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Scrittore italiano (Torino 1899 - Milano 1955). Fece parte del
gruppo di Rivoluzione liberale di P. Gobetti, e della Cultura di C.
de Lollis; fu redattore della Stampa (1921-28), occupandosi
specialmente di letteratura francese, dopo la caduta del fascismo
tornò a esercitare sulla Nuova Stampa la critica letteraria,
con una acutezza psicologica e una vivacità polemica che
hanno a ideali modelli il Sainte-Beuve e il Tommaseo.
Ha pubblicato raccolte di saggi (I cancelli d'oro, 1926; Galleria,
1930), un romanzo (Il passaggio di Venere, 1948), e I pensieri di un
libertino (1947; 2a ed. 1950), sorta di caustico "diario segreto".
Postumo, Colori e veleni, 1956, saggi.
*
DBI
di Felice Del Beccaro
Nato, di famiglia modenese, a Torino il 22 ott. 1899 da Catullo e da
Imelda Zironi, iniziò gli studi di ragioneria, avendo quali
insegnanti di materie letterarie A. Farinelli e F. Neri passati poi
alla cattedra universitaria: specie il secondo esercitò una
influenza decisiva su di lui. Interrotti gli studi per partecipare,
volontario, alla prima guerra mondiale, li riprese nel 1918
conseguendo il diploma di ragioniere, e successivamente
l'abilitazione all'insegnamento del francese di cui peraltro mai si
servì. Una spiccata vocazione per il giornalismo, che non gli
impedì di continuare a studiare con inesauribile
curiosità e vigile rigore, lo portò nel 1921 a entrare
nella redazione della Stampa, allora diretta da L. Salvatorelli, che
poi lasciò nel 1928 per la sua opposizione al fascismo. Qui
conobbe L. Ambrosini, diventandone amico devoto; e dopo la scomparsa
di questo si adoperò per onorarne la memoria, insistendo
sulla necessità di ristamparne le opere e di renderne
pubblico l'epistolario.
Fu per il C. un incontro particolarmente felice giacché
l'Ambrosini, giornalista e storico vivacissimo ed estroso, sempre
disposto alla polemica intelligente, dovette apparirgli come un
autentico modello, affine di idee e di temperamento. Dell'amico il
C. curò poi, in collaborazione con Salvatorelli, l'edizione
postuma delle Cronache del Risorgimento, pubblicata a Milano nel
1931, dove il sommo della scala dei nostri politici di buongoverno,
nemici di ogni retorica, sono Cavour e Giolitti.
Non è facile ricostruire la formazione del C.: la
pluralità degli interessi lo fece spaziare in differenti
settori, talvolta lontani, dalla critica letteraria a quella
teatrale, dagli studi storici a quelli politici, dal pamphlet alla
biografia, dovunque mostrando una forte personalità che gli
permise esiti originali, anticonformisti e spregiudicati.
Tra le conoscenze del C. è però possibile rintracciare
alcune linee portanti, la prima delle quali, e certamente la
più rilevante, è quella dei meniorialisti francesi da
Montaigne a Courier con una spiccata preferenza per il
Sei-Settecento (Talleniant des Réaux, Saint-Simon, Voltaire,
Diderot) e con una punta avanzata nell'Ottocento (Sainte-Beuve). Il
Settecento europeo fu, per il C., il secolo d'oro per eccellenza,
considerato come età volterriana, di libero pensiero e
anticlericale, tanto che l'Ottocento lo riteneva valido all'incirca
per una metà, laddove si regge sulle componenti che giudicava
positive per il secolo precedente. Spesso il C. è stato
paragonato ai saggisti del Settecento per la libertà del
pensiero, la causticità, l'abilità dialettica e
polemica: egli stesso amava definirsi "libertino", con evidente
richiamo all'accezione che questo vocabolo ebbe nel sec. XVIII
soprattutto in area francese. ècerto comunque il fatto che
"offrendoci, con la figura 'inattuale' del suo libertino, la
prepotenza di un gusto e di uno stile, il C. esercita spesso sul
lettore una salutare reazione, dandogli un complesso ambivalente di
impressioni che è, poi, un concreto eccitamento a pensare e a
rivedere" (Solmi).
Iniziò l'attività su La Stampa con la critica
letteraria incontrando immediatamente un largo successo. In questo
settore, che predilesse, la maniera costante di considerare l'opera
letteraria la derivò in buona parte da Sainte-Beuve,
conferendo una capitale importanza alla personalità dello
scrittore, vale a dire riconoscendo come essenziale la
responsabilità dell'uomo rispetto a Topera, per gli
inevitabili legami che ogni autore ha col proprio tempo, tanto in
funzione positiva che negativa. La struttura stessa del suo articolo
o saggio, o ancor meglio "ritratto critico", richiama ai portraits
littéraires di Sainte-Beuve. I primi saggi e articoli li
raccolse in due volumi, I cancelli d'oro (Milano 1926) e Galleria
(Torino 1930): "cancelli d'oro", per il C., quelli della nostra
tradizione classica che riteneva chiusi con l'Ottocento. Le due
raccolte ebbero un notevole successo, sulla scia di quello riscosso
dagli spregiudicati scritti allorché erano comparsi, ma
furono pressoché trascurati dalla critica in quanto il C. era
considerato un nemico del regime fascista. Infatti, in quegli anni
dell'esordio letterario, fece parte del gruppo di Rivoluzione
liberale di P. Gobetti al quale rimase strettamente fedele,
collaborando anche al Baretti.Nel '25, per i suoi interessi
politici, che lo portarono a curare ufficialmente tale settore per
La Stampa, era stato inviato dal giornale all'estero, dapprima in
Inghilterra, paese che sentiva vicino per civiltà, e poi a
Parigi ed a Ginevra. E nell'ambiente della Stampa aveva incontrato
A. Frassati.
In politica il C. può essere considerato un liberale di
sinistra (indicative le predilezioni per C. Cattaneo e G. Ferrari
che opponeva a Mazzini). Ammirava Cavour per l'empirismo politico
contro ogni impegno ideologico, e reputava Giolitti il continuatore
legittimo dell'opera cavouriana nella paziente e faticosa
costruzione dello Stato italiano (un saggio su Giolitti
pubblicò sul Ponte, V[1949], pp. 1001-1009). In sostanza,
egli era dominato da un'idea reverenziale per il vecchio Piemonte,
attivo ed onesto fino al sacrificio, al quale l'Italia doveva la
propria nascita a Stato. In questo rigore, si mostra generalmente
prevenuto verso i meridionali prospettando, con siffatto
atteggiamento, quella che sarà più tardi, di fronte al
fenomeno di massicce migrazioni interne, la diffidenza dei
settentrionali nei confronti degli abitanti del Sud. Un tale
preconcetto agiva sul C. anche nei riguardi di personaggi storici di
primo piano.
L'amicizia che lo legò al Gobetti era fondata più che
altro sulla necessità di opporsi al fascismo, mentre
dissentiva nella valutazione dell'idealismo italiano e nella fiducia
che Gobetti riponeva nella società italiana. Condivideva
peraltro l'alto senso morale e politico dell'amico e, in fatto di
cultura letteraria, quello che fu l'indirizzo del Baretti, vale a
dire il rigore con cui il periodico veniva redatto e la conseguente
posizione critica contro ogni attività dilettantesca.
Avverso ai sistemi filosofici, specialmente a quelli moderni (il
Croce costituì uno dei suoi bersagli prediletti), il C. non
ammetteva che l'ideologia si mischiasse alla politica. Per lui una
buona politica doveva semplicemente fondarsi sui principî
della Rivoluzione francese, sulla Dichiarazione del 1789, e avere
per obiettivi l'individualismo, la giustizia sociale e un'accorta
amministrazione della cosa pubblica. Per il C. "la libertà
aveva essenzialmente un valore strumentale: una libertà che
non ammette dogmi, e ciò per il fatto stesso che non si
prefigge mete definite, non insegue miti, se non per affermare il
valore eterno che ha per la coscienza di ogni uomo" (Lenti).
Il suo scetticismo verso i partiti politici e il suo disprezzo nei
confronti della borghesia grettamente conservatrice non escludevano
che gli stesso fosse borghese e conservatore. Su questo punto era
solito distinguere fra i conservatori autentici e quelli, diremo
così, spurii, collocando tra i primi coloro che non si
trasformano "in reazionari o social-pagliacci", quelli cioè
che costituiscono la "gente di spirito, con dei buoni studi, una
certa educazione, qualche decoro…". Egli lamentava, infatti, che
l'Italia difettasse di una classe borghese istruita, di una classe
pensante; e, in questo, il C. aveva certamente ancora presente la
borghesia del suo Piemonte, quella che aveva fornito i quadri
all'Italia unitaria. Teneva perciò nella massima
considerazione l'Italia del Cavour, "pacata, ordinata,
laboriosissima ed equilibratissima, che ha il senso del positivo e
del possibile", così come non nascondeva la sua nostalgica
simpatia per l'"Italietta modesta, assennata, savia e prospera, che
mise le ossa dal 1900 al 1910", che considerava appunto l'erede di
quella cavouriana.
L'ammirazione per la linea piemontese Cavour-Giolitti gli consentiva
ben poche concessioni. Tutt'al più faceva una certa stima dei
moderati toscani dell'Ottocento ("sono gretti, le loro idee di
piccola portata, i frizzi sovente volgari, il buon senso talora
ispirato dalla paura, ma rappresentano una speciale forma di
civiltà, il cui superamento, per parlare crocianamente,
può condurre a dei guai") Egli si mostrava decisamente
avverso ad ogni forma di populismo: "Il popolo, di per sé,
è incapace di far altro che sommosse"; "in pieno secolo XX la
massa non ha più indipendenza, cervello, autonomia, di quanto
ne avesse nell'anno Mille". Questa rigida posizione etica, derivata
da una prospettiva storica piuttosto angusta, oltre che da eccessiva
intransigenza e quindi scetticismo verso l'attività politica
di partito, dava luogo non di rado a spericolati esercizi nella
critica letteraria.
La letteratura fa la maggior passione del C., intendendo però
- osserva V. Santoli nella prefazione alla terza ediz. dei Pensieri
- "laletteratura come osservazione e raffigurazione incisiva delle
umane passioni e non puro esercizio di stile". Non ammetteva lo
scrittore di professione né il letterato puro; si riteneva un
intellettuale impegnato quale instancabile amante della lettura. Non
è pertanto possibile rintracciare negli scritti del C. una
qualche teoria della letteratura. Il suo orientamento è in
genere determinato dal gusto, e da sentimenti eccessivi che la
ragione, pur lucida, raramente riesce ad imbrigliare nella fase
determinante: la logica della dimostrazione asseconda con abile
dialettica la premessa, qualunque essa sia. In genere le sue
preferenze furono per un ragionevole realismo: "L'uomo descritto
secondo natura è il fondo immutabile dell'arte, e i ghirigori
di stile, quando manchi la sostanza, sono bolle di sapone. Un
episodio di costume ha buone probabilità di sopravvivere…; il
lirismo, quando non è ottimo, è caduco".
Importante fu per il C. anche l'incontro con C. De Lollis e quindi
l'introduzione nell'ambiente della rivista La Cultura, di cui fu,
negli anni 1934-35, uno degli esponenti più autorevoli:
condirettore con De Lollis e Trompeo, e dopo la morte del primo
(1928), con Solmi, allorché la rivista iniziò una
nuova serie per conto dell'editore Einaudi. Su La Cultura
pubblicò saggi particolarmente acuti, condotti in base ad una
precisa, scrupolosa e talvolta pedante documentazione, che denotano,
anche nella struttura, il positivo influsso esercitato dal De
Lollis. E si dovette al C. l'invito a collaborare rivolto a giovani
promettenti avversi al fascismo quali L. Ginzburg, M. Mila e C.
Pavese. La morte della rivista, decretata dalle autorità del
regime, avvenne col fascicolo dell'aprile 1935 e fu preceduta
dall'arresto di G. Einaudi, del C. e degli altri redattori.
Negli anni dal 1935 al '45 fu costretto al silenzio e subì
numerose persecuzioni politiche, ma non per questo interruppe la sua
attività prediletta, quella che definiva il suo "epicureismo"
(faceva suo a questo proposito un pensiero di J. Joubert: "cette
disposition à ne vivre qu'avec: son coeur et ses illusions
n'est autre chose qu'une crapule délicate"). Le sue
instancabili letture, l'osservazione attenta degli avvenimenti della
vita culturale e politica nonché del costume fornirono in
quegli anni la materia per "il libro più bello e più
ricco" del C., un "libro quasi ascetico" (così lo
definì il Trompeo): i Pensieri di un libertino, pubblicati a
Milano nel 1947.
Il C. stesso ne illustrò la genesi rifacendosi al saggio
pubblicato nell'ultimo fascicolo della Cultura (aprile 1935)sui
Libertini del Seicento a proposito di un'opera di P. Hazard, La
crise de laconscience européenne: "proseguendo in quelle
letture e riflessioni, mi venne l'idea di prender la veste
dell'esprit fort e di annotare, con la licenza e schiettezza che lo
scriver per sé e non per la stampa suggerisce, delle
considerazioni marginali che, vivendo la rivista, si sarebbero forse
trasformate in annunci, o in recensioni, almeno in parte. E
così, anno per anno, foglietto per foglietto, è nato
questo libro: quando il fascicoletto delle carte s'ingrossava, lo
toglievo dal cassetto e lo portavo al sicuro, giacché
controlli e perquisizioni, che non mancarono, facevano ritenere
sospetti i quaderni di un solitario [ … ] qui non troverà [il
lettore] né un diario politico, né un giornale intimo.
Anzi, quando scrivo 'io', non sempre san quello che figura allo
stato civile, bensì, secondo i casi, un 'io' immaginario,
ossia un altro. Non faccio della storia, né
dell'autobiografia, e quindi se attribuisco a un tale un episodio,
non rispando della scientifica esattezza, bensì della
verosimiglianza artistica…". Nella prefazione che egli pose alla
seconda edizione del 1950, rievocando la prima, tratta anche dei
rapporti ch'ebbe con alcuni esponenti della cosiddetta "fronda
fascista", con L. Longanesi e C. Malaparte, dei quali interpreta con
acume la posizione politica. In sostanza questa "fronda" si serviva
di lui antifascista per alimentare le mormorazioni ambigue contro il
regime. Il C. rivide Lunganesi nel primo dopoguerra e si
trovò a concordare con lui sul presunto fallimento della
classe politica assurta in quel tempo al patere. Longanesi gli
chiese "qualcosa d'inedito" e il C. gli consegnò il
manoscritto dei Pensieri.Illibro uscì a Milano nelle edizioni
del Longanesi nel '47, mutilato dall'editore senza una ragione
plausibile. Accolto dal pubblico con grande successo, date anche le
circostanze di tempo, fu dal C. riedito sempre a Milano nel '50 nel
testo completo, anzi aumentato, riveduto e corretto, seguendo i
consigli degli amici Salvatorelli e M. Praz, e dedicato alla memoria
di L. Ambrosini, U. Cosmo, L. Ginzburg ed agli amici della Cultura.
Una terza edizione, presentata da V. Santoli, uscì postuma a
Torino nel 1970.
Il libro, articolato, nell'edizione definitiva, in undici parti
datate dagli undici anni di silenzio, è una sorta di
zibaldone che, se per certi aspetti di rigore etico e di umore
richiama i Mes poisons del Saint-Beuve, ricorda sotto molti altri la
pubblicistica del Sei-Settecento in Italia come in Francia in quello
che ebbe di punte polemiche, acri ed estrose, e talvolta di
pettegolezzo. Nei Pensieri è necessario pertanto tener conto
della particolarità della genesi, del fatto che il C. fu
portato dagli avvenimenti ad acuire le sue qualità di
polemista mordente e corrosivo cui corrispose, riguardo al periodo
precedente, un arricchimento di stile nella direzione di una
maggiore incisività e rapidità, di un più
sicuro potere di sintesi. "Nella parzialità, nella
contraddizione così istintivo, così diciamo pure
selvatico e insieme raffinato, da ricordare da vicino un altro
piemontese parzialissimo e contradditore nato, Giuseppe Baretti, col
quale, vivido e attraente, Cajumi ebbe forse qualche
affinità" (Bernardelli).
Interessante è osservare, attraverso questi Pensieri,
ilcomportamento del C. dinanzi all'attività letteraria, i
suoi umori, i dissensi, il panorama chegli va creando fuori della
storia in un modo tutto personale, discutibilissimo ma certamente
non privo di stimoli.
Nella letteratura francese pone al sommo Voltaire, di cui ammira
soprattutto la "stupenda aridità", attorniato dai
memorialisti già citati, a cominciare da quelli del secolo
XVII. Considera V. Hugo il maggiore dell'Ottocento, in particolare
quello degli Châtiments, esubito dopo pone G. Flaubert: la
letteratura dopo il naturalismo non rientra nel suo schema.
Dell'Ottocento fa gran conto anche dei maggiori narratori russi:
Tolstoj, Dostoevskij e, un gradino al disotto, Gorkij.
Della letteratura italiana le sue preferenze vanno all'Ariosto e a
taluni minori, generalmente "libertini", dello stesso Cinquecento:
il Molza, il Firenzuola, i berneschi. Poi salta al Leopardi,
grandissimo, e rifiuta il Manzoni. Ha una spiccata predilizione per
gli scrittori dal temperamento ricco e con una punta di estro
bizzarro: così si giustifica la sua rivalutazione del
Batacchi, del Guerrazzi, di C. Bini. In quanto al Novecento, lo
liquida quasi in blocco. Si è detto dell'antipatia verso il
Croce. Stimava D'Annunzio per la vocazione umanistica, ma non poteva
sopportarne le implicazioni politiche. Dopo D'Annunzio tutto o quasi
gli appare negativo: La Voce un "fenomeno da caffé di
provincia". Egli se la prese anche col Panzini a causa del suo libro
su Cavour che stroncò, documenti alla mano. Altri suoi
bersagli furono Prezzolini, C. Papini, A. Soffici, U. Ojetti, il
quale ultimo ebbe a definire il C., riferendosi ai primi scritti,
"un limone sott'aceto". Nella prima parte dei Pensieri, quella che
si intitola Eresie, il C. tocca il tema della poesia contemporanea
e, citando suoi versicoli giovanili, fa di questi più conto
delle "scarse e modeste ejaculazioni in Saba, Ungaretti e compagni"
(si veda anche a questo proposito l'articolo L'Italia conta seicento
poeti, nella Stampa, 16marzo 1945). Su Il Lavoro del 28 dic. 1935
fece un bilancio del romanzo contemporaneo, escludendo i prodotti
commerciali. Tracciò polemicamente due linee, corrispondenti
a due correnti: una di destra, provinciale, da Verga a Tecchi, e
l'altra moderna, anzi europea, da Moravia a Loria, e finì per
valutare positivamente autori secondari e soltanto episodici.
Più tardi lo stesso Moravia passò nel novero dei suoi
innumerevoli obiettivi polemici. Fra i critici stimava E. Camerini,
operante nell'Ottocento, per la sua spregiudicatezza che avvertiva
congeniale, ed apprezzava, fra i pochi altri contemporanei, E.
Cecchi, P. Pancrazi e S. Solmi.
A parte il gusto e insieme il divertimento di andare contro
corrente, ciò che spingeva il C. ad assumere di preferenza
posizioni polemiche, eccentriche e paradossali (le sue critiche
suscitarono reazioni vivaci e non di rado violente), era in fondo la
sua puntigliosa e mai soddisfatta ricerca dell'uomo dietro lo
scrittore, dell'uomo integerrimo e coerente ad ogni costo secondo un
modello astratto che portava inevitabilmente a storture di giudizi
in nome di una moralità intransigente oltre ogni limite.
Scrisse anche un breve romanzo d'amore, Il passaggio diVenere
(Torino1948), che certamente ebbe per modello Volupté di
Sainte-Beuve, un "tentativo di innesto di certa vena di scabroso
realismo novecentesco (si penserebbe a Pavese, ma il racconto di C.,
stampato nel 1948, fu scritto nel 1934, cioè in epoca
anteriore ai maggiori racconti di Pavese), su moduli maupassantiani"
(Solmi).
Il romanzo, dedicato con una prefazione epistolare al Trompeo,
artisticamente è però opera mancata, pur mostrando
"qualcosa come un'ombra d'aria malinconica gettata sul troppo
disinvolto atteggiamento del 'libertino' nelle cose del sesso e
dell'amore, qualcosa come una frattura nell'irta corazza del
polenusta" (Solmi), insomma una rapida apertura su di un mondo
intimo tenuto gelosamente segreto.
Negli anni giovanili, aveva tradotto dal Molière (Il
misantropo, Torino 1924) e da Th. E. Lawrence (La rivoltanel
deserto, Milano 1930), nonché da G. L. Strachey;
commentò le poesie di E. Ragazzoni e curò, poco prima
di morire, una scelta delle opere del Guerrazzi e del Bini,
antologia tendenziosa ma, come sempre, ineccepibile in quanto ad
apparato.
Dopo aver dovuto metter da parte il giornalismo di professione,
aveva lavorato presso Bemporad a Firenze, e poi presso Treves a
Milano dove ebbe mansioni di vicedirettore, per entrare infine nel
mondo industriale quale accorto imprenditore ed esperto uomo
d'affari, settore in cui operò sino alla morte, quando
ricopriva le cariche di amministratore delegato della Società
Cokitalia e di vicepresidente del Comitato produttori coke di
Torino. Nell'ultimo dopoguerra collaborò a La Nuova Europa, a
Lo Stato moderno dalui stesso fondato a Milano insieme con altri
amici milanesi, a IlMondo di M. Pannunzio, e fu critico teatrale
dell'Illustrazioneitaliana.
Morì a Milano il 7 ott. 1955.
Postumi uscirono Colori e veleni (Napoli 1956), una raccolta di
articoli e saggi dedicata alla memoria di F. Neri e con prefazione
di P. P. Trompeo, progettata inizialmente come una seconda
Galleria;ed un saggio su Pietro Pancrazi (Cortona 1957). Aveva anche
in mente, come scrisse nella prefazione alla seconda edizione dei
Pensieri, di raccogliere, quasi a concludere il suo ciclo di
attività, gli scritti politici comparsi nella Nuova Europa e
nello Stato moderno nonché in qualche altro periodico, che
avrebbe voluto intitolare significativamente L'ateo politico,
secondo i suoi principi di esercitare l'attività politica
senza sostegni ideologici.