Gramsci e Pirandello
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Antonio Gramsci critico di Pirandello
« Sai che io, molto prima di Adriano Tilgher, ho scoperto e
contribuito a popolarizzare il teatro di Pirandello? Ho scritto sul
Pirandello, dal 1915 al 1920, tanto da mettere insieme un volumetto
di 200 pagine e allora le mie affermazioni erano originali e senza
esempio: il Pirandello era o sopportato amabilmente o apertamente
deriso». Così scriveva dal carcere Gramsci alla cognata
Tatiana il 19 marzo 1927. Antonio Gramsci fu critico teatrale
dell'Avanti! da Torino per quattro anni, dal 1916 al 1920.
Ripubblichiamo qui di seguito tutte le sue recensioni teatrali
delle pièce di Pirandello, sicuramente un po' invecchiate, ma
splendidi esempi di giornalismo e di scintillante prosa italiana .
- Pensaci Giacomino
- Liolà
- Cosi è (se vi pare)
- Il piacere dell’onestà
- A’ berritta cu li ciancianeddi
- Il giuoco delle parti
- L’innesto
- La ragione degli altri
- Tutto per bene
«Pensaci Giacomino» di Pirandello all’Alfieri.
Questa commedia di Luigi Pirandello è tutta uno sfogo di
virtuosismo, di abilità letteraria, di luccichii discorsivi.
I tre atti corrono tu un solo binario. I personaggi sono oggetto di
fotografia piuttosto che di approfondimento psicologico: sono
ritratti nella loro esteriorità più che in una
intima ricreazione del loro essere morale. É questa del resto
la caratteristica dell’arte di Luigi Pirandello, che coglie della
vita la smorfia più che il sorriso, il ridicolo più
che il comico: che osserva la vita con l’occhio fisico del
letterato, più che con l’occhio simpatico dell’uomo artista e
la deforma per un’abitudine ironica che è l’abitudine
professionale più che visione sincera e spontanea.
I personaggi sono di una povertà interiore spaventosa in
questa commedia, come del resto nelle novelle, nei romanzi e nelle
altre commedie dello stesso autore. Hanno solo delle qualità
pittoriche, o meglio pittoresche: un pittoresco caricaturale, con
qualche velatura di melanconia, che è anch’essa smorfia
fisica più che passione. Il protagonista della commedia
è un vecchio professore di storia naturale, incartapecoritosi
in 34 anni d’insegnamento: un rudere d’umanità, un detrito,
senza più alcuna caratteristica d’uomo all’infuori del
profilo fisico. Il movente dell’azione, l’unico che si può
sorprendere, è questo: il prof. Toti, che per tanti anni ha
servito lo Stato, essendone ricompensato così miseramente che
non ha potuto crearsi una famiglia, vuole ora vendicarsi del
governo. Prima di morire vuole prendere moglie, una moglie
giovanissima, per lasciarle in eredità il diritto alla
pensione, per far pagare al governo in tanti anni di pensione alla
giovane vedova tutti quei quattrini che egli non ha potuto avere,
tutti quei quattrini che a lui sono mancati sempre per poter vivere
veramente, per essere uomo e non macchina d’insegnamento. Giocare al
governo questo tiro birbone diventa per il prof. Toti l’unica
ragione dei pochi anni di esistenza che gli rimangono. Ma siccome
non è un malvagio, non vuole che la moglie soffra, e
perciò le consente le più ampie libertà; aiuta
il suo sostituto nel còmpito maritale, lo ama come un figlio,
e incurante di tutto, delle chiacchiere del paese, dei rimbrotti del
direttore del ginnasio, del ridicolo di cui egli stesso è
oggetto, va innanzi verso la mèta. Giacomino, l’amante di sua
moglie, vorrebbe sciogliersi dalla situazione in cui è
impigliato; il prof. Toti si reca a casa sua, gli conduce a casa sua
il figlioletto, si sbarazza di ogni intralcio, di parenti
sbigottiti, di sacerdoti moralisti, e perora la causa di sua moglie
e finalmente riesce a condurre Giacomino nella via del dovere, a
continuare il suo còmpito di marito della giovane moglie
dell’impiegato che vuol vendicarsi del governo senza perciò
creare altre vittime.
La commedia ha avuto molto successo, Angelo Musco ha fatto della
figura del prof. Toti una creazione scenica ammirevole per
sincerità, per misura, per efficacia rappresentativa.
(24 marzo 1917)
«Liolà» di Pirandello all’Alfieri.
I tre atti nuovi di Luigi Pirandello non hanno avuto successo
all’Alfieri. Non hanno avuto almeno quel successo che è
necessario perché una commedia diventi redditizia. Ma
Liolà ciò nonostante rimane una bella commedia, forse
la migliore delle commedie che il teatro dialettale siciliano sia
riuscito a creare. L’insuccesso del terzo atto, che ha determinato
il ritiro momentaneo del lavoro dalle scene, è dovuto a
ragioni estrinseche: Liolà non finisce secondo gli schemi
tradizionali, con una buona coltellata, o con un matrimonio, e
perciò non è stata accolta con entusiasmo; ma non
poteva finire che così come è,. e pertanto
finirà con l’imporsi.
Liolà è il prodotto migliore dell’energia letteraria
di Luigi Pirandello. In esso il Pirandello è riuscito a
spogliarsi delle sue abitudini retoriche. Il Pirandello è un
umorista per partito preso, ciò che vuol dire che troppo
spesso la prima intuizione dei suoi lavori viene a sommergersi
in una palude retorica di moralità inconsciamente
predicatoria, e di molta verbosità inutile. Anche
Liolà è passato per questo stadio, e allora esso si
chiamava Mattia Pascal, ed era il protagonista di un lungo romanzo
ironico intitolato appunto: Il fu Mattia Pascal, pubblicato verso il
1906 dalla Nuova Antologia e poi ristampato dal Treves. In seguito
il Pirandello ha ripensato alla sua creazione, e ne è venuto
fuori Liolà; l’intreccio rimane lo stesso, ma il fantasma
artistico è stato completamente rinnovato: esso è
diventato omogeneo, è diventato pura rappresentazione, libero
completamente di tutto quel bagaglio moraleggiante e artatamente
umoristico che lo aduggiava. Liolà è una farsa, ma nel
senso migliore della parola, una farsa che si riattacca ai drammi
satireschi della Grecia antica, e che ha il suo corrispondente
pittorico nell’arte figurativa vascolare del mondo ellenistico.
C’è da pensare che l’arte dialettale così come
è espressa in questi tre atti del Pirandello, si riallacci
con l’antica tradizione artistica popolare della Magna Grecia, coi
suoi fliaci, coi suoi idilli pastorali, con la sua vita dei campi
piena di furore dionisiaco, di cui tanta parte è pure rimasta
nella tradizione paesana della Sicilia odierna, là dove
questa tradizione si è conservata più viva e
più sincera. È una vita ingenua, rudemente sincera, in
cui pare palpitino ancora i cortici delle querce e le acque delle
fontane: è una efflorescenza di paganesimo naturalistico, per
il quale la vita, tutta la vita è bella, il lavoro è
un’opera lieta, e la fecondità irresistibile prorompe da
tutta la materia organica.
Mattia Pascal, il melanconico essere moderno, dall’occhio strabico,
l’osservatore della vita volta a volta cinico, amaro, melanconico,
sentimentale, vi diventa Liolà, l’uomo della vita pagana,
pieno di robustezza morale e fisica, perché uomo,
perché se stesso, semplice umanità vigorosa. E la
trama si rinnova, diventa vita, diventa verità; diventa anche
semplice, mentre nella prima parte del romanzo primitivo era
contorta e inefficace. Zio Simone smania perché vuole avere
un erede, che giustifichi il tenace lavoro suo che ha accumulato una
ricchezza: è vecchio, e incolpa la sterilità della
moglie, che non ha capito che Simone vuole un erede purchessia,
vuole un bambino a tutti i costi, ed è disposto a fingere di
essere egli il padre. Una sua nipote, che ha capito gli umori del
vecchio, ed è stata resa madre da Liolà, propone a
Simone di diventare egli il padre del nascituro, gli propone di
farsi credere egli il padre, e il vecchio accetta. La moglie
legittima viene percossa, viene umiliata, perché non ha fatto
altrettanto. Per diventare la padrona, fa altrettanto. Zio Simone ha
un figlio legale. Ma è Liolà che dà vita a
queste nuove vite, e dà vita alla commedia; Liolà che
ha sempre la gola piena di canti, che entra sempre nella scena
accompagnato da un coro bacchico di donne, accompagnato dai suoi tre
altri figlioletti naturali che sono come dei satiretti che
ubbidiscono all’impulso della danza e del canto, che sono impastati
di suono e di danza come le creature primitive dei drammi
satireschi. Liolà voleva sposare Tuzza, la nipote di Simone,
prima che fosse imbastito il trucco dell’erede, ora che l’erede
legale c’è Tuzza vorrebbe essere sposata, ma Liolà non
vuole, non vuole rinunziare ai suoi canti, alla danza dei suoi
figlioli, alla vita dionisiaca del lavoro lieto: e il pugnale di
Tuzza è stroncato dalle sue mani che però non sanno
l’odio e la vendetta. Ma per il pubblico ci voleva il sangue o il
matrimonio, e perciò il pubblico non ha applaudito.
(4 aprile 1917).
« Casi è (se vi pare)» di Pirandello.
La verità in sé non esiste, la verità non
è altro che l’impressione personalissima che ciascun uomo
ritrae da un certo fatto. Questa affermazione può essere
(anzi è certamente) una sciocchezza, un pseudogiudizio emesso
da un facilone spiritoso, per ottenere con gli incompetenti un
successo di superficiale ilarità. Ma ciò non importa.
L’affermazione può dare luogo a un dramma lo stesso: non
è detto che i drammi succedano per ragioni logicissime. Ma
Luigi Pirandello non ha saputo trarre dramma da questa affermazione
filosofica. Essa rimane esteriorità, essa rimane giudizio
superficiale. Dei fatti si svolgono, delle scene si susseguono. Non
hanno altra ragion d’essere che questa: la curiosità
pettegola di un piccolo mondo provinciale. Ma neppure essa è
una vera ragione, una ragione necessaria e sufficiente di dramma; e
non è neppure motivo a rappresentazione viva e artistica di
caratteri, di persone vive che abbiano un significato fantastico, se
non logico. I tre atti di L. Pirandello sono un semplice fatto di
letteratura, privo di ogni connessione drammatica, privo di ogni
connessione filosofica: sono un puro e semplice aggregato meccanico
di parole che non creano né una verità, né una
immagine. L’autore li ha chiamati parabola: l’espressione è
esatta. La parabola è un qualcosa di misto tra la
dimostrazione e la presentazione drammatica, tra la logica e la
fantasia. Può esser e mezzo efficace di persuasione nella
vita pratica, è un mostro nel teatro, perché nel
teatro non bastano gli accenni, perché nel teatro la
dimostrazione è impersonata in uomini vivi, e gli accenni non
bastano più, e le sospensioni metaforiche devono scendere al
concreto della vita, perché nel teatro non bastano le
virtù dello stile per creare bellezza, ma è necessaria
la complessa rievocazione di intuizioni interiori profonde di
sentimento che conducano a uno scontro, a una lotta, che si snodino
in una azione.
La dimostrazione è fallita nella parabola di Pirandello. La
verità in sé non esiste, esiste l’interpretazione che
essa dànno gli uomini. L’interpretazione è vera,
quando di un fatto rimangono tali documenti da permettere agli
uomini di buona volontà la vera interpretazione. Del fatto
che dà luogo alla parabola esistono solo due
testimoni-documenti: e i due sono interessati al fatto, e non
appaiono che esteriormente, nell’apparenza sensibile che si sviluppa
da motivi che rimangono inesplorati. In un paese di provincia
arrivano tre personaggi superstiti del terremoto della Marsica.
marito, moglie e una vecchia. La loro vita è circondata di
mistero. Il mistero solletica tutte le curiosità pettegole
del paese: si ricerca, si indaga, si fa intervenire
l’autorità. Nessun risultato. Il marito sostiene una cosa, la
vecchia un’altra, uno lascia credere che l’altra sia pazza: chi ha
ragione? Il signor Ponza sostiene d’essere vedovo di una figlia
della signora Frola, d’essersi riammogliato e di tenere con
sé (nello stesso paese, ma in diversa casa) la Frola solo per
un sentimento di pietà, perché la poveretta, impazzita
alla morte della figliola, crede che la seconda signora Ponza sia
sua figlia, sempre viva. La signora Frola sostiene che il Ponza
abbia avuto in un certo momento della sua vita un oscuramento della
ragione: che in quel periodo gli sia stata sottratta la moglie e che
egli l’abbia creduta morta, e non si sia voluto ricongiungere con
lei che in seguito a un nuovo matrimonio simulato, dandole un altro
nome, credendola un’altra persona. I due separatamente sembrano
saggissimi, messi a confronto, devono risultare in contraddizione,
sebbene reciprocamente operino come se veramente uno faccia la
commedia per pietà dell’altro. Quale è la
verità? Chi dei due è il pazzo? Mancano i documenti:
il paese loro d’origine è distrutto dal terremoto, chi
potrebbe informare è morto. La moglie del Ponza fa una breve
apparizione, ma l’autore preso nell’incanto della sua dimostrazione,
ne fa un simbolo: la verità che appare velata, e dice: io
sono l’una e l’altra cosa, io sono ciò che si crede io sia.
Uno sgambetto logico semplicemente. Il vero dramma l’autore l’ha
solo adombrato, l’ha accennato: è nei due pseudopazzi che non
rappresentano però la loro vera vita, l’intima
necessità dei loro atteggiamenti esteriori, ma sono
presentati come pedine della dimostrazione logica. Un mostro
pertanto, non una dimostrazione, non un dramma, e come residuo, del
facile spirito e molta abilità scenografica.
Hanno interpretato i tre atti la Melato, il Betrone, il Paoli, il
Lamberti con molta vivacità e abilità dialogica. Pochi
applausi a ogni chiusura di velario.
(5 ottobre 1917)
« Il piacere dell’onestà» di Pirandello al
Carignano.
Luigi Pirandello è un « ardito» del teatro. Le
sue commedie ,sono tante bombe a mano che scoppiano nei cervelli
degli spettatori e producono crolli di banalità, rovine di
sentimenti, di pensiero. Luigi Pirandello ha il merito grande di
far, per lo meno, balenare delle immagini di vita che escono fuori
dagli schemi soliti della tradizione, e che però non possono
iniziare una nuova tradizione, non possono essere imitate, non
possono determinare il cliché di moda. C’è nelle sue
commedie uno sforzo di pensiero astratto che tende a concretarsi
sempre in rappresentazione, e quando riesce, dà frutti
insoliti nel teatro italiano, d’una plasticità e d’una
evidenza fantastica, mirabile. Così avviene nei tre atti del
Piacere dell’onestà. Il Pirandello vi rappresenta un uomo che
vive la vita pensata, la vita come programma, la vita come «
pura forma». Non è un uomo comune questo Angelo
Baldovino. È stato un briccone, è un relitto, secondo
le apparenze. Non è, in verità, che un uomo verso il
quale la società ha avuto il torto di essere tale per cui la
« pura forma» è in realtà adeguata al
resto della realtà. Il Baldovino si innesta nella commedia in
un ambiente favorevole e vive la sua vita. Diventa il marito legale
di una nobile signorina che è stata resa madre da un uomo
ammogliato. Accetta la parte, ponendosi degli obblighi di
onestà, e ponendone agli altri, e sviluppa il suo pensiero.
Diventa subito ingombrante: il suo pensiero si realizza per
sé, ma scombussola tutto l’ambiente e arriva a questo punto
morto preveduto dal Baldovino, ma paradossale per gli altri;
è necessario che il marchese Fabio, il seduttore, diventi
ladro, perché la « pura forma» si sviluppi in
tutta la sua logica, e Baldovino appaia essere il ladro, pur
rimanendo accertato per tutti gli interessati che il vero ladro
è il marchese, e che non impunemente si accettano dei
contratti in cui la logica e la volontà uno deciso a
rispettarla, sono elementi essenziali. Arrivati a questo punto di
scomposizione e di dissoluzione psicologica, la commedia ha uno
svolto pericoloso, e un po’ confuso. Le reazioni sentimentali
hanno il sopravvento: la bricconeria effettiva del marchese Fabio
prende un risalto di una evidenza umoristica catastrofica, e la
moglie putativa diventa moglie effettiva e appassionata del
Baldovino, che non è un briccone un galantuomo, ma solo un
uomo che vuole essere l’uno e l’altro, e sa essere effettivamente
galantuomo, lavoratore, perché queste parole non sono che
attributi contingenti di un assoluto che solo il pensiero e la
volontà creano e alimentano.
La commedia di Pirandello ha avuto un crescendo di applausi, dovuto
alla virtù di persuasione insita nel processo fantastico
dell’intreccio. Ruggero Ruggeri sosteneva la parte del Baldovino, la
Vergani quella della signorina, poi signora Agata Baldovino, il
Martelli quella del marchese Fabio. Col Pettinello e la Mosso
presentarono un insieme interpretativo ottimo, ciò che
contribuì a far rilevare meglio il dialogo serrato e pieno di
scorci della commedia.
(29 novembre 1917)
«A’ berritta ccu li ciancianeddi» di Pirandello
all’Alfieri.
È una parentesi nel teatro di Luigi Pirandello, un episodio,
un abbozzo. Rientra nel suo genere, è prodotto autentico del
temperamento personalissimo dell’autore, ma non è stata
elaborata, e rifinita come le altre commedie. Lo spunto stesso
ridiventa comune. Nelle altre commedie il motivo non esce certo
dalle esperienze del passato, siano esse intellettuali, siano
sentimentali, ma l’autore svecchia il motivo antico, lo presenta
rivestito di peculiarità caratteristiche, i personaggi sono
suoi, della sua fantasia, le parole che dicono hanno una vita nuova,
di stile e di passione. In questi due atti c’è poca
intensità: la dimostrazione soverchia l’azione, la diluisce,
la svanisce. A’ berritta ccu li ciancianeddi continua la serie delle
altre commedie, è un residuo delle altre commedie: continua
la rappresentazione esemplificata delle contraddizioni tra l’essere
e il voler essere, tra l’apparenza e la realtà, tra
l’immagine e il vero, che hanno avuto due momenti drammatici nel
Così è (se vi pare) e nel Piacere dell’onestà.
Ma in questi due atti il sofisma, il paradosso non acquista pregio
nel dialogo, non suscita dramma originale: qualche battuta, qualche
piccola scena, la vita è solo nell’interprete in Angelo
Museo, che riesce a far superare il tedio delle lunghe parlate non
più interessanti spesso di quelle del più melenso
scrittore di teatro.
C’è qui il marito tradito, marito vecchio, brutto e
innamorato, che non vuole diventare lo zimbello del paese, che non
vuole sul suo capo la berretta coi sonagli della beffa, dello
scherno. Egli sopporta il tradimento per conservare la donna,
poiché è sicuro del segreto. Teorizza lo sdoppiamento
dell’uomo in quanto intimità e in quanto termine di relazione
sociale: vuole il rispetto umano, vuole la tranquillità. Il
segreto viene propalato con uno scandalo clamoroso. La moglie viene
colta in flagrante adulterio. Un tranello è stato teso dalla
moglie gelosa dell’adultero, e l’arresto dei due colpevoli
rovinerà l’esistenza di don Nuccio, se egli non riesce a far
credere che si tratta di una pazzia, che l’accusatrice è
stata una pazza. Così si chiudono i due atti: il marito becco
pone un dilemma: o la strage dei due colpevoli sua, moglie e
l’amante, o la finzione della pazzia nell’accusatrice nella donna
gelosa che non ha pensato che a se stessa e ha rovinato un quarto
innocente. E don Nuccio ottiene questa finzione indirettamente,
facendo esasperare la donna, traendola a urlare, a inveire
incompostamente goffamente contro di lui, facendosi chiamare becco
dalla signora che diventa una furia, che perde la sua apparenza
civile e lascia senza freni la vena di follia che esiste in ogni
umano.
La commedia si impernia tutta su Angelo Museo, che riesce colla sua
comicità misurata, fluida nel lungo discorso, ossessionata,
irresistibilmente trascinatrice nel momento culminante a destare
l’interesse degli spettatori, che si raccoglie nei due atti
per dilatarsi ed espandersi nella risata finale.
(27 febbraio 1918)
«Il giuoco delle parti» di Pirandello al Carignano.
Nel primo atto del Giuoco delle parti, Luigi Pirandello inizia la
presentazione della « moglie» come personificante la
visione che della fisica della vita hanno gli scultori e i pittori
del futurismo postcubistico: l’inferiorità spirituale
è una scomposizione di volumi e di piani che si continuano
nello spazio, non una limitazione rigidamente definita in linee e
superfici. Il « marito» invece è fortemente
accentrato in un io ragionante, ben levigato e ravviato come un
Concetto puro, che gira intorno a un pernio, trottola silenziosa che
la volontà, resa libera da ogni contingenza condizionatrice,
fa roteare sopra un piano di vetro. Evidentemente le due creature
non possono sistemare un ordine di rapporti di convivenza
affettuosa: il marito è impenetrabile ai piani e volumi
vibratili della moglie, e questa, non riuscendo a continuarsi nel
marito, se ne sente limitata, ella che per natura deve continuarsi
in tutte le vite spirituali e in tutti i territori del mondo, e
soffre e smania e aspira alla liberazione del suo io,
inevitabilmente aspirando alla distruzione del suo incoercibile
contraddittorio. Il concetto puro trionfa del protoplasma vibratile:
la filosofia classica trionfa di Bergson; le contingenze si
sottomettono alla volontà della trottola socratica.
C’è un « amante». perché la commedia
rientra nella serie dei terzetti teatrali, ma l’amante non impersona
alcuna idea; è sorda materia, è oggettività
opaca, è il « fesso» della vita, che logicamente
è condotto
a rimetterci la pelle, perché la dialettica dei contrari
giunga a uno svolgimento che potrebbe essere la lacrima del concetto
puro e l’urlo belluino del protoplasma in movimento: la
umanità, insomma, che sbalordisce ritrovare ancora in tanta
orgia di girandole filosofiche da insegnante in un liceo di
provincia. Banalmente esprimendosi: la moglie vuol disfarsi del
marito; insultata come moglie, vuole che il marito si batta in
duello. Il marito non la intende così e costruisce, sulle
contingenze che la natura esteriore al suo io gli getta tra i piedi,
il trionfo della ragione logica: accetta il duello all’ultimo sangue
e poi non si batte, costringendo a battersi e a farsi uccidere,
l’amante che è il vero marito. La vita è per lui,
concetto puro, un giuoco meccanico, di cui prevede e dispone a
priori le parti, facendo sempre scacco matto.
La commedia del Pirandello non è delle migliori del genere
Pirandello: il giuoco vi è diventato meccanismo esteriore di
dialogo, puro sforzo letterario di verbalismo pseudofilosofico.
L’incomprensione reciproca delle marionette sceniche si è
proiettata nel teatro: pieno dominio di rnonadi senza porte e senza
finestre, incomunicabili e incoercibili. l’autore, i personaggi e il
pubblico.
(6 febbraio 1919)
« L’innesto» di Pirandello al Carignano.
Esiste nell’arte del giardinaggio una forma di innesto che si
pratica nel mese d’agosto e si chiama innesto a occhi chiusi. La
pianta accoglie « amorosamente» il tallo, col quale la
mano rude ma esperta del villano la violenta, lo assimila al suo
amore, al suo desiderio di frutto, lo accoglie a
«occhi chiusi», nutrendolo della sua follia, di tutta
la sua vita che aspira alla maternità, alla creazione di
nuove vite. Chi domanderà alla innocente pianta l’origine
legittima della sua fecondità? Anche la signora Laura Banti
è una sterile pianta, violentemente aggredita da uno
sconosciuto villano, la quale ha ricevuto a «occhi chiusi
» il germe vitale che la renderà madre, e lo ha
assimilato alla sua vita, al suo amore, e lo ha nutrito di tutto il
suo spirito, del quale è essenziale parte lo spirito, l’amore
e il corpo fisico del consorte legittimo. Solo che questo legittimo
e ben individuato consorte ha i suoi scrupoli e la sua
suscettibilItà e la sua volontà che sono due con
quelli della moglie e non solo uno come nello stesso fiore sterile
il pistillo e il gineceo che compiono il rito fecondatore senza
nulla generare. Come venga superato lo stato d’animo di Giorgio
Banti, come Giorgio Banti finisca col dividere la follia amorosa di
sua moglie e accettare per suo (credere suo) il figlio nascituro,
dovrebbe essere argomento di questi tre atti del Pirandello.
Il quale non ha voluto e non ha osato affrontare apertamente la
concezione elementare della commedia: un figlio è solo fisica
generazione, mero prodotto di un accoppiamento casuale, oppure
è amore essenzialmente, nuova vita che scocca dalla fusione
intima permanente di due vite? e ha irrigidito un’azione, ricca di
umanità e di liricità, intorno a una fredda metafora
da giardinaggio, e ha finito col credere un po’ anch’eg1i,
all’accostamento artificiale tra gli uomini e le piante e ha
presentato questo problema sessuale, che poi fondamentale nella vita
degli uomini, avvolgendolo . una artificiosa bambagia di dialogo a
mezzi termini, ad accenni, a furtività sentimentali,
accatastando tre gradi di vita in cui il problema si presenta (la
pianta, una rozza villanella e la spirituale signora Banti), quasi
non sapesse come esprimere al pubblico e come organare in atto la
concezione che pure era chiara nella sua fantasia.
Sono stentati i tre atti, prolissi nella loro secchezza e
congestione. L’argomento è posto, ma non vivificato, la
passione e la follia sono presupposte, ma non rappresentate. Il
Pirandello non ha neppure realizzato una di quelle sue «
conversazioni» drammatiche, che se non conteranno molto nella
storia dell’arte, avranno invece molta parte nella storia della
cultura italiana.
(29 marzo 1919)
« La ragione degli altri» di Pirandello al Carignano.
La casa è dove sono i figli. La convivenza familiare non
può essere fondata su meri rapporti sessuali, non può
essere fondata sul codice, non può essere fondata sulle idee
convenzionali di dovere, non può essere fondata su motivi
sentimentali di pietà; un solo legame esiste, elementare e
perciò costante e incoercibile, i figli e solo dove sono i
figli esiste la casa...
La logica di questo principio (condotta fino all’assurdo: i figli
anche se di un’altra donna, la maternità anche se... presa a
prestito) sostanzia questi atti del Pirandello. Pirandello abbandona
i motivi letterari i motivi… filosofici di intrigo e di
conversazione drammatica e poggia lo svolgimento dell’azione su un
motivo primordiale di umanità, la più profonda e
istintiva. Il dramma si rivela atroce e scheletrico nel terzo atto:
sono di fronte due donne che si contendono una bambina, l’una per
difendere la sua maternità, non per conservare un amante:
l’altra per avere in casa una figlia di suo marito, apparire a suo
marito come madre, e con questa illusione di maternità
ricostruire o costruire la famiglia, dare all’amore una
moralità Lotta atroce, crudele perché la madre
dovrà rinunziare alla sua bambina per assicurarle un
avvenire, il nome del padre, una ricchezza una casa; dramma
rappresentato senza lenocini oratori, senza sdilinquimenti
senza scene grandiloquenti e perciò direttamente rivolto a
colpire tutte le abitudini sentimentali del pubblico, che reagisce
con irti tutti i pregiudizi piccolo-borghesi. Ma il Pirandello
è poi riuscito a esprimere il dramma in tutta la sua
pienezza? Si ha l’impressione penosa, nei primi due atti, dello
stento, del tormento senza uscita, che si adagia nella direzione
nella prolissa insistenza su particolari inutili: il motivo
fondamentale è accennato vagamente non conduce e non indica
lo sviluppo dell’azione: il terzo atto appare come una rivelazione
troppo cruda troppo offensiva del… buon gusto e delle buone maniere.
Il dramma non si replica.
(13 gennaio 1920)
«Tutto per bene» di Pirandello al Chiarella.
Nei tre atti di Tutto per bene, Luigi Pirandello dipana questa
matassa: un tale Martino Lori ha sposato 1a figlia di un illustre
scienziato che lascia, morendo, un pacco di appunti sulle sue
ricerche rimaste incompiute. Salvo Manfroni, discepolo dello
scienziato, manomette e gli appunti e la figlia del suo maestro,
moglie del Lori. Manfroni diventa una illustrazione della scienza,
è deputato, diventa ministro, diventa senatore; il Lori
è da lui trascinato nella carriera politica e giunge fino al
posto di consigliere di Stato. Questo tale Martino Lori non sospetta
di nulla; non sospetta che sua moglie l’abbia tradito, non sospetta
che sua figlia Palma sia invece figlia del Manfroni, non sospetta di
nulla, sebbene il Manfroni si sostituisca a lui nel curare la
fanciullina, divenuta orfana della madre, e la tiri su per conto suo
e le costituisca una dote e le trovi un marito aristocratico; non
sospetta di nulla, sebbene tutti gli intimi di casa sappiano e Palma
sappia, e il fidanzato di Palma sappia. Non sospetta di nulla e per
sedici anni si costruisce una vita sua particolare, che a tutti pare
la commedia di un miserabile, contento dei benefizi ricavati
dal consenso dato alla moglie per le tresca col grande uomo
politico. Non sospetta nulla e un bel giorno, dopo tanto tempo, dopo
tanta illusione sull’onestà e sulla bontà degli
uomini, la verità gli è rivelata. La commedia si
impernia su questa rivelazione: dovrebbe essere la rappresentazione
di questo dramma fulmineo: il dramma di un uomo che si è
costruita tutta la vita interiore ed esteriore sull’ignoranza di un
fatto essenziale della sua vita stessa, e d’un tratto si trova
sperduto, perché il suo « io» intimo è
svanito e il panorama circostante, veduto sempre in un modo per
tanti e tanti anni, è mutato radicalmente, è un
panorama di rovine e di macerie. Bisogna subito dire che il
Pirandello si limita a dipanare la matassa, a condurre l’intrigo; il
lavoro è affrettato, e la figura di Martino Lori non riesce a
dominare lo svolgimento e a organizzarlo per giustificarlo; è
smorto, non reagisce altro che a sospiri e gemiti; non diventa un
carattere, rimane una vittima senza energia né sentimentale,
né dialettica (come avviene nelle creazioni del Pirandello),
che si affloscia e scompare, rientrando nel buio della nullaggine
drammatica.
17 luglio 1920
*
da http://www.vigata.org/laurea/lectio_ch.shtml
Andrea camilleri
Gramsci, Pirandello e un lapsus rivelatore
Come si sa, dal 13 gennaio 1916 al 16 dicembre 1920, Antonio Gramsci
è stato il critico teatrale dell’Avanti!. Ha avuto modo
così di vedere, tra le innumerevoli altre, ben undici
messinscene di testi di Luigi Pirandello, alcuni dei quali
fondamentali per la comprensione della sua drammaturgia. Vale la
pena di ricordarne i titoli: Pensaci, Giacomino; Liolà (in
dialetto), Così è (se vi pare), Il Piacere
dell’onestà, ‘A Birritta cu i ciancianeddi (naturalmente in
dialetto), Il Giuoco delle parti, L’Innesto, La Ragione degli altri,
Come prima meglio di prima, Tutto per bene e l’atto unico
Cecè. Peccato che non potè assistere alla
rappresentazione dei Sei personaggi nel 1921, ma in quell’anno il
politico Gramsci era in altre faccende affaccendato: infatti, in
quello stesso 1921, il suo giornale, “L’Ordine nuovo” sarebbe
diventato quotidiano e poi ci sarebbe stata la scissione durante il
diciassettesimo congresso del P.S.I, a Livorno, che avrebbe dato
origine, per opera di Gramsci e Bordiga, al Partito comunista
d’Italia. Negli anni immediatamente successivi, Gramsci
soggiornò molto all’estero, e poco dopo il suo rientro in
Italia, venne, nel 1926, arrestato e, nel 1928, condannato dal
Tribunale speciale fascista a 20 anni e 4 mesi di reclusione.
Morì nel 1937 poco tempo dopo essere stato rimesso in
libertà non certo dietro sua domanda di grazia.
L’approccio di Gramsci a Pirandello è dunque in un certo
senso un approccio privilegiato, da spettatore e non da lettore, da
critico militante insomma, e va detto come, a conti fatti, siano
stati i critici teatrali, da Silvio D’Amico ad Alberto Cecchi, i
primi a cimentarsi in una decifrazione, anche discutibile se si
vuole, ma sempre intelligente, della complessità del mondo
pirandelliano.
Perché il teatro si realizza, si compie e si conclude solo
nell’atto della recitazione di fronte al pubblico, non è “un
prodigio che si appaga di sé”, come assai più tardi
dirà un personaggio dello stesso Pirandello, il mago Cotrone,
e tanto meno può essere recepito con la sola lettura del
testo, del copione a stampa.
Se il teatro lo si legge e non lo si vive in comunione con gli altri
spettatori in quell’evento conclusivo che è la
rappresentazione, il copione teatrale fatalmente rimane
un’indicazione a volte sommaria, monca e perfino incerta, per quanto
l’autore possa inzepparlo di didascalie che descrivano minutamente i
caratteri fisici e no dei personaggi, le scene, i costumi, i
movimenti, gli atteggiamenti. Il teatro va giudicato solo
ascoltandolo e vedendolo.
E forse questo spiega l’atteggiamento negativo verso Pirandello dei
letterati e degli studiosi della stesso periodo nel quale Gramsci
faceva il critico teatrale, da Renato Serra (il quale arrivava a
negare forma d’arte al teatro) a Benedetto Croce che frequentatore
di teatri certamente non era.
Scriveva Croce nel 1935, un anno prima della morte di Pirandello,
quasi a consuntivo: tenendo presente il modo sorprendente e capzioso
con cui i suoi drammi si presentano perfino coi loro titoli fuori
dal comune, ben s’intende un giudizio che ha avuto occasione di
darne il famoso industriale americano Henry Ford. “Io non sono
competente”-disse il Ford-“in fatto di letteratura, però sono
dell’opinione che con lui si possa fare un affare eccellente /…/
ragione per cui si è in me radicato il proposito di
finanziare una sua tournée in America. Voglio dimostrare che
con lui si possono guadagnare milioni. Che Croce si avvalga di
questo aneddoto commerciale per demolire il teatro di Pirandello
dimostra sostanzialmente la scarsissima considerazione, fino a
toccare un malcelato disprezzo, che aveva per il drammaturgo. E per
quanto riguarda il novelliere e il romanziere, basterà citare
queste altre sue righe:
Certo, le sue novelle e romanzi offrivano una profusione di
avventure e di caratteri studiati con cura e non senza ricerca di
effetti cupi o grotteschi, Ma è anche vero che non avevano
molta originalità di sentimento e di stile, ed erano,
più che altro, una prosecuzione, alquanto in ritardo,
dell’opera della scuola veristica siciliana.
A sentirsi intruppare nel verismo o naturalismo che sia, cosa che
del resto Serra in precedenza aveva fatto con molta
superficialità, Pirandello, e a ragione, reagisce con estrema
durezza. “La mia arte non ha nessun collegamento con il
naturalismo!”- proclama con autentica ira in una conferenza a New
York e taccia Croce di ottusità.
Piccolissima parentesi. Se non l’ottusità, almeno l’ostinata,
pervicace incomprensione continuerà a persistere fino ai
nostri giorni. Nella introduzione al “meridiano” Mondadori che
raccoglie tutti i saggi e gli interventi di Pirandello, il curatore,
Ferdinando Taviani, ne propone un’ampia scelta. Da Gianfranco
Contini che parla di “gracilità di pensiero”, di “grande
abilità avvocatesca”, di “fatua metafisica” a Cesare Garboli
che dichiara “ho sempre considerato Pirandello un caso di
ipertrofica intelligenza media, se è lecito il paradosso:
qualcosa di simile al fortunato, anonimo titolare di un brevetto,
quando l’invenzione è già una merce usata da tutti” e
rincara la dose asserendo che la scrittura di Pirandello è in
tutto simile a quella dei verbali di polizia, per concludere con
Elsa Morante che si propone addirittura di “redimerlo” dai salotti
borghesi. All’elenco di Taviani si potrebbe aggiungere almeno il
nome di un altro raffinato poeta e critico come Sergio Solmi, il
quale asseriva, addirittura già dal 1925, che Pirandello era
“tagliato su misura per la intelligenza della media e piccola
borghesia italiana cui forniva con poca spesa e poco fatica di
cervello, gli ultimi figurini della corrente stagione culturale”.
Chiusa la parentesi, torniamo a Gramsci, inizialmente prendendo in
esame due sue recensioni che riguardano Così è (se vi
pare), che è considerato uno dei suoi testi maggiori, e
Liolà, che forse per il peccato originale d’essere stato
scritto e recitato in dialetto siciliano (anzi, nella parlata
girgentana) viene da quasi tutti i critici di allora sottovalutato.
La stroncatura del Così è (se vi pare) è acuta,
motivata, lunga, senza remissione, perché poggia su di una
precisa e lucida idea gramsciana di teatro. Scrive: I tre atti di L.
Pirandello sono un semplice fatto di letteratura, privo di ogni
connessione drammatica, privo di ogni connessione filosofica: sono
un puro e semplice aggregato meccanico di parole che non creano
né una verità né un’immagine. L’autore li ha
chiamati parabola:l’espressione è esatta. La parabola
è un qualcosa di misto tra la dimostrazione e la
rappresentazione drammatica, tra la logica e la fantasia. Può
essere mezzo efficace di persuasione nella vita pratica, è un
mostro nel teatro, perché nel teatro non bastano gli accenni,
perché nel teatro la dimostrazione è impersonata in
uomini vivi, e gli accenni non bastano più, e le sospensioni
metaforiche devono scendere al concreto della vita, perché
nel teatro non bastano le virtù dello stile per creare
bellezza, ma è necessaria la complessa rievocazione di
intuizioni interiori profonde di sentimento che conducano a uno
scontro, a una lotta, che si snodino in un’azione. Detto ciò,
Gramsci loda la “molta abilità scenografica” e la
“vivacità e abilità dialogica” degli attori. Di tono
completamente opposto è invece quello che scrive a proposito
di Liolà. Dopo aver premesso nelle prime due righe che la
commedia non ha avuto successo, afferma che si tratta forse della
“migliore delle commedie che il teatro dialettale siciliano sia
riuscito a creare” e prosegue spiegando le ragioni dell’insuccesso
perché “non finisce secondo gli schemi tradizionali, con una
buona coltellata, o con un matrimonio /…/ ma non poteva finire che
così come è, e pertanto finirà con l’imporsi”.
Detto ciò, passa all’esame del testo, esame che cito solo in
parte: Liolà è il prodotto migliore dell’energia
letteraria di Luigi Pirandello. In esso il Pirandello è
riuscito a spogliarsi delle sue abitudini retoriche. Il Pirandello
è un umorista per partito preso, ciò che vuol dire che
troppo spesso la prima intuizione dei suoi lavori viene a
sommergersi in una palude retorica /…/ e di molta verbosità
inutile. Anche Liolà è passato per questo stadio, e
allora esso si chiamava Mattia Pascal /…/ In seguito Pirandello ha
ripensato alla sua creazione, e ne è venuto fuori
Liolà /…/ una commedia che si riallaccia con l’antica
tradizione artistica popolare della Magna Grecia /…/ di cui tanta
parte è pure rimasta nella tradizione paesana della Sicilia
odierna /…/ E’ un’efflorescenza di paganesimo naturalistico, per il
quale la vita, tutta la vita, è bella, il lavoro è
un’opera lieta, e la fecondità irresistibile prorompe da
tutta la materia organica. Mattia Pascal, il malinconico essere
moderno, l’osservatore della vita volta a volta cinico, amaro,
melanconico, sentimentale, vi diventa Liolà, l’uomo della
vita pagana, pieno di robustezza morale e fisica, perché
uomo, perché se stesso, semplice umanità vigorosa. La
commedia, in sostanza, viene a coincidere con quell’idea di teatro
che Gramsci ha esposto recensendo Così è (se vi pare).
Vorrei aggiungere due considerazioni a quanto scrive Gramsci a
proposito di Liolà. La prima è che vide giusto quando
parlò di “efflorescenza di paganesimo naturalistico”, non
è un caso infatti che la commedia venne la seconda sera tolta
dal cartellone per la violenta ostilità dei giovani cattolici
torinesi capeggiati dal critico teatrale di un giornale vicino alla
curia. La seconda, assai più rilevante, è quella che i
critici di allora furono quasi tutti ostili, da Domenico Oliva a
Domenico Lanza, a Eugenio Checchi (che dichiarò di non averci
capito nulla forse per colpa del dialetto) e che nessuno di loro men
che mai notò il cordone ombelicale, la connessione diretta
tra il capitolo IV del romanzo “Il fu Mattia Pascal”, edito nel 1906
e la commedia di dieci anni dopo. Segno di una loro conoscenza di
Pirandello semmai limitata alla sola drammaturgia pirandelliana, il
che è grave dato che il rapporto tra narrativa e teatro in
questo autore è strettissimo, continuo e ricco di mutamenti,
variazioni, ripensamenti. Come nel caso appunto di Mattia
Pascal-Liolà così acutamente notato dal critico
dell’Avanti!.
Ma dalla rimeditazione su Pirandello che Gramsci fa negli anni del
carcere, comprese in un capitolo a parte del volume che venne
intitolato “Letteratura e vita nazionale”, emerge tra le tante
almeno una straordinaria e illuminante indicazione propriamente
registica, propriamente da interpretazione registico- attoriale,
puntualmente disattesa dai registi negli anni successivi. Si trova
nel sottocapitolo intitolato L’”ideologia” pirandelliana e
direttamente discende dalle considerazioni fatte anni prima nella
recensione di Liolà. Gramsci a un certo momento si domanda se
i punti di vista esposti da alcuni personaggi di Pirandello, quelli
considerati più filosofici, più capziosi, siano
d’origine libresca e colta oppure rappresentino un qualcosa di
presente nella vita stessa, nella cultura del tempo, anche in quella
popolare di grado infimo. E si risponde facendo una comparazione tra
i drammi in dialetto, popolari, e quelli in lingua che rappresentano
un milieu borghese di tipo nazionale. “Ora pare -scrive- che, nel
teatro dialettale, il pirandellismo sia giustificato da modi di
pensare “storicamente” popolari e popolareschi, dialettali; che non
si tratti cioè di “intellettuali” travestiti da popolani, di
popolani che pensano da intellettuali, ma di reali, storicamente,
regionalmente popolani siciliani, che pensano e operano così,
proprio perché sono popolani e siciliani. Se questo si
dimostrasse, tutto il castello del pirandellismo, cioè
dell’intellettualismo astratto del teatro pirandelliano crollerebbe.
La stessa considerazione andrebbe fatta, suggerisce più o
meno direttamente Gramsci, anche per le commedie borghesi, ed
è chiaro qui il riferimento alla messinscena de ‘A Birritta
cu i ciancianeddi, “dove” -come scrive il recensore- “ continua la
rappresentazione esemplificata delle contraddizioni tra l’essere e
il voler essere, tra l’apparenza e la realtà, tra l’immagine
e il vero”, ebbene, malgrado tutto questo bric a brac di apparente
cerebralismo, la recitazione di Angelo Musco faceva sì che
“la vita fosse solo nell’interprete, che riesce a superare il tedio
delle lunghe parlate”. Torno a ripetere: una precisa indicazione per
registi e attori su come interpretare scenicamente Pirandello, come
dirlo, come proporlo con estrema semplicità e naturalezza.
A chiarimento del popolano naturaliter pirandelliano, ripropongo una
sorta di testimonianza già da me raccontata nel libro “Il
Gioco della mosca”. Peppi Nicotra, scaricatore del porto del mio
paese, si sposò con una giovanissima e bella ragazza,
Giovanna. Una settimana dopo il matrimonio, Peppi venne arrestato
perché aveva ucciso un uomo nel corso di una lite d’osteria.
Fu condannato a dieci anni di carcere. Giovanna abitava in una
casetta, nella periferia del paese, che Peppi aveva fabbricata con
le sue mani e che aveva una finestra allato alla porta d’ingresso.
Passato un anno, Giovanna cominciò a ricevere le visite
notturne di diversi uomini. E di questa condotta della moglie Peppi
venne informato in carcere. Scontata la pena e rimesso in
libertà, tutti si aspettavano che avrebbe vendicato l’offesa
uccidendo, se non gli amanti che in verità erano un po’
troppi, almeno la moglie. Invece Peppi andò a vivere in casa
di sua madre come se niente fosse successo. Poco dopo si sparse la
voce che aveva ripreso a frequentare, nottetempo, Giovanna,
trattandola però non da moglie, ma come tutti gli altri, da
compagna occasionale. E decadde dalla considerazione di tutti.
Senonchè un giorno uno dei più autorevoli cittadini,
anche lui frequentatore di Giovanna, volle avere da Peppi una
spiegazione del suo comportamento. E quello tranquillamente rispose:
“Io a Giovanna non me la potei godere come moglie, poco tempo
passò tra il matrimonio e il carcere. Quando uscii, mi
tornò desiderio di lei. E una notte l’andai a trovare. Tutto
qua. Però io entro dalla finestra”.
“E che vuol dire?”
“Dalla porta entrano i mariti, o no?”
“Certo. Da dove dovrebbero entrare?”
“E io invece ogni volta entro dalla finestra, come un amante. Voi
che entrate dalla porta per andarla a trovare, siete i mariti, io
sono l’amante.
Sono io che vi faccio cornuti a tutti”.
Venne riabilitato. Inutile dire che Peppi del suo compaesano Luigi
Pirandello mai aveva inteso parlare.
Aggiunge Gramsci: In Pirandello abbiamo uno scrittore “siciliano”,
che riesce a concepire la vita paesana in termini “dialettali”,
folcloristici /…/ che nello stesso tempo è uno scrittore
“italiano” e uno scrittore “europeo”. E in Pirandello abbiamo di
più, la coscienza critica di essere nello stesso tempo
siciliano, italiano ed europeo, ed è in ciò la
debolezza artistica del Pirandello, accanto al suo grande
significato “culturale”/…/ Questa contraddizione, che è
intima nel Pirandello, ha esplicitamente avuto espressione in
qualche suo lavoro narrativo (in una lunga novella, mi pare “Il
Turno”, si rappresenta l’incontro tra una donna siciliana e un
marinaio scandinavo, tra due “province” così lontane
storicamente).
Coscienza critica, scrive Gramsci, di essere siciliano, italiano,
europeo.
A metà degli anni settanta, si tenne a Cuneo un grande
convegno di studi pirandelliani, al quale parteciparono filosofi,
letterati e gente di teatro e il cui tema era “Pirandello e la
coscienza infelice”. La coscienza critica gramsciana era diventata
tout court hegelianamente infelice. Ma a metà degli anni
settanta anche in Italia era già nota la lettura innovativa
di Hegel da parte di Alexandre Kojève, fatta alle soglie
degli anni ’40 nella parigina Ecole Pratique des Hautes Etudes,
lettura che apriva le porte, tra l’altro, all’esistenzialismo, di
quell’esistenzialismo che qualcuno asserì non essere altro
che il “disinganno di un hegeliano”. Gramsci forse lo pensa, che
quella coscienza critica sia meglio definibile come coscienza
infelice, ma non osa spostare il busto di Hegel dallo scaffale
filosofico a quello letterario, i tempi non sono ancora maturi. Ed
è forse anche da questa mancata sostituzione dei due termini,
infelice al posto di critica, che nasce il lapsus che avrete notato.
Perché la lunga novella citata da Gramsci non si intitola Il
Turno, ma Lontano. E’ certo la novella più ampia tra tutte le
“Novelle per un anno”, ed è l’acuta, dolorosa indagine
narrativa su una presenza-assenza, su un non-esserci, su un
sopravvivere solo fisico in vista di un ricongiungimento che possa
restituire essenza, corpo, identità e che alla fine non
avverrà perché non può più avvenire. La
novella venne edita per la prima volta nel 1915 in un volume che
comprendeva anche il romanzo breve Il Turno già edito nel
1906. Ma non credo che sia stato solo questa contiguità delle
due opere a determinare il lapsus. Già c’è da
chiedersi perché Pirandello, sempre così attento nel
dosaggio delle novelle che andavano a costituire le diverse raccolte
in volume, abbia voluto mettere insieme questi due lavori in
apparenza così distanti, tanto che lo stesso autore definisce
“triste” la novella Lontano e “gajo, se non lieto” il romanzo Il
Turno. In verità, a saperlo leggere, solo la superficie del
romanzo appare gaia, ma appena si va in profondità, anche in
poca profondità, il paesaggio cambia. La storia è
quella di un padre, Marcantonio Ravì, che per fare la
felicità della figlia Stellina organizza un piano, un turno
appunto, che consiste nel darla prima in sposa al decrepito e ricco
Diego Alcozer il quale, si badi, ha già seppellito quattro
mogli, e quindi, dopo la sicura, vicina morte del vecchio, far
risposare Stellina, ormai ricca, con Pepè Alletto, un nobile
di provincia. Senonchè un seguito di circostanze
scompaginerà il turno, dopo Diego Alcozer Stellina
sarà costretta a sposare il cognato di Pepè Alletto,
l’avvocato Ciro Coppa che ne farà la sua schiava. E solo dopo
che l’avvocato è morto, Pepè Alletto, forse,
potrà tornare a candidarsi come marito di Stellina.
In realtà, a leggerlo con gli occhi d’oggi, anche questo
romanzo, come il racconto, è la storia di un’assenza
contornata da troppe presenze.
L’assenza è quella di Stellina, che certo è presente
di corpo con tutta la sua bellezza, ma che è completamente
impossibilitata a manifestare la sua volontà di donna, di
persona. Viene messa fin dall’inizio nella condizione di non poter
scegliere, di non poter esprimere una qualsiasi sua volontà,
è una merce di scambio, un oggetto da far passare da uomo a
uomo secondo un turno prestabilito. E anche se il caso farà
saltare il turno, a lei non verrà mai data voce in capitolo,
dovrà sempre continuare a camminare sulla strada che le
è stata segnata. Avrà certo qua e là delle
piccole ribellioni, ma sporadiche, occasionali. E sempre più
prenderà coscienza della sua infelicità, della sua
coscienza infelice, tanto che a un certo momento manifesterà
il proposito di un’assenza definitiva: quella di andarsi a chiudere
in un convento.
Sono convinto che a determinare il lapsus sia stata quindi non la
contiguità fisica dei due scritti ma la contiguità di
due vite condizionate dall’assenza: quella di Lars Cleen, lo svedese
spiaggiato a Porto Empedocle e quella di Stellina, la giovane di
Agrigento, “triste cittaduzza moribonda”, come la definisce
Pirandello, dalla quale si vede lo stesso mare che lo svedese Lars
va a guardare passeggiando lungo il molo, nell’attesa vana di una
nave che lo riporti in patria.
Solo che per scoprire il senso vero del Turno, oltre la sua
apparente gaiezza, servivano occhi acuti e soprattutto capaci di
guardare lontano, fino al modo odierno di leggere Pirandello.
Occhi che, per sua fortuna o disgrazia, Gramsci possedeva.
Andrea Camilleri
Lectio Magistralis in occasione del conferimento della Laurea
Honoris Causa in Filologia Moderna, Chieti, 12 novembre 2007
Last modified Saturday, July, 16, 2011