Storiografia
Q 6 §43 Il Comune come fase economico‑corporativa dello Stato. Nel 1400 lo spirito di iniziativa dei mercanti italiani era caduto; si preferiva investire le ricchezze acquistate in beni fondiari e avere un reddito certo dall’agricoltura, piuttosto che arrischiarle nuovamente in viaggi o in investimenti all’estero. Ma come si è verificata questa caduta? Gli elementi che vi hanno contribuito sono parecchi: le lotte di classe fierissime nelle città comunali, i fallimenti per insolvenza di debitori regali (fallimento dei Bardi e Peruzzi), l’assenza di un grande Stato che proteggesse i suoi cittadini all’estero: cioè la causa fondamentale è nella stessa struttura dello Stato comunale che non può svilupparsi in grande Stato territoriale. Da allora si è radicato in Italia lo spirito retrivo per cui si crede che sola ricchezza sicura è la proprietà fondiaria. Bisognerà studiare bene questa fase, in cui i mercanti diventano proprietari terrieri e vedere quali fossero i rischi inerenti allo scambio e al commercio bancario.
Q 6 §13 I comuni medioevali come fase economica‑corporativa dello sviluppo moderno. Il libro di Bernardino Barbadoro Le Finanze della repubblica fiorentina, Olschki, Firenze, 1929, L. 100.
Questo libro del Barbadoro è indispensabile per vedere appunto come la borghesia comunale non riuscì a superare la fase economica‑corporativa, cioè a creare uno Stato «col consenso dei governati» e passibile di sviluppo. Lo sviluppo statale poteva avvenire solo come principato, non come repubblica comunale.
È interessante anche il libro per studiare l’importanza politica del debito pubblico, che si sviluppò per le guerre di espansione, cioè per assicurare alla borghesia un più ampio mercato e la libertà di transito. (Sarebbe da confrontare con ciò che Marx dice nel Capitale a proposito della funzione e dell’importanza del debito pubblico). Anche le conseguenze del debito pubblico sono interessanti: la classe abbiente che aveva creduto di trovare nei prestiti un mezzo per riversare sulla massa dei cittadini la parte maggiore dei pesi fiscali, si trovò punita dalla insolvenza del Comune che, coincidendo con la crisi economica, contribuì ad acuire il male e ad alimentare il dissesto del paese. Questa situazione portò al consolidamento del debito e alla sua irredimibilità (rendita perpetua e riduzione del saggio d’interesse) con la istituzione del Monte dopo la cacciata del Duca d’Atene e l’avvento al potere del popolo «minuto».
Met. Bibl.: Storia di Firenze nel '300 e '400
Q 6 §51 L’assedio di Firenze del 1529‑30. Rappresenta la conclusione della lotta tra fase corporativa‑economica della storia di Firenze e Stato moderno (relativamente).
Q 6 §86 Fase economica‑corporativa dello Stato. Il Guicciardini segna un passo indietro nella scienza politica di fronte al Machiavelli. Il maggiore «pessimismo» del Guicciardini significa solo questo. Il Guicciardini ritorna a un pensiero politico puramente italiano, mentre il Machiavelli si era innalzato a un pensiero europeo. Non si comprende il Machiavelli se non si tiene conto che egli supera l’esperienza italiana nell’esperienza europea (internazionale in quell’epoca): la sua «volontà» sarebbe utopistica, senza l’esperienza europea. La stessa concezione della «natura umana» diventa per questo fatto diversa nei due. Nella «natura umana» del Machiavelli è compreso l’«uomo europeo» e questo uomo in Francia e in Ispagna ha effettualmente superato la fase feudale disgregata nella monarchia assoluta: dunque non è la «natura umana» che si oppone a che in Italia sorga una monarchia assoluta unitaria, ma condizioni transitorie che la volontà può superare. Il Machiavelli è «pessimista» (o meglio «realista») nel considerare gli uomini e i moventi del loro operare; il Guicciardini non è pessimista, ma scettico e gretto.
Lo scetticismo del Guicciardini (non pessimismo dell’intelligenza, che può essere unito a un ottimismo della volontà nei politici realistici attivi) ha diverse origini: 1) l’abito diplomatico, cioè di una professione subalterna, subordinata, esecutivo‑burocratica che deve accettare una volontà estranea (quella politica del proprio governo o principe) alle convinzioni particolari del diplomatico (che può, è vero, sentire quella volontà come propria, in quanto corrisponde alle proprie convinzioni, ma può anche non sentirla: l’essere la diplomazia divenuta necessariamente una professione specializzata, ha portato a questa conseguenza, di poter staccare il diplomatico dalla politica dei governi mutevoli ecc.), quindi scetticismo e, nell’elaborazione scientifica, pregiudizi extrascientifici; 2) le convinzioni stesse del Guicciardini che era conservatore, nel quadro generale della politica italiana, e perciò teorizza le proprie opinioni, la propria posizione politica, ecc.
Q 6 §148 Il genio nella storia. Nello scritto inedito di Niccolò Tommaseo Pio IX e Pellegrino Rossi pubblicato da Teresa Lodi nel «Pègaso» dell’ottobre 1931 si legge a proposito di Pio IX (p. 407): «E fosse stato anco un genio, gli conveniva trovare aiutatori ed interpreti; perché l’uomo che sorge solo, solo si rimane, e cade assai volte o deserto o calpesto. In ogni educazione e privata e pubblica importa conoscere lo strumento che s’ha tra mani, e chiedergli quel suono ch’ei può dare, e non altro; e prima d’ogni cosa saperlo suonare».
Medio Evo
Q 6 §61 Federico II. Cfr Raffaello Morghen, Il tramonto della potenza sveva e la più recente storiografia, Nuova Antologia del 16 marzo 1930.
Fu Federico II ancora legato al Medio Evo? Certamente. Ma è anche vero che se ne staccava: la sua lotta contro la Chiesa, la sua tolleranza religiosa, l’essersi servito di tre civiltà: ebraica, latina, araba, e aver cercato di amalgamarle lo pone fuori del Medio Evo. Era un uomo del suo tempo, ma egli davvero poteva fondare una società laica e nazionale e fu più italiano che tedesco, ecc. Il problema va veduto interamente e anche questo articolo del Morghen può servire.
Umanesimo e Rinascimento
Q 6 §118 Il Rinascimento. Origini (cfr nota p. 50 bis). Si confondono due momenti della storia: 1) la rottura con la civiltà medioevale, il cui documento più importante fu l’apparizione dei volgari; 2) l’elaborazione di un «volgare illustre», cioè il fatto che si raggiunse una certa centralizzazione fra i gruppi intellettuali, cioè, meglio, tra i letterati di professione. In realtà i due momenti, pur essendo collegati, non si saldarono completamente.
I volgari incominciano ad apparire per ragioni religiose (giuramenti militari, testimonianze di carattere giuridico per fissare diritti di proprietà, prestate da contadini che non conoscevano il latino), frammentariamente, casualmente: che in volgare si scrivano opere letterarie, qualunque sia il loro valore, è ancora un fatto nuovo, è il fatto realmente importante.
Che tra i volgari locali, uno, quello toscano, raggiunga una egemonia, è un altro fatto ancora, che però occorre limitare: esso non è accompagnato da una egemonia politico‑sociale, e perciò rimane confinato a un puro fatto letterario.
Che il volgare scritto appaia in Lombardia come prima manifestazione di una certa portata, è fatto da mettere in grande rilievo; che sia legato al patarinismo è fatto anch’esso molto importante. In realtà la borghesia nascente impone i propri dialetti, ma non riesce a creare una lingua nazionale: se questa nasce, è confinata ai letterati e questi vengono assorbiti dalle classi reazionarie, dalle corti, non sono «letterati borghesi», ma aulici. E non avviene questo assorbimento senza contrasto. L’Umanesimo dimostra che il «latino» è molto forte, ecc. Un compromesso culturale, non una rivoluzione, ecc.
Risorgimento, fine Ottocento
Q 6 §78 Il Risorgimento italiano. Quando si deve porre l’inizio del movimento storico che ha preso il nome di Risorgimento italiano? Le risposte sono diverse e contradditorie, ma in generale esse si raggruppano in due serie:
1) di quelli che vogliono sostenere l’origine autonoma del movimento nazionale italiano e addirittura sostengono che la Rivoluzione francese ha falsificato la tradizione italiana e l’ha deviata;
2) e di quelli che sostengono che il movimento nazionale italiano è strettamente dipendente dalla Rivoluzione francese e dalle sue guerre.
La quistione storica è turbata da interferenze sentimentali e politiche e da pregiudizi di ogni genere. È già difficile far capire al senso comune che un’Italia come quella che si è formata nel 70 non era mai esistita prima e non poteva esistere: il senso comune è portato a credere che ciò che oggi esiste sia sempre esistito e che l’Italia sia sempre esistita come nazione unitaria, ma sia stata soffocata da forze estranee, ecc. Numerose ideologie hanno contribuito a rafforzare questa credenza, alimentata dal desiderio di apparire eredi del mondo antico, ecc.; queste ideologie, d’altronde, hanno avuto un ufficio notevole come terreno di organizzazione politica e culturale, ecc.
Mi pare che bisognerebbe analizzare tutto il movimento storico partendo da diversi punti di vista, fino al momento in cui gli elementi essenziali dell’unità nazionale si unificano e diventano una forza sufficiente per raggiungere lo scopo, ciò che mi pare avvenga solo dopo il 48. Questi elementi sono negativi (passivi) e positivi (attivi), nazionali e internazionali.
Un elemento abbastanza antico è la coscienza dell’«unità culturale», che è esistita fra gli intellettuali italiani almeno dal 1200 in poi, cioè da quando si è sviluppata una lingua letteraria unificata (il volgare illustre di Dante): ma è questo un elemento senza efficacia diretta sugli avvenimenti storici, sebbene sia il più sfruttato dalla retorica patriottica, né d’altronde esso coincide o è l’espressione di un sentimento nazionale concreto e operante.
Altro elemento è la coscienza della necessità dell’indipendenza della penisola italiana dall’influenza straniera, molto meno diffuso del primo, ma certo politicamente più importante e storicamente più fecondo di risultati pratici; ma anche di questo elemento non deve essere esagerata l’importanza e il significato e specialmente la diffusione e la profondità. Questi due elementi sono proprii di piccole minoranze di grandi intellettuali, e mai si sono manifestati come espressione di una diffusa e compatta coscienza nazionale unitaria.
Condizioni per l’unità nazionale: 1) esistenza di un certo equilibrio delle forze internazionali che fosse la premessa della unità italiana. Ciò si verificò dopo il 1748, dopo cioè la caduta della egemonia francese e l’esclusione assoluta dell’egemonia spagnola austriaca, ma sparì nuovamente dopo il 1815: tuttavia il periodo dal 1748 al 1815 ebbe una grande importanza nella preparazione dell’unità, o meglio per lo sviluppo degli elementi che dovevano condurre all’unità.
Tra gli elementi internazionali occorre considerare la posizione del papato, la cui forza nell’ambito italiano era legata alla forza internazionale: il regalismo e il giuseppinismo, cioè la prima affermazione liberale e laica dello Stato, sono elementi essenziali per la preparazione dell’unità.
Da elemento negativo e passivo, la situazione internazionale diventa elemento attivo dopo la Rivoluzione francese e le guerre napoleoniche, che allargano l’interesse politico e nazionale alla piccola borghesia e ai piccoli intellettuali, che danno una certa esperienza militare e creano un certo numero di ufficiali italiani. La formula: «repubblica una e indivisibile» acquista una certa popolarità e, nonostante tutto, il partito d’azione ha origine dalla Rivoluzione francese e dalle sue ripercussioni in Italia; questa formula si adatta in «Stato unico e indivisibile», in monarchia unica e indivisibile, accentrata ecc.
L’unità nazionale ha avuto un certo sviluppo e non un altro e di questo sviluppo fu motore lo Stato piemontese e la dinastia Savoia. Occorre perciò vedere quale sia stato lo svolgimento storico in Piemonte dal punto di vista nazionale. Il Piemonte aveva avuto interesse dal 1492 in poi (cioè nel periodo delle preponderanze straniere) a che ci fosse un certo equilibrio interno fra gli Stati italiani, come premessa dell’indipendenza (cioè del non‑influsso dei grandi Stati stranieri): naturalmente lo Stato piemontese avrebbe voluto essere l’egemone in Italia, almeno nell’Italia settentrionale e centrale, ma non riuscì: troppo forte era Venezia, ecc.
Lo Stato piemontese diventa motore reale dell’unità dopo il 48, dopo cioè la sconfitta della destra e del centro politico piemontese e l’avvento dei liberali con Cavour. La destra: Solaro della Margarita, cioè i «nazionalisti piemontesi esclusivisti» o municipalisti (l’espressione «municipalismo» dipende dalla concezione di una unità italiana latente e reale, secondo la retorica patriottica); il centro: Gioberti e i neoguelfi. Ma i liberali di Cavour non sono dei giacobini nazionali: essi in realtà superano la destra del Solaro, ma non qualitativamente, perché concepiscono l’unità come allargamento dello Stato piemontese e del patrimonio della dinastia, non come movimento nazionale dal basso, ma come conquista regia. Elemento più propriamente nazionale è il Partito d'Azione, ecc. (Vedi altre note).
Sarebbe interessante e necessario raccogliere tutte le affermazioni sulla quistione dell’origine del Risorgimento in senso proprio cioè del moto che portò all’unità territoriale e politica dell’Italia, ricordando che molti chiamano Risorgimento anche il risveglio delle forze «indigene» italiane dopo il Mille, cioè il moto che portò ai Comuni e al Rinascimento.
Tutte queste quistioni sulle origini hanno la loro ragione per il fatto che l’economia italiana era molto debole, e il capitalismo incipiente: non esisteva una forte e diffusa classe di borghesia economica, ma invece molti intellettuali e piccoli borghesi, ecc. Il problema non era tanto di liberare le forze economiche già sviluppate dalle pastoie giuridiche e politiche antiquate, quanto di creare le condizioni generali perché queste forze economiche potessero nascere e svilupparsi sul modello degli altri paesi.
La storia contemporanea offre un modello per comprendere il passato italiano: esiste oggi una coscienza culturale europea ed esiste una serie di manifestazioni di intellettuali e uomini politici che sostengono la necessità di una unione europea: si può anche dire che il processo storico tende a questa unione e che esistono molte forze materiali che solo in questa unione potranno svilupparsi: se fra x anni questa unione sarà realizzata la parola «nazionalismo» avrà lo stesso valore archeologico che l’attuale «municipalismo».
Q 6 §103 Risorgimento. Quando comincia il Risorgimento? Cfr Arrigo Solmi, L’unità fondamentale della storia italiana, Bologna, Zanichelli 1927, pp. 58, L. 6.
Il Solmi trova nella «città» questa unità fondamentale ed è certo notevole il fatto che in molte città autonome si verifichino simultaneamente le stesse riforme (non conosco il libretto del Solmi e non so quindi come egli spieghi questo fatto precisamente).
Q 6 §6 Risorgimento. L’Italia nel Settecento. Influenza francese in Italia nella politica, nella letteratura, nella filosofia, nell’arte, nei costumi.
Nella politica francese l’Italia, per la sua posizione geografica, è destinata ad assumere la funzione di elemento di equilibrio dinanzi alla crescente potenza dell’Austria: quindi la Francia da Luigi XIV a Luigi XVI tende ad esercitare un’azione di predominio, anticipando la politica di Napoleone III, anticipazione che si palesa nei ripetuti progetti o tentativi di federare gli Stati italiani a servizio della Francia.
Q 6 §8 Risorgimento italiano. La repubblica partenopea. Cfr Antonio Manes, Un cardinale condottiere. Fabrizio Ruffo e la repubblica partenopea, Aquila, Vecchioni, 1930. Il Manes cerca di riabilitare il cardinale Ruffo (si potrebbe citare il fatto nel paragrafo di Passato e Presente in cui si citano queste riabilitazioni: Solaro della Margarita, ecc. e si parla del fatto che alcuni insegnanti «polemizzano» col Settembrini e trovano in lui molta «demagogia» contro il Borbone), addossando la responsabilità delle repressioni e degli spergiuri sul Borbone e Nelson.
Q 6 §72 Risorgimento. Su Melchiorre Gioia cfr la bibliografia (degli scritti del Gioia) pubblicata da Angelo Ottolini nei «Libri del Giorno» del gennaio 1929 (Il centenario di Melchiorre Gioia).
Q 6 §199 Risorgimento. La Costituzione spagnola del 12. Perché i primi liberali italiani (nel 21 e dopo) scelsero la costituzione spagnola come loro rivendicazione? Si trattò solamente di un fenomeno di mimetismo e quindi di primitività politica? O di un fenomeno di pigrizia mentale? Senza trascurare completamente l’influenza di questi elementi, espressione della immaturità politica e intellettuale e quindi dell’astrattismo dei ceti dirigenti della borghesia italiana, occorre non cadere nel giudizio superficiale che tutte le istituzioni italiane siano importate dall’estero meccanicamente e sovrapposte a un contenuto nazionale refrattario.
Intanto occorre distinguere tra Italia meridionale e il resto d’Italia: la rivendicazione della Carta Spagnola nasce nell’Italia meridionale ed è ripresa in altre parti d’Italia per la funzione che ebbero i profughi napoletani nel resto d’Italia dopo la caduta della Repubblica partenopea. Ora le necessità politico‑sociali dell’Italia meridionale erano davvero molto diverse che quelle della Spagna?
L’acuta analisi fatta dal Marx della Carta spagnola (cfr lo scritto sul generale Espartero nelle opere politiche) e la dimostrazione chiara dell’essere quella Carta l’espressione esatta di necessità storiche della società spagnola e non un’applicazione meccanica dei principi della Rivoluzione francese, inducono a credere che la rivendicazione napoletana fosse più «storicistica» di quanto paia. Bisognerebbe riprendere quindi l’analisi di Marx, confrontare con la costituzione siciliana del 12 e con i bisogni meridionali: il confronto potrebbe continuare con lo Statuto albertino.
Q 6 §70 Risorgimento. Niccolò Rodolico, La prima giovinezza di Carlo Alberto, nel «Pègaso» del novembre 1930.
Q 6 §171 Risorgimento. Un centro di propaganda intellettuale per l’organizzazione e la «condensazione» del gruppo intellettuale dirigente della borghesia italiana del Risorgimento è quello costituito dal Vieusseux in Firenze, col Gabinetto letterario e le pubblicazioni periodiche: l’«Antologia», l’«Archivio Storico Italiano», il «Giornale Agrario», la «Guida dell’Educatore». Manca una pubblicazione tecnico‑industriale, come il «Politecnico» di Carlo Cattaneo (che nascerà, non a caso, a Milano).
Le iniziative del Vieusseux indicano quali fossero i problemi più importanti che interessavano gli elementi più progressivi del tempo: la scuola e l’istruzione pubblica, l’industria agricola, la cultura letteraria e storica. È vero che l’«Antologia» riassumeva tutte queste attività, ma sarà da vedere se in essa ebbe molta importanza (o quale) la tecnologia industriale. Manca anche un’attività specializzata di «economia politica».
Q 6 §113 Risorgimento. Campagna e città. Pare che da questo punto di vista sia interessante il saggio di Carlo Cattaneo, La città considerata come principio ideale delle istorie italiane pubblicato da G. A. Belloni presso l’edit. Vallecchi (1930 o 31). Il saggio era apparso a puntate nel «Crepuscolo» del 1858 e non fu mai raccolto nelle opere del Cattaneo curate dal Bertani, da Gabriele Rosa e dalla Mario.
Secondo il Belloni il concetto esposto dal Cattaneo della necessità dell’unione tra città e campagna per il Risorgimento italiano era già stato affermato dal Romagnosi. Potrebbe il Cattaneo averlo preso anche dalla letteratura francese democratica del tempo, che seguiva la tradizione giacobina (cfr per es. I Misteri del Popolo del Sue che ebbero tanta diffusione anche in Italia). In ogni caso il fatto importante sarebbe stato non di esprimere quel concetto, ma di dargli un’espressione politica italiana immediata, ciò che appunto mancò e anzi fu voluto evitare sistematicamente dai partiti democratici del Risorgimento.
Q 6 §1 Risorgimento. Avvenimenti del febbraio 1853 e moderati milanesi.
Q 6 §119 Risorgimento. Tradizioni militari del Piemonte. Non esistevano in Piemonte fabbriche di armi: le armi dovevano tutte essere comprate all’estero. Come «tradizione» militare non c’è male.
Q 6 §114 Risorgimento. Cfr per alcuni episodi il libro di F. Martini, Confessioni e Ricordi (1859‑1892), Treves, Milano, 1928. Del libro sono interessanti alcuni capitoli: il primo «Per cominciare e per finire» è interessante per l’atteggiamento politico dei moderati toscani nel 1859 che non è stato solo un mero fatto di psicologia da descrivere bonariamente, come fa il Martini, ma un netto atteggiamento politico, legato a convinzioni e a una linea precisa, come dimostrano i documenti recentemente pubblicati (cfr articolo di Panella nel «Marzocco» e polemica col Puccioni). I moderati toscani non volevano la fine del granducato, erano federalisti reazionari. Gli episodi di abulia militare in Toscana nel 59 non sono solo da collegare con la «psicologia» del popolo toscano, come fa il Martini: fu un sabotaggio della guerra nazionale o per lo meno una forma di «neutralità» sabotatrice. Lo scarso numero dei «volontari» fu una conseguenza della cattiva volontà dei moderati.
Altro capitolo interessante è «Parlamentum indoctum», dove si possono trovare spunti sulla preparazione intellettuale di molti uomini politici del tempo. Il Martini bonariamente giustifica l’ignoranza crassa di uomini come Nicotera, affermando che le congiure e l’ergastolo non avevano loro lasciato il tempo di studiare. Certo la vita del Nicotera non era fatta per permettere studi «regolari»; ma il Settembrini fu anch’egli all’ergastolo e pure non perse il tempo. Qualche meridionale, seccato dalla letteratura retorica contro i Borboni (già prima della guerra, ricordo un articolo di Oreste Mosca nella «Vela latina» di F. Russo) scrisse che in Piemonte (con 5 milioni di abitanti) c’erano 5 ergastoli come a Napoli con 10 milioni di abitanti, per cui, o in Piemonte c’era più reazione, o c’era più delinquenza; in ogni caso Napoli non ci faceva poi tanto cattiva figura.
Detto in forma paradossale, il fatto è giusto: negli ergastoli napoletani i patriotti stavano relativamente meglio che negli ergastoli piemontesi dove dominarono i gesuiti per molto tempo e una burocrazia militare e civile ben più fiscale e «regolamentatrice» di quella napoletana. Gli ergastolani non avevano la catena ai piedi ed erano in compagnia: la loro condanna era «psicologicamente e moralmente» più grave di quella ai lavori forzati a tempo, ma non «materialmente»: la gravità consisteva che molti ergastolani erano stati condannati a morte, avevano «realmente» creduto di stare per essere giustiziati e poi, all’ultimo momento, furono graziati: per altro, l’ergastolo non poteva essere ritenuto veramente tale da uomini politici che non potevano ritenere che il regime borbonico sarebbe durato quanto la loro vita. Ciò sia detto senza togliere nulla alla valutazione dei loro patimenti.
Di fatto essi «potevano studiare», ma alcuni lo fecero (Settembrini, per es.), altri no (Nicotera, per es.) e quindi la ragione addotta dal Martini, per non essere universale, non è valida. La ragione deve essere ricercata altrove e cioè nella scarsa coscienza di classe rivoluzionaria di molti di quegli uomini e dei doveri che spettavano a ogni elemento di tale classe; cioè scarsa passione politica da non confondersi col fanatismo e settarismo, che invece abbondavano.
Txt.: F. Martini - Confessioni e Ricordi
Q 6 §161 Risorgimento. Garibaldi. Cfr Emanuele Librino, L’attività politica di Garibaldi nel 1861, Nuova Antologia, 16 febbraio 1931. Pubblica una piccola nota di Garibaldi al generale Medici in cui si dice che la ragione principale del conflitto con Cavour è questa: Cavour vuole un governo costituzionale tipo francese, con un esercito stanziale che potrà essere impiegato contro il popolo; Garibaldi vuole un governo all’inglese, senza esercito stanziale, ma con la nazione armata. Tutto qui il contrasto Cavour-Garibaldi? Si può vedere la scarsezza di capacità politica del Garibaldi e la non sistematicità delle sue opinioni.
Q 6 §159 Risorgimento. Cfr Emanuele Librino, Agostino Depretis prodittatore in Sicilia (Documenti inediti sulla Spedizione dei Mille: lettere di Garibaldi, Cavour, Farini, Crispi, Bixio e Bertani), Nuova Antologia del 16 dicembre 1930.
Q 6 §46 La funzione dello zarismo in Europa. Cfr la lettera al conte Vimercati di Cavour (del 4 gennaio 1861) pubblicata da A. Luzio nella Nuova Antologia del 16 gennaio 1930 (I carteggi cavouriani). Cavour, dopo aver esposto i suoi accordi con l’emigrazione ungherese per la preparazione di un’insurrezione in Ungheria e nei paesi slavi dell’Impero austriaco, cui avrebbe seguito un attacco italiano per la liberazione delle Venezie, continua: «Depuis lors deux événements ont profondément modifié la situatìon. Les conférences de Varsovie et les concessions successives de l’Empereur d’Autriche. Si, comme il est à craindre, l’Empereur de Russie s’est montré disposé à Varsovie à intervenir en Hongrie dans le cas où une insurrection éclaterait dans ce pays, il est évident qu’un mouvement ne pourrait avoir lieu avec chance de succès qu’autant que la France serait disposée à s’opposer par la force à l’intervention Russe», ecc. ecc.
Primo Novecento
Q 6 §69 Caporetto. Sul libro del Volpe Ottobre 1917. Dall’Isonzo al Piave, cfr la recensione di Antonio Panella nel «Pègaso» dell’ottobre 1930. La recensione è benevola ma superficiale. Caporetto fu essenzialmente un «infortunio militare»; che il Volpe abbia dato, con tutta la sua autorità di storico e di uomo politico, a questa formula il valore di un luogo comune soddisfa molta gente che sentiva tutta l’insufficienza storica e morale (l’abbiezione morale) della polemica su Caporetto come «crimine» dei disfattisti o come «sciopero militare». Ma è troppa la compiacenza per la validità di questo nuovo luogo comune, perché non debba esserci una reazione, che d’altronde è più difficile di quella al precedente luogo comune, come appare dalla critica fatta dall’Omodeo al libro del Volpe.
«Assolti» i soldati, la massa militare esecutiva e strumentale («l’outil tactique élémentaire» come Anatole France fa dire a un generale dei soldati), si sente che il processo non è finito: la polemica tra il Volpe e l’Omodeo sugli «ufficiali di complemento» è interessante come indizio. Pare, dall’Omodeo, che il Volpe misconosca l’apporto bellico degli ufficiali di complemento, cioè della piccola borghesia intellettuale e quindi indirettamente indichi questa come responsabile dell’«infortunio», pur di salvare la classe superiore, che è già messa al sicuro dalla parola «infortunio».
La responsabilità storica deve essere cercata nei rapporti generali di classe in cui soldati, ufficiali di complemento e stati maggiori occupano una posizione determinata, quindi nella struttura nazionale, di cui sola responsabile è la classe dirigente appunto perché dirigente (vale anche qui l’«ubi maior, minor cessat»). Ma questa critica, che sarebbe veramente feconda, anche dal punto di vista nazionale, brucia le dita.
Q 6 §74 Caporetto. Cfr il libro del gen. Alberto Baldini sul generale Diaz (Diaz, in 8°, pp. 263, Barbèra ed., L. 15, 1929). Il generale Baldini pare critichi implicitamente Cadorna e cerchi di dimostrare che Diaz ebbe una importanza molto maggiore di quanto non gli sia riconosciuta.
In questa polemica sul significato di Caporetto bisognerebbe fissare alcuni punti chiari e precisi:
1) Caporetto fu un fatto puramente militare? Questa spiegazione pare ormai acquisita agli storici della guerra, ma essa è basata su un equivoco. Ogni fatto militare è anche un fatto politico e sociale. Subito dopo la sconfitta si cercò di diffondere la convinzione che le responsabilità politiche di Caporetto fossero da ricercare nella massa militare, cioè nel popolo e nei partiti che ne erano l’espressione politica. Questa tesi è oggi universalmente respinta, anche ufficialmente. Ma ciò non vuol dire che Caporetto perciò solo diventi puramente militare, come si tende a far credere, come se fattore politico fosse solo il popolo, cioè i responsabili della gestione politico‑militare. Anche se fosse dimostrato (come invece si esclude universalmente) che Caporetto sia stato uno «sciopero militare», ciò non vorrebbe dire che la responsabilità politica debba essere accollata al popolo ecc. (dal punto di vista giudiziario può spiegarsi, ma il punto di vista giudiziario è un atto di volontà unilaterale tendente a integrare col terrorismo l’insufficienza governativa): storicamente, cioè dal punto di vista politico più alto, la responsabilità sarebbe sempre dei governanti, e della loro incapacità a prevedere che determinati fatti avrebbero potuto portare allo sciopero militare e quindi a provvedere a tempo, con misure adeguate (sacrifici di classe) a impedire una tale possibile emergenza.
Che ai fini immediati di psicologia della resistenza, in caso di forza maggiore, si affermi che «occorre rompere i reticolati coi denti» è comprensibile, ma che si abbia la convinzione che in ogni caso i soldati debbano rompere i reticolati coi denti, perché così vuole l’astratto dovere militare, e si trascuri di provvederli delle tenaglie, è criminoso. Che si abbia la convinzione che la guerra non si fa senza vittime umane è comprensibile, ma che non si tenga conto che le vite umane non debbono essere sacrificate inutilmente, è criminoso ecc. Questo principio, dal rapporto militare si estende al rapporto sociale. Che si abbia la convinzione, e la si sostenga senza limitazioni, che la massa militare debba fare la guerra e sopportarne tutti i sacrifizi, è comprensibile, ma che si ritenga che ciò avverrà in ogni caso senza tener conto del carattere sociale della massa militare e senza venire incontro alle esigenze di questo carattere, è da semplicioni, cioè da politici incapaci.
2) Così la responsabilità, se è esclusa quella della massa militare, non può neanche essere del capo supremo, cioè di Cadorna, oltre certi limiti, cioè oltre i limiti segnati dalle possibilità di un capo supremo, della tecnica militare, e delle attribuzioni politiche che un capo supremo ha in ogni caso. Cadorna ha avuto gravi responsabilità, certamente, sia tecniche che politiche, ma queste ultime non possono essere state decisive. Se Cadorna non ha capito la necessità di un «governo politico determinato» delle masse comandate e non le ha esposte al governo, è certo responsabile, ma non quanto il governo e in generale quanto la classe dirigente, di cui, in ultima analisi, ha espresso la mentalità e la comprensione politica. Il fatto che non ci sia stata una analisi obbiettiva dei fattori che hanno determinato Caporetto e un’azione concreta per eliminarli, dimostra «storicamente» questa responsabilità estesa.
3) L’importanza di Caporetto nel decorso dell’intera guerra. La tendenza attuale tende a diminuire il significato di Caporetto e a farne un semplice episodio del quadro generale. Questa tendenza ha un significato politico e avrà delle ripercussioni politiche nazionali e internazionali: dimostra che non si vogliono eliminare i fattori generali che hanno determinato la sconfitta, ciò che ha un peso nel regime delle alleanze e nelle condizioni che saranno fatte al paese nel caso di una nuova combinazione bellica, poiché le critiche di se stessi che non si vogliono fare nel campo nazionale per evitare determinate conseguenze necessarie all’indirizzo politico‑sociale, saranno fatte indubbiamente dagli organismi responsabili degli altri paesi in quanto l’Italia è presunta poter far parte di alleanze belliche. Gli altri paesi, nei calcoli in vista di alleanze, dovranno tener conto di nuovi Caporetto e vorranno dei premi di assicurazione, cioè vorranno l’egemonia anche oltre certi limiti.
4) L’importanza di Caporetto nel quadro della guerra mondiale. È data anche dai mezzi forniti al nemico (tutti i magazzini di viveri e di munizioni ecc.) che permisero una più lunga resistenza, e la necessità imposta agli alleati di ricostituire questi depositi con turbamento di tutti i servizi e piani generali.
È vero che in tutte le guerre e anche in quella mondiale, si ebbero altri fatti simili a Caporetto. Ma occorre vedere (all’infuori della Russia) se ebbero la stessa importanza assoluta e relativa, se ebbero cause simili o paragonabili, se ebbero conseguenze simili o paragonabili per la posizione politica del paese il cui esercito subì la sconfitta. Dopo Caporetto l’Italia, materialmente (per gli armamenti, per gli approvvigionamenti, ecc.) cadde in balia degli alleati, la cui attrezzatura economica non era paragonabile per efficienza. L’assenza di autocritica significa non volontà di eliminare le cause del male ed è quindi un sintomo di grave debolezza politica.
Mat. Bibl.: Cadornismo
Q 6 §150 Passato e presente. Sulla marcia su Roma vedere il numero di «Gioventù Fascista» pubblicato per il nono anniversario (1931) con articoli molto interessanti di De Bono e Balbo. Balbo, tra l’altro, scrive: «Mussolini agì. Se non lo avesse fatto, il movimento fascista avrebbe perpetuato per decenni la guerriglia civile e non è escluso che altre forze, che militavano, come le nostre, al di fuori della legge dello Stato, ma con finalità anarchiche e distruttive, avrebbero finito per giovarsi della neutralità e dell’impotenza statale per compiere più tardi il gesto di rivolta da noi tentato nell’ottobre del ’22. In ogni modo è certo che senza la Marcia su Roma, cioè senza la soluzione rivoluzionaria, il nostro movimento sarebbe andato incontro a quelle fatali crisi di stanchezza, di tendenze e di indisciplina, che erano state la tomba dei vecchi partiti».
C’è qualche inesattezza: lo Stato non era «neutrale ed impotente» come si è soliti dire, appunto perché il movimento fascista ne era il principale sostegno in quel periodo; né ci poteva essere «guerra civile» tra lo Stato e il movimento fascista, ma solo un’azione violenta sporadica per mutare la direzione dello Stato e riformarne l’apparato amministrativo. Nella guerriglia civile il movimento fascista fu in linea con lo Stato, non contro lo Stato, altro che per metafora e secondo la forma esterna della legge.
Mat. Bibl.: Storia del Fascismo
Q 6 §76 La funzione europea dello zarismo nel secolo XIX . Il principe di Bülow nelle sue Memorie racconta di essersi trovato da Bethmann‑Holwegg subito dopo la dichiarazione di guerra della Germania alla Russia nell’agosto 1914. Bethmann, interrogato perché avesse cominciato dal dichiarare la guerra alla Russia, rispose: «Per aver subito dalla mia parte i socialdemocratici». Bülow fa a questo proposito alcune osservazioni sulla psicologia di Bethmann‑Holwegg, ma ciò che importa dal punto di vista di questa rubrica è la sicurezza del Cancelliere di poter avere dalla sua parte la socialdemocrazia contro lo zarismo russo; il Cancelliere sfruttava abilmente la tradizione del 48, ecc., del «gendarme d’Europa».
Q 6 §54 Su l’impero inglese. Funzione del re d’Inghilterra come nesso politico imperiale: cioè del Consiglio privato della Corona, e specialmente del Comitato giuridico del Consiglio privato, che non soltanto accoglie i reclami contro le decisioni delle Alte Corti dei Dominions, ma anche giudica le controversie tra i membri dello stesso Impero. Questo Comitato è il più forte legame organizzativo dell’Impero.
Q 6 §142 Passato e presente. La Corsica. Nell’«Italia Letteraria» del 9 agosto 1931 è pubblicato un articolo di Augusto Garsia Canti d’amore e di morte nella terra dei Corsi.
L’irredentismo italiano in Italia è sufficientemente diffuso; non so quanto in Corsica. C’è in Corsica il movimento della «Muvra» e del Partito Corso d’Azione, ma essi non vogliono uscire dai quadri francesi e tanto meno riunirsi all’Italia; vogliono tutt’al più una larga autonomia e partecipano al movimento autonomista francese (Bretagna, Alsazia, Lorena, ecc.).
Politologia
Q 6 §75 Passato e presente. Dovrebbe essere una massima di governo cercare di elevare il livello della vita materiale del popolo oltre un certo livello. In questo indirizzo non è da ricercare uno speciale motivo «umanitario» e neppure una tendenza «democratica»: anche il governo più oligarchico e reazionario dovrebbe riconoscere la validità «obbiettiva» di questa massima, cioè il suo valore essenzialmente politico (universale nella sfera della politica, nell’arte di conservare e accrescere la potenza dello Stato).
Ogni governo non può prescindere dall’ipotesi di una crisi economica e specialmente non può prescindere dall’ipotesi di essere costretto a fare una guerra, cioè a dover superare la massima crisi cui può essere sottoposta una compagine statale e sociale. E poiché ogni crisi significa un arretramento del tenore di vita popolare, è evidente che occorre la preesistenza di una zona di arretramento sufficiente perché la resistenza «biologica» e quindi psicologica del popolo non crolli al primo urto con la nuova realtà. Il grado di potenza reale di uno Stato deve essere pertanto misurato anche alla stregua di questo elemento, che è poi coordinato agli altri elementi di giudizio sulla solidità strutturale di un paese.
Se infatti le classi dominanti di una nazione non sono riuscite a superare la fase economica‑corporativa che le porta a sfruttare le masse popolari fino all’estremo consentito dalle condizioni di forza, cioè a ridurle solo alla vegetatività biologica, è evidente che non si può parlare di potenza dello Stato, ma solo di mascheratura di potenza. Mi pare sia importante in questo esame di un punto essenziale di arte politica evitare sistematicamente ogni accenno extrapolitico (in senso tecnico, cioè fuori della sfera tecnicamente politica), cioè umanitario, o di una determinata ideologia politica (non perché l’«umanitarismo» non sia anch’esso una politica, ecc.). Per questo paragrafo è indispensabile ricorrere all’articolo del prof. Mario Camis pubblicato nel fascicolo gennaio‑febbraio della «Riforma Sociale» del 1926.
Q 6 §81 Egemonia (società civile) e divisione dei poteri. La divisione dei poteri e tutta la discussione avvenuta per la sua realizzazione e la dogmatica giuridica nata dal suo avvento, sono il risultato della lotta tra la società civile e la società politica di un determinato periodo storico, con un certo equilibrio instabile delle classi, determinato dal fatto che certe categorie d’intellettuali (al diretto servizio dello Stato, specialmente burocrazia civile e militare) sono ancora troppo legate alle vecchie classi dominanti.
Si verifica cioè nell’interno della società quello che il Croce chiama il «perpetuo conflitto tra Chiesa e Stato», in cui la Chiesa è presa a rappresentare la società civile nel suo insieme (mentre non ne è che un elemento gradatamente meno importante) e lo Stato ogni tentativo di cristallizzare permanentemente un determinato stadio di sviluppo, una determinata situazione. In questo senso la Chiesa stessa può diventare Stato e il conflitto può manifestarsi tra Società civile laica e laicizzante e Stato‑Chiesa (quando la Chiesa è diventata una parte integrante dello Stato, della società politica monopolizzata da un determinato gruppo privilegiato che si aggrega la Chiesa per sostenere meglio il suo monopolio col sostegno di quella zona di società civile rappresentata dalla Chiesa).
Importanza essenziale della divisione dei poteri per il liberalismo politico ed economico: tutta l’ideologia liberale, con le sue forze e le sue debolezze, può essere racchiusa nel principio della divisione dei poteri e appare quale sia la fonte della debolezza del liberalismo: è la burocrazia, cioè la cristallizzazione del personale dirigente che esercita il potere coercitivo e che a un certo punto diventa casta. Onde la rivendicazione popolare della eleggibilità di tutte le cariche, rivendicazione che è estremo liberalismo e nel tempo stesso sua dissoluzione (principio della Costituente in permanenza ecc.; nelle Repubbliche l’elezione a tempo del capo dello Stato dà una soddisfazione illusoria a questa rivendicazione popolare elementare).
Unità dello Stato nella distinzione dei poteri: il Parlamento più legato alla società civile, il potere giudiziario tra Governo e Parlamento, rappresenta la continuità della legge scritta (anche contro il Governo). Naturalmente tutti e tre i poteri sono anche organi dell’egemonia politica, ma in diversa misura: 1) Parlamento; 2) Magistratura; 3) Governo. È da notare come nel pubblico facciano specialmente impressione disastrosa le scorrettezze della amministrazione della giustizia: l’apparato egemonico è più sensibile in questo settore, al quale possono ricondursi anche gli arbitri della polizia e dell’amministrazione politica.
Q 6 §97 Passato e presente. Grande ambizione e piccole ambizioni. Può esistere politica, cioè storia in atto, senza ambizione? «L’ambizione» ha assunto un significato deteriore e spregevole per due ragioni principali: 1) perché è stata confusa l’ambizione (grande) con le piccole ambizioni; 2) perché l’ambizione ha troppo spesso condotto al più basso opportunismo, al tradimento dei vecchi principii e delle vecchie formazioni sociali che avevano dato all’ambizioso le condizioni per passare a servizio più lucrativo e di più pronto rendimento. In fondo anche questo secondo motivo si può ridurre al primo: si tratta di piccole ambizioni, poiché hanno fretta e non vogliono aver da superare soverchie difficoltà o troppo grandi difficoltà, o correre troppo grandi pericoli.
È nel carattere di ogni capo di essere ambizioso, cioè di aspirare con ogni sua forza all’esercizio del potere statale. Un capo non ambizioso non è un capo, ed è un elemento pericoloso per i suoi seguaci: egli è un inetto o un vigliacco. Ricordare l’affermazione di Arturo Vella: «Il nostro partito non sarà mai un partito di governo», cioè sarà sempre partito di opposizione: ma che significa proporsi di stare sempre all’opposizione? Significa preparare i peggiori disastri, perché se l’essere all’opposizione è comodo per gli oppositori, non è «comodo» (a seconda, naturalmente, delle forze oppositrici e della loro natura) per i dirigenti del governo, i quali a un certo punto dovranno porsi il problema di spezzare e spazzare l’opposizione. La grande ambizione, oltre che necessaria per la lotta, non è neanche spregevole moralmente, tutt’altro: tutto sta nel vedere se l’«ambizioso» si eleva dopo aver fatto il deserto intorno a sé, o se il suo elevarsi è condizionato consapevolmente dall’elevarsi di tutto uno strato sociale e se l’ambizioso vede appunto la propria elevazione come elemento dell’elevazione generale.
Di solito si vede la lotta delle piccole ambizioni (del proprio particulare) contro la grande ambizione (che è indissolubile dal bene collettivo). Queste osservazioni sull’ambizione possono e devono essere collegate con altre sulla così detta demagogia.
Demagogia vuol dire parecchie cose: nel senso deteriore significa servirsi delle masse popolari, delle loro passioni sapientemente eccitate e nutrite, per i propri fini particolari, per le proprie piccole ambizioni (il parlamentarismo e l’elezionismo offrono un terreno propizio per questa forma particolare di demagogia, che culmina nel cesarismo e nel bonapartismo coi suoi regimi plebiscitari). Ma se il capo non considera le masse umane come uno strumento servile, buono per raggiungere i propri scopi e poi buttar via, ma tende a raggiungere fini politici organici di cui queste masse sono il necessario protagonista storico, se il capo svolge opera «costituente» costruttiva, allora si ha una «demagogia» superiore; le masse non possono non essere aiutate a elevarsi attraverso l’elevarsi di singoli individui e di interi strati «culturali».
Il «demagogo» deteriore pone se stesso come insostituibile, crea il deserto intorno a sé, sistematicamente schiaccia ed elimina i possibili concorrenti, vuole entrare in rapporto con le masse direttamente (plebiscito, ecc., grande oratoria, colpi di scena, apparato coreografico fantasmagorico: si tratta di ciò che il Michels ha chiamato «capo carismatico»).
Il capo politico dalla grande ambizione invece tende a suscitare uno strato intermedio tra sé e la massa, a suscitare possibili «concorrenti» ed eguali, a elevare il livello di capacità delle masse, a creare elementi che possano sostituirlo nella funzione di capo. Egli pensa secondo gli interessi della massa e questi vogliono che un apparecchio di conquista o di dominio non si sfasci per la morte o il venir meno del singolo capo, ripiombando la massa nel caos e nell’impotenza primitiva. Se è vero che ogni partito è partito di una sola classe, il capo deve poggiare su di questa ed elaborarne uno stato maggiore e tutta una gerarchia; se il capo è di origine «carismatica», deve rinnegare la sua origine e lavorare a rendere organica la funzione della direzione, organica e coi caratteri della permanenza e continuità.
Q 6 §154 I sansimoniani. La forza espansiva dei sansimoniani.
Q 6 §107 Passato e presente. Giolitti e Croce. Si può osservare, e bisognerà documentare cronologicamente come Giolitti e Croce, uno nell’ordine della politica attuale, l’altro nell’ordine della politica culturale e intellettuale, abbiano commesso gli stessi e precisi errori. L’uno e l’altro non compresero dove andava la corrente storica e praticamente aiutarono ciò che poi avrebbero voluto evitare e cercarono di combattere. In realtà, come Giolitti non comprese quale mutamento aveva portato nel meccanismo della vita politica italiana l’ingresso delle grandi masse popolari, così Croce non capì, praticamente, quale potente influsso culturale (nel senso di modificare i quadri direttivi intellettuali) avrebbero avuto le passioni immediate di queste masse.
Q 6 §87 Armi e religione. Affermazione del Guicciardini che per la vita di uno Stato due cose sono assolutamente necessarie: le armi e la religione. La formula del Guicciardini può essere tradotta in varie altre formule, meno drastiche: forza e consenso, coercizione e persuasione, Stato e Chiesa, società politica e società civile, politica e morale (storia etico‑politica del Croce), diritto e libertà, ordine e disciplina, o, con un giudizio implicito di sapore libertario, violenza e frode. In ogni caso nella concezione politica del Rinascimento la religione era il consenso e la Chiesa era la Società civile, l’apparato di egemonia del gruppo dirigente, che non aveva un apparato proprio, cioè non aveva una propria organizzazione culturale e intellettuale, ma sentiva come tale l’organizzazione ecclesiastica universale. Non si è fuori del Medio Evo che per il fatto che apertamente si concepisce e si analizza la religione come «instrumentum regni».
Q 6 §12 Stato e società regolata. Nelle nuove tendenze «giuridiche» rappresentate specialmente dai «Nuovi Studi» del Volpicelli e dello Spirito è da notare, come spunto critico iniziale, la confusione tra il concetto di Stato‑classe e il concetto di società regolata. Questa confusione è specialmente notevole nella memoria La libertà economica svolta dallo Spirito nella XIX Riunione della Società per il progresso delle Scienze tenuta a Bolzano nel settembre 1930 e stampata nei «Nuovi Studi» del settembre‑ottobre 1930. Finché esiste lo Stato‑classe non può esistere la società regolata, altro che per metafora, cioè solo nel senso che anche lo Stato‑classe è una società regolata.
La confusione di Stato‑classe e Società regolata è propria delle classi medie e dei piccoli intellettuali, che sarebbero lieti di una qualsiasi regolarizzazione che impedisse le lotte acute e le catastrofi: è concezione tipicamente reazionaria e regressiva.
Q 6 §82 Passato e presente. Società politica e civile. Polemica intorno alle critiche di Ugo Spirito all’economia tradizionale.
Nella polemica ci sono molti sottintesi e presupposti ideologici che si evita di discutere, almeno finora, da parte degli «economisti» e anche da parte dello Spirito, a quanto pare. È evidente che gli economisti non vogliono discutere la concezione dello Stato dello Spirito, ma è proprio questa la radice del dissenso.
La concezione dello Stato nello Spirito non è molto chiara e rigorosa. Talvolta sembra sostenga addirittura che prima che egli diventasse «la filosofia», nessuno abbia capito nulla dello Stato e lo Stato non sia esistito o non fosse un «vero» Stato ecc. Ma siccome vuol essere storicista, quando se ne ricorda, ammette che anche nel passato sia esistito lo Stato, ma che ormai tutto è cambiato e lo Stato (o il concetto dello Stato) è stato approfondito e posto su «ben altre» basi speculative che nel passato e poiché «quanto più una scienza è speculativa tanto più è pratica», così pare che queste basi speculative debbano ipso facto diventare basi pratiche e tutta la costruzione reale dello Stato mutare perché lo Spirito ne ha mutato le basi speculative (naturalmente non lo Spirito uomo empirico, ma Ugo Spirito ‑ Filosofia).
Volpicelli e Spirito, direttori dei «Nuovi Studi», i Bouvard e Pécuchet della filosofia, della politica, dell’economia, del diritto, della scienza, ecc. ecc. Quistione fondamentale: l’utopia di Spirito e Volpicelli consiste nel confondere lo Stato con la società regolata, confusione che si verifica per una puramente «razionalistica» concatenazione di concetti: individuo = società (l’individuo non è un «atomo», ma l’individuazione storica dell’intera società), società = Stato, dunque individuo = Stato.
Il carattere che differenzia questa «utopia» dalle utopie tradizionali e dalle ricerche, in generale, dell’«ottimo stato» è che Spirito e Volpicelli danno come già esistente questa loro «fantastica» entità, esistente ma non riconosciuta da altri che da loro, depositari della «vera verità», mentre gli altri (specialmente gli economisti e in generale gli scienziati di scienze sociali) non capiscono nulla, sono nell’«errore», ecc.
Q 6 §40 Passato e presente. Il governo inglese. Un articolo interessante di Ramsay Muir sul sistema di governo inglese è stato pubblicato nel fascicolo di novembre 1930 della «Nineteenth Century» (riportato nella «Rassegna settimanale della Stampa Estera», del 9 dicembre 1930). Il Muir sostiene che in Inghilterra non si può parlare di regime parlamentare, perché non esiste controllo del Parlamento sul governo e sulla burocrazia ma solo di una dittatura di partito e ancora di una dittatura inorganica perché il potere oscilla tra partiti estremi. Nel Parlamento la discussione non è quale dovrebbe essere, cioè discussione di Consiglio di Stato, ma discussione di partiti per contendersi il corpo elettorale alla prossima elezione con promesse da parte del governo, screditando il governo da parte dell’opposizione.
Q 6 §60 Le quistioni navali.
Q 6 §99 Concetto di grande potenza. (Cfr altre note precedenti). Secondo il capo del governo italiano: «Sono le marine da guerra che classificano le grandi potenze». È da notare che le marine a guerra possono essere misurate in ogni momento col sistema matematico assoluto, ciò che non può avvenire per gli eserciti terrestri. Ricordare l’epigramma di Anatole France: «Tutti gli eserciti sono i primi del mondo, ma per la marina è il numero delle navi che conta».
Q 6 §138 Passato e presente. Passaggio dalla guerra manovrata (e dall’attacco frontale) alla guerra di posizione anche nel campo politico. Questa mi pare la quistione di teoria politica la più importante, posta dal periodo del dopo guerra e la più difficile ad essere risolta giustamente. Essa è legata alle quistioni sollevate dal Bronstein [Trotsky n.d.c.], che in un modo o nell’altro, può ritenersi il teorico politico dell’attacco frontale in un periodo in cui esso è solo causa di disfatta1.
Solo indirettamente questo passaggio nella scienza politica è legato a quello avvenuto nel campo militare, sebbene certamente un legame esista ed essenziale. La guerra di posizione domanda enormi sacrifizi a masse sterminate di popolazione; perciò è necessaria una concentrazione inaudita dell’egemonia e quindi una forma di governo più «intervenzionista», che più apertamente prenda l’offensiva contro gli oppositori e organizzi permanentemente l’«impossibilità» di disgregazione interna: controlli d’ogni genere, politici, amministrativi, ecc., rafforzamento delle «posizioni» egemoniche del gruppo dominante, ecc. Tutto ciò indica che si è entrati in una fase culminante della situazione politico‑storica, poiché nella politica la «guerra di posizione», una volta vinta, è decisiva definitivamente.
Nella politica cioè sussiste la guerra di movimento fino a quando si tratta di conquistare posizioni non decisive e quindi non sono mobilizzabili tutte le risorse dell’egemonia e dello Stato, ma quando, per una ragione o per l’altra, queste posizioni hanno perduto il loro valore e solo quelle decisive hanno importanza, allora si passa alla guerra d’assedio, compressa, difficile, in cui si domandano qualità eccezionali di pazienza e di spirito inventivo. Nella politica l’assedio è reciproco, nonostante tutte le apparenze e il solo fatto che il dominante debba fare sfoggio di tutte le sue risorse dimostra quale calcolo esso faccia dell’avversario.
Cfr Q7 §16
Q 6 §155 Passato e presente. Politica e arte militare. Tattica delle grandi masse e tattica immediata di piccoli gruppi. Rientra nella discussione sulla guerra di posizione e quella di movimento, in quanto si riflette nella psicologia dei grandi capi (strateghi) e dei subalterni. È anche (se si può dire) il punto di connessione tra la strategia e la tattica, sia in politica che nell’arte militare.
I singoli individui (anche come componenti di vaste masse) sono portati a concepire la guerra istintivamente, come «guerra di partigiani» o «guerra garibaldina» (che è un aspetto superiore della «guerra di partigiani»). Nella politica l’errore avviene per una inesatta comprensione di ciò che è lo Stato (nel significato integrale: dittatura + egemonia), nella guerra si ha un errore simile, trasportato nel campo nemico (incomprensione non solo del proprio Stato, ma anche dello Stato nemico).
L’errore nell’uno e nell’altro caso è legato al particolarismo individuale, di municipio, di regione che porta a sottovalutare l’avversario e la sua organizzazione di lotta.
Stato
Q 6 §88 Stato gendarme ‑ guardiano notturno, ecc. È da meditare questo argomento: la concezione dello Stato gendarme ‑ guardiano notturno, ecc. (a parte la specificazione di carattere polemico: gendarme, guardiano notturno, ecc.) non è poi la concezione dello Stato che sola superi le estreme fasi «corporative‑economiche»? Siamo sempre nel terreno della identificazione di Stato e Governo, identificazione che appunto è un ripresentarsi della forma corporativa‑economica, cioè della confusione tra società civile e società politica, poiché è da notare che nella nozione generale di Stato entrano elementi che sono da riportare alla nozione di società civile (nel senso, si potrebbe dire, che Stato = società politica + società civile, cioè egemonia corazzata di coercizione). In una dottrina dello Stato che concepisca questo come possibile tendenzialmente di esaurimento e di risoluzione della società regolata, l’argomento è fondamentale. L’elemento Stato‑coercizione si può immaginare esaurentesi mano a mano che si affermano elementi sempre più cospicui di società regolata (o Stato etico o società civile).
Le espressioni di Stato etico o di società civile verrebbero a significare che quest’«immagine» di Stato senza Stato era presente ai maggiori scienziati della politica e del diritto in quanto si ponevano nel terreno della pura scienza (= pura utopia, in quanto basata sul presupposto che tutti gli uomini sono realmente uguali e quindi ugualmente ragionevoli e morali, cioè passibili di accettare la legge spontaneamente, liberamente e non per coercizione, come imposta da altra classe, come cosa esterna alla coscienza). Occorre ricordare che l’espressione di guardiano notturno per lo Stato liberale è di Lassalle, cioè di uno statalista dogmatico e non dialettico. (Cfr bene la dottrina di Lassalle su questo punto e sullo Stato in generale, in contrasto col marxismo).
Nella dottrina dello Stato-società regolata, da una fase in cui Stato sarà uguale Governo, e Stato si identificherà con società civile, si dovrà passare a una fase di Stato ‑ guardiano notturno, cioè di una organizzazione coercitiva che tutelerà lo sviluppo degli elementi di società regolata in continuo incremento, e pertanto riducente gradatamente i suoi interventi autoritari e coattivi. Né ciò può far pensare a un nuovo «liberalismo», sebbene sia per essere l’inizio di un’era di libertà organica.
Q 6 §137 Concetto di Stato. Che il concetto comune di Stato sia unilaterale e conduca a errori madornali si può dimostrare parlando del recente libro di Daniele Halévy Decadenza della libertà di cui ho letto una recensione nelle «Nouvelles Littéraires». Per Halévy «Stato» è l’apparato rappresentativo ed egli scopre che i fatti più importanti della storia francese dal 70 ad oggi non sono dovuti ad iniziative degli organismi politici derivanti dal suffragio universale, ma o da organismi privati (società capitalistiche, Stato maggiore, ecc.) o da grandi funzionari sconosciuti al paese, ecc. Ma cosa significa ciò se non che per Stato deve intendersi oltre all’apparato governativo anche l’apparato «privato» di egemonia o società civile. È da notare come da questa critica dello «Stato» che non interviene, che è alla coda degli avvenimenti, ecc., nasce la corrente ideologica dittatoriale di destra, col suo rafforzamento dell’esecutivo, ecc. Bisognerebbe però leggere il libro dell’Halévy per vedere se anch’egli è entrato in questa via: non è difficile in linea di principio, dati i suoi precedenti (simpatie soreliane, per Maurras, ecc.).
Classi
Q 6 §158 Storia delle classi subalterne. Cfr l’articolo di Armando Cavalli, Correnti messianiche dopo il ’70, Nuova Antologia del 16 novembre 1930. Il Cavalli si è occupato anche altre volte di argomenti simili (vedere i suoi articoli nelle riviste di Gobetti, «Rivoluzione Liberale» e «Baretti» e altrove) sebbene con molta superficialità. In questo articolo accenna a Davide Lazzaretti, alle Bande di Benevento, ai movimenti repubblicani (Barsanti) e internazionalisti in Romagna e nel Mezzogiorno. Chiamare «correnti messianiche» è esagerato, perché si tratta di fatti singoli e isolati, che dimostrano più la «passività» delle grandi masse rurali che non una loro vibrazione per sentirsi attraversate da «correnti».
Il concetto di «ideale» formatosi nelle masse di sinistra; nella sua vacuità formale, serve bene a caratterizzare la situazione: non fini e programmi politici concreti e definiti, ma uno stato d’animo vago e oscillante che trovava il suo appagamento in una vuota formula, perché vuota capace di contenere ogni cosa la più disparata. La parola «ideale» è complementare a quella di «sovversivo»: è la formula utile per fare delle frasi ai piccoli intellettuali che formavano l’organizzazione di sinistra. L’«ideale» è un residuo del mazzinianismo popolare in cui si innesta il bakuninismo, e si trascinò fino ai tempi più moderni, mostrando così che una vera direzione politica delle masse non si era formata.
Partiti
Q 6 §136 Organizzazione delle società nazionali. Ho notato altra volta che in una determinata società nessuno è disorganizzato e senza partito, purché si intendano organizzazione e partito in senso largo e non formale. In questa molteplicità di società particolari, di carattere duplice, naturale e contrattuale o volontario, una o più prevalgono relativamente o assolutamente, costituendo l’apparato egemonico di un gruppo sociale sul resto della popolazione (o società civile), base dello Stato inteso strettamente come apparato governativo‑coercitivo.
Avviene sempre che le singole persone appartengano a più di una società particolare e spesso a società che essenzialmente sono in contrasto fra loro. Una politica totalitaria tende appunto: 1) a ottenere che i membri di un determinato partito trovino in questo solo partito tutte le soddisfazioni che prima trovavano in una molteplicità di organizzazioni, cioè a rompere tutti i fili che legano questi membri ad organismi culturali estranei; 2) a distruggere tutte le altre organizzazioni o a incorporarle in un sistema di cui il partito sia il solo regolatore. Ciò avviene: 1) quando il partito dato è portatore di una nuova cultura e si ha una fase progressiva; 2) quando il partito dato vuole impedire che un’altra forza, portatrice di una nuova cultura, diventi essa «totalitaria»; e si ha una fase regressiva e reazionaria oggettivamente, anche se la reazione (come sempre avviene) non confessi se stessa e cerchi di sembrare essa portatrice di una nuova cultura.
Diplomazia
Q 6 §89 Politica e diplomazia. Cavour. (Cfr nota a p. 38 bis su Machiavelli e Guicciardini). Aneddoto riportato da Ferdinando Martini in Confessioni e Ricordi, 1859-1892 (ed. Treves, 1928), pp. 150‑51: per Crispi, il Cavour non doveva essere considerato come un elemento di prima linea nella storia del Risorgimento, ma solo Vittorio Emanuele, Garibaldi e Mazzini. «Il Cavour? Che cosa fece il Cavour? Niente altro che diplomatizzare la rivoluzione…» Il Martini annota: «Non osai dirlo, ma pensai: E scusate se è poco!»
In realtà il Crispi ha torto, ma non per ciò che il Martini crede. Il Cavour non fu solo un diplomatico, ma anzi essenzialmente un politico «creatore», solo che il suo modo di «creare» non era da rivoluzionario, ma da conservatore: e in ultima analisi non il programma di Mazzini e di Garibaldi, ma quello di Cavour trionfò. Né si capisce come il Crispi ponga accanto Vittorio Emanuele a Mazzini e Garibaldi; Vittorio Emanuele sta con Cavour ed è attraverso Vittorio Emanuele che Cavour domina Garibaldi e anche Mazzini.
Il problema non era di suscitare una nazione che avesse il primato in Europa e nel mondo, o uno Stato unitario che strappasse alla Francia l’iniziativa civile, ma di rappezzare uno Stato unitario purchessia. I grandi programmi di Gioberti e di Mazzini dovevano cedere al realismo politico e all’empirismo di Cavour. Questa assenza di «autonomia internazionale» è la ragione che spiega molta storia italiana e non solo delle classi borghesi. Si spiega anche così il perché di molte vittorie diplomatiche italiane, nonostante la debolezza relativa politica‑militare: non è la diplomazia italiana che vince come tale, ma si tratta di abilità nel saper trarre partito dall’equilibrio delle forze internazionali: è un’abilità subalterna, tuttavia fruttuosa. Non si è forti per sé, ma nessun sistema internazionale sarebbe il più forte senza l’Italia.
Q 6 §110 Machiavelli e Guicciardini. Nel libro di Clemenceau, Grandeurs et misères d’une victoire, Plon, 1930, nel capitolo «Les critiques de l’escalier» sono contenute alcune delle osservazioni generali da me fatte nella nota sull’articolo di Paolo Treves, Il realismo politico di Guicciardini: per es. la distinzione tra politici e diplomatici. I diplomatici sono stati formati (dressés) per l’esecuzione, non per l’iniziativa, dice Clemenceau, ecc. Il capitolo è tutto di polemica contro Poincaré che aveva rimproverato il non impiego dei diplomatici nella preparazione del trattato di Versailles.
Q 6 §90 Psicologia e politica. Specialmente nei periodi di crisi finanziaria si sente molto parlare di «psicologia» come di causa efficiente di determinati fenomeni marginali. Psicologia (sfiducia), panico, ecc. Ma cosa significa in questo caso «psicologia»? E una pudica foglia di fico per indicare la «politica», cioè una determinata situazione politica. Poiché di solito per «politica» s’intende l’azione delle frazioni parlamentari, dei partiti, dei giornali e in generale ogni azione che si esplica secondo una direttiva palese e predeterminata, si dà il nome di «psicologia» ai fenomeni elementari di massa, non predeterminati, non organizzati, non diretti palesemente, i quali manifestano una frattura nell’unità sociale tra governati e governanti. Attraverso queste «pressioni psicologiche» i governati esprimono la loro sfiducia nei dirigenti e domandano che siano mutate le persone e gli indirizzi dell’attività finanziaria e quindi economica. I risparmiatori non investono risparmi e disinvestono da determinate attività che appaiono particolarmente rischiose, ecc.: si accontentano di interessi minimi e anche di interessi zero; qualche volta preferiscono perdere addirittura una parte del capitale per mettere al sicuro il resto.
Può bastare l’«educazione» per evitare queste crisi di sfiducia generica? Esse sono sintomatiche appunto perché «generiche» e contro la «genericità» è difficile educare una nuova fiducia. Il succedersi frequente di tali crisi psicologiche indica che un organismo è malato, cioè che l’insieme sociale non è più in grado di esprimere dirigenti capaci. Si tratta dunque di crisi politiche e anzi politico‑sociali del raggruppamento dirigente.
Q 6 §109 Passato e presente. L’individuo e lo Stato. Come la situazione economica è mutata a «danno» del vecchio liberalismo: è vero che ogni cittadino conosce i suoi affari meglio di chiunque altro nelle attuali condizioni? è vero che avviene, nelle attuali condizioni, una selezione secondo i meriti? «Ogni cittadino», in quanto non può conoscere e specialmente non può controllare le condizioni generali in cui gli affari si svolgono data l’ampiezza del mercato mondiale e la sua complessità, in realtà non conosce neanche i propri affari: necessità delle grandi organizzazioni industriali, ecc.
Inoltre lo Stato, col regime sempre più gravoso delle imposte, colpisce i cittadini propri, ma non può colpire i cittadini delle altre nazioni (meno tassate, o con regimi di tasse che distribuiscono diversamente le imposte); i grandi Stati, che devono avere grandi spese per servizi pubblici imponenti (compresi esercito, marina, ecc.) colpiscono di più i cittadini propri (si aggiunge la disoccupazione sussidiata, ecc.). Ma l’intervento dello Stato con le tariffe doganali crea una nuova base? Lo Stato, con le tariffe «sceglie» tra i cittadini quelli da proteggere anche se non «meritevoli», ecc., scatena una lotta tra i gruppi per la divisione del reddito nazionale, ecc.
Q 6 §91 Funzionari e funzioni. Cosa significa, dal punto di vista dei «funzionari e delle funzioni», il distacco tra i prezzi all’ingrosso e quelli al minuto? Che esiste un «esercito» di funzionari che si mangia la differenza sulle spalle e consumatore e del produttore. E che significano i fallimenti saliti a cifre iperboliche? Che i «concorsi» per questo esercito di funzionari vanno male assai: e sono «concorsi» di un tipo speciale: i «bocciati» distruggono una massa ingente di ricchezza e sono bocciati solo «pro tempore»: anche se «bocciati» riprendono a funzionare e a distruggere nuova ricchezza. Quanti di tali funzionari esistono? Essi stessi si creano le funzioni, si assegnano lo stipendio e mettono da parte la pensione.
Q 6 §100 Passato e presente. Industriali e agrari. Tutta la storia passata, dal nascere di una certa industria in poi, è caratterizzata da un difficile e complicato sforzo di dividere il reddito nazionale tra industriali e agrari, sforzo complicato dall’esistenza di una relativamente vasta categoria di medi e piccoli proprietari terrieri non coltivatori ma abitanti in città (nelle cento città), divoratori parassitari di rendita agraria.
Poiché il sistema così costruito (protezionismo industriale e protezionismo agricolo) non può non essere insufficiente, esso si regge sul basso tenor di vita delle grandi masse, per la mancanza di materie prime (che non permette un grande sviluppo industriale) e per l’impossibilità di risparmio notevole, perché i margini sono inghiottiti dai ceti parassitari e manca l’accumulazione (nonostante il basso tenor di vita delle grandi masse).
Quando l’assenza di materie prime assurge a motivo di politica militarista e nazionalista (non certo imperialista, che è grado più sviluppato dello stesso processo) è naturale domandarsi se le materie prime esistenti sono bene sfruttate, perché altrimenti non si tratta di politica nazionale (cioè di una intera classe) ma di una oligarchia parassitaria e privilegiata, cioè non si tratta di politica estera, ma di politica interna di corruzione e di deperimento delle forze nazionali.
Q 6 §123 Passato e presente. Osservazioni sulla crisi 29‑30. Cfr numero di «Economia» del marzo 1931 dedicato a La depressione economica mondiale: i due articoli di P. Jannaccone e di Gino Arias. Lo Jannaccone osserva che «la causa prima» (! sic) della crisi «è un eccesso, non un difetto di consumo», cioè che siamo di fronte a una profonda e, assai probabilmente, non passeggera perturbazione dell’equilibrio dinamico fra la quota consumata e la quota risparmiata del reddito nazionale e il ritmo della produzione necessario per mantenere in un tenore di vita, immutato o progrediente, una popolazione che aumenta a un determinato saggio di incremento netto.
La rottura di tale equilibrio può verificarsi in più modi: espansione della quota di reddito consumata a danno di quella risparmiata e reinvestita per la produzione futura; diminuzione del saggio di produttività dei capitali, aumento del saggio di incremento netto della popolazione. A un certo punto, cioè, il reddito medio individuale da crescente diviene costante e da costante progressivamente decrescente: scoppiano a questo punto le crisi, la diminuzione del reddito medio porta a una contrazione anche assoluta del consumo e per riflesso a ulteriori riduzioni della produzione, ecc. La crisi mondiale, così, sarebbe crisi di risparmio e «il rimedio sovrano per arginarla, senza che si abbassi il saggio d’incremento (netto) della popolazione, sta nell’aumentare la quota di reddito destinata al risparmio e alla formazione di capitali nuovi. Questo è l’ammonimento di alto valore morale che sgorga dai ragionamenti della scienza economica».
Le osservazioni dello Jannaccone sono indubbiamente acute: l’Arias ne trae però delle conclusioni puramente tendenziose e in parte imbecilli. Ammessa la tesi dello Jannaccone è da domandare: a che cosa è da attribuire l’eccesso di consumo? Si può provare che le masse lavoratrici abbiano aumentato il loro tenore di vita in tale proporzione da rappresentare un eccesso di consumo? Cioè il rapporto tra salari e profitti è diventato catastrofico per i profitti? Una statistica non potrebbe dimostrare questo neppure per l’America.
L’Arias «trascura» un elemento «storico» di qualche importanza: non è avvenuto che nella distribuzione del reddito nazionale attraverso specialmente il commercio e la borsa, si sia introdotta, nel dopoguerra (o sia aumentata in confronto del periodo precedente), una categoria di «prelevatori» che non rappresenta nessuna funzione produttiva necessaria e indispensabile, mentre assorbe una quota di reddito imponente? Non si bada che il «salario» è sempre legato necessariamente a un lavoro (bisognerebbe distinguere però il salario o la mercede che assorbe la categoria di lavoratori addetti al servizio delle categorie sociali improduttive e assolutamente parassitarie), (ci sono inoltre lavoratori infermi o disoccupati che vivono di pubblica carità o di sussidi) e il reddito assorbito dal salariato è identificabile quasi al centesimo. Mentre è difficile identificare il reddito assorbito dai non‑salariati che non hanno una funzione necessaria e indispensabile nel commercio e nell’industria. Un rapporto tra operai «occupati» e il resto della popolazione darebbe l’immagine del peso «parassitario» che grava sulla produzione. Disoccupazione di non‑salariati: essi non sono passibili di statistica, perché «vivono» in qualche modo di mezzi propri, ecc.
Nel dopoguerra la categoria degli improduttivi parassitari in senso assoluto e relativo è cresciuta enormemente ed è essa che divora il risparmio. Nei paesi europei essa è ancora superiore che in America, ecc. Le cause della crisi non sono quindi «morali» (godimenti, ecc.) né politiche, ma economico‑sociali, cioè della stessa natura della crisi stessa: la società crea i suoi propri veleni, deve far vivere delle masse (non solo di salariati disoccupati) di popolazione che impediscono il risparmio e rompono così l’equilibrio dinamico.
Q 6 §127 Quistioni industriali. Nella «Revue des Deux Mondes» del 15 novembre 1930 è pubblicata la memoria letta all’Accademia di Scienze morali e politiche di Parigi da Eugenio Schneider, il capo della ditta del Creusot su Les relations entre patrons et ouvriers. Les délégués de corporation.
Q 6 §128 Centralismo organico ecc. Lo Schneider cita queste parole di Foch: «Commander n’est rien. Ce qu’il faut, c’est bien comprendre ceux avec qui on a affaire et bien se faire comprendre d’eux. Le bien comprendre, c’est tout le secret de la vie...». Tendenza a separare il «comando» da ogni altro elemento e a farne un «toccasana» di nuovo genere. E ancora occorre distinguere tra il «comando» espressione di diversi gruppi sociali: da gruppo a gruppo l’arte del comando e il suo modo di esplicarsi muta di molto, ecc. Il centralismo organico, col comando caporalesco e «astrattamente» concepito, è legato a una concezione meccanica della storia e del movimento, ecc.
Q 6 §156 Sul capitalismo antico o meglio sull’industrialismo antico è da leggere l’articolo di G. C. Speziale Delle navi di Nemi e dell’archeologia navale nella Nuova Antologia del 1° novembre 1930 (polemica col prof. Giuseppe Lugli che scrisse nel «Pègaso»; articoli in giornali quotidiani dello stesso tempo). L’articolo dello Speziale è molto interessante, ma pare che egli esageri nell’importanza data alle possibilità industriali nell’antichità (cfr la quistione sul capitalismo antico discussa nella «Nuova Rivista Storica»).
Q 6 §84 Passato e presente. Continuità e tradizione. Un aspetto della quistione accennata a p. 33 «Dilettantismo e disciplina», dal punto di vista del centro organizzativo di un raggruppamento è quello della «continuità» che tende a creare una «tradizione» intesa, naturalmente, in senso attivo e non passivo come continuità in continuo sviluppo, ma «sviluppo organico».
Questo problema contiene in nuce tutto il «problema giuridico», cioè il problema di assimilare alla frazione più avanzata del raggruppamento tutto il raggruppamento: è un problema di educazione delle masse, della loro «conformazione» secondo le esigenze del fine da raggiungere. Questa appunto è la funzione del diritto nello Stato e nella Società; attraverso il «diritto» lo Stato rende «omogeneo» il gruppo dominante e tende a creare un conformismo sociale che sia utile alla linea di sviluppo del gruppo dirigente.
L’attività generale del diritto (che è più ampia dell’attività puramente statale e governativa e include anche l’attività direttiva della società civile, in quelle zone che i tecnici del diritto chiamano di indifferenza giuridica, cioè nella moralità e nel costume in genere) serve a capire meglio, concretamente, il problema etico, che in pratica è la corrispondenza «spontaneamente e liberamente accolta» tra gli atti e le omissioni di ogni individuo, tra la condotta di ogni individuo e i fini che la società si pone come necessari, corrispondenza che è coattiva nella sfera del diritto positivo tecnicamente inteso, ed è spontanea e libera (più strettamente etica) in quelle zone in cui la «coazione» non è statale, ma di opinione pubblica, di ambiente morale ecc.
La continuità «giuridica» del centro organizzativo non deve essere di tipo bizantino‑napoleonico, cioè secondo un codice concepito come perpetuo, ma romano‑anglosassone, cioè la cui caratteristica essenziale consiste nel metodo, realistico, sempre aderente alla concreta vita in perpetuo sviluppo. Questa continuità organica richiede un buon archivio, bene attrezzato e di facile consultazione, in cui tutta l’attività passata sia facilmente riscontrabile e «criticabile». Le manifestazioni più importanti di questa attività non sono tanto le «decisioni organiche» quanto le circolari esplicative e ragionate (educative).
C’è il pericolo di «burocratizzarsi», è vero, ma ogni continuità organica presenta questo pericolo, che occorre vigilare. Il pericolo della discontinuità, dell’improvvisazione, è ancora più grande. Organo, «il bollettino» che [...] tre sezioni principali: 1) articoli direttivi; 2) decisioni e circolari; 3) critica del passato, cioè richiamo continuo dal presente al passato, per mostrare le differenziazioni e le precisazioni e per giustificarle criticamente.
Q 6 §63 Diritto romano o diritto bizantino? Il «diritto» romano consisteva essenzialmente in un metodo di creazione del diritto, nella risoluzione continua della casistica giurisprudenziale. I bizantini (Giustiniano) raccolsero la massa dei casi di diritto risolti dall’attività giuridica concreta dei Romani, non come documentazione storica, ma come codice ossificato e permanente. Questo passaggio da un «metodo» a un «codice» permanente può anche assumersi come la fine di un’età, il passaggio da una storia in continuo e rapido sviluppo, a una fase storica relativamente stagnante. La rinascita del «diritto romano», cioè, della codificazione bizantina del metodo romano di risolvere le quistioni di diritto, coincide con l’affiorare di un gruppo sociale che vuole una «legislazione» permanente, superiore agli arbitri dei magistrati (movimento che culmina nel «costituzionalismo») perché solo in un quadro permanente di «concordia discorde», di lotta entro una cornice legale che fissi i limiti dell’arbitrio individuale, può sviluppare le forze implicite nella sua funzione storica.
Benedetto Croce
Q 6 §112 Passato e presente. L’utopia crociana.
Il Croce crede di fare della «scienza pura», della pura «storia», della pura «filosofia», ma in realtà fa dell’«ideologia», offre strumenti pratici di azione a determinati gruppi politici; poi si maraviglia che essi non siano stati «compresi» come «scienza pura» ma «distolti» dal loro fine proprio che era puramente scientifico. Cfr per es. nel volume Cultura e vita morale i due capitoli: «Fissazione filosofica» a p. 296 e il capitolo «Fatti politici e interpretazioni storiche» a p. 270.
Q 6 §124 Croce e la critica letteraria. L’estetica di Croce sta diventando normativa, sta diventando una «rettorica»? Bisognerebbe aver letto la sua Aesthetica in nuce (che è l’articolo sull’estetica dell’ultima edizione dell’Encyclopedia Britannica). Un’affermazione di essa dice che compito precipuo dell’estetica moderna ha da essere «la restaurazione e difesa della classicità contro il romanticismo, del momento sintetico e formale e teoretico, in cui è il proprio dell’arte, contro quello affettivo, che l’arte ha per istituto di risolvere in sé». Questo brano mostra quali siano le preoccupazioni «morali» del Croce, oltre che le sue preoccupazioni estetiche, cioè le sue preoccupazioni «culturali» e quindi «politiche». Si potrebbe domandare se l’estetica, come scienza, possa avere altro compito oltre quello di elaborare una teoria dell’arte e della bellezza, dell’espressione. Qui estetica significa «critica in atto» in «concreto», ma la critica in atto non dovrebbe solo criticare, cioè fare la storia dell’arte in concreto, delle «espressioni artistiche individuali»?
Chiesa e Stato
Q 6 §202 Il Concordato. Quando incominciarono le trattative per il Concordato?
Q 6 §23 Passato e presente. I cattolici dopo il Concordato. È molto importante la risposta del Papa all’augurio natalizio del S. Collegio dei Cardinali pubblicata nella «Civiltà Cattolica» del 4 gennaio 1930. Nella «Civiltà Cattolica» del 18 gennaio è pubblicata l’Enciclica papale Quinquagesimo ante anno (per il cinquantesimo anno di Sacerdozio di Pio XI) dove è ripetuto che Trattato e Concordato sono inscindibili e inseparabili «o tutti e due restano, o ambedue necessariamente vengono meno».
Questa affermazione reiterata del Papa ha un grande valore: essa forse è stata fatta e ribadita, non solo nei riguardi del governo italiano col quale i due atti sono stati compiuti, ma specialmente come salvaguardia nel caso di mutamento di governo.
La difficoltà è nel fatto che cadendo il Trattato, il Papa dovrebbe restituire le somme che intanto sono state versate dallo Stato Italiano in virtù del Trattato: né avrebbe valore il cavillo possibile basato sulla legge delle guarentigie. Bisognerà vedere come mai nei bilanci dello Stato era impostata la somma che lo Stato aveva assegnato al Vaticano dopo le guarentigie, quando esisteva una diffida che tale obbligo veniva a cadere se entro i cinque anni dopo la legge, il Vaticano ne avesse rifiutato la riscossione.
Q 6 §24 Nozioni enciclopediche. La società civile. Occorre distinguere la società civile come è intesa dallo Hegel e nel senso in cui è spesso adoperata in queste note (cioè nel senso di egemonia politica e culturale di un gruppo sociale sull’intera società, come contenuto etico dello Stato) dal senso che le danno i cattolici, per i quali la società civile è invece la società politica o lo Stato, in confronto della società famigliare e della Chiesa. Dice Pio XI nella sua Enciclica sull’educazione («Civiltà Cattolica» del 1° febbraio 1930): «Tre sono le società necessarie, distinte e pur armonicamente congiunte da Dio, in seno alle quali nasce l’uomo: due società di ordine naturale, quali sono la famiglia e la società civile; la terza, la Chiesa, di ordine soprannaturale. Dapprima la famiglia, istituita immediatamente da Dio al fine suo proprio, che è la procreazione ed educazione della prole, la quale perciò ha la priorità di natura e quindi una priorità di diritti, rispetto alla società civile. Nondimeno, la famiglia è società imperfetta, perché non ha in sé tutti i mezzi per il proprio perfezionamento: laddove la società civile è società perfetta, avendo in sé tutti i mezzi al fine proprio che è il bene comune temporale, onde, per questo rispetto, cioè in ordine al bene comune, essa ha preminenza sulla famiglia, la quale raggiunge appunto nella società civile la sua conveniente perfezione temporale. La terza società, nella quale nasce l’uomo, mediante il Battesimo, alla vita divina della Grazia, è la Chiesa, società di ordine soprannaturale e universale, società perfetta, perché ha in sé tutti i mezzi al suo fine, che è la salvezza eterna degli uomini, e pertanto suprema nel suo ordine».
Per il cattolicismo, quella che si chiama «società civile» in linguaggio hegeliano, non è «necessaria», cioè è puramente storica o contingente. Nella concezione cattolica, lo Stato è solo la Chiesa, ed è uno Stato universale e soprannaturale: la concezione medioevale teoricamente è mantenuta in pieno.
MB.: La concezione cattolica dello Stato
Q 6 §139 Conflitto tra Stato e Chiesa come categoria eterna storica. Cfr a questo proposito il capitolo corrispondente di Croce nel suo libro sulla politica. Si potrebbe aggiungere che, in un certo senso, il conflitto tra «Stato e Chiesa» simbolizza il conflitto tra ogni sistema di idee cristallizzate, che rappresentano una fase passata della storia, e le necessità pratiche attuali. Lotta tra conservazione e rivoluzione, ecc., tra il pensato e il nuovo pensiero, tra il vecchio che non vuol morire e il nuovo che vuol vivere, ecc.
Q 6 §140 Passato e presente. Il Cattolicismo italiano.
Clero
Q 6 §174 Chiesa Cattolica. Atlas Hierarchicus.
Azione Cattolica
Q 6 §200 Intellettuali italiani. Perché ad un certo punto la maggioranza dei cardinali fu composta di italiani e i papi furono sempre scelti tra italiani? Questo fatto ha una certa importanza nello sviluppo intellettuale nazionale italiano e qualcuno potrebbe anche vedere in esso l’origine del Risorgimento. Esso certamente fu dovuto a necessità interne di difesa e sviluppo della Chiesa e della sua indipendenza di fronte alle grandi monarchie straniere europee, tuttavia la sua importanza nei riflessi italiani non è perciò diminuita.
Se positivamente il Risorgimento può dirsi incominci con l’inizio delle lotte tra Stato e Chiesa, cioè con la rivendicazione di un potere governativo puramente laico, quindi col regalismo e il giurisdizionalismo (onde l’importanza del Giannone), negativamente è anche certo che le necessità di difesa della sua indipendenza portarono la Chiesa a cercare sempre più in Italia la base della sua supremazia e negli italiani il personale del suo apparato organizzativo.
È da questo inizio che si svilupperanno le correnti neoguelfe del Risorgimento, attraverso le diverse fasi (quella del Sanfedismo italiano per esempio) più o meno retrive e primitive.
Questa nota perciò interessa oltre la rubrica degli intellettuali anche quella del Risorgimento e quella delle origini dell’Azione Cattolica «italiana».
Nello sviluppo di una classe nazionale, accanto al processo della sua formazione nel terreno economico, occorre tener conto del parallelo sviluppo nei terreni ideologico, giuridico, religioso, intellettuale, filosofico, ecc.: si deve dire anzi che non c’è sviluppo sul terreno economico, senza questi altri sviluppi paralleli. Ma ogni movimento della «tesi» porta a movimenti della «antitesi» e quindi a «sintesi» parziali e provvisorie.
Il movimento di nazionalizzazione della Chiesa in Italia è imposto non proposto: la Chiesa si nazionalizza in Italia in forme ben diverse da ciò che avviene in Francia col gallicanismo, ecc. In Italia la Chiesa si nazionalizza in modo «italiano», perché deve nello stesso tempo rimanere universale: intanto nazionalizza il suo personale dirigente e questo vede sempre più l’aspetto nazionale della funzione storica dell’Italia come sede del Papato.
Q 6 §151 Azione cattolica. Santificazione di Roberto Bellarmino, segno dei tempi e del creduto impulso di nuova potenza della Chiesa cattolica; rafforzamento dei gesuiti, ecc. Il Bellarmino condusse il processo contro Galileo e redasse gli otto motivi che portarono Giordano Bruno al rogo. Santificato il 29 giugno 1930; ma ha importanza non questa data, ma la data in cui fu iniziato il processo di santificazione. Cfr la Vita di Galileo del Banfi (ed. La Cultura) e la recensione di G. De Ruggiero nella «Critica» in cui si documentano le gherminelle gesuitiche in cui il Galilei rimase impigliato. Il Bellarmino è autore della formula del potere indiretto della Chiesa su tutte le sovranità civili. La festa di Cristo re (istituita nel 1925 o 26?) per l’ultima domenica di ottobre di ogni anno.
Q 6 §173 Azione Cattolica. Cfr «Civiltà Cattolica» del 19 aprile 1930: Azione Cattolica e Associazioni religiose. Riporta una lettera del card. Pacelli e il riassunto di un discorso del Papa. Nel marzo precedente il Segretario del P.N.F. aveva diramato una circolare sulla non incompatibilità per la contemporanea partecipazione all’Azione Cattolica e al P.N.F.1
Q 6 §175 Azione Cattolica. Per l’attività in Francia cfr Les nouvelles conditions de la vie industrielle, Semaines Sociales de France, XXI Session, 1929, Parigi, 1930, in 8°, pp. 574. Sarebbe interessante vedere quali argomenti hanno trattato le Settimane Sociali nei vari paesi e perché certe quistioni non sono mai trattate in certi paesi, ecc.
Q 6 §183 Azione Cattolica. Per la preistoria dell’Azione Cattolica cfr nella «Civiltà Cattolica» del 2 agosto 1930 l’articolo: Cesare D’Azeglio e gli albori della stampa cattolica in Italia.
Q 6 §186 Azione Cattolica. In Ispagna. Cfr M. De Burgos y Mazo, El problema social y la democracia cristiana. Nel 1929 è uscita la Parte prima, Tomo V (?), di pp. 790, a Barcellona, ed. L. Gili. Dev’essere un’opera mastodontica. Questo Tomo V della prima parte costa pesete 18,70.
Q 6 §187 Azione Cattolica. Stati Uniti. È interessante la corrispondenza dagli Stati Uniti pubblicata nella «Civiltà Cattolica» del 20 settembre 1930. I cattolici ricorrono spesso all’esempio degli Stati Uniti per ricordare la loro compattezza e il loro fervore religioso in confronto dei protestanti divisi in tante sette e continuamente rosi dalla tendenza a cadere nell’indifferentismo o nell’areligiosità, onde l’imponente numero di cittadini che nei censimenti dichiarano di essere senza religione. Pare però, da questa corrispondenza, che, anche tra i cattolici, l’indifferentismo non sia scarso.
Appare quindi che il numero dei cattolici negli Stati Uniti è solo un numero statistico, da censimenti, cioè più difficilmente uno di origine cattolica dichiara di essere senza religione, a differenza di quelli d’origine protestante. Più ipocrisia, insomma. Da questo si può giudicare l’esattezza e la sincerità delle statistiche nei paesi a maggioranza cattolica.
Q 6 §188 Azione Cattolica. Sulle origini dell’Azione Cattolica cfr l’articolo La fortuna del La Mennais e le prime manifestazioni d’Azione Cattolica in Italia
L’articolo della «Civiltà Cattolica» pone un problema essenziale: se il Lamennais è all’origine dell’Azione Cattolica, questa origine non contiene il germe del posteriore cattolicismo liberale, il germe che, sviluppandosi in seguito, darà il Lamennais seconda maniera? È da notare che tutte le innovazioni nel seno della Chiesa quando non sono dovute a iniziativa del centro, hanno in sé qualcosa di ereticale e finiscono con assumere esplicitamente questo carattere finché il centro reagisce energicamente, scompigliando le forze innovatrici, riassorbendo i tentennanti ed escludendo i refrattari.
È notevole che la Chiesa non ha mai avuto molto sviluppato il senso dell’autocritica come funzione centrale; ciò nonostante la tanto vantata sua adesione alle grandi masse dei fedeli. Perciò le innovazioni sono sempre state imposte e non proposte e accolte solo obtorto collo.
Lo sviluppo storico della Chiesa è avvenuto per frazionamento (le diverse compagnie religiose sono in realtà frazioni assorbite e disciplinate come «ordini religiosi»).
Altro fatto della Restaurazione: i governi fanno concessioni alle correnti liberali a spese della Chiesa e dei suoi privilegi e questo è un elemento che crea la necessità di un partito della Chiesa ossia dell’Azione Cattolica.
Lo studio delle origini dell’Azione Cattolica porta così a uno studio del Lamennaisismo e della sua diversa fortuna e diffusione.
Cattolici integralisti, gesuiti e modernisti
Q 6 §164 Cattolici integrali, gesuiti, modernisti. Vedere l’effetto che nell’equilibrio delle forze cattoliche ha avuto la crisi religiosa in Ispagna.<7
Q 6 §182 Cattolici integrali, gesuiti e modernisti. Giovanni Papini. Dalla recensione del libro su Sant’Agostino di Giovanni Papini, pubblicata dalla «Civiltà Cattolica» del 19 luglio 1930 (p. 155), appare che i cattolici integrali si sono schierati contro il Papini:
Q 6 §195 Cattolici integrali, gesuiti, modernisti. Il caso Turmel. Cfr l’articolo La catastrofe del caso Turmel e i metodi del modernismo critico, nella «Civiltà Cattolica» del 6 dicembre 1930. Lo scritto è molto importante e il caso Turmel è di sommo interesse nella quistione.
Questo Turmel, pur rimanendo sacerdote, per oltre venti anni, con svariatissimi pseudonimi, scrisse articoli e libri di carattere eterodosso, fino ad essere apertamente ateistici. Nel 1930 i gesuiti riuscirono a smascherarlo e a farlo dichiarare scomunicato vitando: nel decreto del Santo Uffizio è contenuta la lista delle sue pubblicazioni e dei suoi pseudonimi. La sua attività ha del romanzesco.
Risulta così che dopo la crisi modernistica, nell’organizzazione ecclesiastica si formarono delle formazioni segrete: oltre a quella dei gesuiti (che d’altronde non sono omogenei e concordi, ma hanno avuto un’ala modernistica – il Tyrrell era gesuita – e una integralista – il cardinale Billot era integralista) esisteva ed esisterà ancora una formazione segreta integralista e una modernista.
In Francia la nascita dell’integralismo è da connettere col movimento del Ralliement propugnato da Leone XIII: sono integralisti quelli che disobbediscono a Leone XIII e ne sabotano l’iniziativa. La lotta di Pio X contro il Combismo sembra dar loro ragione e Pio X è il loro papa, come è il papa di Maurras. In appendice al volume dell’Héritier sono stampati articoli di altri scrittori che trattano del Ralliement e sostengono anche nelle quistioni di storia religiosa la tesi del Maurras sull’anarchismo dissolvente del cristianesimo giudaico e sulla romanizzazione del cattolicismo.
Encicliche
Q 6 §25 Passato e presente. L’enciclica del papa sull’educazione (pubblicata nella «Civiltà Cattolica» del 1° febbraio 1930): discussioni che ha sollevato, problemi che ha posto, teoricamente e praticamente. (Questo è un comma del paragrafo generale sulla quistione della scuola, o dell’aspetto scolastico del problema nazionale della cultura o della lotta per la cultura).
Q 6 §163 Passato e presente. Le encicliche papali. Un esame critico‑letterario delle encicliche papali. Esse sono per il 90% un centone di citazioni generiche e vaghe, il cui scopo pare essere quello di affermare in ogni occasione la continuità della dottrina ecclesiastica dagli Evangeli ad oggi. In Vaticano devono avere uno schedario formidabile di citazioni per ogni argomento: quando si deve compilare un’enciclica, si comincia con il fissare preventivamente le schede contenenti la dose necessaria di citazioni: tante dall’Evangelio, tante dai padri della Chiesa, tante dalle precedenti encicliche. L’impressione che se ne ottiene è di grande freddezza. Si parla della carità, non perché ci sia un tal sentimento verso gli uomini attuali, ma perché così ha detto Matteo, e Agostino, e il «nostro predecessore di felice memoria», ecc. Solo quando il papa scrive o parla di politica immediata, si sente un certo calore.
Altro
Q 6 §181 Chiesa cattolica. Santi e beati.
Q 6 §196 Politica del Vaticano. Malta.
Altre religioni
Q 6 §190 Cultura sud‑americana. Cfr l’articolo Il protestantesimo degli Stati Uniti e l’Evangelizzazione protestante nell’America latina nella «Civiltà Cattolica» del 18 ottobre 1930. L’articolo è interessante e istruttivo per apprendere come lottano tra loro cattolici e protestanti: naturalmente i cattolici presentano le missioni protestanti come l’avanguardia della penetrazione economica e politica degli Stati Uniti e lottano contro sollevando il sentimento nazionale. Lo stesso rimprovero fanno i protestanti ai cattolici, presentando la Chiesa e il papa come potenze terrene che si ammantano di religione, ecc.
Q 6 §178 Nozioni enciclopediche. Teopanismo. Termine usato dai gesuiti per esempio per indicare una caratteristica della religione induista (ma teopanismo non significa panteismo? oppure si adopera per indicare una particolare concezione religioso‑mitologica, per distinguerla dal «panteismo» filosofico‑superiore?) Cfr «Civiltà Cattolica», 5 luglio 1930 (articolo «L’Induismo», pp. 17‑18):
«Per l’induismo non vi ha differenza sostanziale tra Dio, uomo, animale e pianta: tutto è Dio, non solo nella credenza delle classi inferiori, presso le quali siffatto panteismo è concepito animisticamente, ma anche presso le alte classi e le persone colte, nella cui maniera di pensare l’essenza divina si rivela, in senso teopanistico, come mondo delle anime e delle cose visibili. Benché in sostanza sia lo stesso errore, nondimeno, nella maniera di concepirlo ed esprimerlo, si distingue il panteismo, che immagina il mondo come un essere assoluto, oggetto di culto religioso: “il tutto è Dio”, dal teopanismo, che concepisce Dio come la realtà spirituale-reale, da cui emanano tutte le cose: “Dio diventa tutto”, necessariamente, incessantemente, senza principio e senza fine. Il teopanismo è (accanto a pochi sistemi dualistici) la maniera più comune della filosofia induista, di concepire Dio e il mondo».
Q 6 §22 Gli inglesi e la religione.
Da un articolo della «Civiltà Cattolica» del 4 gennaio 1930, L’opera della grazia in una recente conversione dall’anglicanismo, tolgo questa citazione dal libro di Vernon Johnson One Lord, one Faith (Un signore, una fede; Londra, Sheed and Ward, 1929; il Johnson è appunto il convertito): «L’inglese medio non pensa quasi mai alla questione dell’autorità nella sua religione. Egli accetta quella forma d’insegnamento della Chiesa anglicana, in cui è stato allevato, sia anglocattolica, sia latitudinarista, sia evangelica, e la segue sino al punto in cui comincia a non soddisfare ai suoi bisogni o viene in conflitto con la sua personale opinione. Perciò, essendo sostanzialmente onesto e sincero, non volendo professare più di quello che egli realmente crede, scarta tutto quello che non può accettare e si forma una religione personale sua propria».
Teorie sulla religione
Q 6 §41 Religione. «Viaggiando, potrai trovare città senza mura e senza lettere, senza re e senza case (!), senza ricchezze e senza l’uso della moneta, prive di teatri e di ginnasi (palestre). Ma una città senza templi e senza dei, che non pratichi né preghiere, né giuramenti, né divinazioni, né i sacrifizi per impetrare i beni e deprecare i mali, nessuno l’ha mai veduta, né la vedrà mai». Plutarco, adv. Col., 31.
Definizione della religione del Turchi (Storia delle religioni, Bocca 1922): «La parola religione nel suo significato più ampio, denota un legame di dipendenza che riannoda l’uomo a una o più potenze superiori dalle quali sente di dipendere ed a cui tributa atti di culto sia individuali che collettivi». Cioè nel concetto di religione si presuppongono questi elementi costitutivi: 1° la credenza che esistano una o più divinità personali trascendenti le condizioni terrestri e temporali; 2° il sentimento degli uomini di dipendere da questi esseri superiori che governano la vita del cosmo totalmente; 3° l’esistenza di un sistema di rapporti (culto) tra gli uomini e gli dei.
Salomone Reinach nell’Orpheus definisce la religione senza presupporre la credenza in potenze superiori: «Un insieme di scrupoli (tabù) che fanno ostacolo al libero esercizio delle nostre facoltà». Questa definizione è troppo ampia e può comprendere non solo le religioni ma anche qualsiasi ideologia sociale che tende a rendere possibile la convivenza e perciò ostacola (con scrupoli) il libero (o arbitrario) esercizio delle nostre facoltà.
Sarebbe da vedere anche se può chiamarsi «religione» una fede che non abbia per oggetto un dio personale, ma solo delle forze impersonali e indeterminate. Nel mondo moderno si abusa delle parole «religione» e «religioso» attribuendole a sentimenti che nulla hanno che vedere con le religioni positive. Anche il puro «teismo» non è da ritenersi una religione; manca in esso il culto, cioè un rapporto determinato fra l’uomo e la divinità.
Italiani
Machiavelli
Q 6 §50 Machiavelli. Fortuna «pratica» di Machiavelli: Carlo V lo studiava. Enrico IV. Sisto V ne fece un sunto. Caterina de’ Medici lo portò in Francia e se ne ispirò forse per la lotta contro gli Ugonotti e la strage di S. Bartolomeo. Richelieu, ecc. Cioè Machiavelli servì realmente gli Stati assoluti nella loro formazione, perché era stato l’espressione della «filosofia dell’epoca» europea più che italiana.
Q 6 §52 Machiavelli. Machiavelli come figura di transizione tra lo Stato corporativo repubblicano e lo Stato monarchico assoluto. Non sa staccarsi dalla repubblica ma capisce che solo un monarca assoluto può risolvere i problemi dell’epoca. Questo dissidio tragico della personalità umana Machiavellica (dell’uomo Machiavelli) sarebbe da vedere.
Q 6 §152 Storia degli intellettuali italiani. Il processo di Galileo, di Giordano Bruno, ecc. e l’efficacia della Controriforma nell’impedire lo sviluppo scientifico in Italia. Sviluppo delle scienze nei paesi protestanti o dove la Chiesa era meno immediatamente forte che in Italia. La Chiesa avrebbe contribuito alla snazionalizzazione degli intellettuali italiani in due modi: positivamente, come organismo universale che preparava personale a tutto il mondo cattolico, e negativamente, costringendo ad emigrare quegli intellettuali che non volevano sottomettersi alla disciplina controriformistica.
Q 6 §7 Funzione cosmopolita degli intellettuali italiani. La borghesia medioevale e il suo rimanere nella fase economico‑corporativa. È da fissare in che consista concretamente l’indipendenza e l’autonomia di uno Stato e in che consistesse nel periodo dopo il Mille. Già oggi le alleanze, con l’egemonia di una grande potenza, rendono problematica la libertà d’azione ma specialmente la libertà di fissare la propria linea di condotta, di moltissimi Stati: questo fatto si doveva manifestare in modo molto più marcato dopo il Mille, data la funzione internazionale dell’Impero e del Papato e il monopolio degli eserciti detenuto dall’Impero.
Q 6 §14 Funzione internazionale degli intellettuali italiani. Monsignor Della Casa. Nella puntata del suo studio su La lirica del Cinquecento, pubblicata nella «Critica» del novembre 1930 B. Croce scrive sul Galateo: «... esso non ha niente di accademico e pesante ed è una serie di garbati avvertimenti sul modo gradevole di comportarsi in società e uno di quei libri iniziatori che l’Italia del Cinquecento dette al mondo moderno» (p. 410). È esatto dire che sia un libro «iniziatore» dato al «mondo moderno»? Chi è più «iniziatore» al «mondo moderno», il Casa e il Castiglione o Leon Battista Alberti? Chi si occupava dei rapporti fra cortigiani o chi dava consigli per l’edificazione del tipo del borghese nella società civile? Tuttavia occorre tener conto del Casa in questa ricerca ed è certamente giusto non considerarlo solo «accademico e pesante» (ma in questo giudizio del «mondo moderno» non è implicito un «distacco» ‑ e non un rapporto di iniziazione ‑ tra il Casa e il mondo moderno?)
Q 6 §177 Storia degli intellettuali italiani. Cfr Angelo Scarpellini, La Battaglia intorno al latino nel settecento in «Glossa Perenne», 1929.
Q 6 §21 La funzione cosmopolita degli intellettuali italiani. Su gli scrittori politici e moralisti del Seicento, rilevati dal Croce nel suo volume Storia dell’età barocca,
Q 6 §197 Gli intellettuali. Alla Università di Madrid, Eugenio D’Ors sta (1931) svolgendo un largo corso di conferenze su La scienza e la storia della Cultura che, da alcuni cenni pubblicati nelle «Nouvelles Littéraires» del 31 Ottobre 1931 pare debba essere una enorme sociologia del fatto culturale o della civiltà. Il corso sarà pubblicato in volumi, certamente.
Q 6 §42 Tendenze della cultura italiana. Giovanni Cena. Sul Cena è molto interessante l’articolo di Arrigo Cajumi Lo strano caso di Giovanni Cena («Italia letteraria», 24 novembre 1929).
Dall’articolo su Cena stralcio qualche brano: «Nato nel 1870, morto nel 1917, Giovanni Cena ci appare come una figura rappresentativa del movimento intellettuale che la parte migliore della nostra borghesia compì al rimorchio delle nuove idee che venivano di Francia e di Russia; con un apporto personalmente più amaro ed energico, causato dalle origini proletarie (! o contadine?) e dagli anni di miseria. Autodidatta uscito per miracolo dall’abbrutimento del lavoro paterno e del natìo paesello, Cena entrò inconsciamente nella corrente che in Francia – proseguendo una tradizione (!) derivata (!) da Proudhon via via (!) attraverso Vallès e i comunardi sino ai Quatre évangiles zoliani, all’affare Dreyfus, alle Università popolari di Daniel Halévy e che oggi continua in Guéhenno (!) (piuttosto in Pierre Dominique e in altri) – fu definita come l’andata al popolo (il Cajumi trasporta nel passato una parola d’ordine odierna, dei populisti; nel passato tra popolo e scrittori in Francia non ci fu mai scissione dopo la Rivoluzione francese e fino a Zola: la reazione simbolista scavò un fosso tra popolo e scrittori, tra scrittori e vita e Anatole France è il tipo più compiuto di scrittore libresco e di casta).
Il nostro (Cena) veniva dal popolo, di qui l’originalità (!) della sua posizione, ma l’ambiente della lotta era sempre lo stesso, quello dove si affermò il socialismo di un Prampolini, Era la seconda generazione piccolo‑borghese dopo l’unità italiana (della prima ha scritto magistralmente la cronistoria Augusto Monti nei Sansoussî), estranea alla politica delle classi conservatrici dominanti, in letteratura più connessa al De Amicis o allo Stecchetti che al Carducci, lontana da d’Annunzio, e che preferirà formarsi su Tolstoi, considerato piuttosto come pensatore che quale artista, scoprirà Wagner, crederà vagamente ai simbolisti, alla poesia sociale (simbolisti e poesia sociale?), alla pace perpetua, insulterà i governanti perché poco idealisti, e non si ridesterà dai suoi sogni neppure per le cannonate del 1914» (un po’ di maniera e stiracchiato tutto ciò).
«Cresciuto fra incredibili stenti, sapeva di essere anfibio, né borghese, né popolano: “Come mi facessi un’istruzione accademica e prendessi diplomi, è cosa che mi fa perdere spesso ogni calma a pensarci. E quando, pensandoci, sento che potrò perdonare, allora ho veramente il senso di essere un vittorioso”. “Sento profondamente che soltanto lo sfogo della letteratura e la fede nel suo potere di liberazione e di elevazione mi hanno salvato dal diventare un Ravachol” ».
Nello scritto Che fare? il Cena voleva fondere i nazionalisti coi filosocialisti come lui; ma in fondo tutto questo socialismo piccolo borghese alla De Amicis non era un embrione di socialismo nazionale, o nazionalsocialismo, che ha cercato di farsi strada in tanti modi in Italia e che ha trovato nel dopoguerra un terreno propizio?
Q 6 §57 Poesia così detta sociale italiana. Rapisardi. Cfr l’articolo molto interessante di Nunzio Vaccalluzzo La poesia di Mario Rapisardi nella Nuova Antologia del 16 febbraio 1930. Il Rapisardi fu fatto passare per materialista e anzi per materialista storico. È ciò vero? O non piuttosto fu egli un «mistico» del naturalismo e del panteismo? Però legato al popolo, specialmente al popolo siciliano, alle miserie del contadino siciliano ecc.
Q 6 §68 Alfredo Oriani. Floriano Del Secolo, Contributo alla biografia di Oriani. Con lettere inedite, nel «Pègaso» dell’ottobre 1930.
Appare l’Oriani nella così detta «tragedia» della sua vita intellettuale di «genio» incompreso dal pubblico nazionale, di apostolo senza seguaci ecc. Ma fu poi Oriani «incompreso», o si trattava di una sfinge senza enigmi, di un vulcano che eruttava solo topolini? E adesso è Oriani diventato «popolare», «maestro di vita», ecc.? Molto si pubblica su di lui, ma l’edizione nazionale delle sue opere è comprata e letta? C’è da dubitarne. Oriani e Sorel (in Francia). Ma Sorel è stato enormemente più attuale di Oriani.
Perché Oriani non riuscì a formarsi una scuola, un gruppo di discepoli, perché non organizzò una rivista? Voleva essere «riconosciuto» senza sforzo da parte sua (oltre ai lamenti presso gli amici più intimi). Mancava di volontà, di attitudini pratiche, e voleva influire sulla vita politica e morale della nazione. Ciò che lo rendeva antipatico a molti doveva essere appunto questo giudizio istintivo che si trattava di un velleitario che voleva essere pagato prima d’aver compiuto l’opera, che voleva esser riconosciuto «genio», «capo», «maestro», per un diritto divino da lui affermato perentoriamente. Certo Oriani deve essere avvicinato al Crispi come psicologia e a tutto uno strato di intellettuali italiani, che, in certi rappresentanti più bassi, cade nel ridicolo e nella farsa intellettuale.
Ant.: Gramsci su Oriani
Mat. Bibl.: Articoli su Oriani
Q 6 §129 Passato e presente. La politica di D’Annunzio. Sono interessanti alcune pagine del volume Per l’Italia degli Italiani, Milano, «Bottega di Poesia», 1923. In un punto ricorda la sua tragedia La Gloria e se ne richiama per la sua politica verso i contadini che devono «regnare» perché sono i «migliori». Concetti politici reali neanche uno: frasi ed emozioni, ecc.
Q 6 §144 G. Pascoli e Davide Lazzaretti.
Q 6 §145 Storia degli intellettuali italiani. Giovanni B. Botero.
Il Botero è uno degli scrittori del tempo della Controriforma più tipicamente cosmopoliti e a‑italiani. Egli parla dell’Italia come di qualsiasi altro paese e i suoi problemi politici non lo interessano specificatamente. Critica la «boria» degli Italiani che si considerano superiori ad altri paesi e dimostra infondata tale pretesa. È da studiare per tanti rispetti (ragion di Stato, machiavellismo, tendenza gesuitica, ecc.). Il Gioda ha scritto sul Botero: più recentemente saggi, ecc. Per questo articolo lo Zanette potrebbe entrare nel paragrafo degli «Italiani meschini».
Q 6 §146 Storia degli intellettuali italiani. Gli ebrei.
Q 6 §209 Intellettuali. Intellettuali tradizionali. Per una categoria di questi intellettuali, la più importante forse, dopo quella «ecclesiastica», per il prestigio e la funzione sociale che ha svolto nelle società primitive – la categoria dei medici in senso largo, cioè di tutti quelli che «lottano» o appaiono lottare contro la morte e le malattie – occorrerà confrontare la Storia della medicina di Arturo Castiglioni.
Ricordare che c’è stata connessione tra la religione e la medicina e ancora in certe zone, continua ad esserci: ospedali in mano a religiosi per certe funzioni organizzative, oltre al fatto che dove appare il medico appare il prete (esorcismi, assistenze varie, ecc.). Molte grandi figure religiose erano anche o furono concepite come grandi «terapeuti»: l’idea del miracolo fino alla resurrezione dei morti. Anche per i re continuò a lungo ad esservi la credenza che guarissero con l’imposizione delle mani ecc.
Q 6 §211 Intellettuali. Le Accademie. Funzione che esse hanno avuto nello sviluppo della cultura in Italia, nel cristallizzarla e nel farne una cosa da museo, lontana dalla vita nazionale‑popolare (ma le accademie sono state causa o effetto? Non si sono moltiplicate forse per dare una soddisfazione parziale all’attività che non trovava sfogo nella vita pubblica ecc.?) L’Enciclopedia (edizione del 1778) assicura che l’Italia contava allora 550 Accademie.
Stranieri
Q 6 §33 Gli intellettuali. Un ricco materiale da spigolare sulle concezioni diffuse tra gli intellettuali si potrà trovare nelle raccolte di interviste pubblicate nelle «Nouvelles Littéraires» da Frédéric Lefèvre col titolo Une heure avec…. Ne sono già usciti più volumi. In queste interviste non si trattano solo quistioni letterarie e artistiche, ma anche politiche, economiche, ecc., ideologiche in generale. Il modo di pensare è espresso con maggiore spontaneità ed evidenza che nei libri degli autori.
Q 6 §34 Georges Renard. Morto nell’ottobre 1930. Era professore di Storia del Lavoro al Collège de France. Partecipò alla Comune. Ha diretto queste collezioni: Le Socialisme à l’œuvre, l’Histoire Universelle du Travail, la Bibliothèque Sociale des Métiers. Libro teorico: Le Régime Socialiste in cui difende la tradizione del socialismo francese contro Marx.
Q 6 §141 Sul sentimento nazionale. L’editore Grasset ha pubblicato un gruppo di Lettres de jeunesse dell’allora capitano Lyautey. Le lettere sono del 1883 e il Lyautey era allora monarchico, devoto al conte di Chambord; il Lyautey apparteneva alla grande borghesia che era strettamente alleata all’aristocrazia. Più tardi, morto il conte di Chambord e dopo l’azione di Leone XIII per il ralliement, il Lyautey si unì al movimento di Albert de Mun che seguì le direttive di Leone XIII, e così divenne un alto funzionario della Repubblica, conquistò il Marocco, ecc.
Critica letteraria
Q 6 §64 I nipotini di padre Bresciani. «L’arte è educatrice in quanto arte, ma non in quanto arte educatrice», perché in tal caso è nulla, e il nulla non può educare. Certo, sembra che tutti concordemente desideriamo un’arte che somigli a quella del Risorgimento e non, per esempio, a quella del periodo dannunziano; ma, in verità, se ben si consideri, in questo desiderio non c’è il desiderio di un’arte a preferenza di un’altra, sì bene di una realtà morale a preferenza di un’altra. Allo stesso modo chi desideri che uno specchio rifletta una bella anziché una brutta persona, non si augura già uno specchio che sia diverso da quello che ha innanzi, ma una persona diversa». (Croce, Cultura e Vita morale, pp. 169‑70; cap. Fede e programmi del 1911).
«Quando un’opera di poesia o un ciclo di opere poetiche si è formato, è impossibile proseguire quel ciclo con lo studio e con l’imitazione e con le variazioni intorno a quelle opere; per questa via si ottiene solamente la cosiddetta scuola poetica, il servum pecus degli epigoni. Poesia non genera poesia; la partenogenesi non ha luogo; si richiede l’intervento dell’elemento maschile, di ciò che è reale, passionale, pratico, morale. I più alti critici di poesia ammoniscono, in questo caso, di non ricorrere a ricette letterarie, ma, com’essi dicono, di «rifare l’uomo». Rifatto l’uomo, rinfrescato lo spirito, sorta una nuova vita di affetti, da essa sorgerà, se sorgerà, una nuova poesia». (B. Croce, Cultura e Vita morale, pp. 241‑42; capitolo Troppa filosofia del 1922).
Questa osservazione può essere propria del materialismo storico. La letteratura non genera letteratura ecc., cioè le ideologie non creano ideologie, le superstrutture non generano superstrutture altro che come eredità di inerzia e di passività: esse sono generate, non per «partenogenesi» ma per l’intervento dell’elemento «maschile» – la storia – l’attività rivoluzionaria che crea il «nuovo uomo», cioè nuovi rapporti sociali.
Da ciò si deduce anche questo: che il vecchio «uomo», per il cambiamento, diventa anch’esso «nuovo», poiché entra in nuovi rapporti, essendo stati quelli primitivi capovolti. Donde il fatto che, prima che il «nuovo uomo» creato positivamente abbia dato poesia, si possa assistere al «canto del cigno» del vecchio uomo rinnovato negativamente: e spesso questo canto del cigno è di mirabile splendore; il nuovo vi si unisce al vecchio, le passioni vi si arroventano in modo incomparabile ecc. (Non è forse la Divina Commedia un po’ il canto del cigno medioevale, che pure anticipa i nuovi tempi e la nuova storia?)
Q 6 §116 Il Rinascimento (Fase economica‑corporativa della storia italiana). Origini della letteratura e della poesia volgare. Vedere gli studi di Ezio Levi su Uguccione da Lodi e i primordi della poesia italiana e altri studi posteriori (1921) su gli antichi poeti lombardi, con l’edizione delle rime, commento e piccole biografie. Il Levi sostiene che si tratta di un «fenomeno letterario», «accompagnato da un movimento di pensiero» e rappresentante «il primo affermarsi della nuova coscienza italiana, in contrapposizione alla età medioevale, pigra e sonnolenta» (cfr S. Battaglia, Gli studi sul nostro duecento letterario, nel «Leonardo» del febbraio 1927). La tesi del Levi è interessante e deve essere approfondita. Naturalmente come tesi di storia della cultura e non di storia dell’arte.
Quando una nuova civiltà sorge, non è naturale che essa assuma forme «popolari» e primitive, che siano uomini «modesti» ad esserne i portatori? E ciò non è tanto più naturale in tempi quando la cultura e la letteratura erano monopolio di caste chiuse? Ma poi, al tempo di Uguccione da Lodi, ecc., anche nel ceto colto, esistevano grandi artisti e letterati? Il problema posto dal Levi è interessante perché le sue ricerche tendono a dimostrare che i primi elementi del Rinascimento non furono di origine aulica o scolastica, ma popolare, e furono espressione di un movimento generale culturale religioso (patarino) di ribellione agli istituti medioevali, chiesa e impero. La statura poetica di questi scrittori lombardi non sarà stata molto alta, la loro importanza storico-culturale non è perciò diminuita.
Q 6 §44 Sulla letteratura italiana. Cfr il saggio di G. A. Borgese Il senso della letteratura italiana nella Nuova Antologia del 1° gennaio 1930. «Un epiteto, un motto, non può riassumere lo spirito di un’epoca o di un popolo, ma giova qualche volta come riferimento o appiglio mnemonico. Per la letteratura francese si suol dire: grazia, ovvero: chiarezza, logica. Si potrebbe dire: cavalleresca lealtà dell’analisi. Diremmo per la letteratura inglese: lirismo dell’intimità; per la tedesca: audacia della libertà; per la russa: coraggio della verità. Le parole di cui possiamo servirci per la letteratura italiana sono quelle appunto che ci sono servite per questi ricordi visivi: maestà, magnificenza, grandezza».
Insomma il Borgese trova che il carattere della letteratura italiana è «teologico‑assoluto‑metafisico‑antiromantico» ecc., e forse, il suo linguaggio da ierofante si potrebbe appunto tradurre nel giudizio in parole povere che la letteratura italiana è staccata dallo sviluppo reale del popolo italiano, è di casta, non sente il dramma della storia, non è cioè popolare‑nazionale.
Q 6 §133 Per una nuova letteratura (arte) attraverso una nuova cultura. Cfr nel volume di B. Croce, Nuovi saggi sulla letteratura italiana del seicento (1931), il capitolo in cui parla delle accademie gesuitiche di poesia e le ravvicina alle «scuole di poesia» create in Russia (il Croce avrà preso lo spunto dal solito Fülöp‑Miller). Ma perché non le avvicina alle botteghe di pittura e di scultura del 400‑500? Erano anche quelle «accademie gesuitiche»? E perché ciò che si faceva per la pittura e la scultura non potrebbe farsi per la poesia?
Il Croce non tiene conto dell’elemento sociale che «vuole avere» una propria poesia, elemento «senza scuola», cioè che non si è impadronito della «tecnica» e dello stesso linguaggio: in realtà si tratta di una «scuola» per adulti, che educa il gusto e crea il sentimento «critico» in senso largo. Un pittore che «copia» un quadro di Raffaello fa «accademia gesuitica»? Egli nel modo migliore «si cala» nell’arte di Raffaello, cerca di ricrearsela, ecc. E perché non potrebbero farsi esercizi di versificazione fra operai? Non servirà ciò a educare l’orecchio alla musicalità del verso, ecc.
Q 6 §147 Popolarità della letteratura italiana. «Nuova Antologia», 1° ottobre 1930: Ercole Reggio, Perché la letteratura italiana non è popolare in Europa. «La poca fortuna che incontrano, presso di noi, libri italiani anche illustri, a paragone con quella di tanti libri stranieri, dovrebbe farci persuasi che le ragioni della scarsa popolarità della nostra letteratura in Europa sono probabilmente le stesse che la rendono poco popolare da noi; e che perciò, tutto sommato, non ci sarà nemmeno da chiedere agli altri quello che noi, per i primi, non ci attendiamo in casa nostra. A detta anche d’italianizzanti, di simpatizzanti stranieri, la nostra letteratura manca in massima di qualità modeste e necessarie, di ciò che s’indirizza all’uomo medio, all’uomo degli economisti (?!); ed è in ragione delle sue prerogative, di quanto ne costituisce l’originalità, come il merito, ch’essa non tocca né potrà mai toccare alla popolarità delle altre grandi letterature europee».
Letteratura popolare
Q 6 §153 Carattere popolare nazionale della letteratura italiana. Goldoni. Perché il Goldoni è popolare anche oggi? Goldoni è quasi «unico» nella tradizione letteraria italiana. I suoi atteggiamenti ideologici: democratico prima di aver letto Rousseau e della Rivoluzione francese. Contenuto popolare delle sue commedie: lingua popolare nella sua espressione, mordace critica dell’aristocrazia corrotta e imputridita.
Conflitto Goldoni ‑ Carlo Gozzi. Gozzi reazionario. Le sue Fiabe, scritte per dimostrare che il popolo accorre alle più insulse strampalerie, e che invece hanno successo: in verità anche le Fiabe hanno un contenuto popolare, sono un aspetto della cultura popolare o folclore, in cui il meraviglioso e l’inverosimile (presentato come tale in un mondo fiabesco) è parte integrante. (Fortuna delle Mille e una notte anche oggi, ecc.).
Q 6 §5 Letteratura popolare. Romanzi d’appendice. Confrontare Henry Jagot, Vidocq, Berger‑Levrault edit., Parigi, 1930. Vidocq ha dato lo spunto al Vautrin di Balzac e ad Alessandro Dumas. (Lo si ritrova un po’ anche nel Jean Valjean di V. Hugo e specialmente nel Rocambole). Vidocq fu condannato a otto anni per falsa moneta, per una sua imprudenza. Venti evasioni, ecc. Nel 1812 entra nella polizia di Napoleone e per 15 anni comanda una squadra di poliziotti creata apposta per lui, diventa famoso per gli arresti sensazionali. È congedato da Luigi Filippo; fonda un’agenzia privata di detectives, ma fallisce. Poteva operare solo nella polizia regolare. Morto nel 1857. Ha lasciato le sue Memorie che non sono state scritte solo da lui, e in cui sono molte esagerazioni e vanterie.
Q 6 §17 Letteratura popolare. Il romanzo poliziesco. Cfr Aldo Sorani Conan Doyle e la fortuna del romanzo poliziesco, nel «Pègaso» dell’agosto 1930. Molto interessante per questo genere di letteratura e per le diverse specificazioni che essa ha avuto.
Il Sorani schizza un quadro della inaudita fortuna del romanzo poliziesco in tutti gli ordini della società e cerca di identificarne la causa: sarebbe una manifestazione di rivolta contro la meccanicità e la standardizzazione della vita moderna, un modo di evadere dal tritume quotidiano. Naturalmente questa spiegazione si può applicare a tutte le forme di letteratura popolare: dal poema cavalleresco (e Don Chisciotte non cerca di evadere anch’egli, praticamente, dal tritume della vita quotidiana?) al romanzo d’appendice di vario genere. In ogni modo l’articolo del Sorani sarà indispensabile per una futura ricerca più organica su questa branca di letteratura popolare.
Il problema: perché è diffusa la letteratura poliziesca? è un aspetto determinato del problema più vasto: perché è diffusa la letteratura non‑artistica? Per ragioni pratiche (morali e politiche), indubbiamente, e questa risposta generica è la più precisa anche. Ma anche la letteratura artistica non si diffonde anch’essa per ragioni pratico‑politiche e morali, e solo mediatamente per ragioni artistiche? In realtà si legge un libro per impulsi pratici e si rilegge certi libri per ragioni artistiche: l’emozione estetica non è mai di prima lettura. Così avviene nel teatro, in cui l’emozione estetica è una «percentuale» minima dell’interesse dello spettatore, perché nel teatro giocano altri elementi, molti dei quali non sono di ordine intellettuale, ma di ordine fisiologico, come può essere l’«appello del sesso», ecc. In altri casi l’emozione estetica nel teatro non è data dall’opera letteraria, ma dall’interpretazione degli attori: in questi casi occorre però che l’opera letteraria non sia «difficile», ma piuttosto che sia «elementare», «popolare», nel senso che le passioni rappresentate siano le più profondamente umane e di immediata esperienza (vendetta d’onore, amor materno, ecc.) e quindi l’analisi si complica anche in questo caso.
I grandi attori venivano applauditi nella Morte Civile, nella Gerla di papà Martin, ecc., ma non nelle complicate macchine psicologiche; nel primo caso l’applauso era senza riserve, nel secondo era freddo, destinato a separare l’attore amato dal pubblico, dal lavoro che sarebbe stato fischiato ecc.
Q 6 §28 Letteratura popolare. Nell’«Italia letteraria» del 9 novembre 1930 è riportato qualche brano di un articolo di Filippo Burzio (nella «Stampa» del 22 ottobre) sui Tre Moschettieri di Dumas. Il Burzio li considera una felicissima personificazione, come il Don Chisciotte o l’Orlando Furioso, del mito dell’avventura, «cioè di qualcosa di essenziale alla natura umana, che sembra gravemente e progressivamente straniarsi dalla vita moderna. Quanto più l’esistenza si fa razionale e organizzata, la disciplina sociale ferrea, il compito assegnato all’individuo preciso e prevedibile, tanto più il margine dell’avventura si riduce, come la libera selva di tutti fra i muretti soffocanti della proprietà privata... Il taylorismo è una bella cosa e l’uomo è un animale adattabile, però forse ci sono dei limiti alla sua meccanizzazione. Se a me chiedessero le ragioni profonde dell’inquietudine occidentale, risponderei senza esitare: la decadenza della fede e la mortificazione dell’avventura». «Vincerà il taylorismo o vinceranno i Moschettieri? Questo è un altro discorso e la risposta, che trent’anni fa sembrava certa, sarà meglio tenerla in sospeso. Se l’attuale civiltà non precipita, assisteremo forse a interessanti miscugli dei due».
La quistione è questa: che c’è sempre stata una parte di umanità la cui vita è stata sempre taylorizzata, e che questa umanità ha cercato di evadere dai limiti angusti dell’organizzazione esistente che la schiacciava, con la fantasia e col sogno. La più grande avventura, la più grande «utopia», che l’umanità ha creato collettivamente, la religione, non è un modo di evadere dal mondo terreno? E non è in questo senso che Marx parla di «oppio del popolo»? Adesso la quistione si «aggrava» per il fatto che la razionalizzazione della vita minaccia di colpire le classi medie e intellettuali in una misura inaudita: quindi preoccupazioni e scongiuri ed esorcismi. Ma il fenomeno è vecchio almeno come le religioni. Letteratura popolare come «oppio del popolo»: lo spunto è stato già annotato in altro quaderno a proposito del Conte di Montecristo.
Q 6 §108 Letteratura popolare. Cfr il numero della «Cultura» del 1931 dedicato a Dostojevskij. In un articolo del Pozner si sostiene giustamente che i romanzi di Dostojevskij sono derivati (culturalmente) dai romanzi tipo Sue, ecc. Questa «derivazione» è utile tener presente per svolgere questa rubrica sulla letteratura popolare in quanto mostra come un certo tipo «culturale» di letteratura (motivi, interessi morali, sensibilità ideologia, ecc.) può avere una doppia espressione: quella meccanica (tipo Sue) e quella «lirica» (Dostojevskij); i contemporanei non si accorgono che si tratta di manifestazione deteriore per certe manifestazioni, come avvenne per il Sue che fu letto da tutte le classi e «commoveva» anche le persone di coltura mentre poi decadde a «scrittore letto dal popolo». (La «prima lettura» dà sensazioni puramente, o quasi, «culturali» o di contenuto e il «popolo» è lettore di prima lettura, per l’«ideologia»).
Q 6 §111 Letteratura popolare. Romanzi d’appendice.
L’affermazione del Pozner registrata in una nota precedente, che il romanzo di Dostojevskij sia romanzo «d’avventure» è probabilmente derivata da uno studio di Jacques Rivière sul «romanzo d’avventure» (forse uscito nella «N.R.F.»), che significherebbe «una vasta rappresentazione di azioni che sono insieme drammatiche e psicologiche» così come l’hanno concepito Balzac, Dostojevskij, Dickens e Giorgio Eliot.
Q 6 §134 Letteratura popolare. Romanzo d’appendice. Cfr ciò che ho scritto a proposito del Conte di Montecristo come modello esemplare di romanzo d’appendice. Il romanzo d’appendice sostituisce (e favorisce nel tempo stesso) il fantasticare dell’uomo del popolo, è un vero sognare ad occhi aperti. Si può vedere ciò che sostengono Freud e i psicanalisti sul sognare ad occhi aperti. In questo caso si può dire che nel popolo il fantasticare è dipendente dal «complesso di inferiorità» (sociale) che determina lunghe fantasticherie sull’idea di vendetta, di punizione dei colpevoli dei mali sopportati, ecc. Nel Conte di Montecristo ci sono tutti gli elementi per cullare queste fantasticherie e per quindi propinare un narcotico che attutisca il senso del male, ecc.
Q 6 §168 Letteratura popolare. Cfr Alberto Consiglio, Populismo e nuove tendenze della letteratura francese, Nuova Antologia, 1° aprile 1931. Il Consiglio prende le mosse dall’inchiesta delle «Nouvelles Littéraires» sul «Romanzo operaio e contadino» (nei mesi luglio‑agosto 1930). L’articolo è da rileggere, quando l’argomento volesse esser trattato organicamente.
La tesi del Consiglio (più o meno esplicita e consapevole) è questa: di fronte al crescere della potenza politica e sociale del proletariato e della sua ideologia, alcune sezioni dell’intellettualismo francese reagiscono con questi movimenti «verso il popolo».
L’avvicinamento al popolo significherebbe quindi una ripresa del pensiero borghese che non vuole perdere la sua egemonia sulle classi popolari e che, per esercitare meglio questa egemonia, accoglie una parte dell’ideologia proletaria. Sarebbe un ritorno a forme «democratiche» più sostanziali del corrente «democratismo» formale.
È da vedere se anche un fenomeno di questo genere non sia molto significativo e importante storicamente e non rappresenti una fase necessaria di transizione e un episodio dell’«educazione popolare» indiretta. Una lista delle tendenze «populiste» e una analisi di ciascuna di esse sarebbe interessante: si potrebbe «scoprire» una di quelle che Vico chiama «astuzie della natura», cioè come un impulso sociale, tendente a un fine, realizzi il suo contrario.
Q 6 §172 Letteratura popolare. Cfr Antonio Baldini, Stonature di cinquant’anni fa: la Farlalla petroliera, Nuova Antologia, 16 giugno 1931. «La Farfalla», fondata da Angelo Sommaruga a Cagliari e dopo due anni trasportata a Milano (verso il 1880). Il periodico finì col diventare la rivista di un gruppo di «artisti… proletari».
Q 6 §207 Letteratura popolare. Il Guerin Meschino. Nel «Corriere della Sera» del 7 gennaio 1932 è pubblicato un articolo firmato Radius con questi titoli: I classici del popolo. Guerino detto il Meschino. Il sopratitolo I classici del popolo è vago e incerto: il Guerino, con tutta una serie di libri simili (I Reali di Francia, Bertoldo, storie di briganti, storie di cavalieri, ecc.) rappresenta una determinata letteratura popolare, la più elementare e primitiva, diffusa tra gli strati più arretrati e «isolati» del popolo: specialmente nel Mezzogiorno, nelle montagne, ecc. I lettori del Guerino non leggono Dumas o i Miserabili e tanto meno Sherlock Holmes. A questi strati corrisponde un determinato folclore e un determinato «senso comune».
Guerino come poema popolare «italiano»: è da notare, da questo punto di vista, quanto sia rozzo e incondito il libro, cioè come non abbia subito nessuna elaborazione e perfezionamento, dato l’isolamento culturale del popolo, lasciato a se stesso. Forse per questa ragione si spiega l’assenza di intrighi amorosi, l’assenza completa di erotismo nel Guerino.
Il Guerino come «enciclopedia popolare»: da osservare quanto debba essere bassa la cultura degli strati che leggono il Guerino e quanto poco interesse abbiano per la «geografia», per esempio, per accontentarsi e prendere sul serio il Guerino. Si potrebbe analizzare il Guerino come «enciclopedia» per averne indicazioni sulla rozzezza mentale e sulla indifferenza culturale del vasto strato di popolo che ancora se ne pasce.
Q 6 §208 Letteratura popolare. Lo «Spartaco» di R. Giovagnoli. Nel «Corriere della Sera» dell’8 gennaio 1932 è pubblicata la lettera inviata da Garibaldi a Raffaele Giovagnoli il 25 giugno 1874 da Caprera, subito dopo la lettura del romanzo Spartaco. La lettera è molto interessante per questa rubrica sulla «letteratura popolare» poiché il Garibaldi ha scritto anche egli dei «romanzi popolari» e nella lettera sono gli spunti principali della sua «poetica» in questo genere. Spartaco del Giovagnoli, d’altronde, è uno dei pochissimi romanzi popolari italiani che ha avuto diffusione anche all’estero, in un periodo in cui il «romanzo» popolare da noi era «anticlericale» e «nazionale», aveva cioè caratteri e limiti strettamente paesani.
Romanzi filosofici, Utopie
Q 6 §157 Romanzi filosofici, utopie, ecc. Controriforma e utopie: desiderio di ricostruire la civiltà europea secondo un piano razionale. Altra origine e forse la più frequente: modo di esporre un pensiero eterodosso, non conformista e ciò specialmente prima della Rivoluzione francese. Dalle Utopie sarebbe derivata quindi la moda di attribuire a popoli stranieri le istituzioni che si desidererebbero nel proprio paese, o di far la critica delle supposte istituzioni di un popolo straniero per criticare quelle del proprio paese. Così dalle Utopie sarebbe nata anche la moda di esaltare i popoli primitivi, selvaggi (il buon selvaggio) presunti essere più vicini alla natura. (Ciò si ripeterebbe nell’esaltazione del «contadino», idealizzato, da parte dei movimenti populisti). Tutta questa letteratura ha avuto non piccola importanza nella storia della diffusione delle opinioni politico‑sociali fra determinate masse e quindi nella storia della cultura.
Si potrebbe osservare che questa letteratura politica «romanzata» reagisce alla letteratura «cavalleresca» in decadenza (Don Chisciotte, Orlando Furioso, Utopia di Tommaso Moro, Città del sole) e indica quindi il passaggio dall’esaltazione di un tipo sociale feudale all’esaltazione delle masse popolari genericamente, con tutti i suoi bisogni elementari (nutrirsi, vestirsi, ripararsi, riprodursi) ai quali si cerca di dare razionalmente una soddisfazione. Si trascura nello studio di questi scritti di tener conto delle impressioni profonde che dovevano lasciare, spesso per generazioni, le grandi carestie e le grandi pestilenze, che decimavano e stremavano le grandi masse popolari: questi disastri elementari, accanto ai fenomeni di morbosità religiosa, cioè di passività rassegnata, destavano anche sentimenti critici «elementari», quindi spinte a una certa attività che appunto trovavano la loro espressione in questa letteratura utopistica, anche parecchie generazioni dopo che i disastri erano avvenuti, ecc.
Q 6 §58 Storia del giornalismo italiano. Quali giornali italiani hanno pubblicato supplementi del tipo dei giornali inglesi e di quelli tedeschi? L’esempio classico è il «Fanfulla della Domenica» del «Fanfulla», e dico classico perché il supplemento aveva una sua personalità e autorità propria. I tipi di supplemento come la «Domenica del Corriere» o la «Tribuna illustrata» sono un’altra cosa e a mala pena si possono chiamare supplementi. La «Gazzetta del Popolo» fece dei tentativi di «pagine» dedicate a un solo argomento ed ebbe la «Gazzetta letteraria» ed oggi l’«Illustrazione del Popolo». Il tentativo più organico fu fatto dal «Tempo» di Roma nel 1919‑20 con veri e propri supplementi come quello «economico» e quello «sindacale», per l’Italia assai bene riuscito. Così ha avuto fortuna il «Giornale d’Italia agricolo». Un quotidiano ben fatto e che tenda a introdursi attraverso i supplementi anche dove difficilmente penetrerebbe come quotidiano dovrebbe avere una serie di supplementi mensili, di formato diverso da quello del quotidiano ma col titolo del quotidiano seguito dalla speciale materia che vuole trattare.
Q 6 §65 Giornalismo. Ciò che Napoleone III disse del giornalismo durante la sua prigionia in Germania al giornalista inglese Mels‑Cohn (cfr Paul Guériot, La captivité de Napoléon III en Allemagne, pp. 250, Parigi, Perrin). Napoleone avrebbe voluto fare del giornale ufficiale un foglio modello, da mandare gratuitamente a ogni elettore, con la collaborazione delle penne più illustri del tempo e con le informazioni più sicure e più controllate da ogni parte del mondo. La polemica, esclusa, sarebbe rimasta confinata nei giornali particolari ecc.
La concezione del giornale di Stato è logicamente legata alle strutture governative illiberali (cioè a quelle in cui la società civile si confonde con la società politica), siano esse dispotiche o democratiche (ossia in quelle in cui la minoranza oligarchica pretende essere tutta la società, o in quelle in cui il popolo indistinto pretende e crede di essere veramente lo Stato). Se la scuola è di Stato, perché non sarà di Stato anche il giornalismo, che è la scuola degli adulti?
Q 6 §79 Riviste tipo. Dilettantismo e disciplina. Necessità di una critica interna severa e rigorosa, senza convenzionalismi e mezze misure. Esiste una tendenza del materialismo storico che solletica e favorisce tutte le cattive tradizioni della media cultura italiana e sembra aderire ad alcuni tratti del carattere italiano: l’improvvisazione, il «talentismo», la pigrizia fatalistica, il dilettantismo scervellato, la mancanza di disciplina intellettuale, l’irresponsabilità e la slealtà morale e intellettuale. Il materialismo storico distrugge tutta una serie di pregiudizi e di convenzionalità, di falsi doveri, di ipocrite obbligazioni: ma non perciò giustifica che si cada nello scetticismo e nel cinismo snobistico.
Lo stesso risultato aveva avuto il Machiavellismo, per una arbitraria estensione o confusione tra la «morale» politica e la «morale» privata, cioè tra la politica e l’etica, confusione che non esisteva certo nel Machiavelli, tutt’altro, poiché anzi la grandezza del Machiavelli consiste nell’aver distinto la politica dall’etica.
Non può esistere associazione permanente e con capacità di sviluppo che non sia sostenuta da determinati principii etici, che l’associazione stessa pone ai suoi singoli componenti in vista della compattezza interna e dell’omogeneità necessarie per raggiungere il fine. Non perciò questi principii sono sprovvisti di carattere universale. Così sarebbe se l’associazione avesse fine in se stessa, fosse cioè una setta o un’associazione a delinquere (in questo solo caso mi pare si possa dire che politica ed etica si confondono, appunto perché il «particulare» è elevato a «universale»).
Ma un’associazione normale concepisce se stessa come aristocrazia, una élite, un’avanguardia, cioè concepisce se stessa come legata da milioni di fili a un dato raggruppamento sociale e per il suo tramite a tutta l’umanità. Pertanto questa associazione non si pone come un qualche cosa di definitivo e di irrigidito, ma come tendente ad allargarsi a tutto un raggruppamento sociale, che anch’esso è concepito come tendente a unificare tutta l’umanità. Tutti questi rapporti danno carattere tendenzialmente universale all’etica di gruppo che dev’essere concepita come capace di diventare norma di condotta di tutta l’umanità.
La politica è concepita come un processo che sboccherà nella morale, cioè come tendente a sboccare in una forma di convivenza in cui politica e quindi morale saranno superate entrambe. (Da questo punto di vista storicistico può solo spiegarsi l’angoscia di molti sul contrasto tra morale privata e morale pubblica-politica: essa è un riflesso inconsapevole e sentimentalmente acritico delle contraddizioni della attuale società, cioè dell’assenza di uguaglianza dei soggetti morali).
Ma non può parlarsi di élite‑aristocrazia‑avanguardia come di una collettività indistinta e caotica; in cui, per grazia di un misterioso spirito santo o di altra misteriosa e metafisica deità ignota, cali la grazia dell’intelligenza, della capacità, dell’educazione, della preparazione tecnica ecc.; eppure questo modo di concepire è comune. Si riflette in piccolo ciò che avveniva su scala nazionale, quando lo Stato era concepito come qualcosa di astratto dalla collettività dei cittadini, come un padre eterno che avrebbe pensato a tutto, provveduto a tutto ecc.; da ciò l’assenza di una democrazia reale, di una reale volontà collettiva nazionale e quindi, in questa passività dei singoli, la necessità di un dispotismo più o meno larvato della burocrazia.
La collettività deve essere intesa come prodotto di una elaborazione di volontà e pensiero collettivo raggiunto attraverso lo sforzo individuale concreto, e non per un processo fatale estraneo ai singoli: quindi obbligo della disciplina interiore e non solo di quella esterna e meccanica. Se ci devono essere polemiche e scissioni, non bisogna aver paura di affrontarle e superarle: esse sono inevitabili in questi processi di sviluppo ed evitarle significa solo rimandarle a quando saranno precisamente pericolose o addirittura catastrofiche, ecc.
Q 6 §96 Riviste‑tipo. Economia. Rassegna di studi economici italiani.
Q 6 §104 Giornalismo. Il tipo di settimanale provinciale che era diffuso tradizionalmente in Italia, coltivato specialmente dai cattolici e dai socialisti, rappresentava adeguatamente le condizioni culturali della provincia (villaggio e piccola città). Nessun interesse per la vita internazionale (altro che come curiosità e stranezza), poco interesse per la stessa vita nazionale, se non in quanto legata agli interessi locali, specialmente elettorali; tutto l’interesse per la vita locale, anche per i pettegolezzi e le minuzie. Grande importanza per la polemica personale (di carattere gaglioffesco e provinciale; far apparire stupido, ridicolo, disonesto l’avversario, ecc.). L’informazione ridotta solo alle corrispondenze dai vari villaggi. Commenti politici generici che presupponevano la informazione data dai quotidiani, che i lettori del settimanale non leggevano e si supponeva appunto non leggessero (perciò si faceva per loro il settimanale).
Il redattore di questi settimanali era di solito un intellettuale mediocre, pretenzioso e ignorante, pieno di cavilli e di sofismi banali. Riassumere il quotidiano sarebbe stato per lui una «vergogna»: pretendeva fare un settimanale tutto di articoli di fondo e di pezzi «brillanti», e inventare teorie con tanto di barba in economia, in politica, in filosofia.
Q 6 §105 Riviste‑tipo. Tradizione e sue sedimentazioni psicologiche. Che il libertarismo generico (cfr concetto tutto italiano di «sovversivo») sia molto radicato nelle tradizioni popolari, si può studiare attraverso un esame della poesia e dei discorsi di P. Gori, che poeticamente (!) può essere paragonato (subordinatamente) al Cavallotti. C’è nel Gori tutto un modo di pensare e di esprimersi che sente di sagrestia e di eroismo di cartone. Tuttavia quei modi e quelle forme, lasciate diffondere senza contrasto e senza critica, sono penetrate molto profondamente nel popolo e hanno costituito un gusto (e forse lo costituiscono ancora).
Q 6 §106 Giornalismo. Capocronista. Difficoltà di creare dei buoni capi cronisti, cioè dei giornalisti tecnicamente preparati a comprendere ed analizzare la vita organica di una grande città, impostando in questo quadro (senza pedanteria, ma anche non superficialmente e senza «brillanti» improvvisazioni) ogni singolo problema mano mano che diventa d’attualità.
Q 6 §120 Riviste‑tipo.
In certi movimenti culturali, che arruolano i loro elementi tra chi inizia solo allora la propria vita culturale, per il rapido estendersi del movimento stesso che conquista sempre nuovi adepti, e perché i già conquistati non hanno autoiniziativa culturale, non pare possibile uscire mai dall’abc. Questo fatto ha gravi ripercussioni nell’attività giornalistica in generale, quotidiani, settimanali, riviste, ecc.; pare che non si debba mai superare un certo livello. D’altronde, il non tener conto di questo ordine di esigenze, spiega il lavoro di Sisifo delle così dette «piccole riviste», che si rivolgono a tutti e a nessuno e a un certo punto diventano veramente del tutto inutili.
L’esempio più tipico è stato quello della «Voce», che a un certo punto si scisse in «Lacerba» «La Voce» e l’«Unità» con la tendenza in ognuna a scindersi all’infinito. Le redazioni, se non sono legate a un movimento disciplinato di base, tendono, o a diventare conventicole di «profeti disarmati», o a scindersi secondo i movimenti incomposti e caotici che si determinano tra i diversi gruppi e strati di lettori.
Bisogna quindi riconoscere apertamente che le riviste di per sé sono sterili, se non diventano la forza motrice e formatrice di istituzioni culturali a tipo associativo di massa, cioè non a quadri chiusi.
Ciò deve dirsi anche per le riviste di partito; non bisogna credere che il partito costituisca di per sé l’«istituzione» culturale di massa della rivista. Il partito è essenzialmente politico e anche la sua attività culturale è attività di politica culturale: le «istituzioni» culturali devono essere non solo di «politica culturale», ma di «tecnica culturale».
Esempio: in un partito ci sono degli analfabeti e la politica culturale del partito è la lotta contro l’analfabetismo. Un gruppo per la lotta contro l’analfabetismo non è ancora precisamente una «scuola per analfabeti»; in una scuola per analfabeti si insegna a leggere e a scrivere; in un gruppo per la lotta contro l’analfabetismo si predispongono tutti i mezzi più efficaci per estirpare l’analfabetismo dalle grandi masse della popolazione di un paese, ecc.
Q 6 §121 Giornalismo. Albert Rival, Le journalisme appris en 18 leçons, Albin Michel, 1931, L. 3,50.
Q 6 §122 Riviste‑tipo. Rassegne. Rassegne su argomenti di giurisprudenza che interessano determinati movimenti.
Q 6 §125 Riviste‑tipo. Storia e «progresso». La storia ha raggiunto un certo stadio; pare che perciò sia antistorico ogni movimento che appare in contrasto con quel certo stadio, in quanto «riproduce» uno stadio precedente; in questi casi si arriva a parlare di reazione, ecc. La quistione nasce dal non concepire la storia come storia di classi. Una classe ha raggiunto un certo stadio, ha costruito una certa forma di vita statale: la classe dominata, che insorge, in quanto spezza questa realtà acquisita, è perciò reazionaria?
Stati unitari, movimenti autonomisti; lo Stato unitario è stato un progresso storico, necessario, ma non perciò si può dire che ogni movimento tendente a spezzare gli Stati unitari sia antistorico e reazionario; se la classe dominata non può raggiungere la sua storicità altro che spezzando questi involucri, significa che si tratta di «unità» amministrative militari‑fiscali, non di «unità» moderne; può darsi che la creazione di tale unità moderna domandi che sia spezzata l’unità «formale» precedente, ecc. Dove esiste più unità moderna: nella Germania «federale» o nella «Spagna» unitaria di Alfonso e dei proprietari‑generali‑gesuiti? ecc.
Questa osservazione può essere estesa a molte altre manifestazioni storiche, per esempio al grado di «cosmopolitismo» raggiunto nei diversi periodi dello sviluppo culturale internazionale. Nel 700 il cosmopolitismo degli intellettuali è stato «massimo», ma quanta frazione dell’insieme sociale esso toccava? E non si trattava in gran parte di una manifestazione egemonica della cultura e dei grandi intellettuali francesi?
È certo tuttavia che ogni classe dominante nazionale è più vicina alle altre classi dominanti, come cultura e costumi, che non avvenga tra classi subalterne, anche se queste sono «cosmopolite» per programma e destinazione storica. Un gruppo sociale può essere «cosmopolita» per la sua politica e la sua economia e non esserlo per i costumi e anche per la cultura (reale).
Q 6 §126 Riviste‑tipo. Serie di guide o manualetti per il lettore di giornali (e per il lettore in generale). Come si legge un listino di borsa, un bilancio di società industriale, ecc. (Non lunghi e solo i dati schematici fondamentali). Il riferimento dovrebbe essere il lettore medio italiano, che in generale è poco informato di queste nozioni, ecc.
Q 6 §29 I nipotini di padre Bresciani. È da notare come in Italia il concetto di cultura sia prettamente libresco: i giornali letterari si occupano di libri o di chi scrive libri. Articoli di impressioni sulla vita collettiva, sui modi di pensare, sui «segni del tempo», sulle modificazioni che avvengono nei costumi, ecc., non se ne leggono mai. Differenza tra la letteratura italiana e le altre letterature. In Italia mancano i memorialisti e sono rari i biografi e gli autobiografi. Manca l’interesse per l’uomo vivente, per la vita vissuta.
Si può dire che la «letteratura» è una funzione sociale, ma che i letterati, presi singolarmente, non sono necessari alla funzione, sebbene ciò sembri paradossale. Ma è vero nel senso, che mentre le altre professioni sono collettive, e la funzione sociale si scompone nei singoli, ciò non avviene nella letteratura. La quistione è dell’«apprendissaggio»: ma si può parlare di «apprendissaggio» artistico letterario?
La funzione intellettuale non può essere staccata dal lavoro produttivo generale neanche per gli artisti: se non quando essi hanno dimostrato di essere effettivamente produttivi «artisticamente». Né ciò nuocerà all’«arte», forse anzi le gioverà: nuocerà solo alla «bohème» artistica e non sarà un male, tutt’altro.
Q 6 §2 I nipotini di padre Bresciani. Giulio Bechi.
Q 6 §9 I nipotini di padre Bresciani. Lina Pietravalle. Dalla recensione, dovuta a Giulio Marzot, del romanzo Le catene (A. Mondadori, Milano, 1930, pp. 320, L. 12) della Pietravalle: «A chi domanda con quale sentimento partecipa alla vita dei contadini, Felicia risponde: «Li amo come la terra, ma non mischierò la terra col mio pane». C’è dunque la coscienza di un distacco: si ammette che anche il contadino possa avere la sua dignità umana, ma lo si costringe entro i limiti della sua condizione sociale». Il Marzot ha scritto un saggio su Giovanni Verga ed è un critico talvolta intelligente.
Sarebbe da studiare questo punto: se il naturalismo francese non contenesse già in germe la posizione ideologica che poi ha grande sviluppo nel naturalismo o realismo provinciale italiano e specialmente nel Verga: il popolo della campagna è visto con «distacco», come «natura» estrinseca allo scrittore, come spettacolo naturale, ecc. È la posizione di Io e le belve di Hagenbeck. In Italia il motivo «naturalistico» si innestò in una posizione ideologica preesistente, come si vede nei Promessi Sposi del Manzoni, in cui esiste lo stesso «distacco» dagli elementi popolari, distacco appena velato da un benevolo sorriso ironico e caricaturale.
Q 6 §16 I nipotini del padre Bresciani. La cultura nazionale italiana. Nella Lettera a Umberto Fracchia sulla critica di Ugo Ojetti («Pègaso», agosto 1930) sono due osservazioni notevoli: 1) Ricorda l’Ojetti che il Thibaudet divide la critica in tre classi: quella dei critici di professione, quella degli stessi autori, e quella «des honnêtes gens», cioè del pubblico, che alla fine è la vera Borsa dei valori letterari, visto che in Francia esiste un pubblico largo ed attento a seguire tutte le vicende della letteratura. In Italia manca appunto la critica del pubblico, «manca la persuasione o, se si vuole, l’illusione che questi (lo scrittore) compia opera d’importanza nazionale anzi, i migliori, storica, perché, come ella (il Fracchia) dice, «ogni anno e ogni giorno che passa ha ugualmente la sua letteratura, e così è sempre stato, e così sarà sempre, ed è assurdo aspettare o pronosticare o invocare per domani ciò che oggi è. Ogni secolo, ogni porzione di secolo, ha sempre esaltato le proprie opere; è anzi stato portato se mai ad esagerarne l’importanza, la grandezza, il valore e la durata». Giusto, ma non in Italia ecc.»
2) L’altra osservazione notevole dell’Ojetti è questa: «La scarsa popolarità della nostra letteratura passata, cioè dei nostri classici. È vero: nella critica inglese e francese si leggono spesso paragoni tra gli autori viventi e i classici, ecc. ecc.». Questa osservazione è fondamentale per un giudizio storico sulla presente cultura italiana; il passato non è vivente nel presente, non è un elemento essenziale del presente, cioè nella storia della cultura nazionale non c’è continuità e unità. L’affermazione di questa continuità ed unità è un’affermazione retorica o ha un valore di propaganda, è un atto pratico, in quanto la si vuol creare artificialmente, ma non è una realtà in atto.
Il passato, la letteratura compresa, è visto come elemento di cultura scolastica, non come elemento di vita: ciò che poi significa che il sentimento nazionale e recente, se addirittura non si vuol dire che esso è in via di formazione, in quanto la letteratura in Italia non è mai stato un fatto nazionale, ma di carattere «cosmopolitico».
Q 6 §18 I nipotini di padre Bresciani. Il sentimento nazionale degli scrittori. Dalla Lettera a Piero Parini sugli scrittori sedentari di Ugo Ojetti nel «Pègaso» del settembre 1930: «Come mai noi italiani che abbiamo portato su tutta la terra il nostro lavoro e non soltanto il lavoro manuale, e che da Melbourne a Rio, da S. Francisco a Marsiglia, da Lima a Tunisi abbiamo dense colonie nostre, siamo i soli a non avere romanzi in cui i nostri costumi e la nostra coscienza siano rivelati in contrasto con la coscienza e i costumi di quelli stranieri fra i quali siamo capitati a vivere, a lottare, a soffrire, e talvolta anche a vincere? D’Italiani, in basso e in alto, manovali o banchieri, minatori o medici, camerieri o ingegneri, muratori o mercanti, se ne trovano in ogni angolo del mondo. La letteratissima letteratura nostra li ignora, anzi li ha sempre ignorati. Se non v’è romanzo o dramma senza un progrediente contrasto d’anime, quale contrasto più profondo e concreto di questo tra due razze, e la più antica delle due, la più ricca cioè d’usi e riti immemorabili, spatriata e ridotta a vivere senza altro soccorso che quello della propria energia e resistenza?». Né libri sugli italiani all’estero, ma neanche libri sugli stranieri (eccettuata la letteratura giornalistica).
Q 6 §26 I nipotini di padre Bresciani. Pirandello. Pirandello non appartiene a questa categoria di scrittori, tutt’altro. Lo noto qui per raggruppare insieme le note di cultura letteraria.
L’importanza del Pirandello mi pare di carattere intellettuale e morale, cioè culturale, più che artistica: egli ha cercato di introdurre nella cultura popolare la «dialettica» della filosofia moderna, in opposizione al modo aristotelico‑cattolico di concepire l’«oggettività del reale». L’ha fatto come si può fare nel teatro e come può farlo il Pirandello stesso: questa concezione dialettica dell’oggettività si presenta al pubblico come accettabile, in quanto essa è impersonata da caratteri di eccezione, quindi sotto veste romantica, di lotta paradossale contro il senso comune e il buon senso. Ma potrebbe essere altrimenti? Solo così i drammi del Pirandello mostrano meno il carattere di «dialoghi filosofici», che tuttavia hanno abbastanza, poiché i protagonisti devono troppo spesso «spiegare e giustificare» il nuovo modo di concepire il reale; d’altronde il Pirandello stesso non sempre sfugge da un vero e proprio solipsismo, poiché la «dialettica» in lui è più sofistica che dialettica.
MB.: Gramsci e Pirandello
Q 6 §27 I nipotini di padre Bresciani. Stracittà e strapaese. Confrontare nell’«Italia Letteraria» del 16 novembre 1930 la lettera aperta di Massimo Bontempelli a G. B. Angioletti con postilla di quest’ultimo (Il Novecentismo è vivo o è morto?). La lettera è stata scritta dal Bontempelli subito dopo la sua nomina ad Accademico e sprizza da ogni parola la soddisfazione dell’autore di poter dire d’aver «fatto mordere la polvere» ai suoi nemici, Malaparte e la banda dell’«Italiano».
Q 6 §38 I nipotini di padre Bresciani. La lettera aperta di Umberto Fracchia a S. E. Gioachino Volpe è nell’«Italia Letteraria» del 22 giugno 1930 (cfr nota precedente): il discorso del Volpe all’Accademia è di quindici giorni prima. Brano tipico del Fracchia: «Solo un po’ più di coraggio, di abbandono, di fede basterebbero per trasformare l’elogio a denti stretti che Ella ha fatto della presente letteratura in un elogio aperto ed esplicito; per dire che la presente letteratura italiana ha forze non solo latenti, ma anche scoperte, visibili (!) le quali non aspettano (!) che di essere vedute e riconosciute da quanti le ignorano, ecc. ecc.».
Il Fracchia si lamenta della critica, che si pone solo dal punto di vista dei grandi capolavori, che si è rarefatta nella perfezione delle teorie estetiche, ecc. Ma se i libri fossero criticati dal punto di vista del contenuto, si lamenterebbe lo stesso perché il suo contenuto non rappresenta che zero nel mondo della cultura, così come i libri della maggior parte degli scrittori attuali.
Non è vero che non esista in Italia una critica del pubblico (come scrive Ojetti nella lettera del «Pègaso» ricordata in altra nota); esiste, ma di un pubblico al quale piacciono ancora i romanzi di Dumas o i romanzi polizieschi stranieri, o di Carolina Invernizio. Questa critica è rappresentata dai direttori dei quotidiani e delle riviste popolari a grande tiratura e si manifesta nella scelta delle appendici; è rappresentata dagli editori e si manifesta nelle traduzioni di libri stranieri e non solo attuali, ma vecchi, molto vecchi; si manifesta nei repertori delle compagnie teatrali, ecc. Né si tratta di «esotismo» al cento per cento, perché in musica il pubblico vuole Verdi, e Puccini e Mascagni, che non hanno il corrispondente in prosa, evidentemente. E all’estero Verdi, Puccini, Mascagni sono preferiti dai pubblici stranieri ai loro stessi musicisti nazionali e attuali. C’è dunque distacco tra scrittori e pubblico e il pubblico cerca la sua letteratura all’estero e la sente più sua di quella nazionale. Questo è il problema.
Perché se è vero che ogni secolo o frazione di secolo ha la sua letteratura non è sempre vero che questa letteratura si ritrovi nella stessa comunità nazionale: ogni popolo ha la sua letteratura ma questa può venirgli da un altro popolo, cioè il popolo in parola può essere subordinato all’egemonia intellettuale di altri popoli.
Questo è spesso il paradosso più stridente per molte tendenze monopolistiche di carattere nazionalistico e repressivo: che, mentre fanno grandi piani di loro egemonie, non si accorgono di essere soggetti ad egemonie straniere, così come, mentre fanno piani imperialistici, in realtà sono oggetto di altri imperialismi, ecc. D’altronde non si sa se il centro dirigente politico non capisca benissimo la situazione di fatto e per accontentare i cervelli vuoti esalti il proprio imperialismo per non far sentire quello a cui si è soggetti di fatto.
Q 6 §56 I nipotini di padre Bresciani. Filippo Crispolti. Ho già notato in altro paragrafo come il Crispolti non esiti a porre se stesso come paradigma per giudicare il dolore del Leopardi. Nel suo articolo Ombre di romanzi manzoniani il Manzoni diventa paradigma per autogiudicare il romanzo effettivamente scritto dal Crispolti Il duello e un altro romanzo Pio X che poi non fu scritto.<7
Q 6 §73 I nipotini di padre Bresciani. Cfr l’articolo Dell’interesse di Carlo Linati nei «Libri del giorno» del febbraio 1929. Il Linati si domanda in che consista quel «quid» per cui i libri interessano e finisce col non trovare una risposta. Ed è certo che una risposta precisa non si può trovare, nel senso almeno che intende il Linati, il quale vorrebbe trovare il «quid» per essere in grado o per mettere gli altri in grado di scrivere libri interessanti. Il Linati dice che il problema in questi ultimi tempi è diventato «scottante» ed è vero, come è naturale che sia. C’è stato un certo risveglio di sentimenti nazionalistici: è spiegabile che si ponga il problema del perché i libri italiani non siano letti, del perché essi siano ritenuti «noiosi» e «interessanti» invece quelli stranieri, ecc.
Il risveglio nazionalistico fa sentire che la letteratura italiana non è «nazionale» nel senso che non è popolare e che si subisce come popolo l’egemonia straniera. Onde programmi, polemiche, tentativi, che non riescono però in nulla.
Sarebbe necessaria una critica spietata della tradizione e un rinnovamento culturale‑morale da cui dovrebbe nascere una nuova letteratura. Ma ciò appunto non può avvenire per la contraddizione ecc.: risveglio nazionalistico ha assunto il significato di esaltazione del passato. Marinetti è diventato accademico e lotta contro la tradizione della pastasciutta.
Q 6 §80 I nipotini di padre Bresciani. Répaci.
Q 6 §115 I nipotini di padre Bresciani. Angelo Gatti. Suo romanzo Ilia e Alberto pubblicato nel 1931 (vedi): romanzo autobiografico.
Q 6 §94 Cultura italiana. Sentimento nazionale, non popolare‑nazionale (cfr note disperse), cioè un sentimento puramente «soggettivo», non legato a realtà, a fattori, a istituzioni oggettive. È perciò ancora un sentimento da «intellettuali», che sentono la continuità della loro categoria e della loro storia, unica categoria che abbia avuto una storia ininterrotta.
Un elemento oggettivo è la lingua, ma essa in Italia si alimenta poco, nel suo sviluppo, dalla lingua popolare che non esiste (eccetto in Toscana), mentre esistono i dialetti. Altro elemento è la coltura, ma essa è troppo ristretta ed ha carattere di casta: i ceti intellettuali sono piccolissimi e angusti. ùI partiti politici: erano poco solidi e non avevano vitalità permanente ma entravano in azione solo nel periodo elettorale.
I giornali: non coincidevano coi partiti che debolmente, e poco letti.
La Chiesa era l’elemento popolare‑nazionale più valido ed esteso, ma la lotta tra Chiesa e Stato ne faceva un elemento di disgregazione più che di unità e oggi le cose non sono molto cambiate perché tutta l’impostazione del problema morale‑popolare è cambiato.
La monarchia. – Il parlamento. – L’università e la scuola. – La città. – Organizzazioni private come la massoneria. – L’Università popolare. – L’esercito. – I sindacati operai. – La scienza (verso il popolo, – i medici, i veterinari, le cattedre ambulanti, gli ospedali). – Il teatro. – Il libro.
Q 6 §67 Cultura italiana. Valentino Piccoli.
Q 6 §35 Cultura italiana. Esiste un «razzismo» in Italia? Molti tentativi sono stati fatti, ma tutti di carattere letterario e astratto. Da questo punto di vista l’Italia si differenzia dalla Germania, quantunque tra i due paesi ci siano alcune somiglianze estrinseche interessanti: 1) La tradizione localistica e quindi il tardo raggiungimento dell’unità nazionale e statale. (Somiglianza estrinseca perché il regionalismo italiano ha avuto altre origini che quello tedesco: in Italia hanno contribuito due elementi principali: a) la rinascita delle razze locali dopo la caduta dell’Impero Romano; b) le invasioni barbariche prima, i domini stranieri dopo. In Germania i rapporti internazionali hanno influito, ma non con l’occupazione diretta di stranieri). 2) L’universalismo medioevale influì più in Italia che in Germania, dove l’Impero e la laicità trionfarono molto prima che in Italia, durante la Riforma. 3) Il dominio nei tempi moderni delle classi proprietarie della campagna, ma con rapporti molto diversi. Il tedesco sente più la razza che l’Italiano. Razzismo: il ritorno storico al romanesimo, poco sentito oltre la letteratura. Esaltazione generica della stirpe, ecc.
Lo strano è che a sostenere il razzismo oggi (con l’Italia Barbara Arcitaliano e lo strapaesismo) sia Kurt Erich Suckert, nome evidentemente razzista e strapaesano; ricordare durante la guerra Arturo Foà e le sue esaltazioni della stirpe italica, altrettanto congruenti che nel Suckert.
Q 6 §201 I nipotini di padre Bresciani. Bruno Cicognani. Il romanzo Villa Beatrice. Storia di una donna, pubblicato nel «Pègaso» del 1931. Il Cicognani appartiene al gruppo di scrittori cattolici fiorentini: Papini, Enrico Pea, Domenico Giuliotti. Villa Beatrice può chiamarsi il romanzo della filosofia neoscolastica di padre Gemelli, il romanzo del «materialismo» cattolico, un romanzo della «psicologia sperimentale» tanto cara ai neoscolastici e ai gesuiti? Confronto tra romanzi psicoanalitici e il romanzo di Cicognani.
Q 6 §189 Lorianesimo.
Q 6 §36 Lorianesimo. Trombetti e l’etrusco.
Q 6 §98 I costumi e le leggi. È opinione molto diffusa e anzi è opinione ritenuta realistica e intelligente che le leggi devono essere precedute dal costume, che la legge è efficace solo in quanto sanziona i costumi. Questa opinione è contro la storia reale dello sviluppo del diritto, che ha domandato sempre una lotta per affermarsi e che in realtà è lotta per la creazione di un nuovo costume. Nell’opinione su citata esiste un residuo molto appariscente di moralismo intruso nella politica.
Si suppone che il diritto sia espressione integrale dell’intera società, ciò che è falso: invece espressione più aderente della società sono quelle regole di condotta che i giuristi chiamano «giuridicamente indifferenti» e la cui zona cambia coi tempi e con l’estensione dell’intervento statale nella vita dei cittadini. Il diritto non esprime tutta la società (per cui i violatori del diritto sarebbero esseri antisociali per natura, o minorati psichici), ma la classe dirigente, che «impone» a tutta la società quelle norme di condotta che sono più legate alla sua ragion d’essere e al suo sviluppo. La funzione massima del diritto è questa: di presupporre che tutti i cittadini devono accettare liberamente il conformismo segnato dal diritto, in quanto tutti possono diventare elementi della classe dirigente; nel diritto moderno cioè è implicita l’utopia democratica del secolo XVIII.
Qualche cosa di vero tuttavia esiste nell’opinione che il costume deve precedere il diritto: infatti nelle rivoluzioni contro gli Stati assoluti, esisteva già come costume e come aspirazione una gran parte di ciò che poi divenne diritto obbligatorio: è con il nascere e lo svilupparsi delle disuguaglianze che il carattere obbligatorio del diritto andò aumentando, così come andò aumentando la zona dell’intervento statale e dell’obbligazionismo giuridico. Ma in questa seconda fase, pur affermando che il conformismo deve essere libero e spontaneo, si tratta di ben altro: si tratta di reprimere e soffocare un diritto nascente e non di conformare.
L’argomento rientra in quello più generale della diversa posizione che hanno avuto le classi subalterne prima di diventare dominanti. Certe classi subalterne devono avere un lungo periodo di intervento giuridico rigoroso e poi attenuato, a differenza di altre; c’è differenza anche nei modi: in certe classi l’espansività non cessa mai, fino all’assorbimento completo della società; in altre, al primo periodo di espansione succede un periodo di repressione.
Questo carattere educativo, creativo, formativo del diritto è stato messo poco in luce da certe correnti intellettuali: si tratta di un residuo dello spontaneismo, del razionalismo astratto che si basa su un concetto della «natura umana» astrattamente ottimistico e facilone. Un altro problema si pone per queste correnti: quale deve essere l’organo legislativo «in senso lato», cioè la necessità di portare le discussioni legislative in tutti gli organismi di massa: una trasformazione organica del concetto di «referendum», pur mantenendo al governo la funzione di ultima istanza legislativa.
Q 6 §48 Ritratto del contadino italiano. Cfr Fiabe e leggende popolari del Pitré (p. 207), una novellina popolare siciliana, alla quale (secondo D. Bulferetti nella «Fiera Letteraria» del 29 gennaio 1928) corrisponde una xilografia di vecchie stampe veneziane, in cui si vede Iddio impartire dal cielo questi ordini: al papa: tu prega, all’imperatore: tu proteggi, al contadino: e tu affatica.
Lo spirito delle novelline popolari dà la concezione che di se stesso e della sua posizione nel mondo il contadino si è rassegnato ad assorbire dalla religione.
Linguistica
Q 6 §20 Quistioni di linguistica. Giulio Bertoni. È stupefacente la recensione benevola che Natalino Sapegno ha pubblicato nel «Pègaso» del settembre 1930 di Linguaggio e Poesia («Bibliotheca» editrice, Rieti, 1930, L. 5). Il Sapegno non s’accorge che la teoria del Bertoni essere la nuova linguistica una «sottile analisi discriminativa delle voci poetiche da quelle strumentali» è tutt’altro che una novità perché si tratta del ritorno a una vecchissima concezione retorica e pedantesca, per cui si dividono le parole in «brutte» e «belle», in poetiche e non poetiche o antipoetiche ecc., così come si erano similmente divise le lingue in belle e brutte, civili o barbariche, poetiche e prosastiche ecc. Il Bertoni non aggiunge nulla alla linguistica, altro che vecchi pregiudizi, ed è maraviglioso che queste stoltezze gli siano passate per buone dal Croce e dagli allievi del Croce.<7
Ant.: Il problema del linguaggio in Gramsci
Q 6 §71 Linguistica. Antonio Pagliaro, Sommario di linguistica arioeuropea. Fasc. I: Cenni storici e quistioni teoriche, Libreria di Scienze e Lettere del dott. G. Bardi, Roma, 1930 (nelle «Pubblicazioni della Scuola di Filologia Classica dell’Università di Roma, Serie seconda: Sussidi e materiali, II, I»). Sul libro del Pagliaro cfr la recensione di Goffredo Coppola nel «Pègaso» del novembre 1930.
Il libro è indispensabile per vedere i progressi fatti dalla linguistica in questi ultimi tempi. Mi pare ci sia molto di cambiato (a giudicare dalla recensione) ma che tuttavia non sia stata trovata la base in cui collocare gli studi linguistici. L’identificazione di arte e lingua, fatta dal Croce ha permesso un certo progresso e ha permesso di risolvere alcuni problemi e di dichiararne altri inesistenti o arbitrari, ma i linguisti, che sono essenzialmente storici, si trovano dinanzi l’altro problema: è possibile la storia delle lingue all’infuori della storia dell’arte e ancora è possibile la storia dell’arte?
Ma i linguisti precisamente studiano le lingue in quanto non sono arte, ma «materiale» dell’arte, in quanto prodotto sociale, in quanto espressione culturale di un dato popolo ecc. Queste quistioni non sono risolte, o lo sono con un ritorno alla vecchia rettorica rimbellettata (cfr Bertoni).
Per il Perrotto1 (anche per il Pagliaro?), l’identificazione tra arte e lingua ha condotto a riconoscere come insolubile (o arbitrario?) il problema dell’origine del linguaggio, che significherebbe domandarsi perché l’uomo è uomo (linguaggio = fantasia, pensiero): mi pare che non sia molto preciso; il problema non può risolversi per mancanza di documenti e quindi è arbitrario: si può fare, oltre un certo limite storico, della storia ipotetica, congetturale e sociologica, ma non storia «storica». Questa identificazione permetterebbe anche di determinare ciò che nella lingua è errore, cioè non lingua. «Errore è la creazione artificiale, razionalistica, voluta, che non s’afferma perché nulla rivela, che è particolare all’individuo fuori della sua società». Mi pare che allora si dovrebbe dire che lingua = storia e non lingua = arbitrio. Le lingue artificiali sono come i gerghi: non è vero che siano assolutamente non lingue perché sono in qualche modo utili: hanno un contenuto storico‑sociale molto limitato. Ma ciò avviene anche tra dialetto e lingua nazionale‑letteraria. Eppure anche il dialetto è lingua‑arte.
Ma tra il dialetto e la lingua nazionale‑letteraria qualcosa è mutato: precisamente l’ambiente culturale, politico‑morale‑sentimentale. La storia delle lingue è storia delle innovazioni linguistiche, ma queste innovazioni non sono individuali (come avviene nell’arte) ma sono di un’intera comunità sociale che ha innovato la sua cultura, che ha «progredito» storicamente: naturalmente anch’esse diventano individuali, ma non dell’individuo‑artista, dell’individuo ‑ elemento storico‑culturale completo determinato.
Anche nella lingua non c’è partenogenesi, cioè la lingua che produce altra lingua, ma c’è innovazione per interferenze di culture diverse ecc., ciò che avviene in modi molto diversi e ancora avviene per intere masse di elementi linguistici, e avviene molecolarmente (per esempio: il latino ha come «massa» innovato il celtico delle Gallie, e ha invece influenzato il germanico «molecolarmente», cioè imprestandogli singole parole o forme ecc.). L’interferenza e l’influenza «molecolare» può avvenire nello stesso seno di una nazione, tra diversi strati ecc.; una nuova classe che diventa dirigente innova come «massa»; il gergo dei mestieri ecc. cioè delle società particolari, innovano molecolarmente. Il giudizio artistico in queste innovazioni ha il carattere del «gusto culturale», non del gusto artistico, cioè per la stessa ragione per cui piacciono le brune o le bionde e mutano gli «ideali» estetici, legati a determinate culture.
Q 6 §62 I nipotini di padre Bresciani. Il De Sanctis in qualche parte scrive che egli, prima di scrivere un saggio o fare una lezione su un canto di Dante, per esempio, leggeva parecchie volte ad alta voce il canto, lo studiava a memoria ecc. ecc. Ciò si ricorda per sostenere l’osservazione che l’elemento artistico di un’opera non può essere, eccettuate rare occasioni (e si vedrà quali), gustato a prima lettura, spesso neppure dai grandi specialisti come era il De Sanctis. La prima lettura dà solo la possibilità di introdursi nel mondo culturale e sentimentale dello scrittore, e neanche questo è sempre vero, specialmente per gli scrittori non contemporanei, il cui mondo culturale e sentimentale è diverso dall’attuale: una poesia di un cannibale sulla gioia di un lauto banchetto di carne umana, può essere concepita come bella, e domandare per essere artisticamente gustata, senza pregiudizi «extraestetici», un certo distacco psicologico dalla cultura odierna. Ma l’opera d’arte contiene anche altri elementi «storicistici» oltre al determinato mondo culturale e sentimentale, ed è il linguaggio, inteso non solo come espressione puramente verbale, quale può essere fotografato in un certo tempo e luogo dalla grammatica, ma come un insieme di immagini e modi di esprimersi che non rientrano nella grammatica. Questi elementi appaiono più chiaramente nelle altre arti.
Esiste però, dal punto di vista culturale e storico, una grande differenza tra l’espressione linguistica della parola scritta e parlata e le espressioni linguistiche delle altre arti. Il linguaggio «letterario» è strettamente legato alla vita delle moltitudini nazionali e si sviluppa lentamente e solo molecolarmente; se si può dire che ogni gruppo sociale ha una sua «lingua», tuttavia occorre notare (salvo rare eccezioni) che tra la lingua popolare e quella delle classi colte c’è una continua aderenza e un continuo scambio.
Ciò non avviene per i linguaggi delle altre arti, per i quali, si può notare che attualmente si verificano due ordini di fenomeni: 1) in essi sono sempre vivi, per lo meno in quantità enormemente maggiore che per la lingua letteraria, gli elementi espressivi del passato, si può dire di tutto il passato; 2) in essi si forma rapidamente una lingua cosmopolita che assorbe gli elementi tecnico‑espressivi di tutte le nazioni che volta per volta producono grandi pittori, scrittori, musicisti, ecc.
La conclusione è questa: un’opera d’arte è tanto più «artisticamente» popolare quanto più il suo contenuto morale, culturale, sentimentale è aderente alla moralità, alla cultura, ai sentimenti nazionali, e non intesi come qualcosa di statico, ma come un’attività in continuo sviluppo. L’immediata presa di contatto tra lettore e scrittore avviene quando nel lettore l’unità di contenuto e forma ha la premessa di unità del mondo poetico e sentimentale: altrimenti il lettore deve incominciare a tradurre la «lingua» del contenuto nella sua propria lingua: si può dire che si forma la situazione come di uno che ha imparato l’inglese in un corso accelerato Berlitz e poi legge Shakespeare; la fatica della comprensione letterale, ottenuta con il continuo sussidio di un mediocre dizionario, riduce la lettura a un esercizio scolastico pedantesco e nulla più.
Q 6 §77 Individui e nazioni. A proposito della quistione delle glorie nazionali legate alle invenzioni di singoli individui geniali, le cui scoperte e invenzioni non hanno però avuto applicazione o riconoscimento nel paese d’origine si può ancora osservare: che le invenzioni e le scoperte possono essere e sono spesso infatti casuali, non solo, ma che i singoli inventori possono essere legati a correnti culturali e scientifiche che hanno avuto origine e sviluppo in altri paesi, presso altre nazioni.
Perciò una invenzione o scoperta perde il carattere individuale e casuale e può essere giudicata nazionale quando: l’individuo è strettamente e necessariamente collegato a una organizzazione di cultura che ha caratteri nazionali o quando l’invenzione è approfondita, applicata, sviluppata in tutte le sue possibilità dall’organizzazione culturale della nazione d’origine.
Fuori di queste condizioni non rimane che l’elemento «razza» cioè una entità imponderabile e che d’altronde può essere rivendicato da tutti i paesi e che in ultima analisi si confonde con la così detta «natura umana».
Si può dunque chiamare nazionale l’individuo che è conseguenza della realtà concreta nazionale e che inizia una fase determinata dell’operosità pratica o teorica nazionale.
Bisognerebbe poi mettere in luce che una nuova scoperta che rimane cosa inerte non è un valore: l’«originalità» consiste tanto nello «scoprire» quanto nell’«approfondire» e nello «sviluppare» e nel «socializzare», cioè nel trasformare in elemento di civiltà universale: ma appunto in queti campi si manifesta l’energia nazionale, che è collettiva, che è l’insieme dei rapporti interni di una nazione.
Altre culture
Q 6 §32 Noterelle di cultura indiana. Dall’intervista di F. Lefèvre con Aldous Huxley (nelle «Nouvelles Littéraires» del 1° novembre 1930):<7
Q 6 §198 Passato e presente. «Sollecitare i testi». Cioè far dire ai testi, per amor di tesi, più di quanto i testi realmente dicono. Questo errore di metodo filologico si verifica anche all’infuori della filologia, in tutte le analisi e gli esami delle manifestazioni di vita. Corrisponde, nel diritto penale, a vendere a meno peso e di differente qualità da quelli pattuiti, ma non è ritenuto crimine, a meno che non sia palese la volontà di ingannare: ma la trascuratezza e l’incompetenza non meritano sanzione, almeno una sanzione intellettuale e morale se non giudiziaria?
Q 6 §10 Passato e presente. Nella «Critica» del 20 novembre 1930, in una recensione dei Feinde Bismarcks di Otto Westphal, B. Croce scrive che «il motivo del favore che incontrano i volumi» del Ludwig «e i molti altri simili ai suoi nasce da… un certo indebolimento e infrivolimento mentale, che la guerra ha prodotto nel mondo». Cosa può significare questa affermazione? Ad analizzarla, essa non significa nulla, proprio nulla. Mi pare che il fenomeno possa essere spiegato in modo più realistico: nel dopo guerra è affiorato al mondo della cultura e dell’interesse per la storia uno strato sociale abbastanza importante, del quale gli scrittori tipo Ludwig sono l’espressione letteraria.
Il fenomeno Ludwig significa progresso o regresso intellettuale? Mi pare che indichi progresso, purché il giudizio sia inteso esattamente: i lettori attuali della «bellettristica storica» (secondo l’espressione del Croce) corrispondono a quegli elementi sociali che nel passato leggevano i romanzi storici, apprendevano la storia nei romanzi del Dumas, dell’Hugo, ecc. Perciò mi pare che ci sia stato «progresso».
Perché si possa parlare di indebolimento mentale e di infrivolimento bisognerebbe che fosse sparita la storia degli storici, ma ciò non è: forse avviene il contrario, che cioè anche la storia seria sia oggi più letta, come dimostra, in Italia almeno, il moltiplicarsi delle collezioni storiche (cfr la collezione Vallecchi e della «Nuova Italia», per esempio).
In realtà il fenomeno Ludwig e la «bellettristica storica» non sono novità del dopo guerra: questi fenomeni sono contenuti in nuce nel giornalismo, nel grande giornale popolare: precursori di Ludwig e C. sono gli articolisti di terza pagina, gli scrittori di bozzetti storici, ecc. Il fenomeno è dunque essenzialmente politico, pratico; appartiene a quella serie di movimenti pratici che il Croce abbraccia sotto la rubrica generale di «antistoricismo», che, analizzata da questo punto di vista, si potrebbe definire: – critica dei movimenti pratici che tendono a diventare storia, che non hanno ancora avuto il crisma del successo, che sono ancora episodi staccati e quindi «astratti», irrazionali, del movimento storico, dello sviluppo generale della storia mondiale.
Si dimentica spesso (e quando il critico della storia in fieri dimentica questo, significa che egli non è storico, ma uomo politico in atto) che in ogni attimo della storia in fieri c’è lotta tra razionale e irrazionale, inteso per irrazionale ciò che non trionferà in ultima analisi, non diventerà mai storia effettuale, ma che in realtà è razionale anch’esso perché è necessariamente legato al razionale, ne è un momento imprescindibile; che nella storia, se trionfa sempre il generale, anche il «particulare» lotta per imporsi e in ultima analisi si impone anch’esso in quanto determina un certo sviluppo del generale e non un altro.
Ma nella storia moderna, «particulare» non ha più lo stesso significato che aveva nel Machiavelli e nel Guicciardini, non indica più il mero interesse individuale, perché nella storia moderna l’«individuo» storico‑politico non è l’individuo «biologico» ma il gruppo sociale. Solo la lotta, col suo esito, e neanche col suo esito immediato, ma con quello che si manifesta in una permanente vittoria, dirà ciò che è razionale o irrazionale, ciò che è «degno» di vincere perché continua, a suo modo, e supera il passato.
L’atteggiamento pratico del Croce è un elemento per l’analisi e la critica del suo atteggiamento filosofico: ne è anzi l’elemento fondamentale: nel Croce filosofia e «ideologia» finalmente si identificano, anche la filosofia si mostra niente altro che uno «strumento pratico» di organizzazione e di azione: di organizzazione di un partito, anzi di una internazionale di partiti, e di una linea di azione pratica.
Il discorso di Croce al Congresso di filosofia di Oxford è in realtà un manifesto politico, di una unione internazionale dei grandi intellettuali di ogni nazione, specialmente dell’Europa; e non si può negare che questo possa diventare un partito importante che può avere una funzione non piccola. Si potrebbe già dire, così all’ingrosso, che già oggi si verifica nel mondo moderno un fenomeno simile a quello del distacco tra «spirituale» e «temporale» nel Medio Evo: fenomeno molto più complesso di quello d’allora, di quanto è diventata più complessa la vita moderna.
I raggruppamenti sociali regressivi e conservativi si riducono sempre più alla loro fase iniziale economica‑corporativa, mentre i raggruppamenti progressivi e innovatori si trovano ancora nella fase iniziale appunto economica‑corporativa; gli intellettuali tradizionali, staccandosi dal raggruppamento sociale al quale avevano dato finora la forma più alta e comprensiva e quindi la coscienza più vasta e perfetta dello Stato moderno, in realtà compiono un atto di incalcolabile portata storica: segnano e sanzionano la crisi statale nella sua forma decisiva.
Ma questi intellettuali non hanno né l’organizzazione chiesastica, né qualcosa che le rassomigli e in ciò la crisi moderna è aggravata in confronto alla crisi medioevale che si svolse per parecchi secoli, fino alla Rivoluzione francese quando il raggruppamento sociale che dopo il Mille fu la forza motrice economica dell’Europa, poté presentarsi come «Stato» integrale, con tutte le forze intellettuali e morali necessarie e sufficienti per organizzare una società completa e perfetta.
Oggi lo «spirituale» che si stacca dal «temporale» e se ne distingue come a se stante, è un qualcosa di disorganico, di discentrato, un pulviscolo instabile di grandi personalità culturali «senza Papa» e senza territorio. Questo processo di disintegrazione dello Stato moderno è pertanto molto più catastrofico del processo storico medioevale che era disintegrativo e integrativo nello stesso tempo, dato lo speciale raggruppamento che era il motore del processo storico stesso e dato il tipo di Stato esistito dopo il Mille in Europa, che non conosceva la centralizzazione moderna e si potrebbe chiamare più «federativo di classi dominanti» che Stato di una sola classe dominante.
Q 6 §31 Passato e presente. Dal libro Mi pare… di Prezzolini: «L’irreligiosità moderna è una nuova freschezza di spirito, un atto morale, una liberazione. L’irreligiosità è una difficoltà, un carico, un obbligo, un dovere maggiore.
In questo senso ci rende nobili. È l’emulazione con la virtù passata. Noi, irreligiosi, possiamo e dobbiamo essere da tanto quanto gli uomini passati, religiosi. Anzi di più; o meglio: diversamente».
Q 6 §45 Passato e presente. Un pensiero del Guicciardini: «Quanto s’ingannano coloro che ad ogni parola allegano e’ Romani. Bisognerebbe avere una città condizionata come era la loro, e poi governarsi secondo quello esempio; il quale, a chi ha le qualità disproporzionate, è tanto disproporzionato quanto sarebbe volere che un asino facesse il corso di un cavallo». (È nei Ricordi?; cercare e controllare).
Q 6 §47 Passato e presente. Ricordare il libretto di un certo Ghezzi o Ghersi forse Raoul?
Q 6 §55 Passato e presente. Arturo Calza, il «Farmacista» del «Giornale d’Italia» con Bergamini e Vettori.
Q 6 §92 Passato e presente. Nel «19», rivista fascista diretta a Milano da Mario Giampaoli, è stato pubblicato nel 1927 (o prima o dopo; lessi l’articolo nel carcere di Milano) un articoluccio di Antonio Aniante,
Q 6 §102 Passato e presente. Contadini e vita della campagna.
Q 6 §117 Passato e presente. «Una resistenza che si prolunga troppo in una piazza assediata è demoralizzante di per se stessa. Essa implica sofferenze, fatiche, privazioni di riposo, malattie e la imminenzaNel ms una variante interlineare: «presenza». continua non già del pericolo acuto che tempra, ma del pericolo cronico che abbatte». Carlo Marx, Quistione Orientale, articolo del 14 settembre 1855 (Opere politiche, tomo VIII, p. 22).
Q 6 §131 Passato e presente. Caratteri. Etica e politica. È da notare la virulenza di certe polemiche tra uomini politici per il loro carattere personalistico e moralistico. Se si vuole diminuire o annientare l’influsso politico di una personalità o di un partito, non si tenta di dimostrare che la loro politica è inetta o nociva, ma che determinate persone sono canaglie, ecc., che non c’è «buona fede», che determinate azioni sono «interessate» (in senso personale e privato), ecc.
È una prova di elementarietà del senso politico, di livello ancor basso della vita nazionale; è dovuto al fatto che realmente esiste un vasto ceto che «vive» della politica in «mala fede» cioè senza avere convinzioni; è legato alla miseria generale, per cui facilmente si crede che un atto politico è dovuto a cause pecuniarie, ecc. «Inetto ma galantuomo», modi di dire curiosi in politica: si riconosce uno inetto, ma poiché lo si crede «galantuomo», ci si affida a lui; ma «inetto» in politica non corrisponde a «briccone» in morale?
È vero che le conseguenze di queste campagne moralistiche lasciano di solito il tempo che trovano, se non sono uno strumento per determinare l’opinione pubblica popolare ad accettare una determinata «liquidazione» politica, o a domandarla, ecc.
Q 6 §166 Passato e presente. Apoliticità. Aldo Valori, nel «Corriere della Sera» del 17 novembre 1931, pubblica un articolo (L’Esercito di una volta) sul libro di Emilio De Bono Nell’esercito italiano prima della guerra (Mondadori, 1931) che deve essere interessante, e riporta questo brano: «Si leggeva poco, poco i giornali, poco i romanzi, poco il “Giornale ufficiale” e le circolari di servizio… Nessuno si occupava di politica. Io, per esempio, mi ricordo di non aver mai badato alle crisi ministeriali, di aver saputo per puro caso il nome del Presidente del Consiglio… Ci interessavano i periodi elettorali perché davano diritto a dodici giorni di licenza per andare a votare. L’ottanta per cento però si godeva la licenza e non guardava le urne neppure in fotografia».
E il Valori osserva: «Può parere un’esagerazione e invece non è. Astenersi dalla politica non voleva dire estraniarsi dalla vita della Nazione, ma dagli aspetti più bassi della lotta fra partiti. Così comportandosi, l’Esercito rimase immune dalla degenerazione di molti altri pubblici istituti e costituì la grande riserva delle forze dell’ordine; il che era il modo più sicuro per giovare, anche politicamente, alla Nazione».
Questa situazione, per essere apprezzata, deve essere paragonata alle aspirazioni del Risorgimento per rispetto all’Esercito, di cui si può vedere un’espressione nel libro di Giulio Cesare Abba dedicato ai soldati, libro divenuto ufficiale, premiato, ecc. ecc. [Giuseppe Cesare Abba, Uomini e soldati. Letture per l'esercito e pel popolo, Zanichelli, Bologna 1890. L’Abba, con la sua corrente, pensava all’Esercito come a un istituto che doveva inserire le forze popolari nella vita nazionale e statale, in quanto l’Esercito rappresentava la nazione in armi, la forza materiale su cui poggiava il costituzionalismo e la rappresentanza parlamentare, la forza che doveva impedire i colpi di Stato e le avventure reazionarie: il soldato doveva diventare il soldato‑cittadino, e l’obbligo militare non doveva essere concepito come un servizio, ma invece attivamente, come l’esercizio di un diritto, della libertà popolare armata.
Utopie, evidentemente, perché, come appare dal libro del De Bono, si ricadde nell’apoliticismo, quindi l’esercito non fu che un nuovo tipo di esercito professionale e non di esercito nazionale, poiché questo e niente altro significa l’apoliticismo. Per le «forze dell’ordine» questo stato di cose era l’ideale: quanto meno il popolo partecipava alla vita politica statale, tanto più queste forze erano forze. Ma come giudicare dei partiti che continuavano il Partito d’Azione! E ciò che si dice dell’esercito si può estendere a tutto il personale impiegato dall’apparato statale, burocrazia, magistratura, polizia, ecc. Un’educazione «costituzionale» del popolo non poteva essere fatta dalle forze dell’ordine: essa era compito del Partito d'Azione, che fallì completamente ad esso; anzi fu un elemento per rincalzare l’atteggiamento delle forze dell’ordine.
Q 6 §170 Passato e presente. Governi e livelli culturali nazionali. Ogni governo ha una politica culturale e può difenderla dal suo punto di vista e dimostrare di aver innalzato il livello culturale nazionale. Tutto sta nel vedere quale sia la misura di questo livello. Un governo può organizzare meglio l’alta cultura e deprimere la cultura popolare, e ancora: dell’alta cultura può organizzare meglio la sezione riguardante la tecnologia e le scienze naturali, paternalisticamente mettendo a sua disposizione somme di denaro come prima non si faceva, ecc.
Il criterio di giudizio può essere solo questo: un sistema di governo è repressivo o espansivo? e anche questo criterio deve essere precisato: un governo repressivo per alcuni aspetti, è espansivo per altri? Un sistema di governo è espansivo quando facilita e promuove lo sviluppo dal basso in alto, quando eleva il livello di cultura nazionale‑popolare e tende quindi possibile una selezione di «cime intellettuali» su più vasta area. Un deserto con un gruppo di alte palme è sempre un deserto: anzi è proprio del deserto avere delle piccole oasi con gruppi di alte palme.
Q 6 §176 Passato e presente. Il Memorandum storico-politico di Clemente Solaro della Margarita
Q 6 §194 Passato e presente. La riforma Gentile e la religione nelle scuole. Cfr l’articolo L’ignoto e la religione naturale secondo il senator Gentile, nella «Civiltà Cattolica» del 6 dicembre 1930. Si esamina la concezione del Gentile sulla religione, ma naturalmente gli si è grati per aver introdotto l’insegnamento della religione nella scuola.
Q 6 §203 Passato e presente. Lo Stato e i funzionari. Un’opinione diffusa è questa: che mentre per i cittadini l’osservanza delle leggi è un obbligo giuridico, per lo «Stato» l’osservanza è solo un obbligo morale, cioè un obbligo senza sanzioni punitive per l’evasione. Si pone la quistione: che cosa si intende per «Stato», cioè chi ha solo l’obbligo «morale» di osservare la legge e non si finisce mai di constatare quanta gente crede di non avere obblighi «giuridici» e di godere dell’immunità e dell’impunità. Questo «stato d’animo» è legato a un costume o ha creato un costume? L’una cosa e l’altra sono vere. Cioè lo Stato, in quanto legge scritta permanente, non è stato mai concepito (e fatto concepire) come un obbligo oggettivo e universale.
Questo modo di pensare è legato alla curiosa concezione del «dovere civico» indipendente dai «diritti», come se esistessero doveri senza diritti e viceversa: questa concezione è legata appunto all’altra della non obbligatorietà giuridica delle leggi per lo Stato, cioè per i funzionari e agenti statali i quali pare abbiano troppo da fare per obbligare gli altri perché rimanga loro tempo di obbligare se stessi.
Q 6 §49 Americanismo. Ancora Babbitt. Il piccolo borghese europeo ride di Babbitt e quindi ride dell’America, che sarebbe popolata di 120 milioni di Babbitt. Il piccolo borghese non può uscire da se stesso, comprendere se stesso come l’imbecille non può comprendere di essere imbecille (senza dimostrare con ciò di essere un uomo intelligente) per cui sono imbecilli quelli che non sanno di esserlo e sono piccoli borghesi i filistei che non sanno di esserlo. Il piccolo borghese europeo ride del particolare filisteismo americano, ma non si accorge del proprio, non sa di essere il Babbitt europeo, inferiore al Babbitt del romanzo del Lewis, in quanto questo cerca di evadere, di non essere più Babbitt; il Babbitt europeo non lotta col suo filisteismo ma ci si crogiola e crede che il suo verso, e il suo qua‑qua da ranocchio infisso nel pantano sia un canto da usignolo. Nonostante tutto, Babbitt è il filisteo di un paese in movimento, il piccolo borghese europeo è il filisteo di paesi conservatori, che imputridiscono nella palude stagnante del luogo comune della grande tradizione e della grande cultura. Il filisteo europeo crede di aver scoperto l’America con Cristoforo Colombo e che Babbitt sia un pupazzo per il suo divertimento di uomo gravato da millenni di storia. Intanto nessuno scrittore europeo è stato capace di rappresentarci il Babbitt europeo, cioè di dimostrarsi capace di autocritica: appunto è imbecille e filisteo solo chi sa di non esserlo.
Q 6 §135 Passato e presente. Il fordismo. A parte il fatto che gli alti salari non rappresentano nella pratica industriale del Ford ciò che Ford teoricamente vuol far loro significare (cfr note sul significato essenziale degli alti salari come mezzo per selezionare una maestranza adatta al fordismo sia come metodo di produzione e di lavoro, sia come sistema commerciale e finanziario: necessità di non avere interruzioni nel lavoro, quindi open shop, ecc.) è da notare: in certi paesi di capitalismo arretrato e di composizione economica in cui si equilibrano la grande industria moderna, l’artigianato, la piccola e media cultura agricola e il latifondismo, le masse operaie e contadine non sono considerate come un «mercato».
Il mercato per l’industria è pensato all’estero, e in paesi arretrati dell’estero, dove sia più possibile la penetrazione politica per la creazione di colonie e di zone d’influenza. L’industria, col protezionismo interno e i bassi salari, si procura mercati all’estero con un vero e proprio dumping permanente.
Paesi dove esiste nazionalismo, ma non una situazione «nazionale-popolare», dove cioè le grandi masse popolari sono considerate come il bestiame. Il permanere di tanto ceto artigianesco industriale in alcuni paesi non è appunto legato al fatto che le grandi masse contadine non sono considerate un mercato per la grande industria, la quale ha prevalentemente un mercato estero? E la così detta rinascita o difesa dell’artigianato non esprime appunto la volontà di mantenere questa situazione ai danni dei contadini più poveri, ai quali è precluso ogni progresso?
Q 6 §191 America e massoneria. Cfr lo studio: La Massoneria americana e la riorganizzazione della Massoneria in Europa, pubblicato nella «Civiltà Cattolica» del 1° novembre 1930 e 3 gennaio 1931. Lo studio è molto interessante e pare abbastanza oggettivo. La situazione internazionale attuale della Massoneria, con le sue lotte interne eredità della guerra (Francia contro Germania), risalta in modo chiaro.
Q 6 §179 Passato e presente. La scuola professionale. Nel novembre 1931 si è svolta alla Camera dei Deputati un’ampia discussione sull’insegnamento professionale e in essa tutti gli elementi teorici e pratici per lo studio del problema sono affiorati in modo abbastanza perspicuo e organico.
Q 6 §206 Quistioni scolastiche. Cfr l’articolo Il facile e il difficile di Metron nel «Corriere della Sera» del 7 gennaio 1932.
Q 6 §165 Nozioni enciclopediche. Scienza e scientifico. Il Dubreuil, nel libro Standards1 nota giustamente che l’aggettivo «scientifico» tanto usato per accompagnare le parole: Direzione scientifica del lavoro, Organizzazione scientifica, ecc., non ha il significato pedantesco e minaccioso che molti gli attribuiscono, ma non spiega poi esattamente come debba essere inteso. In realtà scientifico significa «razionale» e più precisamente «razionalmente conforme al fine» da raggiungere, cioè di produrre il massimo col minimo sforzo, di ottenere il massimo di efficienza economica, ecc. razionalmente scegliendo e fissando tutte le operazioni e gli atti che conducono al fine.
L’aggettivo «scientifico» è oggi adoperato estensivamente, ma sempre il suo significato può essere ridotto a quello di «conforme al fine», in quanto tale «conformità» sia razionalmente (metodicamente) ricercata dopo un’analisi minutissima di tutti gli elementi (fino alla capillarità) costitutivi e necessariamente costitutivi (eliminazione degli elementi emotivi compresa nel calcolo).
Q 6 §180 Nozioni enciclopediche. «Scientifico». Che cosa è «scientifico»? L’equivoco intorno ai termini «scienza» e «scientifico» è nato da ciò che essi hanno assunto il loro significato da un gruppo determinato di scienze e precisamente dalle scienze naturali e fisiche. Si chiamò «scientifico» ogni metodo che fosse simile al metodo di ricerca e di esame delle scienze naturali, divenute le scienze per eccellenza, le scienze‑feticcio. Non esistono scienze per eccellenza e non esiste un metodo per eccellenza, «un metodo in sé». Ogni ricerca scientifica si crea un metodo adeguato, una propria logica, la cui generalità e universalità consiste solo nell’essere «conforme al fine».
La metodologia più generica e universale non è altro che la logica formale o matematica, cioè l’insieme di quei congegni astratti del pensiero che si sono venuti scoprendo, depurando, raffinando attraverso la storia della filosofia e della cultura. Questa metodologia astratta, cioè la logica formale, è spregiata dai filosofi idealisti ma erroneamente: il suo studio corrisponde allo studio della grammatica, cioè corrisponde non solo a un approfondimento delle esperienze passate di metodologia del pensiero (della tecnica del pensiero), a un assorbimento della scienza passata, ma è una condizione per lo sviluppo ulteriore della scienza stessa.
Studiare il fatto per cui la «logica» formale è diventata sempre più una disciplina legata alle scienze matematiche – Russell in Inghilterra, Peano in Italia – fino ad essere elevata, come dal Russell, alla pretesa di «sola filosofia» reale.
Il punto di partenza potrebbe essere preso dall’affermazione di Engels in cui «scientifico» è contrapposto a «utopistico»; il sottotitolo della «Critica Sociale» del Turati ha lo stesso significato che in Engels? Certo no; per Turati «scientifico» si avvicina al significato di «metodo proprio alle scienze fisiche» (il sottotitolo sparì a un certo punto: vedere quando; certo già nel 1917) e anche questo in senso molto generico e tendenzioso.
Ant.: La Scienza nei Quaderni
Q 6 §3 Nozioni enciclopediche. Il naso di Cleopatra. Cercare il senso esatto che Pascal dava a questa sua espressione divenuta tanto famosa (Pascal ne parla nelle Pensées) e il suo legame con le opinioni generali dello scrittore francese. (Caducità e frivolità della storia degli uomini, pessimismo giansenistico, ecc.).
Q 6 §11 Nozioni enciclopediche. Libertà‑disciplina. Al concetto di libertà si dovrebbe accompagnare quello di responsabilità che genera la disciplina e non immediatamente la disciplina, che in questo caso si intende imposta dal di fuori, come limitazione coatta della libertà. Responsabilità contro arbitrio individuale: è sola libertà quella «responsabile» cioè «universale», in quanto si pone come aspetto individuale di una «libertà» collettiva o di gruppo, come espressione individuale di una legge.
Q 6 §15 Nozioni enciclopediche. «Spesso ciò che la gente chiama intelligenza, non è che la facoltà di intendere le verità secondarie a scàpito delle verità fondamentali». «Cìò che maggiormente può farci disperati degli uomini è la frivolità». (Due aforismi di Ugo Bernasconi nel «Pègaso» dell’agosto 1930: Parole alla buona gente).
Questa intelligenza è chiamata anche «talento» genericamente ed è palese in quella forma di polemica superficiale, dettata dalla vanità di parere indipendenti e di non accettare l’autorità di nessuno, per cui si cerca di contrapporre, come obbiezioni, a una verità fondamentale, tutta una serie di verità parziali e secondarie.
La «frivolità» spesso è da vedere nella goffaggine seriosa: anzi si chiama «frivolìtà» in certi intellettuali e nelle donne ciò che in politica, per esempio, è appunto la goffaggine e il provincialismo meschino.
Q 6 §19 Nozioni enciclopediche. Sulla verità ossia sul dire la verità in politica. È opinione molto diffusa in alcuni ambienti (e questa diffusione è un segno della statura politica e culturale di questi ambienti) che sia essenziale dell’arte politica il mentire, il sapere astutamente nascondere le proprie vere opinioni e i veri fini a cui si tende, il saper far credere il contrario di ciò che realmente si vuole ecc. ecc. L’opinione è tanto radicata e diffusa che a dire la verità non si è creduti. Gli italiani in genere sono all’estero ritenuti maestri nell’arte della simulazione e dissimulazione, ecc.
Q 6 §30 Nozioni enciclopediche. L’affermazione che «non si può distruggere, senza creare» è molto diffusa. L’ho letta, già prima del 1914, nell’«Idea nazionale», che pure era un bric‑à‑brac di banalità e luoghi comuni. Ogni gruppo o gruppetto che crede di essere portatore di novità storiche (e si tratta di vecchierie con tanto di barba) si afferma dignitosamente distruttore‑creatore. Bisogna togliere la banalità all’affermazione divenuta banale. Non è vero che «distrugga» chiunque vuol distruggere. Distruggere è molto difficile, tanto difficile appunto quanto creare. Poiché non si tratta di distruggere cose materiali, si tratta di distruggere «rapporti» invisibili, impalpabili, anche se si nascondono nelle cose materiali. È distruttore‑creatore chi distrugge il vecchio per mettere alla luce, fare affiorare il nuovo che è divenuto «necessario» e urge implacabilmente al limitare della storia. Perciò si può dire che si distrugge in quanto si crea. Molti sedicenti distruttori non sono altro che «procuratori di mancati aborti», passibili del codice penale della storia.
Q 6 §39 Nozioni enciclopediche. L’affermazione di Paolo Bourget fatta al principio della guerra (mi pare, perché forse anche prima) che i quattro pilastri dell’Europa erano: il Vaticano, lo Stato Maggiore prussiano, la Camera dei Lords inglesi, l’Accademia francese. Il Bourget dimenticava lo zarismo russo che era il maggiore pilastro, l’unico che avesse resistito durante la Rivoluzione francese e Napoleone e durante il 48.
Q 6 §53 Nozioni enciclopediche. La vecchia massima inglese: «no representation without labour» ricordata da Augur (Britannia, quo vadis?, Nuova Antologia 16 gennaio 1930) per sostenere che bisognerebbe togliere il voto ai disoccupati per risolvere il problema della disoccupazione (cioè perché si formi un governo che riduca al minimo il fondo della disoccupazione): quando è stata praticata, da chi, come? e come la si intendeva?
Q 6 §93 Nozioni enciclopediche. Teocrazia, cesaropapismo, ierocrazia. Non sono la stessa precisa cosa: 1) teocrazia, unita all’idea del comando per grazia di Dio; 2) cesaropapismo: l’imperatore è anche capo della religione, sebbene il carattere laico‑militare predomini in lui; 3) ierocrazia è il governo dei religiosi, cioè nel comando predomina il carattere sacerdotale: quella del papa è una ierocrazia.
Q 6 §130 Nozioni enciclopediche. Congiuntura. Origine dell’espressione: serve a capire meglio il concetto. In italiano = fluttuazione economica. Legata ai fenomeni del dopoguerra molto rapidi nel tempo. (In italiano il significato di «occasione economica favorevole o sfavorevole» rimane alla parola «congiuntura»; differenza tra «situazione» e «congiuntura»: la congiuntura sarebbe il complesso dei caratteri immediati e transitori della situazione economica, e per questo concetto bisognerebbe allora intendere i caratteri più fondamentali e permanenti della situazione stessa. Lo studio della congiuntura quindi legato più strettamente alla politica immediata, alla «tattica» e all’agitazione, mentre la «situazione» alla «strategia» e alla propaganda, ecc.)
Q 6 §167 Nozioni enciclopediche. Bog e bogati. È stato osservato in qualche posto che le relazioni tra Bog e bogati sono una coincidenza fortuita dello sviluppo linguistico di una determinata cultura nazionale. Ma il fatto non è esatto. Nelle lingue neo‑latine è apparso il vocabolo germanico «ricco» a turbare il rapporto che in latino esisteva tra «deus» «dives» e «divites» «divitia» (dovizia, dovizioso, ecc.). In un articolo di Alessandro Chiappelli, Come s’inquadra il pensiero filosofico nell’economia del mondo, (Nuova Antologia del 1° aprile 1931) si possono spulciare elementi per mostrare che in tutto il mondo occidentale, a differenza di quello asiatico (India), la concezione di Dio è strettamente connessa con la concezione di proprietà e di proprietario: «… (il) concetto di proprietà come è il centro di gravità e la radice di tutto il nostro sistema giuridico, così è l’ordito di tutta la nostra struttura civile e morale. Persino il nostro concetto teologico è foggiato spesso su questo esemplare, e Dio è rappresentato talora come il grande proprietario del mondo. La ribellione contro Dio nel Paradiso perduto del Milton, come già nel poema di Dante, è figurata come il temerario tentativo di Satana o di Lucifero di spodestare l’onnipotente e di deporlo dal suo altissimo trono.
Q 6 §184 Nozioni enciclopediche. Reliquie dell’organizzazione corporativa medioevale:
Q 6 §185 Nozioni enciclopediche. Consiglio di Stato.
Q 6 §205 Nozioni enciclopediche. Azione diretta. Diversi significati secondo le tendenze politiche e ideologiche. Significato degli «individualisti» e degli «economisti», con significati intermedi. Il significato degli «economisti» o sindacalisti di varie tendenze (riformisti, ecc.) è quello che ha dato la stura ai vari significati, fino a quello dei puri «criminali».
Q 6 §37 Passato e presente. Sulle condizioni recenti della scuola e degli studi in Italia occorre vedere gli articoli di Mario Missiroli nell’«Italia Letteraria» del 1929.
Q 6 §66 Machiavelli. Gino Arias, Il pensiero economico di Niccolò Machiavelli. (Negli «Annali di Economia» dell’Università Bocconi del 1928 (o 27?).
Q 6 §83 Intellettuali italiani. Cfr P. H. Michel, La Pensée de L. B. Alberti (1404‑1472). Collection de littérature générale, 40 franchi, Ed. Les Belles Lettres, Parigi.
Q 6 §95 Cultura italiana. Regionalismo. Cfr Leonardo Olschki, Kulturgeografie Italiens, in «Preussische Jahrbücher» gennaio 1927, pp. 19‑36. Il «Leonardo» del febbraio 1927 lo giudica: «Vivace e assai ben fatto studio del regionalismo italiano, dei suoi aspetti presenti e delle sue origini storiche».
Q 6 §101 Cultura italiana. Borghesia primitiva. Per lo studio della formazione e del diffondersi dello spirito borghese in Italia (lavoro tipo Groethuysen), cfr anche i Sermoni di Franco Sacchetti (vedi ciò che ne scrive il Croce nella «Critica» del marzo 1931 (Il Boccaccio e Franco Sacchetti).
Q 6 §132 Storia delle classi subalterne. Su alcuni aspetti del movimento del 1848 in Italia, in quanto riflettono le teorie degli utopisti francesi, cfr Petruccelli della Gattina, La rivoluzione di Napoli nel 1848, 2a ed., 1912, a cura di Francesco Torraca; Mondaini, I moti politici del 48; G. De Ruggiero, Il pensiero politico meridionale.
Mat. Bibl.: Franco Savelli -Il Meridione d'Italia nel periodo Restaurazione e Insurrezione
Q 6 §143 Guido Calogero, Il neohegelismo nel pensiero italiano contemporaneo (Croce, ma specialmente il Gentile), Nuova Antologia, 16 agosto 1930.
Q 6 §149 Storia degli intellettuali italiani. Su L. B. Alberti cfr il libro di Paul‑Henry Michel, Un ideal humain au XV siècle. La pensée de L. B. Alberti (1404‑1472), in 8°, pp. 649, Parigi, Soc. Ed. «Les Belles lettres», 1930. Analisi minuziosa del pensiero di L. B. Alberti, ma, a quanto pare da qualche recensione, non sempre esatta, ecc.
Edizione Utet del Novellino curata da Letterio di Francia, il quale ha accertato che il nucleo originale della raccolta sarebbe stato composto negli ultimi anni del secolo XIII da un borghese ghibellino.
Ambedue i libri dovrebbero essere analizzati per la ricerca già accennata del come sia riflesso nella letteratura il passaggio dall’economia medioevale all’economia borghese dei Comuni e quindi alla caduta, in Italia, dello spirito di intrapresa economica e alla restaurazione cattolica.
Q 6 §4 Letteratura popolare. Tentativi letterari delle nuove classi sociali. È stato tradotto in francese un libro di Oscar Maria Graf, Nous sommes prisonniers…, ed. Gallimard, 1930, che pare sia interessante e significativo per le classi popolari tedesche.
Q 6 §169 Giornalismo. Cfr Luigi Villari, Giornalismo britannico di ieri e di oggi, «Nuova Antologia», 1° maggio 1931.
Q 6 §192 Storia degli intellettuali italiani. Cfr G. Masi, La struttura sociale delle fazioni politiche fiorentine ai tempi di Dante, Firenze, Olschki, 1930, in 8°, pp. 32.
Q 6 §193 Azione Cattolica. Spagna. Cfr N. Noguer S. J., La acciòn católica en la teorìa y en la práctica en España y en el extraniero, Madrid, «Razón y Fe», in 16°, pp. 240‑272, 8 pesete.
Q 6 §210 Intellettuali. Cfr Louis Halphen, Les Universités au 13 e siècle, Ed. Alcan, 1931, Fr. 10.
Q 6 §59 Italia meridionale. Sull’abbondanza dei paglietta nell’Italia Meridionale ricordare l’aneddoto di Innocenzo XI che domandò al marchese di Carpio di fornirgli 30 000 maiali e ne ebbe la risposta che non era in grado di compiacerlo, ma che se a Sua Santità fosse accaduto di aver bisogno di 30 000 avvocati, era sempre al fatto di servirlo.
Q 6 §160 Sulla morale. Nella breve introduzione a un gruppo di lettere inedite del Diderot a Grimm e a Madame d’Epinay («Revue des Deux Mondes» del 15 febbraio 1931), André Babelon scrive del Diderot:
«Diderot, qui éprouvait pour la postérité le même respect que d’autres pour l’immortalité de l’âme...» .
Q 6 §204 Passato e presente. Un detto popolare: L’amore del tarlo. Ricordare anche il proverbio inglese: Con cento lepri non si fa un cavallo, con cento sospetti non si fa una prova.