palese in quella forma di polemica superficiale, dettata dalla vanità di parere indipendenti e di non accettare l’autorità di nessuno, per cui si cerca di contrapporre, come obbiezioni, a una verità fondamentale, tutta una serie di verità parziali e secondarie.

La «frivolità» spesso è da vedere nella goffaggine seriosa: anzi si chiama «frivolìtà» in certi intellettuali e nelle donne ciò che in politica, per esempio, è appunto la goffaggine e il provincialismo meschino.

Q 6 §19 Nozioni enciclopediche. Sulla verità ossia sul dire la verità in politica. È opinione molto diffusa in alcuni ambienti (e questa diffusione è un segno della statura politica e culturale di questi ambienti) che sia essenziale dell’arte politica il mentire, il sapere astutamente nascondere le proprie vere opinioni e i veri fini a cui si tende, il saper far credere il contrario di ciò che realmente si vuole ecc. ecc. L’opinione è tanto radicata e diffusa che a dire la verità non si è creduti. Gli italiani in genere sono all’estero ritenuti maestri nell’arte della simulazione e dissimulazione, ecc.

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Ricordare l’aneddoto ebreo: «Dove vai?», domanda Isacco a Beniamino. «A Cracovia», risponde Beniamino. «Bugiardo che sei! Tu dici di andare a Cracovia perché io creda invece che tu vada a Lemberg; ma io so benissimo che vai a Cracovia: che bisogno c’è dunque di mentire?». In politica si potrà parlare di riservatezza, non di menzogna nel senso meschino che molti pensano: nella politica di massa dire la verità è una necessità politica, precisamente.

Note

Q 6 §30 Nozioni enciclopediche. L’affermazione che «non si può distruggere, senza creare» è molto diffusa. L’ho letta, già prima del 1914, nell’«Idea nazionale», che pure era un bric‑à‑brac di banalità e luoghi comuni. Ogni gruppo o gruppetto che crede di essere portatore di novità storiche (e si tratta di vecchierie con tanto di barba) si afferma dignitosamente distruttore‑creatore. Bisogna togliere la banalità all’affermazione divenuta banale. Non è vero che «distrugga» chiunque vuol distruggere. Distruggere è molto difficile, tanto difficile appunto quanto creare. Poiché non si tratta di distruggere cose materiali, si tratta di distruggere «rapporti» invisibili, impalpabili, anche se si nascondono nelle cose materiali. È distruttore‑creatore chi distrugge il vecchio per mettere alla luce, fare affiorare il nuovo che è divenuto «necessario» e urge implacabilmente al limitare della storia. Perciò si può dire che si distrugge in quanto si crea. Molti sedicenti distruttori non sono altro che «procuratori di mancati aborti», passibili del codice penale della storia.

Q 6 §39 Nozioni enciclopediche. L’affermazione di Paolo Bourget fatta al principio della guerra (mi pare, perché forse anche prima) che i quattro pilastri dell’Europa erano: il Vaticano, lo Stato Maggiore prussiano, la Camera dei Lords inglesi, l’Accademia francese. Il Bourget dimenticava lo zarismo russo che era il maggiore pilastro, l’unico che avesse resistito durante la Rivoluzione francese e Napoleone e durante il 48.

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>Bisognerebbe vedere con esattezza dove e quando il Bourget fece tale affermazione e in che termini precisi. Forse il Bourget stesso ebbe vergogna di mettere in serie lo zarismo russo. Si potrebbe prendere lo spunto di questa proposizione del Bourget per trattare della funzione che ebbe la Russia nella storia europea: essa difese l’Europa occidentale dalle invasioni tartariche, fu un antemurale tra la civiltà europea e il nomadismo asiatico, ma questa funzione divenne presto reazionaria e conservativa. Con la sua sterminata popolazione composta di tante nazionalità, era sempre possibile alla Russia organizzare eserciti imponenti di truppe assolutamente inattaccabili dalla propaganda liberale da gettare contro i popoli europei: ciò avvenne nel 48, lasciando una sedimentazione ideologica che ancora operava nel 1914 (rullo compressore, i cosacchi, che distruggeranno l’Università di Berlino, ecc.). Molti non riescono a calcolare quale mutamento storico sia avvenuto in Europa nel 1917 e quale libertà abbiano conquistato i popoli occidentali.

Q 6 §53 Nozioni enciclopediche. La vecchia massima inglese: «no representation without labour» ricordata da Augur (Britannia, quo vadis?, Nuova Antologia 16 gennaio 1930) per sostenere che bisognerebbe togliere il voto ai disoccupati per risolvere il problema della disoccupazione (cioè perché si formi un governo che riduca al minimo il fondo della disoccupazione): quando è stata praticata, da chi, come? e come la si intendeva?

Q 6 §93 Nozioni enciclopediche. Teocrazia, cesaropapismo, ierocrazia. Non sono la stessa precisa cosa: 1) teocrazia, unita all’idea del comando per grazia di Dio; 2) cesaropapismo: l’imperatore è anche capo della religione, sebbene il carattere laico‑militare predomini in lui; 3) ierocrazia è il governo dei religiosi, cioè nel comando predomina il carattere sacerdotale: quella del papa è una ierocrazia.

Q 6 §130 Nozioni enciclopediche. Congiuntura. Origine dell’espressione: serve a capire meglio il concetto. In italiano = fluttuazione economica. Legata ai fenomeni del dopoguerra molto rapidi nel tempo. (In italiano il significato di «occasione economica favorevole o sfavorevole» rimane alla parola «congiuntura»; differenza tra «situazione» e «congiuntura»: la congiuntura sarebbe il complesso dei caratteri immediati e transitori della situazione economica, e per questo concetto bisognerebbe allora intendere i caratteri più fondamentali e permanenti della situazione stessa. Lo studio della congiuntura quindi legato più strettamente alla politica immediata, alla «tattica» e all’agitazione, mentre la «situazione» alla «strategia» e alla propaganda, ecc.)

Q 6 §167 Nozioni enciclopediche. Bog e bogati. È stato osservato in qualche posto che le relazioni tra Bog e bogati sono una coincidenza fortuita dello sviluppo linguistico di una determinata cultura nazionale. Ma il fatto non è esatto. Nelle lingue neo‑latine è apparso il vocabolo germanico «ricco» a turbare il rapporto che in latino esisteva tra «deus» «dives» e «divites» «divitia» (dovizia, dovizioso, ecc.). In un articolo di Alessandro Chiappelli, Come s’inquadra il pensiero filosofico nell’economia del mondo, (Nuova Antologia del 1° aprile 1931) si possono spulciare elementi per mostrare che in tutto il mondo occidentale, a differenza di quello asiatico (India), la concezione di Dio è strettamente connessa con la concezione di proprietà e di proprietario: «… (il) concetto di proprietà come è il centro di gravità e la radice di tutto il nostro sistema giuridico, così è l’ordito di tutta la nostra struttura civile e morale. Persino il nostro concetto teologico è foggiato spesso su questo esemplare, e Dio è rappresentato talora come il grande proprietario del mondo. La ribellione contro Dio nel Paradiso perduto del Milton, come già nel poema di Dante, è figurata come il temerario tentativo di Satana o di Lucifero di spodestare l’onnipotente e di deporlo dal suo altissimo trono.

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Un acuto collaboratore, anzi il direttore, un tempo, dell’«Hibbert Journal» (Jacks, The Universe as Philosopher, in «Hibbert Journal», oct. 1917, p. 26) narrava d’aver assistito ad una conferenza in cui la prova dell’esistenza di Dio era ricavata dalla necessità di postulare un proprietario o possessore del mondo. Come si può mai credere che una proprietà sì vasta, sì eletta e fruttifera non appartenga ad alcuno? È in sostanza la stessa domanda che fa, parlando a sé medesimo, nel sublime monologo, il Pastore errante nell’Asia del Leopardi. Che ci sia stata o no, una prima causa del mondo, può rimaner dubbio. Ma la necessità di un primo possessore deve apparire manifesta e indubitabile». Il Chiappelli dimentica che anche nel Credo Dio è detto «creatore e signore (dominus: padrone, proprietario) del cielo e della terra».

Q 6 §184 Nozioni enciclopediche. Reliquie dell’organizzazione corporativa medioevale:

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1) La compagnia della Caravana a Genova tra i lavoratori del porto; su di essa deve esistere una certa letteratura; 2) A Ravenna esiste ancora la così detta «Casa Matha», reliquia di una «Schola piscatoria» che risalirebbe a prima dell’anno Mille. Matha deriverebbe dal greco mahkeis, «stuoia», e ricorderebbe le capanne di stuoia di canne palustri dove trovavano riparo i primi pescatori della Ravenna bizantina. Della «Società degli Uomini della Casa Matha» tratterebbe uno storico Bard: l’annalista ravennate Agnello ricorderebbe la Schola piscatoria per il 733 (ma è la stessa?); L. A. Muratori la menzionerebbe per il 943 (ma è la stessa cosa?). La Società degli Uomini della Casa Matha ha statuti che rimontano al 1304: il presidente si chiama «Primo Massaro». Nel 1887 furono rinnovati gli Statuti che abolirono le cerimonie religiose con cui si aprivano le adunanze. Una norma statutaria fissa che appena aperta l’adunanza si chiudano le porte per impedire a ritardatari (che saranno multati) di sopraggiungere e ai presenti di allontanarsi prima della fine dei lavori. Oggi i soci si dividono in «ordinari» e del «grembiule» (pescivendoli e pescatori) e sono in tutto 150. Oggi la Società amministra una scuola nautica che assorbe la maggior parte delle rendite sociali, ma continua l’opera di assistenza.

Una ricerca sulla lingua delle organizzazioni operaie prima della costituzione della C.G.L.: il termine «console» per esempio, ecc. che era mantenuto nei primi «fasci» operai del Partito operaio, ecc.

Q 6 §185 Nozioni enciclopediche. Consiglio di Stato.

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Doppio significato del termine. In Italia il Consiglio di Stato ha preso il significato di organismo giudiziario per gli affari amministrativi. Ma non a questo significato si riferiscono i pubblicisti inglesi quando polemizzano sulla quistione se il Parlamento (Camera dei deputati) possa e debba trasformarsi in un Consiglio di Stato: essi si riferiscono alla quistione del parlamentarismo come regime dei partiti o al parlamentarismo che debba essere ridotto a un corpo legislativo in regime puramente costituzionale, con l’equilibrio dei poteri rotto a profitto della corona o del potere esecutivo in generale, cioè ridotto alla funzione dei Consigli di Stato in regime di assolutismo monarchico o dittatoriale di destra. In Italia una traccia del vecchio istituto del Consiglio di Stato lo si può trovare nel Senato, che non è una Camera dell’aristocrazia (come in Inghilterra), non è elettivo sia pure in forme indirette come in Francia e altrove, ma è nominato dal potere esecutivo tra gente ligia al potere di una forza determinata per arginare l’espansione democratica e l’intervento popolare negli affari.

Q 6 §205 Nozioni enciclopediche. Azione diretta. Diversi significati secondo le tendenze politiche e ideologiche. Significato degli «individualisti» e degli «economisti», con significati intermedi. Il significato degli «economisti» o sindacalisti di varie tendenze (riformisti, ecc.) è quello che ha dato la stura ai vari significati, fino a quello dei puri «criminali».

Bibliografia

Q 6 §37 Passato e presente. Sulle condizioni recenti della scuola e degli studi in Italia occorre vedere gli articoli di Mario Missiroli nell’«Italia Letteraria» del 1929.

Q 6 §66 Machiavelli. Gino Arias, Il pensiero economico di Niccolò Machiavelli. (Negli «Annali di Economia» dell’Università Bocconi del 1928 (o 27?).

Q 6 §83 Intellettuali italiani. Cfr P. H. Michel, La Pensée de L. B. Alberti (1404‑1472). Collection de littérature générale, 40 franchi, Ed. Les Belles Lettres, Parigi.

Q 6 §95 Cultura italiana. Regionalismo. Cfr Leonardo Olschki, Kulturgeografie Italiens, in «Preussische Jahrbücher» gennaio 1927, pp. 19‑36. Il «Leonardo» del febbraio 1927 lo giudica: «Vivace e assai ben fatto studio del regionalismo italiano, dei suoi aspetti presenti e delle sue origini storiche».

Q 6 §101 Cultura italiana. Borghesia primitiva. Per lo studio della formazione e del diffondersi dello spirito borghese in Italia (lavoro tipo Groethuysen), cfr anche i Sermoni di Franco Sacchetti (vedi ciò che ne scrive il Croce nella «Critica» del marzo 1931 (Il Boccaccio e Franco Sacchetti).

Q 6 §132 Storia delle classi subalterne. Su alcuni aspetti del movimento del 1848 in Italia, in quanto riflettono le teorie degli utopisti francesi, cfr Petruccelli della Gattina, La rivoluzione di Napoli nel 1848, 2a ed., 1912, a cura di Francesco Torraca; Mondaini, I moti politici del 48; G. De Ruggiero, Il pensiero politico meridionale.

Mat. Bibl.: Franco Savelli -Il Meridione d'Italia nel periodo Restaurazione e Insurrezione

Q 6 §143 Guido Calogero, Il neohegelismo nel pensiero italiano contemporaneo (Croce, ma specialmente il Gentile), Nuova Antologia, 16 agosto 1930.

Q 6 §149 Storia degli intellettuali italiani. Su L. B. Alberti cfr il libro di Paul‑Henry Michel, Un ideal humain au XV siècle. La pensée de L. B. Alberti (1404‑1472), in 8°, pp. 649, Parigi, Soc. Ed. «Les Belles lettres», 1930. Analisi minuziosa del pensiero di L. B. Alberti, ma, a quanto pare da qualche recensione, non sempre esatta, ecc.

Edizione Utet del Novellino curata da Letterio di Francia, il quale ha accertato che il nucleo originale della raccolta sarebbe stato composto negli ultimi anni del secolo XIII da un borghese ghibellino.

Ambedue i libri dovrebbero essere analizzati per la ricerca già accennata del come sia riflesso nella letteratura il passaggio dall’economia medioevale all’economia borghese dei Comuni e quindi alla caduta, in Italia, dello spirito di intrapresa economica e alla restaurazione cattolica.

Q 6 §4 Letteratura popolare. Tentativi letterari delle nuove classi sociali. È stato tradotto in francese un libro di Oscar Maria Graf, Nous sommes prisonniers…, ed. Gallimard, 1930, che pare sia interessante e significativo per le classi popolari tedesche.

Q 6 §169 Giornalismo. Cfr Luigi Villari, Giornalismo britannico di ieri e di oggi, «Nuova Antologia», 1° maggio 1931.

Q 6 §192 Storia degli intellettuali italiani. Cfr G. Masi, La struttura sociale delle fazioni politiche fiorentine ai tempi di Dante, Firenze, Olschki, 1930, in 8°, pp. 32.

Q 6 §193 Azione Cattolica. Spagna. Cfr N. Noguer S. J., La acciòn católica en la teorìa y en la práctica en España y en el extraniero, Madrid, «Razón y Fe», in 16°, pp. 240‑272, 8 pesete.

Q 6 §210 Intellettuali. Cfr Louis Halphen, Les Universités au 13 e siècle, Ed. Alcan, 1931, Fr. 10.

Miscellanea

Q 6 §59 Italia meridionale. Sull’abbondanza dei paglietta nell’Italia Meridionale ricordare l’aneddoto di Innocenzo XI che domandò al marchese di Carpio di fornirgli 30 000 maiali e ne ebbe la risposta che non era in grado di compiacerlo, ma che se a Sua Santità fosse accaduto di aver bisogno di 30 000 avvocati, era sempre al fatto di servirlo.

Q 6 §160 Sulla morale. Nella breve introduzione a un gruppo di lettere inedite del Diderot a Grimm e a Madame d’Epinay («Revue des Deux Mondes» del 15 febbraio 1931), André Babelon scrive del Diderot:

«Diderot, qui éprouvait pour la postérité le même respect que d’autres pour l’immortalité de l’âme...» .

Q 6 §204 Passato e presente. Un detto popolare: L’amore del tarlo. Ricordare anche il proverbio inglese: Con cento lepri non si fa un cavallo, con cento sospetti non si fa una prova.


Lista dei nomi

Lista degli eventi, movimenti, ecc.