GUICCIARDINI, Francesco

 

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di Pierre Jodogne, Gino Benzoni

Nacque a Firenze il 6 marzo 1483, terzogenito di Piero di Iacopo e di Simona di Bongianni Gianfigliazzi, che ebbero undici figli, tra cui cinque maschi; maggiori del G. furono Luigi e Iacopo, minori, Bongianni e Girolamo. Padrino di battesimo del G. fu il filosofo Marsilio Ficino.

Dell'importanza politica della famiglia paterna il G. si dimostrò orgoglioso, tanto da ricordarne la genealogia e i meriti nelle sue Memorie di famiglia. Crebbe "tra i fanciulli del Frate" (Ridolfi, p. 8), "allevato da piccolo santamente" (A se stesso, scritto nel 1513, in Scritti autobiografici e rari, p. 99), e ricevette la sua prima istruzione sotto il tetto paterno, poi sotto la guida di Marcello Virgilio di Adriano Berti. Nel novembre 1498, a Firenze, dove si era ridotto lo Studio pisano per la ribellione di Pisa nel 1494, ebbe inizio la sua formazione di giurista, che fu determinante tanto per la sua carriera politica quanto per la sua opera di scrittore. Nel marzo 1501, suo padre lo mandò allo Studio di Ferrara; di lì nel novembre 1502 si trasferí a Padova, dove per due anni visse a dozzina presso il suo maestro Filippo Decio. Gli studi padovani si protrassero fino a tutto il luglio 1505 (fu allievo anche di Carlo Ruini e Cristoforo Alberizio); ne resta traccia nell'autografo Repertorium in iure canonico (Biblioteca apost. Vaticana, Vat. lat., 4605).

Nel 1503, sapendo che Rinieri di Luigi Guicciardini, vescovo di Cortona, cugino di suo padre, era vicino alla morte, il G. pensò di sollecitare a suo favore la rinuncia di un'entrata di benefici di circa 1500 ducati, stimando "che fussi uno fondamento da farsi grande nella Chiesa e da poterne sperare di essere un dì cardinale" (Ricordanze, p. 56); ma siffatta ambizione venne contrariata da suo padre, che non volle "maculare la conscienzia sua di fare un figliuolo prete per cupidità di roba et di grandezza" (ibid., p. 56). Il carattere alquanto austero della sua giovinezza venne poi da lui rievocato nei Ricordi (redazione C 179).

Rientrato a Firenze, il G. si addottorò in ragione civile il 15 nov. 1505, e fu chiamato a leggere Instituta nello Studio, dove insegnò con buona udienza fino a tutto il luglio 1506. Nello stesso tempo cominciò con successo a esercitare l'avvocatura. Il registro dei suoi guadagni (Ricordi degli onorari) è conservato nella Biblioteca nazionale di Firenze (Magl., XXV.609).

Il 4 genn. 1507 fu concluso, malgrado le reticenze paterne, il suo fidanzamento con Maria, quarta figlia di Alamanno Salviati, ottimate cui faceva capo l'opposizione a Piero Soderini. Il fidanzamento fu tenuto segreto fino al 22 maggio 1508 e il matrimonio si celebrò il 2 novembre successivo. Il 28 dic. 1509 nacque la prima figlia, Simona Romola.

I primi scritti del G. sono di questi mesi. Al 13 apr. 1508 risale l'inizio delle Ricordanze. Dello stesso periodo sono le Memorie di famiglia, la cui stesura lo stimolò a indagare più largamente il periodo mediceo, riflettendo, al lume degli avvenimenti più recenti, sul passaggio dal regime mediceo a quello piagnone e da quello piagnone a quello repubblicano. Al 1508-09 risalgono le Storie fiorentine, relative agli anni 1494-1509 (con un breve excursus iniziale sul tumulto dei ciompi), rimaste inedite.

Nel frattempo, si accrebbero gli incarichi pubblici. Il 17 ott. 1511, il Consiglio degli ottanta lo elesse ambasciatore in Spagna, con il difficile compito di mantenere la città nelle buone grazie di Ferdinando il Cattolico, nonostante il rifiuto della Repubblica fiorentina, allora più che mai internamente divisa, di aderire alla Lega antifrancese conclusa tra il papa Giulio II e la Spagna. Il G. partì da Firenze il 29 genn. 1512, pochi giorni appena dopo la morte della piccola Simona Romola, lasciando la moglie incinta. Raggiunse la corte a Burgos, il 23 marzo, seguendo l'itinerario descritto nel Diario del Viaggio in Spagna (29 gennaio - 20 marzo 1512).

Il soggiorno spagnolo diede modo al G. di osservare il comportamento del re e particolarmente la sua arte della simulazione, cui più tardi accennò a più riprese nei Ricordi. Scrisse frequenti e lunghe relazioni ai Dieci, non ricevendo da loro se non rare e scarse notizie, e nell'ozio impostogli dalle circostanze, compose vari discorsi sulla situazione politica italiana, tra cui il più significativo è il Discorso del modo di ordinare il governo di Firenze (meglio noto come Discorso di Logrogno) e alcune riflessioni relative al buon governo cittadino, che formano il primo nucleo dei Ricordi, oltre a una Relazione di Spagna.

Nel frattempo, a Firenze avvenne la caduta di Soderini e il ritorno dei Medici, di cui il G. ebbe notizia il 25 sett. 1512. Lasciò la corte nell'ottobre 1513 e prese la via del ritorno per Baiona, Tolosa e Lione; a Piacenza lo raggiunse la notizia della morte del padre, avvenuta tra il 20 e il 21 dicembre. A Firenze i Medici l'accolsero tanto più favorevolmente in quanto suo padre si era rallegrato della loro restaurazione, ma il G. nutriva nei loro confronti sentimenti di sostanziale diffidenza, mentre avrebbe preferito un governo repubblicano controllato dagli ottimati. A casa ritrovò la moglie con una bimba (chiamata, come quella morta, Simona Margherita Romola), nata il 14 apr. 1512. Un'altra figlia, Lucrezia, gli sarebbe nata l'anno successivo (il 30 ott. 1514). La divisione del patrimonio di Piero fra i cinque figli maschi procurò al G., oltre la cospicua somma di 4000 fiorini, un podere alla Massa (nel "popolo" di Poppiano) e un altro a Lucignano. Per far fruttare i propri beni, partecipò con i fratelli a diverse società commerciali gestite principalmente da Iacopo e da Girolamo.

In campo politico, il G. subentrò al padre nella Balia ristretta di diciassette cittadini creata dai Medici per provvedere alle entrate e alla riformazione del Monte. Nel 1514, fu degli Otto (eletto il 14 agosto); nel 1515 dei Signori (per settembre e ottobre) ed entrò nel consiglio privato di Lorenzo de' Medici, eletto capitano generale della Repubblica. Aveva nel frattempo ripreso l'avvocatura e alla fine del 1515 Leone X, in visita a Firenze, gli conferì il titolo di avvocato concistoriale. All'inizio del 1516 scrisse un discorso critico Del modo di assicurare lo Stato ai Medici, in cui è avvertito il peso che il nuovo regime mediceo andava costituendo per i Fiorentini.

Con un breve del 5 apr. 1516, il G. fu nominato commissario pontificio a Modena, città tradizionalmente posseduta dal duca di Ferrara per investitura imperiale, ma poco prima ceduta dall'imperatore alla Chiesa per denaro. Giunse nella città emiliana, agitata dalle lotte tra fazioni, il 29 giugno. Il primo compito assunto fu di ristabilirvi la giustizia. Inflessibile, si fece da tutti temere, obbedire, stimare e finalmente ben volere, contribuendo anche ad abbellire materialmente la città. Il successo della missione gli procurò anche il governo di Reggio, dove entrò il 7 luglio, adoperandosi subito, come a Modena, per restaurarvi l'ordine. Ma incontrò grosse difficoltà a causa dei particolarismi locali, favoriti dalla parzialità dei suoi due padroni, Firenze e la Chiesa. Dalla sua rocca di Carpineti, in montagna, Domenico d'Amorotto Bretti signoreggiava con prepotenza, ostacolando l'opera di pacificazione del Guicciardini. Nei primi anni dei suoi governi non ebbe riposo, ma il 14 luglio 1519 la sua lunga e faticosa lotta contro le violenze interne condusse alla conclusione di una pace generale tra le opposte fazioni. Il G. chiese allora al cardinale Giulio de' Medici, suo nuovo padrone ufficiale dopo la morte di Lorenzo (4 maggio 1519), di potersi recare a Firenze, dove rimase dal 24 luglio al 2 ottobre. In patria rivide, dopo tre anni, la moglie e le figlie, s'intrattenne con il cardinale de' Medici e riprese anche momentaneamente l'avvocatura. Tornato in Emilia, riaccese la lotta contro Domenico Bretti, che persisteva nella sua condotta delittuosa. Per persuadere il cardinale de' Medici a procedere finalmente contro quell'ingombrante fautore del partito "ecclesiastico", dovette tornare di persona a Firenze, nel luglio 1520. Vide allora le due figlie gemelle - Lisabetta e Maddalena -, nate il 28 aprile. All'inizio di ottobre rientrò in Emilia. Nell'autunno 1520 e dal febbraio al maggio 1521, il G. partecipò a una macchinazione contro il Ducato di Ferrara, ordita da Sigismondo Santi, cancelliere del conte Alberto Pio di Carpi. Nel secondo di questi due periodi si fermò a Modena, suo ospite, Niccolò Machiavelli, mandato in missione a Carpi, dove si teneva il capitolo generale dei frati minori, a scegliere un predicatore da invitare a Firenze. A quell'occasione data il famoso scambio di lettere facete tra i due fiorentini.

La lega conclusa da Leone X con Carlo V l'8 maggio 1521 pose le premesse per una guerra contro i Francesi in Lombardia. Il 12 luglio il G. ricevette l'annuncio della sua nomina a commissario generale dell'esercito della Chiesa; a Modena e a Reggio si fece sostituire, come era solito fare, dal fratello Iacopo. Prospero Colonna ebbe il comando dell'esercito pontificio, Alfonso d'Avalos marchese del Vasto quello dell'esercito imperiale. Si diressero a Milano, e posero il campo a Casalmaggiore, dove, il 1° ottobre, li raggiunse, in qualità di legato, il cardinale Giulio de' Medici, con cui il G. ebbe nell'occasione frequenti colloqui sul governo fiorentino. Proprio in questo momento, fra ottobre e novembre (secondo Ridolfi, p. 122), negli ozi del campo, egli redasse la prima versione del Dialogo del reggimento di Firenze. La fortuna della guerra, favorevole agli alleati, fece cadere Milano, Lodi e Pavia; Piacenza e Parma si dettero poi alla Chiesa. Fu il trionfo di Leone X, che, pochi giorni dopo, il 1° dic. 1521, improvvisamente morì. Senza indugio, il G. fu mandato dal cardinale de' Medici a prendere possesso, a nome del Papato, della città di Parma, abbandonata dai Francesi. Era una città rovinata, priva di armi, sempre minacciata dai nemici, riparati a Cremona, e il G., dovette reggere la situazione da sé. Tardando il conclave, i nemici tornarono in forza, comandati da Federico da Bozzolo, e misero l'assedio. Il G. riuscì a imporre un fermo rifiuto alla capitolazione e la sua ostinazione ebbe alla fine la meglio: nella popolazione si verificò una straordinaria reazione, che bastò a impedire la presa della città. Superato il pericolo, il G. si affannò a chiedere i soccorsi necessari al risanamento e alla protezione della città esausta, ma il Sacro Collegio lo lasciò privo di mezzi; inoltre affidò la custodia di Modena a Guido Rangoni, quella di Reggio ad Alberto Pio, con obbligo per il G. di ubbidire loro, e quella di Parma al marchese di Mantova Federico II Gonzaga. A Parma, il G. rimaneva commissario di fatto, a Modena e a Reggio governatore solo di nome. Chiese pertanto licenza, ma dovette arrendersi alle buone parole del cardinale de' Medici e si ritirò nella rocca di Reggio, ultimo baluardo della sua autorità, occupando il tempo libero, oltre a stendere la Relazione della difesa di Parma, a finire e a correggere il Dialogo del reggimento di Firenze.

Le cose cominciarono a migliorare ai primi di ottobre 1522, quando Modena e Reggio vennero lasciate rispettivamente da Rangoni e da Pio, ma quest'ultimo ottenne di occupare la cittadella di Reggio. Il G. mandò a Roma Cesare Colombo, nobile modenese, suo uomo di fiducia, a difendere i suoi interessi valendosi dell'appoggio del cardinale de' Medici e di Giovanni Ruffo, arcivescovo di Cosenza, da lui conosciuto in Spagna. Egli desiderava, tanto per l'"onore" quanto per l'"utile", non solo la riconferma dei governi di Modena e Reggio, ma anche la consegna di quello di Parma. Il 5 novembre, ricevette il breve che lo riconfermava al governo di Modena. Quello relativo a Reggio è del 13 dello stesso mese. L'indomani, tornò a Modena "con la maggiore allegrezza della città" e, il 26, entrò a Reggio, ricevuto con il titolo di "padre della patria". Un ulteriore breve gli affidò anche il governo di Parma, ma solo per poco tempo, perché, non più tardi del 19 dicembre, dovette cederlo a Tommaso Campeggi, vescovo di Feltre. Sdegnato, egli tornò a pensare seriamente al congedo e il 13 genn. 1523 scrisse in merito al papa Adriano VI, poi di nuovo il 23 marzo. In patria l'aspettava la moglie, soggetta alla malinconia, che in sette anni non l'aveva riveduto più di due volte. Tuttavia, pregato da Ruffo, rimase ancora una volta al suo posto.

Morto, il 14 sett. 1523, Adriano VI, senza il rimpianto del G., si riaprí il periodo d'insicurezza della vacanza della Sede pontificia. I Francesi, condotti dall'ammiraglio Guglielmo Gouffier de Bonnivet, assediarono Milano. Dall'altra parte, il duca di Ferrara Alfonso I d'Este riprese le armi. Con il conte Guido Rangoni e scarsi mezzi il G. attese soprattutto a fortificare Modena. Scrisse, chiedendo fanti, artiglieria e denari, a Roma, a Firenze, a Bologna, ma non ricevette in risposta che parole. Il 28 settembre, Alfonso d'Este prese Reggio e poi Rubiera, mentre Modena riuscì felicemente a resistere.

L'elezione al soglio pontificio del cardinale Giulio de' Medici, papa Clemente VII, il 19 nov. 1523, suscitò nel G. profonda soddisfazione, nonché grandi speranze personali. Il 25 dicembre il nuovo papa gli propose la presidenza della Romagna, e il 19 marzo il G. partì per Roma per trattare le condizioni dell'incarico. Rientrato a Firenze dopo alcune settimane, vi rimase fino a calendimaggio. Il 6 maggio, accompagnato dalla moglie e dalle figlie, entrò in Forlì, centro di una provincia travagliata dalle lotte permanenti tra guelfi, dominanti a Forlì e Ravenna, e ghibellini, prevalenti a Cesena, Imola e Rimini. Come già in Emilia, il G. seppe imporre a tutti una rigorosa amministrazione della giustizia. In settembre, con il tacito permesso del papa, fece prendere di sorpresa Bertinoro, fortezza dei ghibellini più insolenti, fece decapitare subito Manfredi Maldente, capo dei ribelli, e abbattere una gran parte delle mura del castello. A Faenza, dove viveva con la famiglia, il primo febbraio 1525 gli giunse la notizia della vittoria imperiale di Pavia e della cattura di Francesco I di Valois. In Romagna, questa vittoria ridette fiato ai ghibellini, ma gli sguardi del G. erano già volti al più largo orizzonte dell'Italia, di cui temeva la "servitù". Il papa, con una condotta ambigua, aveva concluso subito con Carlo V una nuova alleanza, che da una parte riconosceva l'autorità spagnola sul Ducato di Milano, dato a Francesco II Sforza, e dall'altra prometteva alla Chiesa il recupero di Reggio. Le riflessioni preoccupate del G. sull'attualità sono consegnate a numerose lettere a Cesare Colombo, che le leggeva nella corte papale. L'alleanza con l'imperatore parve provvisoriamente al G. un male minore, ma la sua convinzione profonda era che il fine ultimo della politica imperiale fosse il controllo sul Papato e il dominio sull'intera Italia.

La situazione di stasi gli consentì anche di tornare alla scrittura. Compose parecchi discorsi sulla politica italiana, portò a termine la versione definitiva del Dialogo del reggimento di Firenze e stese un compendio della trecentesca Cronica di Francia, d'Inghilterra e dei paesi vicini di Jean Froissart. Aveva, a questa altezza, già costituito la prima raccolta dei suoi Ricordi (redazione A, di 161 aforismi), il cui nucleo originale risaliva, come s'è visto, all'ambasceria in Spagna. Il 1525 è inoltre l'anno di un nuovo carteggio con Machiavelli: il G. cerca di distrarsi dai pensieri più gravi con l'allestimento di una rappresentazione della Mandragola per il carnevale a Faenza; Machiavelli discorre delle scelte da fare per maritare le figlie ormai cresciute del G., il quale si cruccia di non avere avuto figli maschi.

Nell'ottobre 1525 cominciarono le trattative per far venire il G. a Roma in qualità di consigliere di Clemente VII, ormai pronto a "far pruova di non stare a discrezione di Cesare" (lettera del 4 dic. 1525, Carteggi, VIII, p. 123). Nel gennaio 1526, il G. trasferì la famiglia a Firenze e partì per Roma. Alla corte pontificia ebbe pratica di altri grandi protagonisti della politica, come Iacopo Salviati, Niccolò Schönberg (imperiale), il datario Gian Matteo Giberti (filofrancese). Seguendo giornalmente gli avvenimenti, il G. concentrò la sua energia nell'esortare il papa, sempre irresoluto, a impegnarsi per la difesa dell'Italia. Il suo obiettivo era di promuovere un accordo tra Roma, Francia, Venezia, Inghilterra e Cantoni svizzeri per una resistenza armata contro la Spagna, mirante alla restituzione del Ducato di Milano allo Sforza. La desiderata lega fu conclusa a Cognac il 22 maggio 1526 e come effetto Clemente VII nominò il G. suo luogotenente generale "nello esercitio e in tutto lo Stato della Chiesa con pienissima e quasi assoluta potestà". Il G. lasciò Roma nei primi di giugno, passò per Orvieto, Cortona e si fermò a Firenze il tempo necessario per far votare l'imposizione di un accatto (prestito forzoso) per contribuire finanziariamente all'impresa militare antimperiale. Il 17 maggio, insieme con il capitano Giovanni de' Medici, arrivò a Piacenza, luogo di raggruppamento dell'esercito pontificio.

Per buona fortuna, il 24 giugno, l'esercito veneziano, condotto dal capitano generale Francesco Maria Della Rovere, duca di Urbino, prese Lodi. L'esercito papale passò il Po il 26, giunse a Marignano il 28, a San Donato il 3 luglio, e finalmente, il giorno dopo, a San Martino, a 3 miglia da Milano. L'insuccesso di un troppo timido assalto ai sobborghi della città scoraggiò facilmente il duca, che fece ritirare le sue truppe a Marignano, poi a Casaretto. Per il G. la situazione languiva. Nel carteggio, più folto che mai in quei giorni, si rispecchia la sua impazienza e si moltiplicano le richieste di denaro e di provvisioni. Nel castello di Milano, il 24 luglio, Francesco Sforza, esausto, capitolò. Responsabile della perdita appariva il duca di Urbino, che condusse allora l'esercito da Milano all'assedio di Cremona, affidando l'impresa a Malatesta Baglioni.

Per informarsi della situazione, il G., rimasto a Casaretto con l'esercito della Chiesa, mandò a Cremona l'amico Machiavelli, che era arrivato al campo nella prima parte di luglio e gli faceva ogni tanto da segretario. Cremona si arrese il 23 settembre, ma la soddisfazione per l'acquisto fu scemata dall'annuncio di una tregua di quattro mesi conclusa sponte sua dal papa, ingannato dall'agente spagnolo Ugo de Moncada e dal cardinale Pompeo Colonna, con l'obbligo di ritirare l'esercito pontificio di qua dal Po. Il 9 ottobre, il G. era tornato a Piacenza.

Il 30 ottobre, morì, ventinovenne, il capitano Giovanni de' Medici, su cui il G. contava molto. Egli, intanto, si ritirò a Modena. Il 3 dicembre, arrivati i lanzi di Giorgio Frundsberg a Guastalla, corse a Parma per prevenire ogni pericolo. Venne finalmente raggiunto dal marchese Michele Antonio di Saluzzo con 4000 svizzeri e 3000 italiani. Poiché i lanzi diventavano ora una minaccia anche per Firenze, il G. scrisse al cardinale Silvio Passerini, preposto alla difesa della città, per metterlo in allarme. Per precauzione, fece riparare a Venezia la moglie e le tre figlie maggiori. I lanzi con gli Spagnoli del duca Carlo di Borbone, sostenuti dal duca di Ferrara, si apprestavano a scendere verso Firenze e Roma. Il 24 febbraio, l'esercito nemico era a Scandiano, il 27 presso Bologna. All'inizio di aprile, il pericolo spinse il G. a cercare di tagliargli la via della Romagna; lasciò Bologna con le genti della Chiesa e andò a Imola, poi a Forlì, precedendo di poco il Borbone. Il 16 decise di dirigere tutte le forze di cui poteva ancora disporre verso Firenze, dove arrivò il 23. La città, minacciata dal nemico ormai prossimo, era sul punto di insorgere contro il malgoverno del cardinale Passerini e il 26 aprile scoppiò in effetti un tumulto. Il 4 maggio, il Borbone arrivò sotto le mura di Roma, e il giorno dopo cominciò l'orribile e lungo saccheggio dell'Urbe. Il G. ricevette "la crudelissima nuova di Roma" a Città della Pieve.

La caduta di Roma provocò a Firenze, il 16 maggio, quella del regime mediceo. Il G. fece quel che poté per preservare gli interessi del papa e della Lega, ma gli era venuta meno l'autorità. La capitolazione del papa in Castel Sant'Angelo (8 giugno) mise fine alla luogotenenza. Rifiutandosi di restare nel campo come commissario dei Fiorentini, il G. chiese licenza alla città. Vi era stato eletto da poco gonfaloniere Niccolò Capponi, uomo moderato, che, pure appartenendo alla parte avversa ai Medici, intratteneva con il G. intelligenti e buone relazioni. I due uomini si adoperarono perché la trasformazione dello Stato fiorentino avvenisse senza versamento di sangue, ma a Firenze cominciò per il G. una lunga serie di travagli. In quanto "amico de' Medici", egli fu compreso nel numero di venti cittadini costretti a prestare non meno di 1500 fiorini ciascuno e in ottobre venne di nuovo tassato per un prestito forzoso. Accusato dalla pubblica voce di avere rubato sui denari delle paghe, dovette rendere conto delle sue entrate non solo ordinarie, ma anche straordinarie. Uscì netto dalle varie inquisizioni a cui venne sottoposto, ma risentì gravemente l'offesa del sospetto e dell'odio, soffrendo particolarmente di vedersi caduto in città da una somma reputazione a una totale privazione di onori. Si ridusse nella sua possessione di Finocchieto (acquistata nel 1523), dove venne informato della presa del potere, a Firenze, dei repubblicani radicali, gli arrabbiati.

Nel volontario esilio in villa, il G. riprese a scrivere cose personali. Stese in settembre una Oratio consolatoria, pacata meditazione morale sul rovescio toccatogli dopo tanto favore. Fingendo poi di doversi difendere davanti alla Quarantia, compose, secondo uno stile retorico a lui familiare per gli studi di giure, due concioni contraddittorie sulla stessa materia: un'Oratio accusatoria e una Defensiva contra precedentem, lasciata incompiuta.

Nel dicembre 1527 si trasferì nella più comoda villa di Santa Margherita a Montici, presso Arcetri. La liberazione del papa rifugiato a Orvieto non comportò per lui alcun cambiamento. A Firenze, maritò sua figlia Simona a Piero, primogenito di Niccolò Capponi.

Nell'anno successivo concepì il progetto di una storia fiorentina fondata sullo spoglio sistematico e sull'uso critico delle fonti non solo letterarie, ma anche archivistiche, maturando un'idea di storiografia che prendeva le distanze dalla tradizione umanistica e retorica. È il progetto delle Cose fiorentine, rimaste allo stato di abbozzo, con soli quattro libri composti, relativi agli anni 1375-1441. In margine a questo lavoro, "nel principio dell'anno 1528", il G. riprese in mano e ritoccò la raccolta dei suoi Ricordi, per stenderne la cosiddetta redazione B (di 181 aforismi). All'anno 1528 risale probabilmente anche una raccolta di profezie savonaroliane relative a Firenze e all'Italia.

A Firenze, il G., che non desiderava il ritorno dei Medici, continuava a sostenere e consigliare il moderato Capponi.

Questi fu rieletto gonfaloniere, ma l'opposizione degli arrabbiati crebbe e finì per farlo deporre nell'aprile 1529. Sulla scena italiana, vinte dalla peste le armate francesi di Odet de Foix visconte di Lautrec, Carlo V restava padrone del terreno. Con lui, il 29 giugno 1529, Clemente VII concluse il trattato di Barcellona, che, tra le altre cose, obbligava gli Spagnoli a restaurare a Firenze il governo dei Medici. La pace di Cambrai, firmata tra Spagna e Francia nel successivo agosto, toglieva alla Repubblica fiorentina, isolata, ogni speranza di aiuto. Francesco Carducci, capo degli arrabbiati, succeduto nel gonfalonierato a Capponi, si accanì a rifiutare ogni contatto con il papa, che spinse in Toscana il principe d'Orange Filiberto di Chalon, messo a sua disposizione da Carlo V. Il 14 settembre l'Orange mise il campo sotto Cortona.

Dopo la caduta di Capponi, il G. si era isolato a Santa Margherita, assorto nella stesura delle sue Cose fiorentine. Aggravandosi la situazione, tornò a Finocchieto, da dove, dopo la perdita di Cortona, prese la via del Casentino. Il 25 settembre, si rifugiò a Spinello, castello del conte Ramberto Malatesta (probabile autore di un oroscopo che il G. si era fatto fare nel 1516). Passato, dopo ventidue giorni, nel castello di Sogliano, il G. si recò a Rimini, distante una decina di miglia, dove era arrivato Clemente VII seguito dagli ambasciatori fiorentini residenti a Roma. Il G. s'intromise per parlare al papa a favore della sua città, e il papa offrì agli ambasciatori condizioni di pace molto ragionevoli; ma il governo popolare, temendo un inganno, le respinse. Il G. accettò di seguire gli ambasciatori fino a Bologna, dove si preparava l'incontro di Clemente VII con Carlo V. All'inizio di dicembre, apprese che gli Otto di guardia lo avevano citato per aver macchinato contro lo Stato e il 12 dicembre scrisse loro una lettera per confutare le accuse. Per allontanarsi da Bologna e dalla corte papale, luogo sospetto agli occhi dei Fiorentini, si ridusse a Lucca, dove giunse la vigilia di Natale. Non essendosi presentato agli Otto nel tempo prescritto, fu dichiarato contumace e il 7 marzo 1530 il suo caso fu rimesso alla Quarantia: fu condannato al bando e alla confisca dei beni. Il 18 marzo lasciò Lucca alla volta di Roma, dove, in attesa di un mutamento della situazione fiorentina, scrisse le Considerazioni intorno ai "Discorsi" del Machiavelli. Agli stessi mesi dell'ostinata resistenza fiorentina, risale l'ultima redazione (C) dei Ricordi, notevolmente accresciuta (fino a 221 aforismi) e stilisticamente riveduta.

Firenze capitolò il 12 ag. 1530. Il G. vi fu subito mandato dal papa a provvedere alle cose urgenti. Vi giunse il 24 settembre e misurò l'importanza dei danni pubblici e privati. Fu incluso fra gli Otto, i quali avevano l'incarico di riportare la città all'ordine punendo i colpevoli. Piovvero le condanne: il G. apparve spietato, a tal punto che i fiorentini lo chiamarono "Ser Cerrettieri", da Cerrettieri Visdomini, l'antico aguzzino del duca d'Atene. Per l'utile quanto per l'onore il G. desiderava ormai andarsene dalla città e il 18 genn. 1531 accettò dal papa l'incarico di governatore e vicelegato di Bologna. Poté partire per la nuova sede solo il 20 giugno. L'amministrazione ordinaria della città, affidata ai Quaranta riformatori, gli lasciava una discreta libertà, mentre l'amministrazione della giustizia, di cui era direttamente responsabile, non era pesante, sebbene l'antagonismo permanente tra le famiglie Malvezzi e Pepoli non gli desse requie e in particolare i Pepoli finissero con l'essergli particolarmente ostili.

A Firenze, nel frattempo, Clemente VII aveva dato il principato ad Alessandro, figlio naturale del defunto Lorenzo de' Medici, duca di Urbino (o forse dello stesso pontefice), e faceva governare la città dall'arcivescovo di Capua Nicola von Schönberg. Invitato a dare il suo parere circa l'assetto istituzionale della città, il G. scrisse diversi "discorsi", che tutti sconsigliavano il principato e preconizzavano una restaurazione riformata dello Stato repubblicano. Nell'aprile 1532, però, fu chiamato a far parte della Balia dei dodici cittadini eletti per assettare il governo secondo i voleri del papa e dovette rassegnarsi alla sostituzione delle forme repubblicane (soppressione della Signoria) con forme ristrette controllate dal duca.

Quando, alla fine del 1532, Carlo V tornò a Bologna per un altro convegno con Clemente VII, fu compito del governatore G. organizzargli l'ospitalità. Il papa arrivò l'8 dicembre, l'imperatore il 13, con la briglia tenuta dal G., che era stato pure mandato dal papa, insieme con il cardinale Ippolito de' Medici e Iacopo Salviati, a incontrare i delegati imperiali. Nell'autunno 1533, il pontefice gli chiese di seguirlo a Marsiglia per la conclusione del matrimonio di sua nipote, Caterina de' Medici, figlia del duca di Urbino Lorenzo, con Enrico, secondogenito del re di Francia. In quanto giurista, il G. fu incaricato di rivedere il contratto nuziale e altri atti inerenti al matrimonio.

Morto Clemente VII (25 sett. 1534), l'elezione di Alessandro Farnese (Paolo III), il 13 ott. 1534, mise un termine al governo del G. a Bologna. Rientrato in Toscana, riparò a Santa Margherita, deciso a dedicarsi tutto alle lettere. Lasciò interrotte le Cose fiorentine, storia di una repubblica ormai tramontata, e si accinse a scrivere i Commentari della sua luogotenenza, ma venne interrotto dal duca Alessandro, che lo nominò tra i suoi quattro consiglieri, poi luogotenente, e richiese il suo aiuto contro le mosse dei "malcontenti" (Filippo Strozzi e i cardinali Giovanni Salviati e Niccolò Ridolfi), i quali gli opponevano il cardinale Ippolito de' Medici. Con loro si erano uniti gli esuli fiorentini repubblicani, che, trascorsi i tre anni della proscrizione, erano stati, contravvenendo ai patti della capitolazione, riconfinati. Quando Carlo V, di ritorno dall'impresa di Tunisi, si fermò a Napoli, il duca Alessandro decise di sottoporre la situazione al suo giudizio e lasciò Firenze, il 21 dicembre, portando con sé, quale avvocato, il G., il quale in quel momento paventava soprattutto il ritorno al potere dei "popolari". L'imperatore, intanto, aveva già ricevuto l'ambasceria dei fuorusciti. La risposta ducale alle loro logiche e giuste doglianze, presentate per iscritto, fu redatta dal G., assistito da Francesco Vettori, Roberto Acciaiuoli, Matteo Strozzi e Baccio Valori.

Ridolfi (p. 300) giudica questa Risposta per parte del duca alle querele dei fuorusciti "abilissima, ma capziosa e sofistica". Il G. non si peritò infatti di sviluppare un'interpretazione forense del termine "libertà" cittadina che figurava nel trattato di capitolazione, applicandolo non alla realtà politica interna, dunque nel senso di un regime repubblicano, bensì all'esterno, cioè intendendolo come indipendenza da un dominio forestiero. Questa difesa significava insomma giustificare in blocco e a priori la politica di Alessandro, senza alcuna apertura a discuterne la legittimità, e valse al G., agli occhi di molti fiorentini che non dimenticavano l'azione di "ser Cerrettieri", un'ulteriore taccia d'infamia.

A Napoli, il 26 febbr. 1536, fu anche celebrato il matrimonio del duca Alessandro con Margherita, figlia naturale appena quindicenne di Carlo V e, subito dopo, l'imperatore si trasferì a Firenze, dove entrò a cavallo, il 29 aprile, tenuto ancora alla briglia dal G., considerato ormai il viceduca. Quando, il 5 genn. 1537, Alessandro fu assassinato, il G. sostenne la scelta del giovane Cosimo di Giovanni de' Medici come nuovo principe di Firenze. Tale scelta fu confermata dai Quarantotto senatori, ma non venne accettata di buon animo dalla maggior parte dei fiorentini, che ebbero una ragione in più di risentimento verso il Guicciardini. Questi d'altronde si ingannò parecchio nel credere che Cosimo avrebbe ascoltato i suoi consigli e si sarebbe curato di rispettare i limiti prescrittigli dai Quarantotto. Non ancora stabile sulla sua posizione, dinanzi alla minaccia persistente dei fuorusciti, Cosimo mandò il G. a trattare con loro. Quando, l'11 maggio, venne a Firenze l'ambasciatore cesareo Ferdinando Silva conte di Cifuentes, il G. fu ancora eletto dai Quarantotto a negoziare con lui, ma Cosimo, quando si trattò di discutere di materie delicate, come i rapporti con il dominio spagnolo, escluse il troppo autorevole consigliere dai colloqui. La situazione subì una rapida evoluzione: Cifuentes ottenne le fortezze di Firenze, Pisa e Livorno, Cosimo ebbe il titolo di duca; nel frattempo, nel luglio 1537, i fuorusciti erano stati sconfitti a Montemurlo.

Il G., emarginato, si sentì allora quanto mai solo. All'inizio del 1538, nonostante l'offerta di un governo da parte del pontefice, scelse di rimanere a Firenze, dove, nel novembre 1539, maritò l'ultima sua figlia, Lisabetta, ad Alessandro di Giuliano Capponi. Ebbe ancora qualche ufficio onorevole: era già dei Quarantotto, a vita; fu eletto commissario di Pistoia, ma vi mandò il fratello Luigi. Nel 1539, fu dei Consiglieri, degli Otto di pratica e del Consiglio di Stato. Nel 1540, poco prima della morte, fu nominato luogotenente del duca. Ma erano tutte magistrature prive di reale potere. In disparte, il G. stava da tempo assorto nella composizione della sua Storia d'Italia, la quale prendeva lo spunto dai Commentari della luogotenenza, interrotti nel 1534. Per tutta la primavera e una parte dell'estate del 1539, attese all'ultima revisione dell'opera, che portò fino alla fine, o quasi, del libro XV.

Poco dopo il G. rimase infermo gravemente. Trascorse una parte dell'autunno del 1539 in campagna. Morì a Firenze nella sera del sabato 22 maggio 1540.

Fu seppellito l'indomani, secondo la sua volontà, nella tomba di famiglia, ai piedi dell'altare maggiore della chiesa di S. Felicita. Maria, sua moglie, gli sopravvisse fino al 1559.

L'educazione ricevuta dal G. fu accurata, con più latino di quello somministrato solitamente ai coetanei del suo ceto, con l'aggiunta del greco; formativo fu lo studio del diritto sotto la guida di Filippo Decio, giurista in cui si avvertono gli stimoli dell'umanesimo giuridico. C'erano le premesse per far nascere uno studioso, ma il G. non fu tentato dalla dedizione alle humanae litterae: per quanto di indole riflessiva, l'otium per volgersi allo studio non gli era congeniale e sin da ragazzo fu determinato alla vita "negociosa". Allergico alle speculazioni teologico-metafisiche sulle "cose sopra natura" che "non si reggono", scalpitava per farsi, in qualche modo, "grande", o nella natia Firenze o nella Chiesa. La porpora cardinalizia, vagheggiata a diciott'anni, rivela il calcolo mondano, se non la cupidigia di una posizione in cui il prestigio si traducesse in occasioni di lucro, ed egli fu attento a far procedere queste sue inclinazioni di pari passo sin dal brillante esordio nell'avvocatura, confortato da sostanziosi onorari, incoraggiato da pubbliche committenze e dal costituirsi di un'allargata clientela privata, anche ebraica. Nella carriera, vissuta tra coordinate fiorentine e romane e sostanzialmente medicee in virtù dei pontificati di Leone X e Clemente VII, fu innalzato a un culmine sin vertiginoso di "estremo eccessivo di onori, di riputazione, di faccende grandissime e di notizia universale", per poi precipitare nell'"estremo" opposto "di uno vivere ocioso, abietto, privatissimo, senza degnità, senza faccende", segnato dal convergere dello sfiduciamento a Roma e dell'astio vendicativo della Firenze antimedicea, nella quale il G. si ritrovò "inferiore" a "ogni piccolo cittadino".

Fu, il 1527, un anno orribile per l'Italia e per il G., "pieno di atrocissimi" e inauditi "accidenti", come egli riassunse nella Storia d'Italia. La tragedia generale è anche lo scacco del G. che, convinto di sbarrare il passo all'eventualità dell'"atroce e vituperosa" soggezione della penisola all'Impero, aveva indotto Clemente VII alla Lega di Cognac. Il G., luogotenente generale con pieni poteri dell'esercito pontificio, non riuscì ad arrestare la marcia cesarea, l'atroce saccheggio di Roma, la prigionia e poi la fuga del papa. Un disastro con tanti responsabili, tra i quali poteva, volendo, ascriversi pure il G., non semplicemente vittima della sconfitta, ma anche collocabile nella genesi di quel sommarsi e incrociarsi di errori - di valutazione politico-diplomatica e, poi, di strategia e tattica militari - per cui il pericolo non era stato previsto nella sua enormità e adeguatamente fronteggiato.

Rientrato nella Firenze del gonfaloniere Niccolò Capponi, dove l'atmosfera era per lui - comprensibilmente - satura di avversione, riparò a Finocchieto dove, in una coatta privatezza, poté celebrare una elaborazione del lutto, dalla quale sortire un minimo confortato, anche perché autoassolto dalle accuse a lui indirizzabili. È un G. che - con la trilogia dell'Accusatoria, della Defensoria, della Consolatoria - si autoesamina, si mette in causa, si autogiudica. È indicativo, però, che la Consolatoria, scritta nel settembre 1527, preceda, in termini di stesura, il suo sdoppiarsi in accusatore e difensore di se stesso. È una sequenza lungo la quale prima il G. si rimette psicologicamente in piedi, per poi affrontare la grandine impietosa degli addebiti, cui replicare con convincente - anzitutto autoconvincente - argomentazione. L'autoassoluzione valeva soprattutto in sede fiorentina dalle imputazioni scagliategli contro dalla Firenze antimedicea, di fronte alla quale il G. poté sentirsi innocente e vantare benemerenze. Ma, si può commentare, è un'assoluzione ottenuta con astuzia avvocatesca, laddove la causa viene immaginata - una fictio le accuse, una fictio le difese - a Firenze, perché qui vincibile. Meno scontata sarebbe stata la sentenza assolutoria se il G. si fosse nettamente chiesto se, tra le tante cause e concause del non arginato tracollo conclusosi nella Roma in preda alla furia dei lanzi, non sia, per qualche verso, imputabile e condannabile anche il suo stesso operato. In proposito il G. è quanto meno elusivo. Ex protagonista, schiva la riflessione puntigliosa su eventuali errori individuali nel suo effettivo ruolo, sui quali non si interroga apertamente, o meglio non tratta esplicitamente per iscritto. Non è da escludere che, in questo suo silenzio, soggiaccia il tormento di chi in realtà continua a chiedersi se e, se sì, dove, come, quanto ha sbagliato. E non tanto per scrupoli nei confronti di Firenze, quanto per misurare se egli è stato veramente, sempre e comunque, all'altezza della situazione. Se era agevole rigettare accuse di appropriazione indebita che gli furono strumentalmente rivolte, o perché limpida era la coscienza o in quanto non sufficientemente comprovate, come tacitare, dopo la sconfitta, i ripensamenti sul proprio operato? L'assoluzione ottenibile tramite avvocati non cancella i sensi di colpa nei confronti di una catastrofe storica che, forse, l'umana prudenza - con misure preventive meno confidenti nell'alleanza con la Francia - avrebbe potuto evitare.

Uomo di successo, con un risalto eccedente le sue stesse ambizioni adolescenziali, ma nel contempo disdetto dal fallimento del principio, condiviso con Machiavelli, di opporsi allo strapotere di Carlo V nella penisola, il G. è da considerarsi un perdente. Tale rimane anche dopo il 1527, quando, rientrato nella considerazione di Clemente VII, venne utilizzato nel recupero mediceo di Firenze, ma all'interno di un processo che non è dato, tuttavia, al G. di pilotare, come vorrebbe, alla volta di un reggimento ottimatizio. Una volta spesosi affinché ad Alessandro, assassinato nel gennaio 1537, subentrasse Cosimo, con questo, che diede il via a un'organica risistemazione in senso monocratico dello Stato, il G. si ritrovò accantonato, ininfluente, ancorché decorato dal titolo, meramente nominale, di luogotenente. Il consuntivo non poteva che essere amarissimo: aveva sempre vagheggiato una Firenze ben governata da un'aristocrazia ristretta di "savi" e nel contempo "libera", ossia indipendente. Quando morì, vi si stava consolidando il potere di un principe da un lato insofferente dei consigli dei savi, dall'altro prono all'imperatore, subalterno e suo zelante satellite. Risultava come vanificato quel che lungo gli anni il G. era venuto considerando, nel Discorso di Logrogno, nel Discorso del modo d'assicurare lo Stato ai Medici, nel dialogato Discorso del modo di ordinare il governo di Firenze, a proposito dell'assetto più confacente alla sua città.

Ancorché inviso ai repubblicani fiorentini come mediceo, e corresponsabilizzato da Clemente VII nel ripristino di un regime nel quale sarebbe impiantato un assolutismo che avrebbe fatto giudicare Cosimo da Venezia "tiranno", non per questo il G. dei discorsi, ragionante di istituzioni, appare appiattito sugli interessi e gli appetiti medicei. Sa prenderne le distanze e guardare oltre, seriamente pensoso del bene della città natia. Ossessionato dall'incubo di un repubblicanesimo popolare, ostilissimo a qualsiasi configurazione statale condizionata da spinte dal basso, convinto che la democrazia, se potere al popolo e del popolo, precipiti nel disordine più incontrollabile e nella demagogia più sfrenata, non per questo il G. è disposto ad accettare un'incondizionata tirannide. La personalizzazione arbitraria del comando nel principe schiaccia la libertà, la quale altro non è che il prevalere delle leggi "et ordini pubblici" sull'"appetito degli uomini". Non senza riecheggiare la forma "Stato marciano" contemperante una pluralità di organi, il G. vorrebbe la compresenza di un Consiglio allargato, concepito come un "Consiglio grande" che sia "la anima del governo popolare" e conceda un po' di voce al popolo, di un Senato rispettoso, vero fulcro gravitazionale e propulsivo della Repubblica, "timone della città", "moderatore d'ogni cosa", e di un gonfaloniere a vita. Da questa compresenza dovrebbe sortire un'ordinata e filtrata partecipazione alla politica e al contempo una direzione di governo salda e autorevole. Il ceto governativo, affinato lungo la storia alla gestione delle cose di Stato, cui lo stesso G. apparteneva, in quanto ceto ottimatizio, è intravisto come ceto dei "savi", titolare del senno e della competenza propri di un governo che sappia farsi carico del "bene commune", che sappia valutare e operare consapevolmente e, appunto, saviamente.

Il governo che auspica il G. è ristretto - la "larghezza" decisionale è foriera di sbandamento e disordine -, aristocratico, persino oligarchico, ma dotato della capacità di intendere e realizzare le esigenze dell'intera società: una repubblica aristocratica e meritocratica, "bene ordinata", affidata alla "virtù di pochi cittadini", dato che "le opere gloriose", gli "effetti grandi" nascono "da pochi" e vanno gestiti "per mano di pochi". Queste tesi non fuoriescono tuttavia dalla dimensione privata, né vanno in cerca di un referente o si fanno appello a un'azione concreta, neppure vengono date alle stampe. Perciò sono in sostanza dei monologhi, dei soliloqui, anche quando, nel caso del Dialogo del reggimento di Firenze, si dia il dialogo a più voci di interlocutori riconoscibili e ai quali vengono attribuite posizioni che corrispondono al loro temperamento, alla loro personalità, al loro agire. Diviso in due libri, ambientato nel 1494 poco dopo la cacciata di Piero de' Medici, il Dialogo pone in scena come protagonisti Piero Capponi, esponente della fazione aristocratica, Paolantonio Soderini, seguace del Savonarola, Bernardo Del Nero, aderente al partito mediceo, e il padre del G., Piero, che gli avrebbe riferito le conversazioni tenutesi nell'occasione. La corrispondenza del fare e del pensare, se è riscontrabile nei dialoganti a proposito del come sia da governare Firenze, resta interna al dialogo, che il G. neanche fa stampare, a produrre, quanto meno, un prosieguo di discussioni che tenga desto il dibattito. Mentre Machiavelli - in rapporto con il G. specie a partire dal 1521 e tra i due ci fu dell'amicizia, ancorché non simmetricamente paritetica -, perfino entusiasta dei suoi convincimenti, smania perché si concretizzino e si ostina ad affannarsi perché in qualche modo, si inverino nella prassi, il G. non nutre altrettanto entusiasmo: un conto è per lui il fattibile, un conto le sue intime propensioni; un conto l'ambito operativo delle res, un conto quello dei verba formulabili nell'appartata solitudine d'una barricata interiorità.

Lo scrivere del G. è privato, a proprio uso e consumo, a meno che non si tratti della corrispondenza di ufficio, delle lettere - imponente il loro corpus - necessitate dalle incombenze e dalle pubbliche responsabilità. Il suo assiduo carteggio comprende - a fare i nomi di maggior risalto - papa Adriano VI, il re Ferdinando il Cattolico, Isabella d'Este, Lucrezia Borgia, il duca di Urbino Francesco Maria Della Rovere, Giulio e Giovanni de' Medici, i fratelli Luigi e Iacopo, Giovanni Corsi, Lorenzo Fieschi, Iacopo Gambara, Goro Gheri e ancora questo e quel cardinale, la Comunità di Finale Emilia, gli Anziani di Parma e Reggio, i fiorentini Dieci di balia e Otto di pratica. In questa prosa condizionata dalle circostanze e per obbligo di ufficio si dà un G. tutto risolto nel fattibile, che scrive per lo più in fretta e in furia, incalzato dalle urgenze o stimolato dalle opportunità connesse con le sue funzioni e con le sue attività. Anche se non mancano guizzi autoriali, soprassalti di scrittura, si tratta pur sempre di prosa funzionale alla comunicazione, informativa, aderente al presente, all'appena fatto, al da farsi nell'immediato.

Sconcerta che sia la stessa persona cui ripugnano "la ambizione, la avarizia e le malizie dei preti", che vorrebbe "vivere" nella ben ordinata Repubblica, in un'Italia "liberata" dai "barbari", in un "mondo" affrancato "dalla tirannide di questi scelerati preti". Indubbio è che nel contempo abbia, "con più pontefici", conseguito un "grado", in virtù del quale si è adoperato a vantaggio della "grandezza loro", addirittura "necessitato" da questo "particulare" suo "a amare" detta "grandezza", laddove la coscienza l'avrebbe indotto ad amare, invece, Lutero: non ci fosse stato "questo rispetto" - quello della carriera nello Stato pontificio - "avrei amato Martino Luther quanto me medesimo", confida a se stesso. E "non per liberar[s]i" dei doveri della "religione" (per tal verso il G. non saluta con favore la Riforma e, in sede storica, condanna il luteranesimo come "pestifera dottrina", come "pestifero veleno"), ma pur di "vedere ridurre questa caterva di scelerati" - quella concentrata nella Roma curiale - nei "termini debiti" del sussistere "o sanza vizi o sanza autorità". Totale - in questo passo - il divorzio tra aspirazioni e prassi, tra vagheggiamento e attività che, comprensibilmente, portò Francesco De Sanctis, forgiato nella temperie risorgimentale e dalla mazziniana parola d'ordine di "pensiero e azione", a sdegnarsi con il G. e a entusiasmarsi con Machiavelli. È quest'ultimo, in una sorta di enfatizzata sinossi in chiaroscuro, a splendere a mo' di anticipo del riscatto nazionale prodotto, appunto, dalla coerenza del pensare e dell'agire, mentre il primo sarebbe il padre della razza degenere dei faccendieri senza principî, dei carrieristi opportunisti, dei maneggioni senza identità. L'uomo guicciardiniano, in questo modo deformato e travisato, vittima dell'esasperato e iroso moralismo di De Sanctis, finisce col rappresentare il prototipo di un atteggiamento perdurante lungo i secoli, responsabile della ritardata riscossa nazionale e destinato a inquinare, nell'Italia postunitaria fattasi Stato, la vita politica.

Fatta la tara di tanto esacerbata contrapposizione, resta, in prospettiva, un sostanziale coesistere. In Machiavelli è effettivamente riscontrabile l'animata teorizzazione di una prassi che poggia sulla persuasione della praticabilità della lezione degli antichi, valida ad allargare l'orizzonte delle speranze e a esemplare le procedure per realizzarle. Il G., invece, nelle Considerazioni, del 1528, sui Discorsi machiavelliani sulla prima decade di Tito Livio, insiste sul fatto che tempi diversi esigono o impongono comportamenti su di essi misurati: dal passato non sprigiona un magistero da assumere "per esempio", trapiantabile e ricalcabile. Nell'inazione coatta Machiavelli in disgrazia si risarcisce con i notturni colloqui con i grandi, donde scaturisce l'esaltante prospettiva del principe redentore. Il G., proprio perché in posizione di comando, dei fatti sperimenta l'inscalfibile resistenza. Al primo l'apprendimento della storia dell'antica Roma squaderna le possibilità di applicare la lezione da quella storia desumibile. Al secondo le "faccende grandissime" nelle quali ha mano impongono la realistica percezione del più costrittivo condizionamento. La lezione degli antichi si fa per il Machiavelli speranza di mutamento, nella misura in cui si possa imprimere sull'andamento dei fatti. Per il G., invece, vale, di volta in volta, la lezione dei fatti recentissimi, introiettabile a rendere vieppiù guardingo il proprio personale cammino. Poco importa l'intermittente ripugnanza per il governo dei "preti", visto che egli è al loro servizio ed è la qualità del servizio che conta e lo rende meritevole dell'altissimo "grado" conseguito.

Per quel che lo concerne, quel che scrive - il Diario, A se stesso, i Ricordi - non pretende sia "utile" a un pubblico, dato che si tratta di fatto privato. È per sé che il G. distilla la propria esperienza sia nella formulazione secca dell'aforisma, sia in quella sinuosa e lumeggiante della riflessione, quasi sorta di rallentato annotare a margine - rispetto all'incalzare delle incombenze -, che, avviato nel 1512, protratto sino alle soglie del 1525 e ripreso nel 1528-30, si deposita nei Ricordi. Tre le redazioni fissate dall'indagine filologica: la A, supponente un autografo anteriore al 1525; la B, assegnabile al 1528; la C, databile al 1530; quest'ultima privilegiata - pur nel persistere di una letteratura sinottica inclusiva della A e della B - quale approdo finale di un testo che si è andato via via condensando e decantando fino alle 221 unità. Il titolo invalso di Ricordi designa una variegata raccolta di sentenze, massime, adagia, considerazioni, riflessioni, avvertenze che - stando alle intitolazioni delle stampe tardocinquecentesche interessate a presentare l'autore soprattutto in veste di storico - viene a tutta prima intesa quale, appunto, raduno di "concetti politici", "consigli", "avvertimenti", "precetti", "regole", "considerazioni". Iniziato nel 1512, approfittando degli "ozi" di Spagna, l'appuntare non già in vista di un trattato sistematico, ma piuttosto a costituzione di un gruzzolo di pensieri ad accompagnamento e commento dell'esistenza, è "ricordo" nella misura in cui vale sia quale memoria selettiva dell'esperienza, sia quale pro memoria comportamentale, quindi criterio, ricetta, "regola". Un manuale di autodidassi comportamentale, in certo qual senso, e insieme una tastiera estrosa che serba il tratto della vivacità, né si nega all'umoralità ghiribizzosa e alla liberata eleganza della scrittura. La situazione storico-ambientale è misurabile di volta in volta dall'esercizio valutativo della "discrezione", dell'intelligenza che soppesa le situazioni in essere e i celati meccanismi sottostanti la superficie con il fine di preventivare i movimenti individualmente possibili. Nulla concede il G. al mito dell'uomo artefice del proprio destino: all'energia creativa e ai programmi di intervento plasmante si sostituisce la realtà che sovrasta e il sottostante faticato abbozzo di un autoprofilo che, ancorché sempre revocabile e mai saldo, si sforzi di stare in piedi, compatibilmente con i tempi e con i luoghi, valutando con lo strumento duttile della "discrezione" le strategie da eleggere come più opportune, in ogni caso serbando un margine di decoro. E ciò anche se rimossi e costretti all'inazione: "Sarai adunque otioso, ma con degnità", come si era detto il G. nella Consolatoria, nel settembre del 1527, chiuso in una dignitosa doverosa compostezza.

Il proprio "particulare" non è solo personale tornaconto ma anche, pur con l'occhio vigile a cogliere vantaggiose opportunità di cariche, titoli, onori, retribuzioni, costruzione di una personale affermazione lungo la quale non fare alcunché di cui vergognarsi. Componente del "particulare", oltre al prestigio, oltre al "grado", è pure il rispetto di sé e l'autostima. È avvertibile, nei Ricordi, l'autoritratto di un G. che non è mai stato seriamente tentato da una vita diversa da quella intrapresa, sospinto dalla "civile ambizione" alla volta dell'"onore", dell'"utile", della "riputazione", della "degnità": non è "dannabile" l'ambizione, non biasimevole l'"ambizioso" se, stimolato da "appetito" di "gloria", a questa punta con "mezzi onesti e onorevoli". Siffatta ambizione è non solo legittima, ma persino virtuosa con forte valenza civica, da non riportare all'indiscriminato impulso dell'"ambizione universale in ognuno a tutti gli onori", riscontrabile anche negli incompetenti, negli indegni. Anche se l'umanità, "per natura", inclina "più al bene che al male", di fatto, per fragilità, per insufficienza di volontà, da quello si discosta, devia. Non per niente la legislazione, con il suo dosaggio di "premi" e di "pene", vale a incoraggiare al bene, a scoraggiare al male. Ma se il "popolo" è "animale pazzo", non sta certo a lui legiferare: i "savi legislatori" non possono essere che "uomini de bene" e coincidono con il ceto di provenienza del G., l'uomo "de bene" che, nella circolarità altalenante tra constatazione e valutazione dei Ricordi, da un lato oggettiva la propria esperienza personale, dall'altro soggettivizza quel che è generalmente appurabile. Ciò vale in sede di stesura, ma anche in sede di lettura - lungo l'affermarsi dell'immensa fortuna postuma, a partire dalla stampa parigina del 1576, per cura dell'esule fiorentino I. Corbinelli, con il titolo Consigli e avvertimenti in materia di repubblica e di privato -, in cui si svolge il doppio registro del ricorso al testo quale fonte precipua per la comprensione del G. e dell'utilizzo di esso quale ricettario comportamentale, sorta di laico breviario in cui la riflessione autoreferenziale sulla dolente condizione umana si illimpidisce in forme di universale consapevolezza. Allettanti "le grandezze e gli onori" se visti "di fuora", ma non così se calcolati in termini di costo, sottoposti come sono a un onerosissimo fardello di "molestie", "fatiche", "fastidi, "pericoli". Ma non è da prestar fede all'ostentata "professione" di volontario autodimissionamento dalle "faccende", alla proclamata spontaneità di rinuncia alle "grandezze"; in realtà "la tanto lodata quiete" è coatta, è far di "necessità" virtù. Tant'è che se si offre "uno spiraglio" di rientro nella vita attiva, ecco che i lodatori della "quiete" in quella si rituffano "ardenti" di attivismo frenetico.

In ogni caso - nel pieno dell'operare o nella forzata inattività - viga "grandissima prudenza"; e non tanto nella presunzione di agguantare la fortuna, quanto per evitare mosse avventate in quel minimo spazio di manovra che all'uomo è concesso. Di per sé, è la fortuna quella che dispone dell'esito di ogni umana iniziativa. Lo si voglia o meno, lo si assecondi o lo si contrasti, è sempre il "fato" ad avere la meglio, a imprimere la direzione anche a chi riottoso recalcitra. Il tutto all'insegna della caducità: "mortali", infatti, sono "città", "stati", "regni"; tutto "termina", tutto "finisce". E "mal fortunata", allora, non già la città che si ritrova al "fine", ineluttabile, ma, semmai, la sorte di colui la cui breve esistenza coincide con il dissolvimento: "disgrazia" è l'"infortunio" di vivere in tempi convulsi di "disgrazia" collettiva, specie della "patria". Comunque sia, il singolo è come un naufrago nel mare in tempesta, lì lì per affogare tra i marosi della "variazione naturale delle cose del mondo". Per stare a galla veda, con la "discrezione", di navigare a vista, adattando la rotta della vita all'incalzare, più o meno violento, della "mutazione". La morte, nella pena di vivere, garantisce la fine delle pene. Dovremmo - è sottinteso - sospirarla, eppure istintivamente è alla vita che ci aggrappiamo: "Tutti sappiamo avere a morire, tutti viviamo come se fussimo certi di avere sempre a vivere". L'"onore" mondano, accompagnato da "utile" consistente, è bramato dal G. e li consegue entrambi, non senza suo merito nel saper cogliere le opportunità. Ma proprio al culmine del raggiungimento di quanto voluto con ambiziosa determinazione, subito la soddisfazione per lo scopo ottenuto, scalzata dall'irruzione devastante di una sensazione di vuoto: tutte "vane" le umane "cupidità". La vanità è sperimentata proprio nel pieno del prestigio mondano; tutto sembra insipido, incolore, privo di interesse; il disincanto è lì lì per farsi noia, disgusto.

È avvertibile nel G. la fede nell'esposizione storica, non inficiata dal pessimismo. La "fede" - così il G. nei Ricordi - "non è altro che credere con openione ferma e quasi certezza le cose che non sono ragionevole, o, se sono ragionevole, crederle con più risoluzione che non persuadono la ragione". Siffatta "fede" è quella che si "fa ostinazione". E questa ostinazione permane nel G. nello scrivere storie se, nel 1509, si cimentò nella composizione delle municipalistiche Storie fiorentine dal 1378 al1509, stringatissime dal tumulto dei ciompi (1378) alla pace di Lodi (1454), concise fino al 1494, lente e diffuse dopo questa data, poiché è a questo punto che può "più particolarmente" narrarle in virtù della ampia "notizia" che ne ha. Nel 1528, con le Cose fiorentine, ritornò alla storia patria, interrompendola però per volgersi, nel 1535, ai Commentaridella luogotenenza propria, anche questi lasciati in tronco per perorare, al cospetto di Carlo V, la causa del duca Alessandro de' Medici, e destinati a essere trasformati in capitoli della Storia d'Italia, la cui composizione assorbì gli ultimissimi anni del Guicciardini.

L'approdo alla storiografia sembra coincidere con il congedo dalla politica, ma, se si considera che le Storie fiorentine sono opera giovanile e se si tiene presente quanto tutto il complesso degli scritti del G. sia nutrito di conoscenza e di riflessione sulla storia e che gli stessi Ricordi sono valutabili a mo' di minima moralia frutto dell'esperienza del politico fattasi scienza, bisogna constatare che nel G. l'intreccio di storia e politica è una costante. Le Storie fiorentine trasudano avversione antisoderiniana e propensione oligarchica, da parte di un G. che, prossimo ad affacciarsi alla politica, si preoccupa di corredare di storica consapevolezza la propria autocollocazione di parte. Il punto di vista interpretativo del G. piega l'esposizione di un periodo di storia patria ad andamento sussultante da crisi a crisi, in cui è attanagliata, conseguenza e causa a un tempo, la stessa Repubblica soderiniana. Per uscirne, valgono le indicazioni del Discorso di Logrogno, rispetto alla cui proposta teorica le Storie sono come preparatorie, sorta di chiarimento e conferma, già preludio del discorso teorico che sarebbe sfociato nel rimedio avanzato nel Discorso. Il passato è adoperato a predisporre - lungo i riscontri delle agitazioni intestine - argomenti per la delineazione di un assetto statale garante di stabilità e pace sociale. È nel cruccio di una soluzione per il presente che il G. rivanga nella storia patria, convinto che la soluzione competa alla propria classe: di questa e per questa il G. è storico e, pure, ideologo.

L'esordio del G. come storico coincide dunque con la determinazione a schierarsi nel campo della moderata oligarchia contraria alla politica - giudicata dissennata - del gonfaloniere Piero Soderini. Ma questa militanza rimase confinata alla sfera della riflessione personale: le Storie fiorentine non furono pubblicate e inedito rimase pure il Discorso di Logrogno, sicché quest'ultimo non divenne un manifesto programmatico. Se, nelle Storie fiorentine, un minimo riecheggia l'animus militante dell'autore, l'astensione dalla pubblicazione è già indicativa di una rinuncia a insistere in tal senso. Intendere significa constatare l'ininfluenza sugli eventi delle umane aspirazioni: essi procedono per conto proprio, sordi al perorare di cause illusorie, sotto il dominio strapotente della fortuna. Sta all'ambizione del singolo proporsi il "particulare" conseguibile nel mondo così com'è, con l'uso della "discrezione", ossia della "prudenza naturale" affinata e irrobustita con il procedere delle esperienze. Constatato ciò, il G. non si fa per questo didatta: alla "discrezione" non dedica un trattato; è un dono della sorte, una dote naturale - se "la natura" ce l'ha negata, non c'è niente da fare - da mettere a frutto sperimentando ognuno per conto proprio e per proprio tornaconto; non è disciplina trasferibile con l'insegnamento: la si apprende "co' libri non mai", asserisce perentorio.

Tutta postuma fu la fortuna editoriale del G., a partire dall'esito a stampa, nel 1561, per L. Torrentino, in 16 libri mutila degli ultimi quattro, della Storia d'Italia, che nella successiva edizione del 1564 (G. Giolito) vedrà la luce nella sua completezza, purtuttavia relativa, data la soppressione di brani "sconvenienti". Cadono quelli attinenti al rapporto incestuoso di Alessandro VI con la figlia Lucrezia, al potere temporale della Chiesa, al confliggere delle nuove scoperte geografiche con il "versicolo del salmo" assicurante la diffusione "per tutto il mondo" della predicazione apostolica, alle "sediziosissime" parole di due giovani nobili romani esortanti "il popolo" alla ribellione antipapale. L'uscita della Storia da un lato fa svettare il G. quale storico sommo, dall'altro induce alla pubblicazione di ogni suo scritto. L'opera è la sua più grande, il suo capolavoro, e, insieme, nell'intero panorama della storiografia della penisola, il monumento più maestoso e insigne. Derogando all'autoreferenzialità della scrittura, il G. è qui impegnato in un'opera destinata alla stampa, pensata e portata avanti sempre con in mente l'utenza più allargata. La stesura, che accorpò i Commentari del 1535, fu straordinariamente rapida, tra la primavera del 1537 e l'autunno del 1538; poi, dall'inizio del 1539 sino alle soglie della morte, l'opera fu rivista, ritoccata, limata, aggiustata, perfezionata. Ne risulta la "ruina" illustrata a tappe, annalisticamente scandita, la tragedia del quarantennio di "anni miserabili" successivo alla perduta "felicità" della pace operosa garantita dall'equilibrio tessuto da Lorenzo de' Medici, troppo presto scomparso. "Acerba" per Firenze la sua morte, "incomodissima" all'Italia, sulla quale caleranno distruttive, con Carlo VIII, le "armi de' Franzesi". Catastrofico il 1494, avvio di anni lugubri, che la Storia guicciardiniana ripercorre sino al 1534, quando muore Clemente VII e viene eletto a succedergli Paolo III, fatto papa in virtù della sua senescenza malandata, ad "arte" da lui stesso ostentata, nel calcolo di un "breve pontificato".

Questa pagina finale esemplifica quanto, anche laddove la Chiesa pretende ispirazione di Spirito Santo, il G. non scorga che motivazioni interessate: nell'ottica guicciardiniana l'ultima parola resta al potere della sorte. Infatti, anche se il G. non vivrà abbastanza a lungo per saperlo, a disdetta dei calcoli del conclave, il papato di Paolo III sarà tutt'altro che "breve". Montaigne rimase sconcertato dall'assenza nella Storia di fattori propulsivi quali la "vertu", la "religion", la "coscience", rispetto ai quali il realismo guicciardiniano è drasticamente riduttivo. Ma, anche per questo serrata e compatta, l'esposizione padroneggia la proliferazione di per sé paratattica degli eventi con la griglia di una concatenazione incentrata sulle brame e sugli interessi, sugli effetti della "poca prudenza" e della "troppa ambizione", fermo restando che su di loro sovrasta arbitraria la fortuna, alla quale è inapplicabile qualsiasi parvenza di divino disegno provvidenziale. Al più, nello squadernarsi della "materia" piena di "atrocissimi accidenti", nell'addensarsi sulla sventurata penisola dell'intera soma di "calamità" dalle quali possano "i miseri mortali essere vessati", è avvertibile il vindice fulmine dell'"ira giusta di Dio". Ma di per sé infieriscono sugli uomini "altri uomini" e c'è sempre di che piangere in un'Italia destituita una volta per tutte di quella "felicità" culminante nel 1490, quasi a farle saggiare, memore di quella vertiginosa altezza, il baratro in cui sarebbe di lì a poco precipitata.

Nell'oggettivo continuum narrativo della Storia, nella presentazione come spersonalizzata delle "cose accadute alla memoria nostra in Italia", affiora la stessa mai dismessa sentenziosità aforistica dei Ricordi, a tal punto insinuata e adoperata a suo commento esplicativo che sarà agevole per Girolamo Canini stralciarne, nel 1625, ben 1181 Aforismi politici (Venezia, A. Pinelli). La Storia, per ultimare la quale il G. si sottrasse all'assunzione di un governo nello Stato pontificio propostagli da Paolo III, fu pressoché l'unica attività del G. nei pochi anni che gli restavano da vivere. Nella composizione di quella si riversò senza risparmio, animato da qualificata "fede" e in se stesso e nel genere storiografico insieme. Si tratta di una storiografia non già intesa quale militanza o come suo surrogato, ma quale orchestrazione della memoria personale a futura memoria collettiva e persino nazionale. Se dalla "materia" risulta il condizionamento ineludibile della fortuna, il G. non soggiace a questa nella misura in cui è capace di ritrarla fissandola, di volta in volta, pur nel mutare del sembiante. Indiscussa è la sovranità della scrittura nel distribuire i ruoli, nell'assegnare le parti, nel particolareggiare, nell'omettere, nell'inventare verosimili orazioni, nell'esaltare, nello svalorizzare, nel datare, nel trapassare dal fragore delle armi ai bisbigli degli intrighi, nel traslocare dall'aperto dei campi di battaglia ai segreti chiusi dentro le menti. C'è sì il fato, quel che - così nei Ricordi - "ha a essere", eppure gli accadimenti sussistono nella misura in cui lo storico li racconta.