www.treccani.it
di Francesca Sofia
Nacque a Piacenza il 19 genn. 1767 da
Gaspare e Marianna Coppellotti. Rimasto orfano a cinque anni del
padre e a tredici della madre, andò a vivere con lo zio
materno Giovanni, giurista e avvocato piacentino, che lo
avviò alla carriera ecclesiastica. A tal fine entrò
nel novembre 1784 nel collegio Alberoni, da cui uscì solo
nell'agosto 1793, dopo aver ricevuto tutti gli ordini religiosi,
compreso il sacerdozio. I nove anni trascorsi nel collegio, noto
centro di irradiazione dell'illuminismo cattolico, permisero al G.
di familiarizzarsi con le correnti filosofiche sperimentali, ma
dovettero pure infondergli un acuto senso di insofferenza verso le
costrizioni che frenavano la sua inesauribile sete di conoscenza.
Sono ascrivibili all'ultimo scorcio della sua permanenza al collegio
le prime, consapevoli testimonianze della sua adesione entusiastica
agli ideali politici giacobini e antirealisti provenienti
d'Oltralpe, tra le quali la composizione di due tragedie, il
Caligola e il Tiberio, esemplate sul modello antitirannico
alfieriano e per il momento rimaste manoscritte.
Uscito dal collegio con l'abito talare, il G. andò a vivere
con il fratello Lodovico e, privo di un incarico ecclesiastico,
dovette adattarsi a fare il precettore in casa dei marchesi
piacentini Paveri Fontana. La nuova occupazione e la
possibilità di tenersi al corrente delle novità ne
rafforzarono le convinzioni politiche, portandolo, subito dopo
l'entrata dei Francesi a Milano, a schierarsi con i sostenitori in
Italia della causa democratica. Nel luglio 1796 il G. iniziava a
collaborare con il milanese Giornale degli amici della
libertà e dell'uguaglianza, pubblicandovi tra l'altro un
notevole articolo in cui esortava il Direttorio francese ad
adempiere alla promessa di liberazione dell'Italia; meno di un anno
dopo - il 26 giugno 1797 - risultava essere l'autore della memoria,
sottoscritta con il motto Omnia ad unum, che la Società di
pubblica istruzione dichiarò vincitrice del concorso bandito
il 27 sett. 1796 dall'amministrazione generale della Lombardia sul
tema Quale dei governi liberi meglio convenga alla felicità
d'Italia?
La dissertazione, pubblicata in forma privata dallo stesso G. a
Milano nel gennaio 1798, dopo che erano rimasti infruttuosi i
tentativi del governo di dar corpo a un'edizione ufficiale emendata
e corretta, valse a consacrare la fama del G. agli occhi dei
contemporanei e dei posteri, essendo a lungo considerata una delle
più precoci testimonianze d'ispirazione democratica del
Risorgimento italiano. Divisa in tre parti, dedicate rispettivamente
a dimostrare che cosa bisognasse intendere per governo libero, quale
forma di Stato convenisse all'Italia e in che modo portarla ad
attuazione, la Dissertazione s'impose all'attenzione soprattutto per
la seconda parte, laddove il G. perorava l'unificazione politica
dell'Italia quale unica soluzione praticabile per estinguere i
privilegi e dar vita a uno Stato democratico.
Quando lo proclamarono vincitore il G. era però detenuto dal
14 marzo 1797 nelle carceri di Piacenza, imputato di aver celebrato
messe a scopo di lucro, ma in realtà perseguito per le sue
dichiarate simpatie patriottiche. Restò in carcere otto mesi,
finché le autorità cisalpine, e forse Napoleone
Bonaparte in persona, intervennero a liberarlo. Riparato
immediatamente a Milano, il G. si liberò dell'abito talare e
accettò in un primo tempo la nomina e il connesso stipendio
di redattore del Gran Consiglio della Repubblica. Ma dieci giorni
dopo, il 7 dic. 1797, si dimetteva, consapevole che nella magmatica
e turbolenta realtà cisalpina una tale carica pubblica gli
avrebbe consentito di agire unicamente da spettatore e non da
interprete.
Da quel momento il G. andò progressivamente scoprendo la sua
vocazione più specifica e più originale, quella di
diffusore e promotore di opinione, annodando con il pubblico un
ideale rapporto di tipo contrattuale destinato a rinsaldarsi con gli
anni. Il 20 genn. 1798 fondava con U. Foscolo e G. Breganze il
Monitore italiano, impegnandosi con i suoi numerosi articoli a
stigmatizzare la miope politica dei legislatori della Cisalpina e
soprattutto il progressivo asservimento della Repubblica al volere
del Direttorio francese. Già in questi primi interventi il G.
iniziava a far sfoggio dell'ironia, ora giocosa ora salace, che
doveva contrassegnare la sua lunga carriera di pubblicista,
convinto, come scriveva egli stesso nel n. 6 del Monitore, che il
giornalista democratico "non meriterà di esser confuso colla
vil turba de' schiavi, se fiancheggiando la troppo debole ragione,
screditerà le abitudini monarchiche colla finezza del
dileggio, col sarcasmo la malignità orgogliosa, colle satire
amare la tirannia, che si veste delle forme repubblicane" (Dubbj
sull'articolo Politica, inserito nel n. 4 del Monitore italiano, in
Opere minori, I, Lugano 1834, p. 209). Mentre contribuiva a fare del
periodico una delle voci più alte dell'opposizione
costituzionale alla Francia, il G. iniziava anche a ricredersi sulle
potenzialità palingenetiche delle istituzioni democratiche
che aveva esaltato nella Dissertazione, a indagare sugli "inveterati
pregiudizi popolari", a misurare lo scarto tra il sentire del volgo
e le idee dei filosofi e a suggerire la sperimentazione di nuove
politiche di costruzione del consenso, capaci di incidere
sull'immaginazione e sui sensi, piuttosto che sulla ragione.
In ideale proseguimento di un articolo pubblicato sul Monitore
dell'11 marzo 1798 e rimasto interrotto per l'intervento del
generale in capo dell'Armata d'Italia A. Berthier, il G. dava alle
stampe dieci giorni dopo, a Lecco, l'opuscolo Riflessioni sul
trattato d'alleanza tra le Repubbliche Cisalpina e Francese, con il
quale, definendo le richieste avanzate dalla Francia "il tratto del
lupo coll'agnello" (ibid., p. 118), si faceva il portavoce
più rigoroso della protesta di libertà contro
l'asservimento che minacciava il paese. D'altro canto, si
distanziava anche dalle posizioni dei patrioti più
estremisti, consapevole che il diritto alla critica sarebbe
risultato vano senza il sussidio di efficaci garanzie giuridiche e
che solo la libertà di espressione, e non una politica
repressiva, avrebbe condotto con il tempo all'affermazione di una
coscienza repubblicana; quando il Monitore veniva soppresso proprio
per la sua tenace rivendicazione d'indipendenza (13 apr. 1798), il
G. dette alle stampe una serrata requisitoria contro la legge votata
dieci giorni prima dal Gran Consiglio con la quale la patria veniva
dichiarata in pericolo e si perseguivano penalmente i trasgressori
(Analisi della legge contro gli allarmisti emanata dal Corpo
legislativo cisalpino nel 10 ventoso anno 6° repubblicano,
Milano 1798); allo stesso tempo, in nome del diritto incoercibile
alla felicità individuale e alla libertà
d'associazione si ergeva a protettore delle comunità
monastiche minacciate di scioglimento da un progetto legislativo (I
frati e le monache. Lettera al Consiglio dei seniori, Milano, 5
maggio 1798).
Ma è negli avvenimenti convulsi che sconvolsero la Cisalpina
nel secondo semestre del 1798, con i ripetuti rimaneggiamenti
governativi e costituzionali attuati dagli inviati francesi, che il
G. legò compiutamente il tema dell'indipendenza nazionale con
quello di una necessaria riforma morale. Con una serie di opuscoli
pubblicati a poca distanza di tempo tra il maggio e il luglio -
Quadro politico di Milano; Apologia al Quadro politico di Milano;
Cos'è il patriotismo? Appendice di M. Gioia al quadro
politico di Milano - il G. offriva un ritratto impietoso della
classe politica cisalpina, connotata da improvvisazione,
pressappochismo e corruzione, quasi a voler innescare un'ultima
riscossa morale a fronte delle violazioni della legalità che
si profilavano all'orizzonte e ad affermare l'insopprimibile diritto
alla libertà di stampa: e va ricordato che la sua iniziativa
ebbe effetto, perché la pubblicazione del Quadro politico
aprì un animato dibattito nella Cisalpina, che portò a
schierarsi al fianco del G. anche il ministro della Giustizia, al
quale il Direttorio si era rivolto per punire l'autore. Nello stesso
torno di tempo il G. presentava, largamente fuori dei termini
fissati dal bando, una memoria al concorso bandito dal ministero
degli Interni sull'organizzazione dei teatri nazionali, in cui,
approfondendo alcuni spunti già ventilati nella Dissertazione
e nell'attività giornalistica di quei mesi, indicava nel
teatro lo strumento più appropriato per l'acculturazione
democratica delle classi popolari, purché fosse un teatro che
al modello "sublime" sostituisse argomenti cari alla
sensibilità del popolo.
Il 22 agosto, vale a dire a ridosso dell'ormai ineludibile riforma
di segno conservatore progettata dall'ambasciatore francese a
Milano, Ch.-J. Trouvé, il G. iniziava la pubblicazione di un
nuovo giornale, Il Censore, dove, pur continuando a indicare le
malefatte dei governanti cisalpini, si soffermava sul pregiudizio
dei Francesi verso i patrioti italiani e soprattutto sulla
rivendicazione morale del valore dell'indipendenza. Una volta
emanata la nuova costituzione (1° sett. 1798), il Censore, dopo
solo quattro numeri, fu ovviamente uno dei primi giornali a fare le
spese della censura preventiva introdotta nel testo. Colpito da
proscrizione in base all'abolizione della precedente norma
costituzionale che concedeva la cittadinanza ai "benemeriti della
Repubblica", il G. riuscì a salvarsi con i successivi
rimpasti governativi operati dal generale G. Brune e
dall'ambasciatore F. Rivaud, ottenendo l'agognata concessione del
titolo di cittadino.
Nel corso dei primi giorni del 1799 è avvertibile nel G. un
progressivo allineamento alle posizioni governative, giustificabile
in parte con l'agitata situazione politica internazionale:
nell'opuscolo I partiti chiamati all'ordine, pubblicato il 3
gennaio, si ergeva a paladino del nuovo testo costituzionale,
riuscendo a farne diffondere dal governo 6000 esemplari; il 24
gennaio, "annojato piuttosto che stanco delle proscrizioni",
iniziava la pubblicazione di un nuovo giornale sottoscritto per
mille copie dallo stesso governo, la Gazzetta nazionale della
Cisalpina (n. 1, 5 piovoso anno VII [24 genn. 1799]; ora in Opere
minori, XIII, p. 174). Tuttavia, il sussidio governativo non era
sufficiente a tarpare l'indomabile indipendenza di giudizio dello
scrittore: il 18 febbraio, con il pretesto di un giudizio caustico
sulla politica estera francese inserito nel n. 4 del giornale, ma in
realtà su richiesta del ministro della Guerra M. de Vignolle,
stanco delle frequenti censure espresse dal G. sul suo operato, la
Gazzetta veniva soppressa. Lo stesso giorno il G. lanciava un altro
foglio, il Giornale filosofico politico, rivendicando l'impegno
preso con i sottoscrittori privati. Ciò non gli impediva
comunque di ergersi ad avvocato dei commissari del Tesoro, a suo
dire indebitamente accusati di peculato dal Corpo legislativo e
illegittimamente destituiti (Risposta degli ex-commissari del Tesoro
nazionale all'opuscolo intitolato "Il rappresentante Pozzi al
Governo e alla Nazione", Milano, 25 marzo 1799). Anche la nuova
iniziativa giornalistica, in cui il G. si dedicò in
particolare a riferire i lavori delle assemblee legislative, ebbe
vita breve: il 17 aprile il Direttorio esecutivo ordinava l'arresto
del G., dando soddisfazione alle proteste dell'ambasciatore di Parma
presso la Cisalpina, indignato per una richiesta di indennizzo della
carcerazione presentata dal G. al duca Ferdinando. Il ritorno degli
Austro-Russi, di poco successivo, comportò perciò per
il G. unicamente il trasferimento in quel carcere del S. Uffizio di
Piacenza dal quale era stato catapultato nel 1797 a Milano.
Questa volta il G. rimase in carcere quattordici mesi. Tornato di
nuovo a Milano dopo la vittoria di Marengo, malandato in salute e a
corto di denaro, inizialmente cercò invano di promuovere
presso il governo cisalpino un provvedimento di risarcimento dei
danni subiti dai repubblicani durante l'occupazione austro-russa
(Problema politico e civile, se sia dovuto ai democratici
perseguitati sotto l'interregno tedesco un'indennizzazione, Milano
anno IX [1800]). In quegli stessi mesi le angherie patite durante la
Restaurazione dovevano dettargli una condanna senza appello della
società d'antico regime, identificata tout court nella
barbarie, come testimoniano sia l'opuscolo dedicato al Bonaparte,
Idee sulle opinioni religiose e sul clero cattolico (Milano, 9 sett.
1800), sia il dramma La Giulia, ossia L'interregno della Cisalpina
(ibid., 1801). Per converso gli ideali politici repubblicani del
triennio venivano precisandosi ai suoi occhi in un insieme di valori
collettivi orientati alla civilizzazione e all'individualismo, dal
G. ricondotti alla matrice evangelica (La causa di Dio e degli
uomini difesa dagli insulti degli empi e dalle pretensioni dei
fanatici, ibid. 1800). Privo comunque di risorse, si risolse a
chiedere una forma di sussidio al governo e per interessamento del
ministro F. Pancaldi venne nominato il 5 apr. 1801 "istoriografo
della Repubblica". All'uopo, e per tutta la durata della seconda
Cisalpina, lavorò indefessamente a raccogliere materiali per
una storia del triennio rivoluzionario, le cui linee interpretative
vennero pubblicate a Milano solo nel 1805 con il titolo I Francesi,
i Tedeschi, i Russi in Lombardia. Saggio popolare. Nel frattempo,
prendendo spunto dal rincaro del pane registratosi in quegli anni,
sfociato in alcuni tumulti in Emilia e in Valtellina, dava alle
stampe, sempre a Milano, tra l'ottobre del 1801 e il febbraio
successivo il saggio Sul commercio de' commestibili e caro prezzo
del vitto. Opera storico-teorico-popolare.
Ispirandosi alle opere antivincolistiche di P. Verri, il G. vi
delineava il primo abbozzo della sua teoria economica, già
chiaramente influenzata dagli scritti di C.-A. Helvétius e J.
Bentham: l'affermazione della libertà del commercio interno
era sorretta da una visione tutta utilitaristica dell'agire sociale,
in cui l'incontro tra compratori e venditori era assicurato dal
tornaconto individuale; quello stesso tornaconto individuale,
riconosciuto al cuore del progresso collettivo, provava
l'inefficacia della tradizionale legislazione proibitiva, alla quale
il G. fin d'allora suggeriva di sostituire più adeguate
misure promozionali: il tutto argomentato attraverso la concreta,
minuziosa e ironica volgarizzazione dei materiali storici,
anticipando caratteristiche proprie dei posteriori lavori statistici
e di quelli più propriamente filosofici.
A soli due mesi di distanza, il G. pubblicava anche Il nuovo galateo
(ibid. 1802), opera senza la quale, a parere di G. Sacchi, "il nome
dell'autore sarebbe rimasto fra le labbra di pochi savj".
Ristampato e rimaneggiato più volte dall'autore (nel 1820,
nel 1822, nel 1827); edito in versioni più o meno corrette o
compendiate fin dentro al Novecento; bersaglio degli strali polemici
del giovane A. Rosmini Serbati, che a ragione v'individuava il
manifesto dell'etica laica nella Milano della Restaurazione, il
Nuovo galateo rappresentava il naturale pendant prescrittivo di
quella società tutta protesa alla ricerca del proprio
egoistico vantaggio delineata qualche mese prima. Per quanto sia
necessario ricordare che il grande successo dello scritto
iniziò a far data dalla seconda e accresciuta edizione,
l'ispirazione dell'opera s'inseriva a pieno titolo nel tentativo,
proprio al G. di quegli anni, di dar vita a una nuova civiltà
repubblicana, una forma di convivenza civile, tale da scostarsi
"tanto dalla servilità monarchica quanto dalla democratica
rozzezza". Al cuore delle buone maniere consone al consolidarsi
della società postrivoluzionaria si stagliavano una serie di
valori, definiti a partire dal 1820 "ragione sociale", equamente
distanti dagli odiosi privilegi del passato e dagli egoistici comodi
dell'oggi, e retti dall'autoregolazione razionale dei diritti e
della stima fra individui uguali.
E tuttavia quanto fosse profondo lo scarto tra questi valori, tutti
intonati al merito individuale, e l'angolazione moderata assunta
dalla neocostituita Repubblica Italiana proclamata a gennaio a
Lione, il G. dovette sperimentarlo l'anno seguente quando
tentò di inserirsi nei dibattiti preparatori del codice
civile in gestazione in Francia, intervenendo a favore del divorzio.
La sua Teoria civile e penale del divorzio (ibid. 1803), esemplata
sulle concezioni utilitaristiche del diritto di Bentham e oggetto di
accuse pubbliche da parte delle gerarchie ecclesiastiche, valse al
G. il 9 ag. 1803 la destituzione dall'incarico di storiografo,
destituzione che i vertici governativi non esitarono a
mercanteggiare nel concordato in corso con la S. Sede.
Rimasto senza stipendio, il G. mise le proprie competenze a
disposizione dei poteri locali. Sull'onda della diffusione e
rilevanza assunta nella Francia consolare dalle statistiche
descrittive dipartimentali e probabilmente dietro sollecitazione
delle stesse amministrazioni interessate, tra il novembre 1803 e il
giugno 1804 pubblicava le due Discussioni economiche sui
dipartimenti dell'Olona e del Lario, offrendo al pubblico una prima,
ragionata metodologia di analisi della società civile a uso
della pubblica amministrazione. In quello stesso torno di tempo, il
G. acquistava una compartecipazione nella tipografia milanese
Pirotta e Maspero, con cui aveva edito la maggior parte di quanto
scritto sino allora, ponendo le basi materiali di quell'immagine di
libero intellettuale imprenditore di se stesso che doveva renderlo
celebre durante la Restaurazione. Non per questo rinunciava a
sollecitare dal governo finanziamenti e un qualche impiego. Dopo
aver invano tentato di essere reintegrato nella carica di
storiografo al momento del passaggio dalla Repubblica al Regno
d'Italia, nel maggio 1805, riuscì a strappare al governo la
nomina, non certo prestigiosa, a impiegato di polizia presso la
prefettura di Milano. Per quanto facesse immediatamente presente al
viceré Eugenio Beauharnais come quell'impiego fosse inadatto
alla sua preparazione, fu solo dopo aver dato prova di
incondizionata fedeltà politica, testimoniata dalla
pubblicazione di una serie di libelli di propaganda filogovernativa
(oltre al già ricordato I Francesi, i Tedeschi, i Russi in
Lombardia,Cenni morali e politici sull'Inghilterra estratti dagli
scrittori inglesi, ibid. 1806, e Manifesto di s.m. prussiana contro
la Francia del 9 ott. 1806, corredato di note, ibid. 15 nov. 1806),
che il G. ottenne quanto da lui agognato: il 24 febbr. 1807 era
infatti nominato direttore dell'istituendo ufficio di Statistica
presso il ministero dell'Interno.
Qui in un primo tempo lavorò a raccogliere materiali per una
statistica della Dalmazia, commissionatagli dallo stesso
viceré, e a mettere ordine nelle risposte al questionario
progettato nel luglio dal ministro dell'Interno L. Arborio Gattinara
di Breme che i Comuni facevano mano a mano pervenire al centro: ma
insoddisfatto dei risultati di questa prima inchiesta, nel marzo
1808 dava alle stampe, affinché servissero da scheletro per
le successive statistiche ufficiali, le Tavole statistiche, ossia
Norme per descrivere, calcolare, classificare tutti gli oggetti di
amministrazione privata e pubblica, autentico manifesto
dell'ideologia utilitaristica da lui definitivamente acquisita. La
puntuale successione delle sette materie d'indagine - topografia,
popolazione, agricoltura, arti e mestieri, commercio,
amministrazione pubblica, carattere del popolo - rifletteva una
visione della società civile ormai univocamente risolta nella
dimensione economica e, per converso, un'immagine del pubblico
potere circoscritto a perseguire apertamente il benessere
collettivo: le Tavole apparivano in tal modo come le formule
algebriche per una ottimale soluzione del contemperamento della
felicità di tutti e di ciascuno. Seguiva nel settembre, come
coerente corollario epistemologico, la Logica statistica, anch'essa
destinata a essere notevolmente accresciuta e ristampata più
volte durante la Restaurazione con il titolo Elementi di filosofia:
qui i principî cognitivi sensisti, propri alla maggior parte
del pensiero del Settecento, venivano divulgati, alla luce dello
scacco subito dall'esperienza giacobina e degli apporti
dell'idéologie francese, attraverso un'inedita applicazione
dell'aritmetica dei piaceri e dei dolori, al fine di innescare la
razionalità tramite la persuasione.
Ma anche questa volta la visione del G. risultò non collimare
del tutto con quella ufficiale. Sottoposte all'esame di un'apposita
commissione, le Tavole vennero criticate per quanto di eversivo
contenevano rispetto a un rapporto Stato-società intonato a
una logica notabilare del potere. Il parere della commissione
ricevette subito soddisfazione da parte del ministero, il cui
segretario generale, G. Tamassia, nell'intento di distanziare le
posizioni ufficiali in materia da quelle del G., si affrettò
a pubblicare con i torchi ufficiali un opuscolo sul Fine delle
statistiche. Poco tempo dopo, il 31 dic. 1808, il G. veniva
licenziato con il pretesto di uno scontro apertosi con un suo
diretto sottoposto. Come era suo costume, il G. ritenne di chiamare
il pubblico a giudice della vertenza, dando alle stampe le risposte
a tutte le critiche ricevute (Indole, estensione, vantaggi delle
statistica. Confutazione dell'opuscolo che ha per titolo: "Del fine
delle statistiche". Risposta alle obbiezioni fatte alle "Tavole
statistiche", Milano, marzo 1809). Non pago, e forse indispettito
per un'ulteriore risposta pubblica del Tamassia, nel maggio
pubblicava il romanzo satirico La scienza del povero diavolo, in cui
sotto mentite spoglie orientali raffigurava l'incompetenza e i
favoritismi degli apparati pubblici del Regno. All'immediato
sequestro del libro seguì in luglio il decreto d'esilio, a
cui invano il G. contrappose i titoli della propria cittadinanza
(Documenti comprovanti la cittadinanza italiana di M. G., ibid.
1809). Riparato a Castel San Giovanni, vi rimase fino al novembre
1810, quando il nuovo ministro dell'Interno, L. Vaccari, lo
autorizzò a ritornare a Milano: il mese seguente ottenne
l'approvazione vicereale a continuare la redazione della statistica
del Regno in qualità di "privato scrittore". All'opera si
mise però solo nell'aprile 1812, dopo un'estenuante
trattativa con il ministero dell'Interno, definita dallo stesso G.
"un saggio d'ignoranza, piccolezza, tirannia burocratica" (Alla
Reggenza provvisoria del Regno d'Italia. Ricorso, ibid. 1814, p. 4).
In base al nuovo contratto stipulato con l'amministrazione, il G.
completò entro il maggio 1814 sei descrizioni statistiche
dipartimentali, e si accingeva a redigerne altre quando la Reggenza
provvisoria austriaca, succeduta ai Francesi a Milano, lo
diffidò dal continuare il lavoro, dichiarandosi proprietaria
di quanto aveva sino allora consegnato. Oltre a irridere
pubblicamente l'avversario, il G intentò causa al Fisco
rivendicando i propri diritti di proprietà. La vertenza, che
alla fine ebbe esito favorevole per il G., si prolungò
però fino al 1832 e non consentì quindi al G. di
decidere la sorte dei manoscritti. Venduti dal fratello ed erede
Baldassarre all'editore milanese G. Crespi, solo due riuscirono a
vedere la luce, opportunamente rivisti dalla censura austriaca: la
statistica del Mincio nel 1838 e una parte di quella dell'Agogna nel
1840.
Il primo impatto con l'amministrazione austriaca non dissuase
però il G. dal sollecitare commesse e sovvenzioni, anche per
tentare di coinvolgerla nello sfruttamento della miniera di carbon
fossile comprata nel 1814 a Leffe, in Val Gandino, acquisto
dimostratosi poi fallimentare (Dimostrazione de' vantaggi
provenienti dalla sostituzione della lignite di Valgandino alla
legna ed al carbone comune nelle manifatture e negli usi bisognosi
di continuato calore, ibid., luglio 1815). Ma presto il G. dovette
anche prendere atto della diffidenza dei nuovi governanti nei
confronti degli intellettuali. Privo di quel canale privilegiato di
diffusione delle cognizioni, il G. si trasformò allora in un
abile e oculato amministratore della propria produzione scientifica,
districandosi magistralmente tra censori, librai, contraffattori.
Sono, questi, anche gli anni in cui il G., amplificando le linee
direttrici tracciate nell'età napoleonica, diede alla luce i
suoi maggiori trattati. Tra il 1815 e il 1817 uscivano i sei volumi
del Nuovo prospetto delle scienze economiche, seguiti a breve
distanza da Del merito e delle ricompense. Trattato storico e
filosofico (Milano-Filadelfia, 1818-19). Entrambe le opere traevano
origine da un progetto in gestazione fin dal 1807 e rappresentavano
le due facce complementari, privata e pubblica, del "mondo nuovo"
apertosi con il secolo.
La prima, presentata come un compendio sistematico delle dottrine
economiche enunciate sino ad allora, costituiva la vera e propria
summa della filosofia sociale del Gioia. Ponendo a scopo
fondamentale dell'economia i tre assiomi - "Ridurre gli sforzi al
grado minimo; Portare l'utilità al grado massimo; Produrre
con forze addizionali ciò che sarebbe impossibile all'uomo
privo di esse" (Nuovo prospetto, I, p. 64) - il G. la caricava di
moderne istanze produttivistiche, socialmente tradotte nella
preferenza accordata alla manifattura sull'agricoltura,
all'imprenditore sul proprietario, alla grande coltura sulla
piccola, alle capitali sui borghi, all'associazione delle forze
sulla divisione dei lavori, all'ingegno umano che si fa tecnica
sulla routine agraria. Ma si trattava anche di un produttivismo che,
discostandosi dal pensiero economico prevalente, faceva
costantemente appello all'incentivazione governativa e non
sacrificava nella sua forza espansiva l'insopprimibile ricerca della
felicità da parte dell'individuo: significativa in tal senso
sia la sua teoria del valore, dove l'utilità dell'oggetto si
sommava alla fatica necessaria per produrlo, sia la sua esaltazione
dei consumi, perché la ricchezza non era altro che l'insieme
dei piaceri cui partecipava la popolazione. Il Nuovo prospetto si
presentava in tal modo come il manifesto di una società
indefinitamente indirizzata verso il progresso, contro le rendite di
posizione o la tutela di interessi consolidati. A questa vocazione
eudemonistica faceva eco il secondo trattato, quasi che la nuova
società vagheggiata dal G. si contrapponesse all'antica
assumendo come proprio principio regolatore il merito e le
ricompense anziché i delitti e le pene. Rivisitando e
ampliando le proposte di Bentham, il G. approntava una minuta
casistica dei meriti civili e dei modi per ricompensarli. I meriti
presi in considerazione nel trattato - e calcolati in base alla
"difficoltà vinta, utilità prodotta, fine
disinteressato, convenienza sociale" (Del merito e delle ricompense,
I, p. 1) - erano naturalmente solidali all'individualismo
soggiacente alla sua società ideale, e tra tutti
primeggiavano i meriti intellettuali.
A queste opere si accompagnavano, oltre alle nuove edizioni del
Galateo e della Logica, alcuni interventi di natura economica
direttamente legati al dibattito in corso: con il primo, oggetto di
due edizioni nel giro di pochi mesi, il G. interveniva sul rapporto
tra pauperismo e industrializzazione e riaffermava la sua fede nelle
estensive potenzialità redistributive delle manifatture
(Problema: quali sono i mezzi, più spediti, più
efficaci, più economici per alleviare l'attuale miseria del
popolo in Europa, ibid. 1817); con il secondo, si schierava a favore
della politica protezionistica adottata dal governo austriaco, in
nome della necessità di tutelare le industrie nascenti (Sulle
manifatture nazionali e tariffe daziarie. Discorso popolare, Milano
1819). Dal 1817, poi, aveva iniziato a collaborare alla Biblioteca
italiana, che usò fino alla morte come trampolino di lancio
delle proprie dottrine economiche e come tribuna delle battaglie a
difesa delle proprie convinzioni. Per quanto sollecitato e fatto
oggetto di stima da parte della rivista, il G. invece non
aderì all'impresa del Conciliatore.
Quest'ultima circostanza non gli impedì di essere inquisito
nei processi del 1820-21 e di subire l'ultima detenzione della sua
travagliata esistenza: arrestato il 19 dic. 1820, il G. fu rinchiuso
nel carcere milanese di S. Margherita e vi rimase fino al 10 luglio
1821. Come aveva già fatto in gioventù, ma questa
volta con ben altro spessore filosofico, appena liberato
pubblicò due volumi Dell'ingiuria, dei danni, del
soddisfacimento e relative basi di stima avanti i tribunali civili,
ibid. 1821, dove rivendicava, quantificandolo, il torto subito.
L'opera era inoltre dedicata a Bianca Milesi, che lo aveva assistito
durante la prigionia; ma la dedica, poiché lo scritto
conteneva una pungente critica di B. Mojon, futuro marito della
bella "giardiniera", provocò una violenta rottura tra i due,
che fece clamore nella Milano intellettuale.
Negli ultimi anni il G. ritornò sui temi gnoseologici della
propria riflessione, quasi a volerne accentuare gli aspetti
pedagogici: tra il 1822 e il 1823 usciva l'Ideologia, seguita l'anno
dopo dall'Eserciziologico sugli errori d'ideologia e zoologia, ossia
Arte di trar profitti dai cattivi libri, dove si ergeva a difensore
di un sensismo tanto lontano da un materialismo male inteso, quanto
dall'eclettismo che si stava imponendo in Francia; quindi nel 1826,
con la Filosofia della statistica, il G. tornava a indicare
minutamente, contro i nuovi detrattori d'Oltralpe della disciplina,
le fonti e i principî con cui giudicare "lo stato delle
nazioni". Nella Milano della Restaurazione la sua supremazia su
alcuni temi era talmente incontrastata che quando F. Lampato
ideò nel 1824 la pubblicazione degli Annali universali di
statistica - a cui il G. cominciò a collaborare dal 1825 -
tutti ritennero che dietro l'estensore ufficiale della rivista ci
fosse appunto lui.
Consunto da un tumore che s'era manifestato nel 1823, il G.
morì a Milano il 2 genn. 1829, in tempo per non assistere
all'eclissi della propria fama nella temperie più moderata
degli anni Trenta; una settimana prima di morire aveva consegnato a
G. Gherardini le proprie carte affinché venissero depositate
presso la Biblioteca dell'Accademia di belle arti di Brera.