Gramsci e Pirandello



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Antonio Gramsci critico di Pirandello

« Sai che io, molto prima di Adriano Tilgher, ho scoperto e contribuito a popolarizzare il teatro di Pirandello? Ho scritto sul Pirandello, dal 1915 al 1920, tanto da mettere insieme un volumetto di 200 pagine e allora le mie affermazioni erano originali e senza esempio: il Pirandello era o sopportato amabilmente o apertamente deriso». Così scriveva dal carcere Gramsci alla cognata Tatiana il 19 marzo 1927. Antonio Gramsci fu critico teatrale dell'Avanti! da Torino per quattro anni, dal 1916 al 1920. Ripubblichiamo qui di seguito tutte le sue  recensioni teatrali delle pièce di Pirandello, sicuramente un po' invecchiate, ma splendidi esempi di giornalismo e di scintillante prosa italiana .

- Pensaci Giacomino
- Liolà
- Cosi è (se vi pare)
- Il piacere dell’onestà
- A’ berritta cu li ciancianeddi
- Il giuoco delle parti
- L’innesto
- La ragione degli altri
- Tutto per bene

«Pensaci Giacomino» di Pirandello all’Alfieri.
Questa commedia di Luigi Pirandello è tutta uno sfogo di virtuosismo, di abilità letteraria, di luccichii discorsivi. I tre atti corrono tu un solo binario. I personaggi sono oggetto di fotografia piuttosto che di approfondimento psicologico: sono ritratti nella loro esteriorità più  che in una intima ricreazione del loro essere morale. É questa del resto la caratteristica dell’arte di Luigi Pirandello, che coglie della vita la smorfia più che il sorriso, il ridicolo più che il comico: che osserva la vita con l’occhio fisico del letterato, più che con l’occhio simpatico dell’uomo artista e la deforma per un’abitudine ironica che è l’abitudine professionale più che visione sincera e spontanea.
I personaggi sono di una povertà interiore spaventosa in questa commedia, come del resto nelle novelle, nei romanzi e nelle altre commedie dello stesso autore. Hanno solo delle qualità pittoriche, o meglio pittoresche: un pittoresco caricaturale, con qualche velatura di melanconia, che è anch’essa smorfia fisica più che passione. Il protagonista della commedia è un vecchio professore di storia naturale, incartapecoritosi in 34 anni d’insegnamento: un rudere d’umanità, un detrito, senza più alcuna caratteristica d’uomo all’infuori del profilo fisico. Il movente dell’azione, l’unico che si può sorprendere, è questo: il prof. Toti, che per tanti anni ha servito lo Stato, essendone ricompensato così miseramente che non ha potuto crearsi una famiglia, vuole ora vendicarsi del governo. Prima di morire vuole prendere moglie, una moglie giovanissima, per lasciarle in eredità il diritto alla pensione, per far pagare al governo in tanti anni di pensione alla giovane vedova tutti quei quattrini che egli non ha potuto avere, tutti quei quattrini che a lui sono mancati sempre per poter vivere veramente, per essere uomo e non macchina d’insegnamento. Giocare al governo questo tiro birbone diventa per il prof. Toti l’unica ragione dei pochi anni di esistenza che gli rimangono. Ma siccome non è un malvagio, non vuole che la moglie soffra, e perciò le consente le più ampie libertà; aiuta il suo sostituto nel còmpito maritale, lo ama come un figlio, e incurante di tutto, delle chiacchiere del paese, dei rimbrotti del direttore del ginnasio, del ridicolo di cui egli stesso è oggetto, va innanzi verso la mèta. Giacomino, l’amante di sua moglie, vorrebbe sciogliersi dalla situazione in cui è impigliato; il prof. Toti si reca a casa sua, gli conduce a casa sua il figlioletto, si sbarazza di ogni intralcio, di parenti sbigottiti, di sacerdoti moralisti, e perora la causa di sua moglie e finalmente riesce a condurre Giacomino nella via del dovere, a continuare il suo còmpito di marito della giovane moglie dell’impiegato che vuol vendicarsi del governo senza perciò creare altre vittime.
La commedia ha avuto molto successo, Angelo Musco ha fatto della figura del prof. Toti una creazione scenica ammirevole per sincerità, per misura, per efficacia rappresentativa.
(24 marzo 1917)

«Liolà» di Pirandello all’Alfieri.
I tre atti nuovi di Luigi Pirandello non hanno avuto successo all’Alfieri. Non hanno avuto almeno quel successo che è necessario perché una commedia diventi redditizia. Ma Liolà ciò nonostante rimane una bella commedia, forse la migliore delle commedie che il teatro dialettale siciliano sia riuscito a creare. L’insuccesso del terzo atto, che ha determinato il ritiro momentaneo del lavoro dalle scene, è dovuto a ragioni estrinseche: Liolà non finisce secondo gli schemi tradizionali, con una buona coltellata, o con un matrimonio, e perciò non è stata accolta con entusiasmo; ma non poteva finire che così come è,. e pertanto finirà con l’imporsi.
Liolà è il prodotto migliore dell’energia letteraria di Luigi Pirandello. In esso il Pirandello è riuscito a spogliarsi delle sue abitudini retoriche. Il Pirandello è un umorista per partito preso, ciò che vuol dire che troppo spesso la prima intuizione dei suoi lavori viene a sommergersi in  una palude  retorica di moralità inconsciamente predicatoria, e di molta verbosità inutile. Anche Liolà è passato per questo stadio, e allora esso si chiamava Mattia Pascal, ed era il protagonista di un lungo romanzo ironico intitolato appunto: Il fu Mattia Pascal, pubblicato verso il 1906 dalla Nuova Antologia e poi ristampato dal Treves. In seguito il Pirandello ha ripensato alla sua creazione, e ne è venuto fuori Liolà; l’intreccio rimane lo stesso, ma il fantasma artistico è stato completamente rinnovato: esso è diventato omogeneo, è diventato pura rappresentazione, libero completamente di tutto quel bagaglio moraleggiante e artatamente umoristico che lo aduggiava. Liolà è una farsa, ma nel senso migliore della parola, una farsa che si riattacca ai drammi satireschi della Grecia antica, e che ha il suo corrispondente pittorico nell’arte figurativa vascolare del mondo ellenistico. C’è da pensare che l’arte dialettale così come è espressa in questi tre atti del Pirandello, si riallacci con l’antica tradizione artistica popolare della Magna Grecia, coi suoi fliaci, coi suoi idilli pastorali, con la sua vita dei campi piena di furore dionisiaco, di cui tanta parte è pure rimasta nella tradizione paesana della Sicilia odierna, là dove questa tradizione si è conservata più viva e più sincera. È una vita ingenua, rudemente sincera, in cui pare palpitino ancora i cortici delle querce e le acque delle fontane: è una efflorescenza di paganesimo naturalistico, per il quale la vita, tutta la vita è bella, il lavoro è un’opera lieta, e la fecondità irresistibile prorompe da tutta la materia organica.
Mattia Pascal, il melanconico essere moderno, dall’occhio strabico, l’osservatore della vita volta a volta cinico, amaro, melanconico, sentimentale, vi diventa Liolà, l’uomo della vita pagana, pieno di robustezza morale e fisica, perché uomo, perché se stesso, semplice umanità vigorosa. E la trama si rinnova, diventa vita, diventa verità; diventa anche semplice, mentre nella prima parte del romanzo primitivo era contorta e inefficace. Zio Simone smania perché vuole avere un erede, che giustifichi il tenace lavoro suo che ha accumulato una ricchezza: è vecchio, e incolpa la sterilità della moglie, che non ha capito che Simone vuole un erede purchessia, vuole un bambino a tutti i costi, ed è disposto a fingere di essere egli il padre. Una sua nipote, che ha capito gli umori del vecchio, ed è stata resa madre da Liolà, propone a Simone di diventare egli il padre del nascituro, gli propone di farsi credere egli il padre, e il vecchio accetta. La moglie legittima viene percossa, viene umiliata, perché non ha fatto altrettanto. Per diventare la padrona, fa altrettanto. Zio Simone ha un figlio legale. Ma è Liolà che dà vita a queste nuove vite, e dà vita alla commedia; Liolà che ha sempre la gola piena di canti, che entra sempre nella scena accompagnato da un coro bacchico di donne, accompagnato dai suoi tre altri figlioletti naturali che sono come dei satiretti che ubbidiscono all’impulso della danza e del canto, che sono impastati di suono e di  danza come le creature primitive dei drammi satireschi. Liolà voleva sposare Tuzza, la nipote di Simone, prima che fosse imbastito il trucco dell’erede, ora che l’erede legale c’è Tuzza vorrebbe essere sposata, ma Liolà non vuole, non vuole rinunziare ai suoi canti, alla danza dei suoi figlioli, alla vita dionisiaca del lavoro lieto: e il pugnale di Tuzza è stroncato dalle sue mani che però non sanno l’odio e la vendetta. Ma per il pubblico ci voleva il sangue o il matrimonio, e perciò il pubblico non ha applaudito.
(4 aprile 1917).

« Casi è (se vi pare)» di Pirandello.
La verità in sé non esiste, la verità non è altro che l’impressione personalissima che ciascun uomo ritrae da un certo fatto. Questa affermazione può essere (anzi è certamente) una sciocchezza, un pseudogiudizio emesso da un facilone spiritoso, per ottenere con gli incompetenti un successo di superficiale ilarità. Ma ciò non importa. L’affermazione può dare luogo a un dramma lo stesso: non è detto che i drammi succedano per ragioni logicissime. Ma Luigi Pirandello non ha saputo trarre dramma da questa affermazione filosofica. Essa rimane esteriorità, essa rimane giudizio superficiale. Dei fatti si svolgono, delle scene si susseguono. Non hanno altra ragion d’essere che questa: la curiosità pettegola di un piccolo mondo provinciale. Ma neppure essa è una vera ragione, una ragione necessaria e sufficiente di dramma; e non è neppure motivo a rappresentazione viva e artistica di caratteri, di persone vive che abbiano un significato fantastico, se non logico. I tre atti di L. Pirandello sono un semplice fatto di letteratura, privo di ogni connessione drammatica, privo di ogni connessione filosofica: sono un puro e semplice aggregato meccanico di parole che non creano né una verità, né una immagine. L’autore li ha chiamati parabola: l’espressione è esatta. La parabola è un qualcosa di misto tra la dimostrazione e la presentazione drammatica, tra la logica e la fantasia. Può esser e mezzo efficace di persuasione nella vita pratica, è un mostro nel teatro, perché nel teatro non bastano gli accenni, perché nel teatro la dimostrazione è impersonata in uomini vivi, e gli accenni non bastano più, e le sospensioni metaforiche devono scendere al concreto della vita, perché nel teatro non bastano le virtù dello stile per creare bellezza, ma è necessaria la complessa rievocazione di intuizioni interiori profonde di sentimento che conducano a uno scontro, a una lotta, che si snodino in una azione.
La dimostrazione è fallita nella parabola di Pirandello. La verità in sé non esiste, esiste l’interpretazione che essa dànno gli uomini. L’interpretazione è vera, quando di un fatto rimangono tali documenti da permettere agli uomini di buona volontà la vera interpretazione. Del fatto che dà luogo alla parabola esistono solo due testimoni-documenti: e i due sono interessati al fatto, e non appaiono che esteriormente, nell’apparenza sensibile che si sviluppa da motivi che rimangono inesplorati. In un paese di provincia arrivano tre personaggi superstiti del terremoto della Marsica. marito, moglie e una vecchia. La loro vita è circondata di mistero. Il mistero solletica tutte le curiosità pettegole del paese: si ricerca, si indaga, si fa intervenire l’autorità. Nessun risultato. Il marito sostiene una cosa, la vecchia un’altra, uno lascia credere che l’altra sia pazza: chi ha ragione? Il signor Ponza sostiene d’essere vedovo di una figlia della signora Frola, d’essersi riammogliato e di tenere con sé (nello stesso paese, ma in diversa casa) la Frola solo per un sentimento di pietà, perché la poveretta, impazzita alla morte della figliola, crede che la seconda signora Ponza sia sua figlia, sempre viva. La signora Frola sostiene che il Ponza abbia avuto in un certo momento della sua vita un oscuramento della ragione: che in quel periodo gli sia stata sottratta la moglie e che egli l’abbia creduta morta, e non si sia voluto ricongiungere con lei che in seguito a un nuovo matrimonio simulato, dandole un altro nome, credendola un’altra persona. I due separatamente sembrano saggissimi, messi a confronto, devono risultare in contraddizione, sebbene reciprocamente operino come se veramente uno faccia la commedia per pietà dell’altro. Quale è la verità? Chi dei due è il pazzo? Mancano i documenti: il paese loro d’origine è distrutto dal terremoto, chi potrebbe informare è morto. La moglie del Ponza fa una breve apparizione, ma l’autore preso nell’incanto della sua dimostrazione, ne fa un simbolo: la verità che appare velata, e dice: io sono l’una e l’altra cosa, io sono ciò che si crede io sia. Uno sgambetto logico semplicemente. Il vero dramma l’autore l’ha solo adombrato, l’ha accennato: è nei due pseudopazzi che non rappresentano però la loro vera vita, l’intima necessità dei loro atteggiamenti esteriori, ma sono presentati come pedine della dimostrazione logica. Un mostro pertanto, non una dimostrazione, non un dramma, e come residuo, del facile spirito e molta abilità scenografica.
Hanno interpretato i tre atti la Melato, il Betrone, il Paoli, il Lamberti con molta vivacità e abilità dialogica. Pochi applausi a ogni chiusura di velario.
(5 ottobre 1917)

« Il piacere dell’onestà» di Pirandello al Carignano.
Luigi Pirandello è un « ardito» del teatro. Le sue commedie ,sono tante bombe a mano che scoppiano nei cervelli degli spettatori e producono crolli di banalità, rovine di sentimenti, di pensiero. Luigi Pirandello ha il merito grande di far, per lo meno, balenare delle immagini di vita che escono fuori dagli schemi soliti della tradizione, e che però non possono iniziare una nuova tradizione, non possono essere imitate, non possono determinare il cliché di moda. C’è nelle sue commedie uno sforzo di pensiero astratto che tende a concretarsi sempre in rappresentazione, e quando riesce, dà frutti insoliti nel teatro italiano, d’una plasticità e d’una evidenza fantastica, mirabile. Così avviene nei tre atti del Piacere dell’onestà. Il Pirandello vi rappresenta un uomo che vive la vita pensata, la vita come programma, la vita come « pura forma». Non è un uomo comune questo Angelo Baldovino. È stato un briccone, è un relitto, secondo le apparenze. Non è, in verità, che un uomo verso il quale la società ha avuto il torto di essere tale per cui la « pura forma» è in realtà adeguata al resto della realtà. Il Baldovino si innesta nella commedia in un ambiente favorevole e vive la sua vita. Diventa il marito legale di una nobile signorina che è stata resa madre da un uomo ammogliato. Accetta la parte, ponendosi degli obblighi di onestà, e ponendone agli altri, e sviluppa il suo pensiero. Diventa subito ingombrante: il suo pensiero si  realizza per sé, ma scombussola tutto l’ambiente e arriva a questo punto morto preveduto dal Baldovino, ma paradossale per gli altri; è necessario che il marchese Fabio, il seduttore, diventi ladro, perché la « pura forma» si sviluppi in tutta la sua logica, e Baldovino appaia essere il ladro, pur rimanendo accertato per tutti gli interessati che il vero ladro è il marchese, e che non impunemente si accettano dei contratti in cui la logica e la volontà uno deciso a rispettarla, sono elementi essenziali. Arrivati a questo punto di scomposizione e di dissoluzione psicologica, la commedia ha uno svolto pericoloso, e un po’ confuso.  Le reazioni sentimentali hanno il sopravvento: la bricconeria effettiva del marchese Fabio prende un risalto di una evidenza umoristica catastrofica, e la moglie putativa diventa moglie effettiva e appassionata del Baldovino, che non è un briccone un galantuomo, ma solo un uomo che vuole essere l’uno e l’altro, e sa essere effettivamente galantuomo, lavoratore, perché queste parole non sono che attributi contingenti di un assoluto che solo il pensiero e la volontà creano e alimentano.
La commedia di Pirandello ha avuto un crescendo di applausi, dovuto alla virtù di persuasione insita nel processo fantastico dell’intreccio. Ruggero Ruggeri sosteneva la parte del Baldovino, la Vergani quella della signorina, poi signora Agata Baldovino, il Martelli quella del marchese Fabio. Col Pettinello e la Mosso presentarono un insieme interpretativo ottimo, ciò che contribuì a far rilevare meglio il dialogo serrato e pieno di scorci della commedia.
(29 novembre 1917)

«A’ berritta ccu li ciancianeddi» di Pirandello all’Alfieri.

È una parentesi nel teatro di Luigi Pirandello, un episodio, un abbozzo. Rientra nel suo genere, è prodotto autentico del temperamento personalissimo dell’autore, ma non è stata elaborata, e rifinita come le altre commedie. Lo spunto stesso ridiventa comune. Nelle altre commedie il motivo non esce certo dalle esperienze del passato, siano esse intellettuali, siano sentimentali, ma l’autore svecchia il motivo antico, lo presenta rivestito di peculiarità caratteristiche, i personaggi sono suoi, della sua fantasia, le parole che dicono hanno una vita nuova, di stile e di passione. In questi due atti c’è poca intensità: la dimostrazione soverchia l’azione, la diluisce, la svanisce. A’ berritta ccu li ciancianeddi continua la serie delle altre commedie, è un residuo delle altre commedie: continua la rappresentazione esemplificata delle contraddizioni tra l’essere e il voler essere, tra l’apparenza e la realtà, tra l’immagine e il vero, che hanno avuto due momenti drammatici nel Così è (se vi pare) e nel Piacere dell’onestà. Ma in questi due atti il sofisma, il paradosso non acquista pregio nel dialogo, non suscita dramma originale: qualche battuta, qualche piccola scena, la vita è solo nell’interprete in Angelo Museo, che riesce a far superare il tedio delle lunghe parlate non più interessanti spesso di quelle del più melenso scrittore di teatro.
C’è qui il marito tradito, marito vecchio, brutto e innamorato, che non vuole diventare lo zimbello del paese, che non vuole sul suo capo la berretta coi sonagli della beffa, dello scherno. Egli sopporta il tradimento per conservare la donna, poiché è sicuro del segreto. Teorizza lo sdoppiamento dell’uomo in quanto intimità e in quanto termine di relazione sociale: vuole il rispetto umano, vuole la tranquillità. Il segreto viene propalato con uno scandalo clamoroso. La moglie viene colta in flagrante adulterio. Un tranello è stato teso dalla moglie gelosa dell’adultero, e l’arresto dei due colpevoli rovinerà l’esistenza di don Nuccio, se egli non riesce a far credere che si tratta di una pazzia, che l’accusatrice è stata una pazza. Così si chiudono i due atti: il marito becco pone un dilemma: o la strage dei due colpevoli sua, moglie e l’amante, o la finzione della pazzia nell’accusatrice nella donna gelosa che non ha pensato che a se stessa e ha rovinato un quarto innocente. E don Nuccio ottiene questa finzione indirettamente, facendo esasperare la donna, traendola a urlare, a inveire incompostamente goffamente contro di lui, facendosi chiamare becco dalla signora che diventa una furia, che perde la sua apparenza civile e lascia senza freni la vena di follia che esiste in ogni umano.
La commedia si impernia tutta su Angelo Museo, che riesce colla sua comicità misurata, fluida nel lungo discorso, ossessionata, irresistibilmente trascinatrice nel momento culminante a destare l’interesse degli spettatori, che si raccoglie nei due atti  per dilatarsi ed espandersi nella risata finale.
(27 febbraio 1918)

«Il giuoco delle parti» di Pirandello al Carignano.
Nel primo atto del Giuoco delle parti, Luigi Pirandello inizia la presentazione della « moglie» come personificante la visione che della fisica della vita hanno gli scultori e i pittori del futurismo postcubistico: l’inferiorità spirituale è una scomposizione di volumi e di piani che si continuano nello spazio, non una limitazione rigidamente definita in linee e superfici. Il « marito» invece è fortemente accentrato in un io ragionante, ben levigato e ravviato come un Concetto puro, che gira intorno a un pernio, trottola silenziosa che la volontà, resa libera da ogni contingenza condizionatrice, fa roteare sopra un piano di vetro. Evidentemente le due creature non possono sistemare un ordine di rapporti di convivenza affettuosa: il marito è impenetrabile ai piani e volumi vibratili della moglie, e questa, non riuscendo a continuarsi nel marito, se ne sente limitata, ella che per natura deve continuarsi in tutte le vite spirituali e in tutti i territori del mondo, e soffre e smania e aspira alla liberazione del suo io, inevitabilmente aspirando alla distruzione del suo incoercibile contraddittorio. Il concetto puro trionfa del protoplasma vibratile: la filosofia classica trionfa di Bergson; le contingenze si sottomettono alla volontà della trottola socratica. C’è un « amante». perché la commedia rientra nella serie dei terzetti teatrali, ma l’amante non impersona alcuna idea; è sorda materia, è oggettività opaca, è il « fesso» della vita, che logicamente è condotto
a rimetterci la pelle, perché la dialettica dei contrari giunga a uno svolgimento che potrebbe essere la lacrima del concetto puro e l’urlo belluino del protoplasma in movimento: la umanità, insomma, che sbalordisce ritrovare ancora in tanta orgia di girandole filosofiche da insegnante in un liceo di provincia. Banalmente esprimendosi: la moglie vuol disfarsi del marito; insultata come moglie, vuole che il marito si batta in duello. Il marito non la intende così e costruisce, sulle contingenze che la natura esteriore al suo io gli getta tra i piedi, il trionfo della ragione logica: accetta il duello all’ultimo sangue e poi non si batte, costringendo a battersi e a farsi uccidere, l’amante che è il vero marito. La vita è per lui, concetto puro, un giuoco meccanico, di cui prevede e dispone a priori le parti, facendo sempre scacco matto.
La commedia del Pirandello non è delle migliori del genere Pirandello: il giuoco vi è diventato meccanismo esteriore di dialogo, puro sforzo letterario di verbalismo pseudofilosofico. L’incomprensione reciproca delle marionette sceniche si è proiettata nel teatro: pieno dominio di rnonadi senza porte e senza finestre, incomunicabili e incoercibili. l’autore, i personaggi e il pubblico.
(6 febbraio 1919)

« L’innesto» di Pirandello al Carignano.
Esiste nell’arte del giardinaggio una forma di innesto che si pratica nel mese d’agosto e si chiama innesto a occhi chiusi. La pianta accoglie « amorosamente» il tallo, col quale la mano rude ma esperta del villano la violenta, lo assimila al suo amore, al suo desiderio di frutto, lo accoglie a
«occhi chiusi», nutrendolo della sua follia, di tutta la sua vita che aspira alla maternità, alla creazione di nuove vite. Chi domanderà alla innocente pianta l’origine legittima della sua fecondità? Anche la signora Laura Banti è una sterile pianta, violentemente aggredita da uno sconosciuto villano, la quale ha ricevuto a «occhi chiusi » il germe vitale che la renderà madre, e lo ha assimilato alla sua vita, al suo amore, e lo ha nutrito di tutto il suo spirito, del quale è essenziale parte lo spirito, l’amore e il corpo fisico del consorte legittimo. Solo che questo legittimo e ben individuato consorte ha i suoi scrupoli e la sua suscettibilItà e la sua volontà che sono due con quelli della moglie e non solo uno come nello stesso fiore sterile il pistillo e il gineceo che compiono il rito fecondatore senza nulla generare. Come venga superato lo stato d’animo di Giorgio Banti, come Giorgio Banti finisca col dividere la follia amorosa di sua moglie e accettare per suo (credere suo) il figlio nascituro, dovrebbe essere argomento di questi tre atti del Pirandello.
Il quale non ha voluto e non ha osato affrontare apertamente la concezione elementare della commedia: un figlio è solo fisica generazione, mero prodotto di un accoppiamento casuale, oppure è amore essenzialmente, nuova vita che scocca dalla fusione intima permanente di due vite? e ha irrigidito un’azione, ricca di umanità e di liricità, intorno a una fredda metafora da giardinaggio, e ha finito col credere un po’ anch’eg1i, all’accostamento artificiale tra gli uomini e le piante e ha presentato questo problema sessuale, che poi fondamentale nella vita degli uomini, avvolgendolo . una artificiosa bambagia di dialogo a mezzi termini, ad accenni, a furtività sentimentali, accatastando tre gradi di vita in cui il problema si presenta (la pianta, una rozza villanella e la spirituale signora Banti), quasi non sapesse come esprimere al pubblico e come organare in atto la concezione che pure era chiara nella sua fantasia.
Sono stentati i tre atti, prolissi nella loro secchezza e congestione. L’argomento è posto, ma non vivificato, la passione e la follia sono presupposte, ma non rappresentate. Il Pirandello non ha neppure realizzato una di quelle sue « conversazioni» drammatiche, che se non conteranno molto nella storia dell’arte, avranno invece molta parte nella storia della cultura italiana.
(29 marzo 1919)

« La ragione degli altri» di Pirandello al Carignano.
La casa è dove sono i figli. La convivenza familiare non può essere fondata su meri rapporti sessuali, non può essere fondata sul codice, non può essere fondata sulle idee convenzionali di dovere, non può essere fondata su motivi sentimentali di pietà; un solo legame esiste, elementare e perciò costante e incoercibile, i figli e solo dove sono i figli esiste la casa...
La logica di questo principio (condotta fino all’assurdo: i figli anche se di un’altra donna, la maternità anche se... presa a prestito) sostanzia questi atti del Pirandello. Pirandello abbandona i motivi letterari i motivi… filosofici di intrigo e di conversazione drammatica e poggia lo svolgimento dell’azione su un motivo primordiale di umanità, la più profonda e istintiva. Il dramma si rivela atroce e scheletrico nel terzo atto: sono di fronte due donne che si contendono una bambina, l’una per difendere la sua maternità, non per conservare un amante: l’altra per avere in casa una figlia di suo marito, apparire a suo marito come madre, e con questa illusione di maternità ricostruire o costruire la famiglia, dare all’amore una moralità Lotta atroce, crudele perché la madre dovrà rinunziare alla sua bambina per assicurarle un avvenire, il nome del padre, una ricchezza una casa; dramma rappresentato senza lenocini oratori, senza sdilinquimenti  senza scene grandiloquenti e perciò direttamente rivolto a colpire tutte le abitudini sentimentali del pubblico, che reagisce con irti tutti i pregiudizi piccolo-borghesi.  Ma il Pirandello è poi riuscito a esprimere il dramma in tutta la sua pienezza? Si ha l’impressione penosa, nei primi due atti, dello stento, del tormento senza uscita, che si adagia nella direzione nella prolissa insistenza su particolari inutili: il motivo fondamentale è accennato vagamente non conduce e non indica lo sviluppo dell’azione: il terzo atto appare come una rivelazione troppo cruda troppo offensiva del… buon gusto e delle buone maniere.
Il dramma non si replica.
(13 gennaio 1920)


«Tutto per bene» di Pirandello al Chiarella.
Nei tre atti di Tutto per bene, Luigi Pirandello dipana questa matassa: un tale Martino Lori ha sposato 1a figlia di un illustre scienziato che lascia, morendo, un pacco di appunti sulle sue ricerche rimaste incompiute. Salvo Manfroni, discepolo dello scienziato, manomette e gli appunti e la figlia del suo maestro, moglie del Lori. Manfroni diventa una illustrazione della scienza, è deputato, diventa ministro, diventa senatore; il Lori è da lui trascinato nella carriera politica e giunge fino al posto di consigliere di Stato. Questo tale Martino Lori non sospetta di nulla; non sospetta che sua moglie l’abbia tradito, non sospetta che sua figlia Palma sia invece figlia del Manfroni, non sospetta di nulla, sebbene il Manfroni si sostituisca a lui nel curare la fanciullina, divenuta orfana della madre, e la tiri su per conto suo e le costituisca una dote e le trovi un marito aristocratico; non sospetta di nulla, sebbene tutti gli intimi di casa sappiano e Palma sappia, e il fidanzato di Palma sappia. Non sospetta di nulla e per sedici anni si costruisce una vita sua particolare, che a tutti pare la commedia di un miserabile, contento dei  benefizi ricavati dal  consenso dato alla moglie per le tresca col grande uomo politico. Non sospetta nulla e un bel giorno, dopo tanto tempo, dopo tanta illusione sull’onestà e sulla bontà degli uomini, la verità gli è rivelata. La commedia si impernia su questa rivelazione: dovrebbe essere la rappresentazione di questo dramma fulmineo: il dramma di un uomo che si è costruita tutta la vita interiore ed esteriore sull’ignoranza di un fatto essenziale della sua vita stessa, e d’un tratto si trova sperduto, perché il suo « io» intimo è svanito e il panorama circostante, veduto sempre in un modo per tanti e tanti anni, è mutato radicalmente, è un panorama di rovine e di macerie. Bisogna subito dire che il Pirandello si limita a dipanare la matassa, a condurre l’intrigo; il lavoro è affrettato, e la figura di Martino Lori non riesce a dominare lo svolgimento e a organizzarlo per giustificarlo; è smorto, non reagisce altro che a sospiri e gemiti; non diventa un carattere, rimane una vittima senza energia né sentimentale, né dialettica (come avviene nelle creazioni del Pirandello), che si affloscia e scompare, rientrando nel buio della nullaggine drammatica.
17 luglio 1920

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da http://www.vigata.org/laurea/lectio_ch.shtml

Andrea camilleri

Gramsci, Pirandello e un lapsus rivelatore

Come si sa, dal 13 gennaio 1916 al 16 dicembre 1920, Antonio Gramsci è stato il critico teatrale dell’Avanti!. Ha avuto modo così di vedere, tra le innumerevoli altre, ben undici messinscene di testi di Luigi Pirandello, alcuni dei quali fondamentali per la comprensione della sua drammaturgia. Vale la pena di ricordarne i titoli: Pensaci, Giacomino; Liolà (in dialetto), Così è (se vi pare), Il Piacere dell’onestà, ‘A Birritta cu i ciancianeddi (naturalmente in dialetto), Il Giuoco delle parti, L’Innesto, La Ragione degli altri, Come prima meglio di prima, Tutto per bene e l’atto unico Cecè. Peccato che non potè assistere alla rappresentazione dei Sei personaggi nel 1921, ma in quell’anno il politico Gramsci era in altre faccende affaccendato: infatti, in quello stesso 1921, il suo giornale, “L’Ordine nuovo” sarebbe diventato quotidiano e poi ci sarebbe stata la scissione durante il diciassettesimo congresso del P.S.I, a Livorno, che avrebbe dato origine, per opera di Gramsci e Bordiga, al Partito comunista d’Italia. Negli anni immediatamente successivi, Gramsci soggiornò molto all’estero, e poco dopo il suo rientro in Italia, venne, nel 1926, arrestato e, nel 1928, condannato dal Tribunale speciale fascista a 20 anni e 4 mesi di reclusione. Morì nel 1937 poco tempo dopo essere stato rimesso in libertà non certo dietro sua domanda di grazia.
L’approccio di Gramsci a Pirandello è dunque in un certo senso un approccio privilegiato, da spettatore e non da lettore, da critico militante insomma, e va detto come, a conti fatti, siano stati i critici teatrali, da Silvio D’Amico ad Alberto Cecchi, i primi a cimentarsi in una decifrazione, anche discutibile se si vuole, ma sempre intelligente, della complessità del mondo pirandelliano.
Perché il teatro si realizza, si compie e si conclude solo nell’atto della recitazione di fronte al pubblico, non è “un prodigio che si appaga di sé”, come assai più tardi dirà un personaggio dello stesso Pirandello, il mago Cotrone, e tanto meno può essere recepito con la sola lettura del testo, del copione a stampa.
Se il teatro lo si legge e non lo si vive in comunione con gli altri spettatori in quell’evento conclusivo che è la rappresentazione, il copione teatrale fatalmente rimane un’indicazione a volte sommaria, monca e perfino incerta, per quanto l’autore possa inzepparlo di didascalie che descrivano minutamente i caratteri fisici e no dei personaggi, le scene, i costumi, i movimenti, gli atteggiamenti. Il teatro va giudicato solo ascoltandolo e vedendolo.
E forse questo spiega l’atteggiamento negativo verso Pirandello dei letterati e degli studiosi della stesso periodo nel quale Gramsci faceva il critico teatrale, da Renato Serra (il quale arrivava a negare forma d’arte al teatro) a Benedetto Croce che frequentatore di teatri certamente non era.
Scriveva Croce nel 1935, un anno prima della morte di Pirandello, quasi a consuntivo: tenendo presente il modo sorprendente e capzioso con cui i suoi drammi si presentano perfino coi loro titoli fuori dal comune, ben s’intende un giudizio che ha avuto occasione di darne il famoso industriale americano Henry Ford. “Io non sono competente”-disse il Ford-“in fatto di letteratura, però sono dell’opinione che con lui si possa fare un affare eccellente /…/ ragione per cui si è in me radicato il proposito di finanziare una sua tournée in America. Voglio dimostrare che con lui si possono guadagnare milioni. Che Croce si avvalga di questo aneddoto commerciale per demolire il teatro di Pirandello dimostra sostanzialmente la scarsissima considerazione, fino a toccare un malcelato disprezzo, che aveva per il drammaturgo. E per quanto riguarda il novelliere e il romanziere, basterà citare queste altre sue righe:
Certo, le sue novelle e romanzi offrivano una profusione di avventure e di caratteri studiati con cura e non senza ricerca di effetti cupi o grotteschi, Ma è anche vero che non avevano molta originalità di sentimento e di stile, ed erano, più che altro, una prosecuzione, alquanto in ritardo, dell’opera della scuola veristica siciliana.
A sentirsi intruppare nel verismo o naturalismo che sia, cosa che del resto Serra in precedenza aveva fatto con molta superficialità, Pirandello, e a ragione, reagisce con estrema durezza. “La mia arte non ha nessun collegamento con il naturalismo!”- proclama con autentica ira in una conferenza a New York e taccia Croce di ottusità.
Piccolissima parentesi. Se non l’ottusità, almeno l’ostinata, pervicace incomprensione continuerà a persistere fino ai nostri giorni. Nella introduzione al “meridiano” Mondadori che raccoglie tutti i saggi e gli interventi di Pirandello, il curatore, Ferdinando Taviani, ne propone un’ampia scelta. Da Gianfranco Contini che parla di “gracilità di pensiero”, di “grande abilità avvocatesca”, di “fatua metafisica” a Cesare Garboli che dichiara “ho sempre considerato Pirandello un caso di ipertrofica intelligenza media, se è lecito il paradosso: qualcosa di simile al fortunato, anonimo titolare di un brevetto, quando l’invenzione è già una merce usata da tutti” e rincara la dose asserendo che la scrittura di Pirandello è in tutto simile a quella dei verbali di polizia, per concludere con Elsa Morante che si propone addirittura di “redimerlo” dai salotti borghesi. All’elenco di Taviani si potrebbe aggiungere almeno il nome di un altro raffinato poeta e critico come Sergio Solmi, il quale asseriva, addirittura già dal 1925, che Pirandello era “tagliato su misura per la intelligenza della media e piccola borghesia italiana cui forniva con poca spesa e poco fatica di cervello, gli ultimi figurini della corrente stagione culturale”.
Chiusa la parentesi, torniamo a Gramsci, inizialmente prendendo in esame due sue recensioni che riguardano Così è (se vi pare), che è considerato uno dei suoi testi maggiori, e Liolà, che forse per il peccato originale d’essere stato scritto e recitato in dialetto siciliano (anzi, nella parlata girgentana) viene da quasi tutti i critici di allora sottovalutato. La stroncatura del Così è (se vi pare) è acuta, motivata, lunga, senza remissione, perché poggia su di una precisa e lucida idea gramsciana di teatro. Scrive: I tre atti di L. Pirandello sono un semplice fatto di letteratura, privo di ogni connessione drammatica, privo di ogni connessione filosofica: sono un puro e semplice aggregato meccanico di parole che non creano né una verità né un’immagine. L’autore li ha chiamati parabola:l’espressione è esatta. La parabola è un qualcosa di misto tra la dimostrazione e la rappresentazione drammatica, tra la logica e la fantasia. Può essere mezzo efficace di persuasione nella vita pratica, è un mostro nel teatro, perché nel teatro non bastano gli accenni, perché nel teatro la dimostrazione è impersonata in uomini vivi, e gli accenni non bastano più, e le sospensioni metaforiche devono scendere al concreto della vita, perché nel teatro non bastano le virtù dello stile per creare bellezza, ma è necessaria la complessa rievocazione di intuizioni interiori profonde di sentimento che conducano a uno scontro, a una lotta, che si snodino in un’azione. Detto ciò, Gramsci loda la “molta abilità scenografica” e la “vivacità e abilità dialogica” degli attori. Di tono completamente opposto è invece quello che scrive a proposito di Liolà. Dopo aver premesso nelle prime due righe che la commedia non ha avuto successo, afferma che si tratta forse della “migliore delle commedie che il teatro dialettale siciliano sia riuscito a creare” e prosegue spiegando le ragioni dell’insuccesso perché “non finisce secondo gli schemi tradizionali, con una buona coltellata, o con un matrimonio /…/ ma non poteva finire che così come è, e pertanto finirà con l’imporsi”. Detto ciò, passa all’esame del testo, esame che cito solo in parte: Liolà è il prodotto migliore dell’energia letteraria di Luigi Pirandello. In esso il Pirandello è riuscito a spogliarsi delle sue abitudini retoriche. Il Pirandello è un umorista per partito preso, ciò che vuol dire che troppo spesso la prima intuizione dei suoi lavori viene a sommergersi in una palude retorica /…/ e di molta verbosità inutile. Anche Liolà è passato per questo stadio, e allora esso si chiamava Mattia Pascal /…/ In seguito Pirandello ha ripensato alla sua creazione, e ne è venuto fuori Liolà /…/ una commedia che si riallaccia con l’antica tradizione artistica popolare della Magna Grecia /…/ di cui tanta parte è pure rimasta nella tradizione paesana della Sicilia odierna /…/ E’ un’efflorescenza di paganesimo naturalistico, per il quale la vita, tutta la vita, è bella, il lavoro è un’opera lieta, e la fecondità irresistibile prorompe da tutta la materia organica. Mattia Pascal, il malinconico essere moderno, l’osservatore della vita volta a volta cinico, amaro, melanconico, sentimentale, vi diventa Liolà, l’uomo della vita pagana, pieno di robustezza morale e fisica, perché uomo, perché se stesso, semplice umanità vigorosa. La commedia, in sostanza, viene a coincidere con quell’idea di teatro che Gramsci ha esposto recensendo Così è (se vi pare).
Vorrei aggiungere due considerazioni a quanto scrive Gramsci a proposito di Liolà. La prima è che vide giusto quando parlò di “efflorescenza di paganesimo naturalistico”, non è un caso infatti che la commedia venne la seconda sera tolta dal cartellone per la violenta ostilità dei giovani cattolici torinesi capeggiati dal critico teatrale di un giornale vicino alla curia. La seconda, assai più rilevante, è quella che i critici di allora furono quasi tutti ostili, da Domenico Oliva a Domenico Lanza, a Eugenio Checchi (che dichiarò di non averci capito nulla forse per colpa del dialetto) e che nessuno di loro men che mai notò il cordone ombelicale, la connessione diretta tra il capitolo IV del romanzo “Il fu Mattia Pascal”, edito nel 1906 e la commedia di dieci anni dopo. Segno di una loro conoscenza di Pirandello semmai limitata alla sola drammaturgia pirandelliana, il che è grave dato che il rapporto tra narrativa e teatro in questo autore è strettissimo, continuo e ricco di mutamenti, variazioni, ripensamenti. Come nel caso appunto di Mattia Pascal-Liolà così acutamente notato dal critico dell’Avanti!.
Ma dalla rimeditazione su Pirandello che Gramsci fa negli anni del carcere, comprese in un capitolo a parte del volume che venne intitolato “Letteratura e vita nazionale”, emerge tra le tante almeno una straordinaria e illuminante indicazione propriamente registica, propriamente da interpretazione registico- attoriale, puntualmente disattesa dai registi negli anni successivi. Si trova nel sottocapitolo intitolato L’”ideologia” pirandelliana e direttamente discende dalle considerazioni fatte anni prima nella recensione di Liolà. Gramsci a un certo momento si domanda se i punti di vista esposti da alcuni personaggi di Pirandello, quelli considerati più filosofici, più capziosi, siano d’origine libresca e colta oppure rappresentino un qualcosa di presente nella vita stessa, nella cultura del tempo, anche in quella popolare di grado infimo. E si risponde facendo una comparazione tra i drammi in dialetto, popolari, e quelli in lingua che rappresentano un milieu borghese di tipo nazionale. “Ora pare -scrive- che, nel teatro dialettale, il pirandellismo sia giustificato da modi di pensare “storicamente” popolari e popolareschi, dialettali; che non si tratti cioè di “intellettuali” travestiti da popolani, di popolani che pensano da intellettuali, ma di reali, storicamente, regionalmente popolani siciliani, che pensano e operano così, proprio perché sono popolani e siciliani. Se questo si dimostrasse, tutto il castello del pirandellismo, cioè dell’intellettualismo astratto del teatro pirandelliano crollerebbe.
La stessa considerazione andrebbe fatta, suggerisce più o meno direttamente Gramsci, anche per le commedie borghesi, ed è chiaro qui il riferimento alla messinscena de ‘A Birritta cu i ciancianeddi, “dove” -come scrive il recensore- “ continua la rappresentazione esemplificata delle contraddizioni tra l’essere e il voler essere, tra l’apparenza e la realtà, tra l’immagine e il vero”, ebbene, malgrado tutto questo bric a brac di apparente cerebralismo, la recitazione di Angelo Musco faceva sì che “la vita fosse solo nell’interprete, che riesce a superare il tedio delle lunghe parlate”. Torno a ripetere: una precisa indicazione per registi e attori su come interpretare scenicamente Pirandello, come dirlo, come proporlo con estrema semplicità e naturalezza.
A chiarimento del popolano naturaliter pirandelliano, ripropongo una sorta di testimonianza già da me raccontata nel libro “Il Gioco della mosca”. Peppi Nicotra, scaricatore del porto del mio paese, si sposò con una giovanissima e bella ragazza, Giovanna. Una settimana dopo il matrimonio, Peppi venne arrestato perché aveva ucciso un uomo nel corso di una lite d’osteria. Fu condannato a dieci anni di carcere. Giovanna abitava in una casetta, nella periferia del paese, che Peppi aveva fabbricata con le sue mani e che aveva una finestra allato alla porta d’ingresso. Passato un anno, Giovanna cominciò a ricevere le visite notturne di diversi uomini. E di questa condotta della moglie Peppi venne informato in carcere. Scontata la pena e rimesso in libertà, tutti si aspettavano che avrebbe vendicato l’offesa uccidendo, se non gli amanti che in verità erano un po’ troppi, almeno la moglie. Invece Peppi andò a vivere in casa di sua madre come se niente fosse successo. Poco dopo si sparse la voce che aveva ripreso a frequentare, nottetempo, Giovanna, trattandola però non da moglie, ma come tutti gli altri, da compagna occasionale. E decadde dalla considerazione di tutti. Senonchè un giorno uno dei più autorevoli cittadini, anche lui frequentatore di Giovanna, volle avere da Peppi una spiegazione del suo comportamento. E quello tranquillamente rispose:
“Io a Giovanna non me la potei godere come moglie, poco tempo passò tra il matrimonio e il carcere. Quando uscii, mi tornò desiderio di lei. E una notte l’andai a trovare. Tutto qua. Però io entro dalla finestra”.
“E che vuol dire?”
“Dalla porta entrano i mariti, o no?”
“Certo. Da dove dovrebbero entrare?”
“E io invece ogni volta entro dalla finestra, come un amante. Voi che entrate dalla porta per andarla a trovare, siete i mariti, io sono l’amante.
Sono io che vi faccio cornuti a tutti”.
Venne riabilitato. Inutile dire che Peppi del suo compaesano Luigi Pirandello mai aveva inteso parlare.
Aggiunge Gramsci: In Pirandello abbiamo uno scrittore “siciliano”, che riesce a concepire la vita paesana in termini “dialettali”, folcloristici /…/ che nello stesso tempo è uno scrittore “italiano” e uno scrittore “europeo”. E in Pirandello abbiamo di più, la coscienza critica di essere nello stesso tempo siciliano, italiano ed europeo, ed è in ciò la debolezza artistica del Pirandello, accanto al suo grande significato “culturale”/…/ Questa contraddizione, che è intima nel Pirandello, ha esplicitamente avuto espressione in qualche suo lavoro narrativo (in una lunga novella, mi pare “Il Turno”, si rappresenta l’incontro tra una donna siciliana e un marinaio scandinavo, tra due “province” così lontane storicamente).
Coscienza critica, scrive Gramsci, di essere siciliano, italiano, europeo.
A metà degli anni settanta, si tenne a Cuneo un grande convegno di studi pirandelliani, al quale parteciparono filosofi, letterati e gente di teatro e il cui tema era “Pirandello e la coscienza infelice”. La coscienza critica gramsciana era diventata tout court hegelianamente infelice. Ma a metà degli anni settanta anche in Italia era già nota la lettura innovativa di Hegel da parte di Alexandre Kojève, fatta alle soglie degli anni ’40 nella parigina Ecole Pratique des Hautes Etudes, lettura che apriva le porte, tra l’altro, all’esistenzialismo, di quell’esistenzialismo che qualcuno asserì non essere altro che il “disinganno di un hegeliano”. Gramsci forse lo pensa, che quella coscienza critica sia meglio definibile come coscienza infelice, ma non osa spostare il busto di Hegel dallo scaffale filosofico a quello letterario, i tempi non sono ancora maturi. Ed è forse anche da questa mancata sostituzione dei due termini, infelice al posto di critica, che nasce il lapsus che avrete notato. Perché la lunga novella citata da Gramsci non si intitola Il Turno, ma Lontano. E’ certo la novella più ampia tra tutte le “Novelle per un anno”, ed è l’acuta, dolorosa indagine narrativa su una presenza-assenza, su un non-esserci, su un sopravvivere solo fisico in vista di un ricongiungimento che possa restituire essenza, corpo, identità e che alla fine non avverrà perché non può più avvenire. La novella venne edita per la prima volta nel 1915 in un volume che comprendeva anche il romanzo breve Il Turno già edito nel 1906. Ma non credo che sia stato solo questa contiguità delle due opere a determinare il lapsus. Già c’è da chiedersi perché Pirandello, sempre così attento nel dosaggio delle novelle che andavano a costituire le diverse raccolte in volume, abbia voluto mettere insieme questi due lavori in apparenza così distanti, tanto che lo stesso autore definisce “triste” la novella Lontano e “gajo, se non lieto” il romanzo Il Turno. In verità, a saperlo leggere, solo la superficie del romanzo appare gaia, ma appena si va in profondità, anche in poca profondità, il paesaggio cambia. La storia è quella di un padre, Marcantonio Ravì, che per fare la felicità della figlia Stellina organizza un piano, un turno appunto, che consiste nel darla prima in sposa al decrepito e ricco Diego Alcozer il quale, si badi, ha già seppellito quattro mogli, e quindi, dopo la sicura, vicina morte del vecchio, far risposare Stellina, ormai ricca, con Pepè Alletto, un nobile di provincia. Senonchè un seguito di circostanze scompaginerà il turno, dopo Diego Alcozer Stellina sarà costretta a sposare il cognato di Pepè Alletto, l’avvocato Ciro Coppa che ne farà la sua schiava. E solo dopo che l’avvocato è morto, Pepè Alletto, forse, potrà tornare a candidarsi come marito di Stellina.
In realtà, a leggerlo con gli occhi d’oggi, anche questo romanzo, come il racconto, è la storia di un’assenza contornata da troppe presenze.
L’assenza è quella di Stellina, che certo è presente di corpo con tutta la sua bellezza, ma che è completamente impossibilitata a manifestare la sua volontà di donna, di persona. Viene messa fin dall’inizio nella condizione di non poter scegliere, di non poter esprimere una qualsiasi sua volontà, è una merce di scambio, un oggetto da far passare da uomo a uomo secondo un turno prestabilito. E anche se il caso farà saltare il turno, a lei non verrà mai data voce in capitolo, dovrà sempre continuare a camminare sulla strada che le è stata segnata. Avrà certo qua e là delle piccole ribellioni, ma sporadiche, occasionali. E sempre più prenderà coscienza della sua infelicità, della sua coscienza infelice, tanto che a un certo momento manifesterà il proposito di un’assenza definitiva: quella di andarsi a chiudere in un convento.
Sono convinto che a determinare il lapsus sia stata quindi non la contiguità fisica dei due scritti ma la contiguità di due vite condizionate dall’assenza: quella di Lars Cleen, lo svedese spiaggiato a Porto Empedocle e quella di Stellina, la giovane di Agrigento, “triste cittaduzza moribonda”, come la definisce Pirandello, dalla quale si vede lo stesso mare che lo svedese Lars va a guardare passeggiando lungo il molo, nell’attesa vana di una nave che lo riporti in patria.
Solo che per scoprire il senso vero del Turno, oltre la sua apparente gaiezza, servivano occhi acuti e soprattutto capaci di guardare lontano, fino al modo odierno di leggere Pirandello.
Occhi che, per sua fortuna o disgrazia, Gramsci possedeva.

Andrea Camilleri

Lectio Magistralis in occasione del conferimento della Laurea Honoris Causa in Filologia Moderna, Chieti, 12 novembre 2007

 
Last modified Saturday, July, 16, 2011