Il Principe di Machiavelli
Wikipedia
Il Principe (titolo originale in lingua latina: De Principatibus, lett.
"Sui Principati") è un trattato di dottrina politica scritto da Niccolò
Machiavelli nel 1513, nel quale espone le caratteristiche dei
principati e dei metodi per mantenerli e conquistarli. Si tratta senza
dubbio della sua opera più rinomata, quella dalle cui massime (spesso
superficialmente interpretate) sono nati il sostantivo "machiavellismo"
e l'aggettivo "machiavellico".
L'opera non è ascrivibile ad alcun genere letterario particolare, in
quanto non ha le caratteristiche di un vero e proprio trattato; se ne è
ipotizzata la natura di libriccino a carattere divulgativo.
Il Principe si compone di una dedica e ventisei capitoli di varia
lunghezza; l'ultimo capitolo consiste nell'appello ai de' Medici ad
accettare le tesi espresse nel testo.
Indice
1 Composizione
2 Contenuti
2.1 Le caratteristiche del principe ideale
2.2 La natura umana e il rapporto con gli antichi
2.3 Guerra e pace
2.4 Il rapporto tra Virtù e Fortuna e la loro nuova concezione
2.5 Concezione di libertà
2.6 Concezione della religione a servizio della politica e rapporto con la Chiesa
3 Sinossi dettagliata
3.1 I. La natura dei principati e il modo per acquistarli
3.2 II. I Principati ereditari
3.3 III. I Principati misti
3.4 IV. Per quale motivo il regno di Dario di Persia, occupato da
Alessandro, non si ribellò ai suoi successori dopo la morte di
Alessandro
3.5 V. In che modo si devono governare i Principati che, prima di essere occupati, fruivano di leggi proprie
3.6 VI. I Principati nuovi acquistati con l’armi proprie e con la virtù
3.7 VII. I principati nuovi acquistati con le armi e la fortuna degli altri
3.8 VIII. Quelli che per scelleratezza arrivarono al Principato
3.9 IX. Il Principato civile
3.10 X. In che modo si misurano le forze dei Principati
3.11 XI. I Principati ecclesiastici
3.12 XII. I generi della milizia e dei mercenari
3.13 XIII. I soldati ausiliari, misti e propri
3.14 XIV. Quello che deve fare un Principe circa la milizia
3.15 XV. Le cose per le quali gli uomini e i Principi sono o lodati o vituperati
3.16 XVI. La liberalità e la parsimonia
3.17 XVII. La crudeltà e la pietà: se è meglio essere amato o temuto
3.18 XVIII. In che modo i Principi devono mantenere la parola data
3.19 XIX. Come fuggire lo essere sprezzato ed odiato
3.20 XX. Se le fortezze et simlia sono utili ai Principi oppure no
3.21 XXI. Cosa deve fare un Principe per essere stimato
3.22 XXII. I segretari che i Principi hanno al loro seguito
3.23 XXIII. Come si devono fuggire gli adulatori
3.24 XXIV. Perché i Principi italiani persero i loro Stati
3.25 XXV. Quanto possa la fortuna nelle vicende umane e come le si debba resistere
3.26 XXVI. Esortazione a liberare l’Italia dalle mani dei barbari
L'intera opera fu composta nella seconda metà del 1513 all'Albergaccio,
tranne la dedica a Lorenzo de' Medici e l'ultimo capitolo, composti
pochi anni dopo. La prima edizione a stampa fu edita nel 1532.
Egli infatti ne iniziò la stesura mentre si trovava a Sant'Andrea in
Percussina, confinato in seguito al ritorno a Firenze della casata
Medici (1512) a cui aveva seguito l'accusa di aver partecipato alla
congiura antimedicea di Pier Paolo Boscoli.
Machiavelli, nella Lettera a Francesco Vettori, manifestò la volontà di
dedicare l'opera a Giuliano de' Medici ma, dopo la morte di questi nel
1516, la dedicò a Lorenzo de' Medici, figlio di Piero II de' Medici.
L'intenzione era in ogni caso di dedicare l'opera al detentore del
potere nella famiglia Medici, con la speranza di riacquistare
l'incarico di Segretario della Repubblica.
La prima menzione di questa opera si ha nella Lettera a Francesco
Vettori datata il 10 dicembre 1513 indirizzata all'amico Francesco
Vettori, in risposta ad una lettera di quest'ultimo che raccontava la
sua vita a Roma e che chiedeva notizie sulla vita che conduceva
Machiavelli a Sant'Andrea. Quest'ultimo risponde raccontandogli gli
aspetti rozzi della vita in campagna e parlando anche dei suoi studi,
dichiara di aver composto un "opuscolo" intitolato De Principatibus.
Contenuti
Per raggiungere il fine di conservare e potenziare lo Stato, viene
attribuita a Machiavelli l'errata citazione "il fine giustifica i
mezzi" e così facendo viene giustificata qualsiasi altra azione del
Principe, anche se in contrasto con le leggi della morale. Questa
citazione è fondamentalmente errata perché, da un lato non è mai stata
né detta, né scritta, dall'altro perché non è stata neanche mai
pensata. Infatti Machiavelli, in riferimento al Principe, ha spiegato
cosa sia la pazzia, smentendo qualsiasi collegamento con la falsa
citazione:
"perché un principe che può fare quello che vuole è un pazzo; un popolo
che può fare ciò che vuole non è savio." N. Machiavelli, Opere
complete, Alcide Parenti, Editore-Libraio, Firenze, 1843, cit., p. 313.
Perciò è pazzo colui che crede di poter dire e di poter fare quello che
vuole. In altre parole è pazzo colui che pensa che il fine giustifica i
mezzi. In Machiavelli, la salvezza dello Stato è necessaria e deve
venire prima delle personali convinzioni etiche del Principe, poiché
egli non è il padrone, bensì il servitore dello Stato.
Le caratteristiche del principe ideale
Le qualità che, secondo Machiavelli, deve possedere un "principe"
ideale (ma non idealizzato), sono tuttora citate nei testi sulla
leadership:
la disponibilità ad imitare il comportamento di grandi uomini a lui contemporanei o del passato, es. quelli dell'Antica Roma;
la capacità di mostrare la necessità di un governo per il benessere del popolo, es. illustrando le conseguenze di un'oclocrazia;
il comando sull'arte della guerra - per la sopravvivenza dello stato;
la capacità di comprendere che la forza e la violenza possono essere essenziali per mantenere stabilità e potere;
la prudenza;
la saggezza di cercare consigli soltanto quando è necessario;
la capacità di essere "simulatore e gran dissimulatore";
il rilevante potere di controllo della fortuna attraverso la virtù (la
metafora utilizzata accosta la fortuna ad un fiume, che deve essere
contenuto dagli argini della virtù);
la capacità di essere leone, volpe e centauro (leone forza - volpe
astuzia - centauro come capacità di usare la forza come gli animali e
la ragione come l'uomo)
La natura umana e il rapporto con gli antichi
Secondo Machiavelli la natura umana è una natura malvagia che presenta
alcuni fattori, quali le passioni, la virtù e la fortuna. Il frequente
ricorso ad exempla virtutis tratti dalla storia antica e dalla sua
esperienza nella politica moderna dimostrano che nella sua concezione
della storia non vi è alcuna netta frattura tra il mondo degli antichi
e quello dei moderni; Machiavelli trae così dalla lezione della storia
delle leggi generali, le quali non vanno però intese come norme
infallibili, valide in ogni contesto e situazione, ma come semplici
tendenze orientanti l'azione del Principe che devono sempre
confrontarsi con la realtà. Non vi è alcuna esperienza tràdita dal
passato che non possa essere smentita da una nuova esperienza presente;
tale mancanza di scientificità spiega la mancata sottomissione di
Machiavelli alla auctoritas degli antichi: reverenza ma non ossequio
nei suoi confronti; gli esempi storici sono utilizzati per
un'argomentazione non scientifica ma retorica.
Guerra e pace
La pace è fondata sulla guerra esattamente come l'amicizia è fondata
sull'uguaglianza, quindi in ambito internazionale l'unica uguaglianza
possibile è l'uguale potenza bellica degli Stati.
La forza della sopravvivenza di qualsiasi Stato (democratico,
repubblicano o aristocratico) è legata alla forza dell'esercizio del
suo potere, e quindi deve detenere il monopolio legittimo della
violenza, per assicurare sicurezza interna e per prevenire una
'potenziale' guerra esterna (in riferimento ad una delle lettere
proposte al Consiglio Maggiore di Firenze (1503), con la speranza di
Machiavelli di convincere il Senato fiorentino all'introduzione di una
nuova imposta per rafforzare l'esercito, necessario per la
sopravvivenza della Repubblica Fiorentina).
Il rapporto tra Virtù e Fortuna e la loro nuova concezione
Il termine virtù in Machiavelli cambia significato: la virtù è
l'insieme di competenze che servono al principe per relazionarsi con la
fortuna, cioè gli eventi esterni. La virtù è quindi un insieme di
energia e intelligenza, il principe deve essere intelligente ma anche
efficace ed energico.
La virtù del singolo e la fortuna si implicano a vicenda: le doti del
politico restano puramente potenziali se egli non trova l'occasione
adatta per affermarle, e viceversa l'occasione resta pura potenzialità
se un politico virtuoso non sa approfittarne. L'occasione, tuttavia, è
intesa da Machiavelli in modo peculiare: essa è quella parte della
fortuna che si può prevedere e calcolare grazie alla virtù. Mentre un
esempio di fortuna può essere che due Stati siano alleati (è un dato di
fatto, un evento), un esempio di occasione è il fatto che bisogna
allearsi con qualche altro Stato o comunque organizzarsi per essere
pronti ad un loro eventuale attacco. Machiavelli nei capitoli VI e XXVI
scrive che occorreva che gli ebrei fossero schiavi in Egitto, gli
Ateniesi dispersi nell'Attica, i Persiani sottomessi ai Medi perché
potesse rifulgere la "virtù" dei grandi condottieri di popoli come
Mosè, Teseo e Ciro.
La virtù umana si può poi imporre alla fortuna attraverso la capacità
di previsione, il calcolo accorto. Nei momenti di calma l'abile
politico deve prevedere i futuri rovesci e predisporre i necessari
ripari, come si costruiscono gli argini per contenere i fiumi in piena.
Concezione di libertà
Machiavelli parla molto della libertà delle repubbliche: questa libertà
non è la libertà dell’individualismo moderno ma è una situazione che
riguarda gli equilibri di forze nello stato, tali per cui si deve
determinare il predominio di uno solo. Quella di Machiavelli è la
libertà che si ha allorché i diversi gruppi o ceti che compongono lo
stato sono tutti coinvolti nella gestione della decisione politica; non
è la libertà intesa in senso moderno, cioè la libertà del singolo dal
potere dello stato, ma è più vicina all’idea di libertà antica che si
ha quando s’interviene alle decisioni politiche. La libertà di
Machiavelli ammette il conflitto: il conflitto non è in sé una causa di
debolezza ma dà dinamicità al complesso politico, lo mantiene vitale;
questa vitalità produce progresso in quanto lascia aperti spazi di
libertà che consistono nella prerogativa di ciascuno d’intervenire alle
decisioni politiche configgendo con le altre parti. In questo il
pensiero di Machiavelli è diverso dall’idea classica di ordine politico
come "soluzione dei conflitti". Gli antichi vedevano difatti nel
conflitto un elemento d’instabilità della comunità politica.
Concezione della religione a servizio della politica e rapporto con la Chiesa
Machiavelli concepisce la religione come "instrumentum regni", cioè un
mezzo con il quale tenere salda e unita la popolazione nel nome di
un'unica fede. La religione per Machiavelli è quindi una religione di
stato che deve essere usata per fini eminentemente politici e
speculativi, uno strumento di cui il principe dispone per ottenere il
consenso comune del popolo, quest'ultimo ritenuto fondamentale dal
segretario fiorentino per l'unità e la lungimiranza del principato
stesso.
La religione nell'Antica Roma, che riuniva tutte le divinità del
pantheon romano, è stata fonte di saldezza e unità per la Repubblica e
più tardi per l'Impero e su questo esempio illustre Machiavelli
incentra il suo discorso sulla religione, criticando la religione
cristiana e la Chiesa cattolica che, secondo la sua opinione, era la
causa della mancata unità nazionale italiana.
Sinossi dettagliata
Dedica
Il più delle volte gli uomini, per accattivarsi le grazie di un
Principe, sogliono fargli doni ricchi e preziosi. Invece l’Autore, che
non possiede nulla di tutto ciò, si accinge a fargli dono di una
piccola Opera senza presunzione, scritta senza ampollosità e figure
retoriche e abbellimenti vari, che tratta delle azioni dei Principi,
apprese con l’esperienza e le lezioni del passato. E non è presunzione
se un uomo di basso stato come l’Autore ardisca esaminare la condotta
dei Principi, perché per conoscere il popolo bisogna essere Principi e
per conoscere i Principi bisogna essere un membro del popolo.
I. La natura dei principati e il modo per acquistarli
Tutti gli Stati possono essere classificati in due categorie:
- Repubblica
- Principato, di tipo:
Nuovo, e ancora
1. Tutto, nel senso che, a seguito di un colpo di stato, una nuova famiglia subentra completamente alla prima
2. Membri aggiunti allo stato ereditario del Principe, ad es. Napoli sotto il Re di Spagna
Ereditario
I Domini (Stati) possono essere abituati:
- a vivere sotto un solo Principe
- ad essere liberi
Gli Stati si acquistano con gli eserciti di ciascuno o quelli di altri, o per fortuna o per virtù.
II. I Principati ereditari
L’Autore lascia da parte la tipologia di Stato Repubblica, già trattata
nei “Discorsi su Tito Livio”. Negli Stati ereditari, in cui una stirpe
governi già da tempo, le difficoltà a mantenerli sono assai minori
rispetto ai nuovi, perché basta soltanto continuare lungo la linea
seguita dagli antenati e di temporeggiare con le possibili rivolte.
Però se un Principe è abile, certamente manterrà intatto il suo potere,
ad eccezione se una forza troppo grande per Lui gli si avventi contro.
Ma, anche privato del suo governo, Egli lo riacquisterà non appena una
disgrazia qualsiasi si abbatta sul nuovo occupatore. L’Autore prende ad
esempio il Duca di Ferrara spodestato non per cattiva condotta. Il
Principe ereditario ha minori necessità e motivi per offendere e perciò
è più amato e benvoluto, se al contrario non dovesse avere vizi tra i
più turpi. E nella continuazione del Dominio si spengono le speranze di
innovazioni: perché ogni cambiamento lascia lo spazio per
l’edificazione di un altro.
III. I Principati misti
È nel Principato nuovo che sorgono le difficoltà. E se è come membro
aggiunto, misto, c’è subito una prima difficoltà che vale per tutti i
Principati nuovi: ed è che gli uomini credono di migliorare il loro
stato e si ribellano al loro, favorendo l’ingresso del nuovo; poi però
si ingannano perché si ritrovano sempre ad avere peggiorato la loro
situazione. Ciò dipende da una cosa ordinaria: e cioè che il nuovo
Principe offende con l’esercito e con infinite altre ingiurie il popolo
di cui aspira a divenire Principe. Cioè ci si fa nemici tutti quelli
che hanno offeso per acquistare il potere, né ci si può far amico il
popolo che ti ha aiutato perché non si corrisponde alle sue aspettative
e non si possono usare maniere forti a causa del suo appoggio (vedi ad
es. Luigi XII di Francia e l’occupazione di Milano). Ma è vero che è
più difficile perdere i paesi ribellati dopo averli acquistati la
seconda volta, perché il signore è più attento, allora, ai bisogni del
popolo. Stati acquistati aggiunti ad uno Stato antico:
- con la stessa lingua e provincia
- diversi dal precedente caso
Lo Stato di tipo 1) è facile mantenerlo, soprattutto quando è abituato
a vivere sotto un Signore. Per farlo con sicurezza basta estinguere la
stirpe precedente. Un’altra avvertenza è di mantenere le stesse leggi e
non alterare le tasse. Stato di tipo 2): Qui subentrano le difficoltà e
bisogna avere fortuna e abilità. Una cosa da fare è andare ad abitare
in quello Stato. Perché vivendoci dentro si vedono da vicino i
possibili disordini e ci si può porre rimedio velocemente. Un’altra
cosa da fare è insediare colonie che siano legate a quello Stato. Nelle
colonie si spende pochissimo perché con poca spesa si può conquistare
facilmente in quanto, offendendo solo una minima parte di quello Stato,
gli offesi non potranno mai nuocere essendo poveri e dispersi. E gli
altri Stati rimarranno timorosi che possa fare loro ciò che ha fatto a
quelli. Queste colonie, in definitiva, non costano, sono più fedeli e
offendono meno. Si nota cioè che gli uomini si devono trattare o con
l’ovatta o neutralizzare; infatti si vendicano per le quisquilie, ma
non possono farlo per le cose grandi; perciò l’offesa a un uomo dovrà
essere in modo tale che non risorga a vendicarsi. Nel caso invece che
il Principe voglia occuparlo militarmente spenderà moltissimo in forze
tanto che l’acquisto si tramuterà in perdita, facendosi Egli nel
contempo molti nemici. Ancora, questo Principe deve farsi difensore dei
vicini minori potenti e guardarsi che non subentri un estraneo potente
quanto lui. Accade spesso che quando questo avviene, Egli avrà come
seguaci tutti i provinciali meno potenti mossi da invidia. E avviene
che nelle cose di Stato, conoscendo il male per tempo, si può guarire
presto, ma facendo passare il tempo, lasciandolo crescere, non ci si
può più porre rimedio. È cosa naturale che gli uomini desiderino di
possedere e acquistare e saranno lodati quando lo faranno nelle loro
possibilità. Ma sarà loro peccato quando invece non lo faranno secondo
le proprie forze. I cinque errori di Re Luigi di Francia:
- spenti i minori potenti
- accresciuta la potenza di uno (Italia)
- fatto entrare un forestiero potente
- non andato ad abitarci
- non insediato colonie
Regola generale (che quasi sempre è rispettata): chi dà motivo ad uno
di diventare potente, viene rovinato, perché questo potere è generato o
con la virtù o con la forza, ed entrambe queste cause diventano
sospette al nuovo potente.
IV. Per quale motivo il regno di Dario di Persia, occupato da
Alessandro, non si ribellò ai suoi successori dopo la morte di
Alessandro
Perché tutta l’Asia, alla morte di Alessandro, non si ribellò ai suoi successori? I Principati si governano in due modi diversi:
- Principe e Servi, cioè i Servi aiutano il Governo del regno per concessione del Principe
- Principe e Baroni, cioè i Baroni aiutano il Governo del regno non
per concessione, ma per nobiltà. I Baroni hanno Stati propri e sudditi
propri all'interno dei confini del regno del Principe
Lo Stato di tipo 1) è quello che ha il Principe con maggiore autorità
perché non c’è nessun altro superiore a lui e tutti obbediscono solo a
lui e a nessun altro, se non come Ministri. Si vede bene allora che è
più difficile conquistare lo Stato di tipo 1) ma, una volta vinto, si
ha grande facilità a mantenerlo. Perché è difficile corrompere i suoi
sudditi, essendo questi molto obbligati. Ma una volta vinto ed estinta
la sua stirpe, non si deve temere d’altri. Negli Stati di tipo 2)
avviene il contrario: si puoi entrare e acquistarvi la amicizia di un
Barone, specialmente se c’è del malcontento, e questo ti può spianare
la strada alla conquista. Ma una volta vinto (facilmente) è
estremamente difficile mantenere il regno: non basta estinguere la
stirpe regale, perché ci saranno sempre Baroni che alzeranno la testa.
Ognuno ha i suoi desideri, e non potendo accontentarli tutti, si
perderà quello Stato. Di che natura era il regno di Dario di Persia?
Della specie 1) perciò ad Alessandro occorsero tutte le sue forze
d’urto per conquistarlo. I successori di Alessandro lo avrebbero potuto
tenere in tutta tranquillità se non fossero nate delle discordie che
alla fine lo smembrarono. In Francia è quasi impossibile governare con
sicurezza. Da qui le frequenti ribellioni (es. la Gallia, la Grecia
contro Roma). Ma una volta passato del tempo queste Province non
riconoscevano altri che i Romani.
V. In che modo si devono governare i Principati che, prima di essere occupati, fruivano di leggi proprie
Ci sono tre modi di governare questo tipo di Principati:
- Distruggerli
- Andare ad abitarci
- Lasciarli vivere secondo le loro leggi, ma tenendoci una oligarchia legata al Signore
Il migliore metodo sarebbe il 1). (confermato da dati storici, vedi
Roma e Grecia) perché chi diviene padrone di una città abituata ad
essere libera, e non la rende totalmente obbligata, prima o poi deve
aspettarsi la ribellione. Perché i vecchi ordinamenti, anche se molto
vecchi, non si dimenticano. Quando le città sono abituate a vivere
sotto una stirpe e questa viene spenta, il nuovo Principe con più
facilità può guadagnarsi la loro fedeltà, perché non hanno più
l’appoggio del vecchio Principe, non trovano l’accordo per eleggerne
uno fra loro e perciò sono più lenti alla ribellione. Nelle repubbliche
è maggiore l’odio, la vendetta; e vi è sempre la memoria dell’antica
libertà: la via più sicura per possederle è ancora il 1). o anche il 2).
VI. I Principati nuovi acquistati con l’armi proprie e con la virtù
Non si meravigli il Lettore degli esempi famosi perché bisogna sempre
imitare le orme dei grandi, di quelli che hanno eccelso in quel campo.
Metafora degli arcieri prudenti che alzano il tiro per raggiungere una
meta lontana. Nei principati nuovi la difficoltà a mantenerli da parte
del Principe variano a seconda della virtù di Egli stesso. Siccome ciò
presuppone virtù o fortuna, ognuno di questi due elementi mitiga le
difficoltà che sono molte: però colui che si è meno fidato della sorte,
mantiene più a lungo il suo regno. Un altro elemento che mitigherebbe
le difficoltà è l’andarci ad abitare. I più virtuosi a governare e
mantenere un Principato sono stati Mosè, Ciro di Persia, Romolo, Teseo.
Esaminando le azioni di questi grandi, si vedrà che l’unica cosa che
hanno avuto dalla sorte sia stata l’occasione a fare ciò che hanno
fatto.
Senza l’occasione, la virtù sarebbe spenta e senza la virtù l’occasione
sarebbe venuta meno. L’occasione e la virtù si congiunsero in una
unione talmente perfetta che la loro patria divenne felicissima. Quelli
che giungono al Principato con la virtù, lo acquistano difficilmente ma
lo mantengono poi più facilmente. Le difficoltà ad acquistare il regno
dipendono dai modi necessari al Principe per introdurre i nuovi
ordinamenti. E non c’è cosa più difficile a provare ad introdurre nuove
leggi. Perché il Principe si trova nemici tutti i fautori del vecchio
ordinamento e per leggeri amici quelli che aspettano con gioia le nuove
leggi. Questa gioia nasce, un po’ per paura dei nuovi occupanti che
hanno il coltello dalla parte del manico, un po’ dalla natura stessa
degli uomini che non credono alle novità se non affermate solidamente.
Perciò quando i nemici del Principe fanno una ribellione, gli altri lo
difendono debolmente, in modo da temporeggiare e unirsi poi ai primi se
le cose andassero male. Ma bisogna però vedere se questi rivoltosi
fanno parte per sé stessi, e quindi basta un loro cenno alla rivolta,
oppure dipendono da altri, e bisogna che forzino la mano. Nel primo
caso vincono quasi sempre, ma non arrivano a niente, nel secondo
perdono.
La natura dei popoli è varia: è facile persuaderli di una cosa, ma
difficile fermarli in questa convinzione. Perciò conviene che quando
non credono più, bisogna far credere loro per forza. I grandi non
avrebbero potuto far osservare a lungo le loro convinzioni se fossero
stati disarmati (un esempio del contrario: Savonarola). I Principi che
hanno sulla loro strada qualche difficoltà, bisogna che le superino con
la virtù, ma una volta soppressi quelli che lo invidiavano, avranno il
regno sicuro, felice e onorato.
VII. I principati nuovi acquistati con le armi e la fortuna degli altri
Quelli che diventano Principi di Stati acquistati con la sorte, lo
diventano assai facilmente ma difficilmente li mantengono. Lo
mantengono con difficoltà perché si basano sulla volontà e sulla sorte
di chi ha concesso loro questo privilegio. Non sanno né possono
mantenersi in quello stato. Non sanno perché essendo sempre vissuti
alle spalle di altri, a meno che non siano uomini di virtù
straordinarie, non sono capaci per natura a comandare. Non possono
perché non hanno le forze che possono esser loro fedeli. Esempio di
stato acquistato con la virtù: Francesco Sforza (e lo mantenne).
Esempio di stato acquistato con la fortuna: Cesare Borgia (e lo perse)
Storia dei progressi egemonici del Valentino che conquistò la Romagna.
Una volta conquistata la Romagna, Egli la governò con braccio forte per
tenerla legata a sè. Gli restava però di debellare il pericolo del Re
di Francia, suo nemico. Lo fece e si assicurò che il successore di Papa
Alessandro non gli togliesse i suoi possedimenti. E questo fece in
quattro modi:
- spegnere le stirpi dei Signori che aveva spogliato
- guadagnarsi la nobiltà romana
- ridurre il Collegio dei Cardinali in suo potere
- acquistarsi tanta forza da resistere all’impeto futuro
Di queste cose ne fece solo tre. L’ultima non ci riuscì appieno e,
accerchiato da potenti eserciti, andò in rovina. Secondo l'Autore tutto
l’operato del Duca non è da biasimare, anzi piuttosto da imitare.
Perché solo la morte di Alessandro e la sua malattia si opposero ai
suoi piani. E non c’è esempio migliore per chi voglia assicurarsi uno
stato nuovo che seguire le azioni del Duca. L’unico suo errore fu
l’elezione a Papa di Giulio. Perché non potendo creare un Papa a suo
modo, poteva almeno sceglierlo e non doveva acconsentire che uno di
quei Cardinali che aveva offeso diventasse Pontefice. Chi crede che
nuovi benefici facciano dimenticare le offese ricevute, sbaglia.
VIII. Quelli che per scelleratezza arrivarono al Principato
Privatameιnte si diventa Principi in due modi:
- per scelleratezza
- con il favore dei propri concittadini
Due esempi: uno antico, l’altro moderno per citare le azioni dei primi
1) Agatocle, tiranno di Siracusa, figlio di un vasaio, scellerato tutta
la vita. Divenne per gradi Pretore di Siracusa. Messosi in testa di
diventare Principe e ed accordatosi con il cartaginese Amilcare, una
mattina radunò il senato e a un suo cenno fece uccidere gli
aristocratici e i senatori. Così divenne Principe e, non solo
resistette ai contrattacchi di Siracusa ma conquistò anche una parte
dell’Africa. Considerando la storia di Agatocle non si potrà attribuire
al Principato la fortuna, avendosi egli guadagnato i gradi della
milizia con i suoi sacrifici. Né si può parlare di virtù trucidare i
suoi stessi concittadini, tradire gli amici, essere senza pietà. 2) Ai
nostri tempi (quelli di Alessandro VI) Oliverotto da Fano fu addestrato
alla milizia da Paolo Vitelli e militò sotto il fratello, Vitellozzo.
In breve tempo divenne il primo uomo della sua milizia. Ma poi, volendo
egli porsi a capo di una città, pensò di farlo della sua città natale.
Perciò scrisse al suo tutore che vi voleva ritornare in modo solenne.
Fattosi dunque ricevere, ordinò un banchetto con tutte le più alte
personalità del paese. Alla fine del pranzo le condusse tutte in un
luogo segreto dove le fece uccidere e divenne così Principe della sua
città. Si potrebbe dubitare su come Agatocle e simili fossero riusciti
a mantenere il loro Principato anche in cattiva sorte, mentre altri,
attraverso la crudeltà, non ci sono riusciti. Questo avviene secondo:
1) la crudeltà bene usata
Si può chiamare quella che si fa una volta sola per necessità e poi si converte in utilità per i sudditi.
2) la crudeltà male usata
È quella che si prolunga costantemente nel tempo
Bisogna dunque notare che l’occupatore, nell’occupare uno Stato, deve
fare tutte le offese necessarie tutte insieme per potersi guadagnare
gli uomini. Chi fa diversamente, deve sempre avere il coltello in mano.
E perciò non può federarsi con i suoi sudditi. Perché le ingiurie
bisogna farle tutte insieme e i benefici poco alla volta per farli
assaporare meglio.
IX. Il Principato civile
Quando d’altra parte uno diviene Principe col favore degli altri
concittadini (cosa che può chiamarsi Principato civile) e che si
acquista non tramite tutta fortuna o tutta virtù, ma piuttosto
attraverso una astuzia fortunata, si ascende a questo titolo col favore
del popolo o col favore dei grandi, perché in ogni città ci sono queste
due tendenze diverse, le quali nascono da questa considerazione, che il
popolo non desidera né essere comandato, né oppresso dai grandi, mentre
i grandi desiderano comandare e opprimere il popolo. Da queste due
tendenze opposte nasce uno tra i seguenti effetti:
- Principato
- Libertà
- Licenzia (Anarchia)
Parlando del Principato, esso è realizzato o dal popolo o dai grandi
secondo l’occasione (perché vedendo i grandi che non possono resistere
al popolo, eleggono uno di loro Principe per poter mettere in atto il
proprio dominio sul popolo; e al contrario vedendo il popolo che non
puòr resistere ai grandi, attribuendo tutta la reputazione a uno di
loro, l’elegge Principe per difendersi sotto la sua autorità). Il
Principato concretizzato dai grandi si mantiene con più difficoltà
dell’altro, perché il Principe si ritrova con molti che sembrano
essergli pari, e per questo non li può comandare o maneggiare a suo
modo; il secondo Principe invece si trova solo con intorno pochissimi
non disposti ad ubbidirgli. Inoltre non si può dar soddisfazione ai
grandi senza offendere gli altri, ma lo si può fare al popolo, perché
l'essere popolare è un fine più onesto di quello dei grandi, siccome i
grandi vogliono opprimere e il popolo non vuole essere oppresso.
Inoltre un Principe non può mai star sicuro di un popolo a lui nemico
perché questo è troppo numeroso; ma può farlo dei grandi, essendo
questi pochi. Il peggio che si può aspettare un Principe è essere
abbandonato dal popolo che diviene a lui nemico: ma dai grandi nemici
non solo deve temere di essere abbandonato ma anche che gli si
rivoltino contro, perché essendo più furbi, fanno le cose più
accortamente. Al Principe è necessario vivere sempre con quello stesso
popolo, ma non necessariamente con gli stessi grandi, perché li può
creare e dimettere a suo piacimento.
I grandi devono essere considerati in due modi principalmente: o si
comportano in modo da obbligarsi in tutto alla sorte del Principe o no.
I primi si devono onorare e lodare; i secondi devono essere esaminati
in due modi: o lo fanno per pusillanimità e difetto naturale, in questo
caso nelle condizioni favorevoli bisogna farsene onore e nelle
avversità non temerli; o lo fanno per maliziosa ambizione, e allora è
segno che pensano più a loro stessi che al Principe: sono questi che il
Principe deve temere e di cui deve guardarsi, perché nelle avversità
sicuramente si adopereranno per spodestarlo. Insomma il Principe
divenuto tale con l’aiuto del popolo deve mantenerselo amico, cosa
facile se il popolo non fa altro che chiedere di non essere oppresso.
Un Principe divenuto tale con l’aiuto dei grandi deve prima di tutto
guadagnarsi il popolo, cosa facile se prende le sue precauzioni. E
siccome gli uomini, quando ricevono bene da uno creduto un malfattore,
più si obbligano a lui, il popolo diventa subito più benevolo nei suoi
confronti che se fosse stato lui stesso a porlo sul trono.
Il Principe può guadagnare il popolo in molti modi, dei quali, siccome
variano da caso a caso, non se ne può dare una regola precisa. La
conclusione è che è necessario a un Principe più avere amico il popolo
che avere rimedi alle sue avversità. Ma non ci sia chi obietti secondo
il proverbio comune: Chi fonda sul popolo, fonda sul fango; perché
questo è vero solo quando un cittadino vi pone su le fondamenta e pensa
poi che il popolo lo liberi quando è oppresso dai nemici; ci si trova
in tal caso ingannati, si prenda come esempio la vicenda di Tiberio e
Caio Gracco nell’antica Roma. Ma quando è un Principe savio che vi ci
fondi, non temendo le avversità, non si troverà mai abbandonato dal
popolo, anzi il contrario. Questo tipo di Principati si dissolvono però
quando tentano di passare dall’ordine civile all’ordine assoluto,
perché questi Principi comandano o mediante loro stessi o per mezzo di
magistrati; questi ultimi, specialmente nelle avversità, gli possono
togliere con grande facilità lo Stato ribellandosi o non ubbidendogli.
E allora il Principe non è sollecitato a diventare Monarca Assoluto,
perché i cittadini sono abituati a ricevere ordini dai magistrati e in
quella circostanza non sono pronti ad ubbidire ai suoi. E avrà sempre
scarsezza di amici dei quali fidarsi perché tale Principe non può
fidarsi delle situazioni presenti nei tempi di pace, quando ognuno
promette ed è disposto perfino a morire (quando la morte è lontana).
Nelle avversità invece, quando ci sono veramente pericoli, di amici se
ne trovano pochi. Perciò un Principe savio deve fare in modo di tenersi
obbligato il popolo in pace e in guerra; e poi lo avrà sempre fedele.
X. In che modo si misurano le forze dei Principati
Nell’esaminare le qualità dei Principati si distingue il Principe che è
indipendente nella milizia da altri (1) e il Principe che invece ha
sempre bisogno dell’aiuto di altri (2). I Principi appartenenti al tipo
(1) possono radunare un esercito adeguato e sostenere una battaglia
campale con chiunque. I Principi appartenenti al tipo (2) non possono
sostenere battaglie campali, ma hanno necessità di rifugiarsi dentro le
mura e farsi difendere da esse. L'Autore esorta questi Principi a
fortificare le loro città e non preoccuparsi del contado circostante. E
questi Principi saranno assolti sempre con grande rispetto perché gli
uomini sono sempre nemici delle imprese dove si vede la difficoltà,
come in questo caso. (es. le città della Germania). Insomma un Principe
che abbia una città fortificata e sia ben voluto dal popolo non può
essere assalito, e se pure ci fosse un ardito da farlo, rimarrà con un
pugno di mosche in mano. E a chi obbietta: se il popolo ha possedimenti
al di fuori del castello e li vedrà bruciare, stanco del lungo assedio,
si dimenticherà del suo signore, l'Autore risponde che un Principe
potente e virtuoso saprà sempre come cavarsela, ad es. dando speranza
ai sudditi della brevità dell’assedio, facendoli intimorire della
crudeltà del nemico, o abbassando i troppi arditi. Oltretutto il nemico
deve per forza attaccare il Principe subito al suo arrivo quando gli
animi dei suoi uomini sono caldi e pronti per la difesa; e perciò,
passato qualche giorno senza aver ricevuto danni e con gli animi
raffreddati, non vi è più rimedio, e il Principe può star sicuro di
vedere allora la gente accorrere alla sua difesa, perché sembra che lui
abbia un obbligo verso di loro, essendo stato tutto distrutto per
provvedere alla difesa di lui.
XI. I Principati ecclesiastici
I Principati ecclesiastici si acquistano per virtù o per fortuna e si
mantengono senza né l’una né l’altra perché sorretti e convalidati dai
dogmi antichi della religione che sono così forti che fanno mantenere
al Principe lo Stato in qualsiasi modo Egli lo governi. Questi Principi
sono gli unici ad avere Stati e a non difenderli, ad avere sudditi e a
non comandarli. E gli Stati, pur essendo indifesi, non sono assaliti; e
i sudditi pur non essendo governati, non se ne curano. Solo questi
Principati sono sicuri e felici. Ma essendo retti da una volontà
superiore sarebbe ardito parlarne, perciò l'Autore li tralascia. Ma
perché il regno del Papa è divenuto così potente? Prima di Alessandro
VI c’erano in Italia i Veneziani, il Re di Napoli, il Papa, il Duca di
Milano e Firenze (potentati). Le preoccupazioni primarie erano due:
nessun forestiero doveva entrare in Italia e nessuno di loro doveva
estendere il suo dominio. Quei Potentati che si preoccupavano di più
erano il Papa e i Veneziani. Fino ad un dato momento nessuno dei due
era riuscito a sopraffare l’altro. Un Papa animoso fu Sisto IV, ma data
la brevità della loro vita, i Papi non riuscivano a fare azioni
definitive. Con Alessandro VI la Chiesa riuscì nel suo intento di
spegnere i baroni romani, gli Orsini e i Colonna, grazie al Duca
Valentino. La Chiesa divenne grande e Papa Giulio continuò l’opera del
predecessore: si guadagnò Bologna e cacciò i Veneziani e i Francesi.
Venne poi Papa Leone X Medici trovando il papato potentissimo. Fu un
Papa santo che rese il Papato grande in santità come i suoi
predecessori lo resero grande in ricchezza.
XII. I generi della milizia e dei mercenari
Dopo aver esaurito il tema “Principato” non resta che parlare delle
offese e delle difese che ogni Principato può mettere in campo. Si è
detto che a un Principe, per mantenere il suo Stato, sono necessarie
delle buone fondamenta: le principali sono le buone leggi (1) e le
buone armi (2). Siccome non ci può essere il (1) senza il (2), si
tralascerà di parlare della legge per parlare delle armi. Gli eserciti
possono essere dei seguenti tipi:
(A) Proprio
(B) Mercenario
(C) Ausiliario
(D) Misto
I tipi (B) e (C) sono inutili, anzi pericolosi, perché i loro
componenti sono spesso disuniti, ambiziosi, senza disciplina, infedeli.
Uno Stato non si potrà mai reggere su di essi perché essi non hanno
altro amore che quel poco di denaro che ottengono, e ciò non basta
perché i soldati vogliano offrire la loro vita per te. Essi vogliono
essere tuoi soldati in tempo di pace, ma andarsene in tempo di guerra.
(es. la rovina dell’Italia in mano a milizie assoldate) Migliore
dimostrazione: i capitani mercenari sono o uomini eccellenti o no: se
non lo sono non ci si può affatto fidare, ma anche se lo sono, perché
aspireranno alla propria grandezza o con il tenere in soggezione il
Principe o con il tenere in soggezione altri a di fuori delle sue
intenzioni. Si può obiettare che qualsiasi capitano, anche non
mercenario sia così. L'Autore risponde che le milizie sono controllate
dal Principe o da una Repubblica. Il Principe sceglie di persona il
proprio capitano, la Repubblica i suoi cittadini che, mediante leggi,
ne controllino il potere. Per esperienza si vedono Principi e
Repubbliche ben armate fare grandi progressi e i mercenari procurare
solo danni. E una Repubblica armata di armi proprie costringe
all’obbedienza i cittadini con più facilità. Breve storia dell’Italia
sotto il profilo mercenario. L’Italia è divisa in più Stati e quasi
tutta nelle mani della Chiesa e di qualche Repubblica e, siccome i
preti e gli altri cittadini non erano abituati a trattare le milizie,
cominciarono ad assoldare forestieri. Il primo fu Alberigo conte di
Cumio. Alla fine di tutto ciò è che l’Italia è stata vituperata da
Carlo VIII, Luigi XII, Ferdinando il Cattolico e gli Svizzeri.
XIII. I soldati ausiliari, misti e propri
Le milizie ausiliarie, anche queste inutili, sono quelle per le quali
si chiama un potente vicino in aiuto. Queste milizie possono anche
essere sufficienti, ma danneggiano alla fine colui che le ha chiamate
perché se, si vince, si resta prigioniero di loro. Queste milizie sono
più pericolose delle mercenarie, perché queste sono unite e compatte e
ubbidienti a un solo capitano: per le altre, invece, per sopraffare chi
le ha assoldate, non essendo un corpo unito, occorre maggiore
occasione. Insomma nelle mercenarie è più pericolosa l’ignavia, nelle
ausiliarie la virtù. Un Principe savio si saprà rivolgere alle proprie
milizie, perché non giudicherà essere vera vittoria quella acquistata
con le milizie altrui (es. Cesare Borgia). Anche le armi miste, sebbene
superiori sia alle mercenarie che alle ausiliarie, sono dannose e di
molto inferiori alle proprie. Il Principe che non conosce i mali quando
nascono non è veramente savio: ma ciò è concesso a pochi. La ragione
prima della rovina dell’Impero Romano? L’assunzione di soldati Goti.
L'Autore conclude dicendo che chi non ha milizie proprie non ha di
norma uno Stato sicuro, perché tutto è nelle mani della sola fortuna e
non della virtù che nelle avversità lo possa efficacemente difendere.
XIV. Quello che deve fare un Principe circa la milizia
Perciò il Principe deve avere solo la guerra come scopo, come unica
arte propria. E la guerra è di così grande virtù da riuscire a
mantenere i Principi sul trono, e perfino farne diventare di nuovi
privati cittadini. Al contrario si può notare come, quando i Principi
si sono preoccupati più delle mollezze che alle guerre, hanno perso lo
Stato. Insomma la ragione prima della perdita di uno Stato è non
conoscere quest’arte, e quello che li fa, al contrario, acquistare è
esserne pratico. Non c’è paragone tra uno armato e uno disarmato. E non
è ragionevole che uno armato obbedisca ad uno disarmato. Deve dunque il
Principe esercitarsi sempre nella guerra, più in pace che in guerra:
ciò lo può fare in due modi: con la mente (1) o con le opere (2).
(1) Il Principe deve leggere le storie antiche e meditare le azioni di
antichi uomini eccellenti, esaminare i motivi delle vittorie e delle
sconfitte per potere imitare le vittorie e sfuggire le sconfitte. Il
Principe in pace non deve stare mai ozioso, ma star preparato alle
avversità.
(2) Tenere sempre ben esercitata la milizia, star sempre a caccia, a
simulare azioni di guerra, assuefare il corpo ai disagi, imparare la
natura del terreno. La conoscenza del mondo è utile in due modi: prima
s’impara a conoscere la propria città e poi a vedere i luoghi analoghi
altrove, trovandone le similitudini. Un Principe che non conosce i
campi di battaglia, non conoscerà mai li suo nemico.
XV. Le cose per le quali gli uomini e i Principi sono o lodati o vituperati
Molti già hanno scritto dei doveri di un Principe nei confronti dei
loro sudditi e molti hanno immaginato Repubbliche e Principati utopie
dove tutto è fatto per il meglio Se un Principe prende esempio da ciò
perderà tutto perché è impossibile far sempre tutto bene. Perciò è
necessario al Principe sia essere buono che non buono, a seconda delle
situazioni. L'Autore dice che gli uomini e i Principi, ogni volta che
ricoprono un incarico importante, sono notati e etichettati con termini
che li indicano con biasimo o con lode: liberale o misero, donatore o
rapace, crudele o pietoso, fedifrago o fedele, effeminato o
pusillanime, feroce o animoso, umano o superbo, lascivo o casto, leale
o sleale, duro o facile, grave o leggero, religioso o ateo, ecc.
L'Autore sa che tutti pensano che sarebbe una cosa buonissima che un
Principe annoveri in sé tutte le qualità sopradette buone; ma, essendo
umani e non potendole avere tutte, è necessario che sia tanto prudente,
e se è possibile, liberarsi della forma del vizioso. Ma anche non si
curi il Principe di essere passato per un vizioso senza i quali vizi
perderebbe facilmente il suo Stato, perché può succedere che qualcuna
che sembra una virtù può portare alla rovina, viceversa negandola
porterà a mantenere lo Stato.
XVI. La liberalità e la parsimonia
Riferendosi alle già citate qualità l'Autore dice che è bene essere
considerato liberale; nondimeno la liberalità usata in modo sbagliato,
può essere negativa. E per farlo virtuosamente il Principe non deve
tralasciare alcuna sontuosità, infondendo in tutto quello che fa la sua
facoltà; alla fine sarà necessario essere tanto fiscale con il popolo
per avere denari necessari allo sfarzo, cosa che però lo renderà odioso
e povero; perciò siccome un Principe non può essere liberale senza suo
danno, non deve curarsi di essere misero: perché col tempo sarà
ritenuto sempre più liberale, considerando che gli bastano poche
entrate e che riesce a difendersi dagli attacchi esterni. Perciò il
Principe si deve adoperare con ogni sforzo per non essere misero:
questo è uno di quei vizi che lo fanno regnare. E se uno obietta:
Cesare con la liberalità divenne un capo di Stato, l'Autore risponde
che: o sei un Principe compiuto o lo stai divenendo. Nel primo caso
questa liberalità è dannosa, nel secondo è un bene. Se qualcuno replica
che sono stati molti i Principi che sono stati considerati
liberalissimi, l'Autore risponde che il Principe spende o del suo (dei
suoi sudditi) o degli altri. Nel primo caso deve essere moderato,
nell’altro caso non si deve far scrupolo di essere liberale per non
essere contrariato dai soldati. Non esiste cosa che consumi se stessa
quanto la liberalità, cioè a dire, a mano a mano che viene usata fa
perdere la facoltà di usarla, conducendo alla povertà; ovvero, per
fuggire la povertà, ti fa divenire rapace e odioso. E fra tutte le alte
cose che un Principe deve evitare è essere rapace e odioso; ma la
liberalità ti conduce all’una e all’altra cosa. Perciò è più virtù
essere misero, partorendo una infamia senza odio, che, per essere
liberale, divenire un rapace che partorisce il suo contrario.
XVII. La crudeltà e la pietà: se è meglio essere amato o temuto
Un Principe deve essere considerato pietoso e non crudele. Ma per
tenere uniti i sudditi non si deve curare della fama di essere crudele:
tra tutti i Principi il nuovo è per forza di cose considerato crudele.
È meglio essere amato o temuto? Si vorrebbe essere entrambi ma, siccome
è difficile, è meglio essere temuti perché gli uomini sono di questa
natura: mentre gli fai del bene e in tempo di pace sono pronti ad
offrire la loro vita per te, quando arrivano le avversità si ribellano.
E perciò il Principe che si sia basato esclusivamente sulle loro
promesse, rovina. E gli uomini hanno meno rispetto a offendere uno che
si fa amare di uno che si fa temere; perché l’amore è tenuto da un
vincolo d’obbligo che può essere spezzato da ogni occasione di utilità;
il timore invece non abbandona mai. Un Principe deve farsi temere
fuggendo però l’odio, e lo farà stando lontano dai possedimenti e dalle
donne dei suoi sudditi e condannando a morte solo quando la causa sia
più che giustificabile, ma soprattutto stando attento alla roba
d’altri, perché gli uomini dimenticano presto la morte del padre
piuttosto che la perdita del loro patrimonio. E poi le occasioni di
potersi appropriare della roba d’altri sono frequentissime, al
contrario delle condanne a morte. Ma quando un Principe ha alle sue
dipendenze un esercito, deve farsi il nome di crudele perché senza
questo non si tengono uniti gli eserciti né disposti ad alcuna impresa
(es. Annibale). In conclusione il Principe deve ingegnarsi di fuggire
l’odio, fondandosi sul suo.
XVIII. In che modo i Principi devono mantenere la parola data
Ci sono due modi di combattere: con la legge (modo proprio dell’uomo),
o con la forza (modo proprio delle bestie). Ma siccome il primo molte
volte non basta, occorre ricorrere al secondo. Ad un Principe è
necessario sapere usare la bestia e l’uomo. E siccome il Principe deve
saper bene usare la parte animale, deve prendere di questo la qualità
della volpe e del leone, perché il leone non si difende dai lacci e la
volpe non si difende dai lupi. Perciò un Principe savio non deve essere
fedele se tale fedeltà gli ritorna contro, perché siccome gli uomini
non la porterebbero bene a lui, anche lui non la deve portare a loro.
Della natura di volpe è necessario prendere il saper ingannare gli
uomini. Ad un Principe non è necessario avere tutte le suddette
qualità, ma sembrare di averle. Anzi, avendole tutte, gli sono dannose,
ma parendo di averle, tornano invece utili. Se lo sei non ti puoi
mutare col cambiamento della sorte, ma se lo fingi soltanto, puoi
temporeggiare e destreggiarti. Un Principe deve dunque curarsi che non
gli esca parola che non sia come deve sembrare che sia, tutto pietà,
fede, integrità, umanità e religione. E in generale gli uomini
giudicano più in apparenza che in sostanza perché ognuno sa vedere
quello che sembri, ma pochi sentono quello che sei in realtà e quei
pochi non osano dire li contrario, mettendosi contro la maggioranza.
XIX. Come fuggire lo essere sprezzato ed odiato
Il Principe deve fuggire tutte le cose che lo rendono odioso; ogni
volta che lo farà troverà sulla sua strada nessun pericolo. Lo rende
odioso, soprattutto impadronirsi delle donne e della roba dei sudditi;
se uno è fatto in tal maniera, la gente fa presto a giudicarlo leggero,
effeminato, pusillanime, irresoluto; il Principe deve fuggire tutto
questo e ingegnarsi che nelle sue azioni si riconosca invece grandezza,
fortezza, gravità. Quel Principe che possieda questa forza è ritenuto
grande e con difficoltà è assalito da altri. Un Principe deve avere due
paure: una dentro, per conto dei sudditi, l’altra fuori, per conto dei
regni esterni. Ci si difende da questo con le buone armi e i buoni
amici e se il Principe avrà buoni eserciti, avrà anche buoni amici; e
staranno quiete le cose dentro quando saranno quiete quelle esterne.
Per quanto riguarda i sudditi, quando le cose di fuori non si muovono,
il Principe deve temere che non congiurino segretamente, cioè deve
evitare di essere odiato e disprezzato. Uno dei rimedi contro le
congiure è non essere odiato dalla folla: perché i congiurati credono
che, con la morte del Principe, si soddisfi il popolo, ma quando il
congiurato vuole offendere il popolo, egli non deciderà alcuna
congiura, perché le difficoltà di una congiura sono infinite. Per
esperienza molte congiure sono andate a cattivo fine perché un
congiurato non può essere solo, né può avere compagni, se non fra i
malcontenti: e quando hai rivelato a un malcontento la tua intenzione
gli dai modo di contentarti. Perché può sperare un guadagno, anzi
vedendo da una parte il guadagno e dall’altra il pericolo non esiterà
ad abbandonarti così non è certamente un vero nemico che il Principe
debba temere. Per farla breve i congiurati hanno paura, gelosia,
sospetto che li arrestino; il Principe ha dalla sua la maestà del suo
Principato, le leggi, gli amici: è dunque quasi impossibile la
congiura. In conclusione il Principe deve tenere in poco conto le
congiure quando il popolo gli è fedele, ma quando gli è nemico deve
temere di qualsiasi persona (es. di regno ben ordinato, la Francia).
L’odio si acquista sia con le cattive opere che con le buone perciò un
Principe, volendo mantenere lo Stato, è spesso forzato a non essere
buono (es. di imperatori romani). La ragione della rovina degli
Imperatori è statoproprio l’odio e il disprezzo che hanno suscitato
verso di loro.
XX. Se le fortezze et similia sono utili ai Principi oppure no
Alcuni Principi per mantenere lo Stato hanno disarmato i loro sudditi;
altri hanno diviso le loro terre. Alcuni si sono procurati inimicizie,
altri si sono dedicati a guadagnarsi i loro nemici; alcuni hanno
costruito fortezze, altri le hanno distrutte. Mai un Principe nuovo
disarmò i propri sudditi, e quando li trovò disarmati, li armò, perché
quelle armi diventano tue fedeli, tue partigiane. Ma se li disarmi, li
offendi mostrando che non hai fede in loro. E in questo caso, siccome
non puoi essere disarmato, conviene acquistare la milizia mercenaria.
Quando un Principe acquista uno Stato nuovo come membro aggiunto ad uno
vecchio, deve disarmare quello Stato eccetto gli amici che lo hanno
aiutato. E nel tempo è necessario tenere lontani i sudditi dalle armi e
far occupare della milizia solo i tuoi sudditi propri. (Senza dubbio i
Principi diventano grandi quando superano le difficoltà e le
avversità). I Principi, e specialmente i nuovi, hanno trovato più fede
in quegli uomini che al principio del Principato erano sospetti. Di
questo non si può parlare molto perché è una cosa che varia da caso a
caso. Solo questo si può dire: quegli uomini che all’inizio erano
nemici, che hanno un carattere secondo il quale hanno sempre bisogno di
appoggio, il Principe se li può acquistare in modo facilissimo, e loro
saranno forzati a servirlo con fedeltà, perché sanno che gli è più
necessario cancellare con le opere la fama sinistra che avevano, e così
il Principe ne trae sempre più utilità. L'Autore vuole ammonire i
Principi che hanno acquistato uno Stato da poco tempo di considerare
bene i motivi che hanno spinto i suoi favoreggiatori; se non è affetto
naturale verso di loro, ma solo comodità, con grande fatica se li potrà
guadagnare come amici, perché sarà impossibile contentarli. Cioè è più
facile guadagnarsi amici quelli che stavano bene prima ed erano suoi
nemici che quelli che non a cui non piaceva, ma che erano suoi amici. È
stata sempre consuetudine dei Principi edificare fortezze che siano il
freno contro quelli che tramano contro di loro. L'Autore loda molto
questa consuetudine, perché è stata testata dalla prova del tempo:
nondimeno alcuni hanno perso il loro Stato lo stesso. Le fortezze sono
quindi utili o inutili a seconda dei tempi; se ti giovano da una parte,
ti possono arrecare danno dall’altra. Quel Principe che ha più timore
dei popoli che dei forestieri deve edificare fortezze; al contrario
nell’altro caso. La migliore fortezza è il non essere odiato dal
proprio popolo, perché le fortezze non ti salvano se sei odiato dal
popolo. Perciò l'Autore loda allo stesso modo chi farà le fortezze e
chi non le farà, e biasima nel contempo tutti quelli che si fidano
troppo di esse.
XXI. Cosa deve fare un Principe per essere stimato
Nessuna cosa fa stimare un Principe quanto le grandi imprese, ovvero
dare di sé rari esempi (es. Ferdinando d’Aragona, Re di Spagna). Giova
sempre a un Principe dare esempi di sé, per esempio punendo o premiando
un privato che faccia qualche cosa di speciale. Ma soprattutto il
Principe in ogni sua azione deve dar modo di sembrare un uomo grande.
Un Principe è stimato ancora quando è vero amico e vero nemico, cioè
quando si risolve a parteggiare per uno e odiare un altro, e ciò è
sempre preferibile all’essere neutrali: perché se due vicini potenti
vengono alle armi o vincendo uno di quelli, egli lo dovrà temere oppure
no. In entrambi i casi gli sarà sempre più utile scoprirsi e
combattere, perché, nel primo caso, se non si scopre, sarà vittima del
vincitore, con piacere dello sconfitto, e nemmeno si ha ragione per
difendersi, perché chi vince non vuole amici sospetti, e chi perde non
accoglie più siccome non si è voluto aiutarlo nelle avversità. E
avverrà sempre che chi ti è nemico ti ricercherà nell’essere neutrale e
quello che ti è amico richiederà il tuo intervento. E i Principi non
savi, per fuggire i pericoli, il più delle volte seguono la via
neutrale e il più delle volte di conseguenze rovinano con quella
decisione. Ma quando il Principe si scopre in favore di uno, se questo
vince egli avrà obbligo con lui e vi nascerà l’amore (gli uomini non
sono mai tanto disonesti da dimenticare completamente); se perde, viene
accolto e se può viene aiutato fino a diventare compagno di una fortuna
che potrà un giorno risorgere. Nel secondo caso, quando quelli che
combattono fra loro non devono essere temuti, tanto più bisogna
scoprirsi ed aderire, perché se vince uno e vince col tuo aiuto, rimane
a tua disposizione. Qui si deve notare che un Principe deve stare
attento a non accompagnarsi con uno più potente di sé contro altri, se
non quando sia strettamente necessario, perché, vincendo, rimane suo
prigioniero. E un Principe non creda mai di aver preso la decisione
giusta, ma abbia sempre mille dubbi: la prudenza è sempre d’obbligo e
consiste nel conoscere le qualità degli inconvenienti e prendere il
minore per buono. E ancora: un Principe deve mostrarsi amante delle
virtù e onorare gli artisti; deve amare i suoi cittadini nelle loro
arti ed organizzare feste e spettacoli nei tempi opportuni, inoltre
radunarsi a volte insieme al popolo e dare esempi di umanità e
magnificenza.
XXII. I segretari che i Principi hanno al loro seguito
Non è di poco importanza per il Principe l’elezione dei suoi ministri
che sono buoni o no secondo la prudenza del Principe. E il primo
giudizio che si esprime nei riguardi di un Principe è nel considerare
gli uomini di cui si circonda. Quando sono fedeli e intelligenti sempre
si può considerarlo savio, altrimenti non si può avere un buon giudizio
di lui. Vi sono genericamente tre tipi di personalità al seguito del
Principe:
(1) Intende da sé, o eccellentissimo
(2) Discerne quello che intendono anche gli altri, o eccellente
(3) Non intende ne da sé né dagli altri, o inutile
Come fa un Principe a poter conoscere le qualità di un suo Ministro?
C’è un modo infallibile: quando vedi il Ministro pensare più a sé che a
te, ricercando in ogni azione l’utile suo, questo non sarà mai un buon
Ministro. Ma d’altra parte il Principe, per tenerselo obbligato, deve
pur pensare al Ministro onorandolo e facendolo ricco, perché egli
consideri che non può stare senza del Principe e che gli onori e le
ricchezze non gli facciano desiderare alcunché di simile. Se è così, il
Principe e il Ministro possono avere fiducia l’uno dell’altro;
altrimenti sarà sempre dannoso, o per l’uno o per l’altro.
XXIII. Come si devono fuggire gli adulatori
Di adulatori sono piene le corti perché gli uomini si compiacciono
nelle loro cose e vi si ingannano, tanto che difficilmente se ne
possono difendere. Non c’è altro modo di guardarsi dagli adulatori se
non quando gli uomini non ti offendono dicendo il vero; ma dicendo il
vero mancano di riverenza. Perciò un Principe prudente deve, eleggendo
uomini savi accanto a sé, dare solo a loro il libero arbitrio di
parlargli in verità e solo di quello di cui lui chiede; ma deve
chiedergli d’ogni cosa, sentire le loro opinioni e poi deliberare da
sé; e comportarsi in modo che ognuno sappia che più liberamente
parlerà, più sarà accettato da lui. Oltre a quelli non sentirà alcun
altro. Chi fa altrimenti verrà assalito dagli adulatori, o muterà
spesso parere e da ciò nascerà il poco conto con cui sarà tenuto dagli
altri. Un Principe deve consigliarsi sempre, ma quando vuole lui, non
quando vogliono gli altri, anzi deve essere scoraggiato o sconsigliato
se lui non vuole. Ma deve essere grande inquisitore e poi paziente
uditore; anzi deve sgridare quelli che per rispetto non dicono il loro
pensiero. E siccome molti pensano che un Principe che dia di sé
opinione di prudente, sia così non per natura, ma per i buoni consigli
che ha, senza dubbio s’inganna. Questa è una regola infallibile: un
Principe che non è savio per sé stesso, non può essere consigliato
bene, a meno che fortuitamente si rimettesse completamente nelle mani
di uno solo che fosse prudentissimo. Solo in questo caso potrebbe
accadere, ma per poco perché quel governatore, a lungo andare,
s’impadronirebbe dello Stato. Ma un Principe non savio non saprà
correggere e usare i consigli poco carismatici del suo Ministro. In
conclusione: i buoni consigli da qualsiasi persona vengano, devono
nascere dalla prudenza del Principe, e non la prudenza del Principe dai
buoni consigli.
XXIV. Perché i Principi italiani persero i loro Stati
Tutte queste cose dette fanno sembrare un Principe nuovo come antico e
lo rendono subito più sicuro. Perché un Principe nuovo è molto più
tenuto sott’occhio nelle sue azioni che uno ereditario e quando le sue
azioni sono conosciute come gloriose, obbligano molto più gli uomini
rispetto alla dinastia antica. Perché gli uomini pensano più al
presente che al passato: e quando nel presente trovano il bene ci
godono e non cercano altro; anzi prenderanno ogni difesa per lui, e
così la sua gloria si duplicherà: inizio di un principato nuovo e
rafforzato da buone leggi, buone armi, buone amici, e buoni esempi. Se
si considerano le ragioni per cui in Italia i Principi hanno perso (ad
es. il Re di Napoli Federico d’Aragona, e il Duca di Milano Ludovico il
Moro). Si troverà che, in primo luogo, non hanno saputo amministrare le
loro armi, poi che avranno avuto nemici fra il popolo. Perciò questi
Principi non accusino la sorte di un brutto tiro, ma la loro stessa
ignavia, perché non pensarono mai nei tempi di pace che quelli possano
mutare (comune errore umano) e quando vennero le avversità pensarono a
fuggire e non a difendersi, sperando che i popoli, infastiditi dai
vincitori, li richiamassero. Ciò è buono quando mancano gli altri
rimedi ma è male averli lasciati indietro, perché nessuno vuole cadere,
per credere di trovare chi poi li raccolga. E ciò o non accade o, se
accade, accade con pericolo, perché quella difesa non dipende da te.
Solo quelle difese che dipendono da te, dalla tua virtù sono buone e
durevoli.
XXV. Quanto possa la fortuna nelle vicende umane e come le si debba resistere
Molti pensano che le cose del mondo siano governate dalla Fortuna e da
Dio e che gli uomini non possano correggerle con le proprie facoltà, e
perciò non vi è rimedio alcuno ad esse. L'Autore è anch’egli propenso a
questo giudizio. Nondimeno, siccome esiste anche il libero arbitrio
dell’uomo, l'Autore pensa che la Fortuna sia arbitra della metà delle
nostre azioni, e l’altra metà la lascia a noi, alla nostra virtù. La
Fortuna è come uno di quei fiumi sempre in piena che alluvionano le
campagne modificando l’orografia del terreno. Ma, anche se è un
fenomeno potente, tuttavia gli uomini in tempo quieto vi possono
prendere provvedimenti con ripari ed argini, in modo che, quando si
verifichi la piena, l’acqua verrebbe incanalata e non procurerebbe
gravi danni. Così è la Fortuna e volge il suo impeto dove la virtù non
è preposta a resisterle. Considerando l’Italia la regina delle
alluvioni si vedrà che è del tutto priva di argini e canali, ben
diversamente da Germania, Francia e Spagna. Si vede un giorno un
Principe avere successo e il giorno dopo rovinare senza aver mutato la
sua condotta. Questo nasce dalle ragioni già esposte, e cioè un
Principe tutto appoggiato sulla sorte rovina come quella cambia. È
felice chi si accorda coi tempi, è infelice chi non lo fa. Gli uomini
pervengono al fine che è loro innanzi variamente. Perché si vede che
due persone agendo diversamente l’una dall’altra pervengono al medesimo
fine, e due, facendo le stesse cose, vedono l’uno arrivare e l’altro
no? La qual cosa nasce dalla qualità dei tempi in accordo o no col loro
procedere. Ma non si trova un uomo così prudente da sapersi accomodare
alla sorte, sia perché non può deviare dalla strada indicatagli dalla
natura sua, sia perché essendo stato sempre fortunato nella sua via,
non si può persuadere di cambiarla di punto in bianco; e perciò rovina.
L'Autore pensa che sia meglio essere impetuosi che rispettosi, perché
la fortuna è donna ed è necessario per tenerla a bada batterla ed
urtarla. E come la donna la fortuna è usualmente amica dei giovani,
perché sono meno rispettosi e più aggressivi.
XXVI. Esortazione a liberare l’Italia dalle mani dei barbari
Considerando tutto quello scritto sopra, l'Autore si chiede se i tempi
siano maturi per dare il benvenuto ad un unico grande Principe che
faccia onore e bene all’Italia: la risposta è sì, anzi i tempi non sono
mai stati così buoni per un Principe nuovo. Ed era necessario che
l’Italia si riducesse allo stato pietoso in cui versa per conoscere la
virtù di un grande spirito italiano (es. storico Mosè e gli Ebrei) Ma,
siccome qualche spiraglio si era acceso tale da poterlo indicare come
l’inviato di Dio, al culmine delle sue azioni è stato respinto dalla
sorte (l'Autore pensa a Cesare Borgia). Perciò l’Italia deve ancora
attendere. Si vede l’Italia che prega Dio di porre fine alle crudeltà e
tutta pronta a seguire una sola bandiera purché ci sia chi l’impugni.
L'Autore rivolge ora la sua esortazione alla Casa Medici, favorita da
Dio e dalla Chiesa. In questo caso la disposizione è grandissima; e
dove è grande disposizione non vi può essere grande difficoltà. Dio ha
fatto quasi tutto, il resto lo dovete fare voi Medici perché Egli ci ha
pur lasciato il libero arbitrio e la gloria. E non ci si meravigli che
gli illustri italiani passati non abbiano fatto quello che si spera dal
Vostro casato. Considerate questo: gli Italiani sono sempre superiori
in quanto a scienza, destrezza e ingegno. Ma, una volta venuti alle
armi, non risaltano positivamente. Ciò viene dalla debolezza dei capi,
perché quelli che sanno sono sbiaditi, e a tutti sembra di sapere, così
che non v’è una singola personalità che spicchi sugli altri. Di qui si
vede la causa per cui un esercito solo italiano ha sempre fallito.
Volendo dunque i Medici accollarsi questo impegno, dovranno
innanzitutto fornirsi di armi proprie. Sebbene l’esercito Svizzero e
Spagnolo siano così terribili hanno anche loro dei difetti: (1) non
sanno mettere in campo una cavalleria (2) hanno paura di chi sa
combattere come loro. Dunque, conosciuti i punti deboli degli
avversari, si può creare una milizia particolare che come primo effetto
dia fama al Principe nuovo. Non si lasci passare questa occasione
intentata, in modo che l’Italia abbia finalmente il suo redentore. A
ognuno dà fastidio questo dominio barbaro. Prenda dunque la Casa dei
Medici quest'impresa con quell'ardore come si debbono prendere le
imprese giuste, acciocché la patria ne sia nobilitata e affinché si
avverino finalmente quei versi del Petrarca nella sua Canzone Italia
mia, vv. 93 - 96