Quaderno 6

Nota di lettura

L'antiscientismo gramsciano


Il termine "scienza" è usato di continuo nei Quaderni: si parla di scienza  politica, scienza economica, scienza della storia,  scienza del linguaggio, ecc. Esso, evidentemente, è usato con un significato generico, facendo riferimento ad una metodologia di ricerca e ad una disciplina intellettuale in difetto delle quali si producono i fenomeni che Gramsci accomuna sotto l'etichetta di Lorianesimo.

Gramsci però affronta anche il problema della scienza tout court, vale a dire di quell'insieme di discipline  (fisica, chimica, biologia) nate sulla base dell'adozione del metodo sperimentale quali, in virtù di questo metodo, si sono differenziate dalle altre branche del sapere.

Che cosa è "scientifico"? è la domanda che egli  si pone nel §180 e tornerà ripetutamente in altri Quaderni. La risposta è netta:

"L’equivoco intorno ai termini «scienza» e «scientifico» è nato da ciò che essi hanno assunto il loro significato da un gruppo determinato di scienze e precisamente dalle scienze naturali e fisiche. Si chiamò «scientifico» ogni metodo che fosse simile al metodo di ricerca e di esame delle scienze naturali, divenute le scienze per eccellenza, le scienze‑feticcio. Non esistono scienze per eccellenza e non esiste un metodo per eccellenza, «un metodo in sé». Ogni ricerca scientifica si crea un metodo adeguato, una propria logica, la cui generalità e universalità consiste solo nell’essere «conforme al fine»."

L'asserzione anticipa sorprendentemente le conclusioni dell'epistemologo "anarchico" Paul Feyerabend, la cui opera principale dal titolo Contro il metodo (1975) contesta, per l'appunto, che vi siano regole metodologiche costantemente applicate dagli scienziati, e che quindi la scienza sia una disciplina a se stante, nettamente differenziata da tutte le altre.

All'epoca, l'intento di Gramsci non è però, se non in senso lato, epistemologico, ma critico e polemico. La polemica riguarda anzitutto il positivismo, la "religione della scienza" avviata nell'Ottocento da A. Comte, contestata immediatamente e puntualmente da Marx come una forma di idealismo, la cui influenza è, però, ancora attiva all'epoca di Gramsci (basta pensare al positivismo giuridico, alla criminologia di Lombroso, ecc.).

Essa però investe anche il marxismo che, soprattutto con Kautsky, ha tentato di integrare la filosofia marxista con l'evoluzionismo darwiniano giungendo a negare la dialettica in nome di un'estensione alla storia delle leggi dell'evoluzione naturale, che comporta un lento, graduale e fatalistico processo di cambiamento della struttura sociale e della cultura.

La polemica gramsciana, però, ha anche un carattere radicale: parlando di "scienze feticcio" e contestando che esse godano di un primato culturale in conseguenza del metodo che adottano, Gramsci tende ad invalidare quel primato in nome, evidentemente, dell'estensione del criterio di scientificità a qualunque ricerca portata avanti con metodo adeguato e conforme al fine che essa si prefigge.

È agevole capire che questa estensione concerne anzitutto la filosofia marxista intesa come storicismo assoluto, capace quindi di integrare nella sua cornice di riferimento tutti i fenomeni e i processi culturali che si realizzano nel corso del processo storico, comprese quindi le scienze naturali.

Nell'ottica gramsciana anche le scienze, insomma, nella misura in cui sorgono e si sviluppano in un determinato contesto storico hanno e non possono non avere un significato sovrastrutturale, ideologico. Le verità che esse producono, dunque, non hanno un carattere assoluto, in quanto si intrecciano con l'evoluzione dei processi socio-storici e possono essere interpretate in maniera tale da avallare interessi particolari, di classe.

Se si tiene conto della parabola dell'evoluzionismo darwiniano che, attraverso la mediazione di H. Spencer, ha prodotto verso la fine dell'800 il darwinismo sociale, che è stata una delle matrici dell'elitismo politico del primo Novecento, del nazionalismo e del razzismo, la critica di Gramsci sembra del tutto attendibile.

Alla stessa conclusione si giunge tenendo conto del fatto che la teoria della relatività all'epoca di Gramsci è già pervenuta, attraverso peraltro l'elaborazione di intellettuali di formazione filosofica, ad esiti di un relativismo assoluto così marcato da contestare l'esistenza del mondo reale, oggettivo (contestazione cui Gramsci dedicherà grande attenzione nei successivi Quaderni).

La pertinenza della polemica gramsciana concerne, dunque, l'uso ideologico delle scienze naturali nella misura in cui esse vengono assolutizzate per ricavarne conclusioni improprie. Tale pericolo è permanente se si tiene conto che, ancora di recente, il darwinismo sociale, superato sulla carta, è spuntato fuori di nuovo sotto forma di neoliberismo, che l'evoluzionismo ha prodotto la sociobiologia, e che la fisica quantistica ha rappresentato la matrice di riferimento del postmodernismo, che riduce a mera "narrazione" ogni sapere umano.

È evidente però che la critica  gramsciana rivolta contro il primato delle  scienze naturali è andata fuori misura misconoscendo il carattere comunque rivoluzionario dell'avvento del metodo scientifico e dei risultati da esso conseguito.

La contestazione della prematura integrazione del marxismo con l'evoluzionismo è giusta, come pure la critica del "vezzo" per cui all'epoca, e ancora oggi, tutte le discipline tendono a darsi uno statuto scientifico modellato sull'esempio delle scienze naturali. Croce stesso, per fare un esempio riportato da Gramsci, ha definito la sua filosofia una scienza pura.

Condivisibile è anche il principio gramsciano secondo il quale ogni ricerca condotta seriamente, con metodo e disciplina intellettuale, tanto più se essa fornisce verità atte ad incidere praticamente sulla realtà esistente, si può ritenere in senso lato scientifica.

Il rapporto, però, tra la filosofia marxista e le scienze intese in senso stretto  va riformulato sulla base del fatto che, oggi, alcune di esse - e in particolare la genetica e la neurobiologia - offrono dati importanti (plasticità cerebrale, neotenia, neuroni specchio, empatia) che, nel loro complesso, confermano i presupposti impliciti nell'antropologia di Marx, radicalmente incentrata sulla socialità dell'uomo come orizzonte ultimo della sua esperienza, mentre confutano altrettanto radicalmente quelli impliciti nell'antropologia borghese, che si riconduce a Hobbes e periodicamente ricade nella tentazione del darwinismo sociale.

Certo, come per ogni prodotto culturale, si dà il pericolo di un imperialismo delle neuroscienze, ma è un pericolo che può essere scongiurato riconducendole nella cornice di una panantropologia che assegna al pensiero di Marx (e ai contributi di Gramsci) il valore di una matrice fondativa.

La panantropologia oggi si può definire nei termini di un umanesimo assoluto scientifico e storico (non storicistico). I due aggettivi non sono in contraddizione tra loro se si tiene conto che la vicenda umana, la quale riconosce il suo primo movens nell'esigenza di trasformare l'ambiente naturale in modo da renderlo adeguato ai bisogni umani, va comunque ricondotta alla molteplicità delle interazioni tra il corredo genetico umano, rappresentato nei singoli corredi individuali, e l'ambiente naturale e storico-culturale.

In questa ottica, il marxismo può essere assunto non già solo come filosofia che rivela i fattori  reali (infra- e sovrastrutturali) che sottendono i processi storici, bensì come l'interpretazione di uno sviluppo fenotipico delle potenzialità intrinseche al genoma umano - quello capitalistico - che non esclude altri possibili sviluppi, uno dei quali sarebbe l'umanizzazione della natura e la naturalizzazione dell'uomo, vale a dire la realizzazione del "sogno" marxista.