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Uomo politico (Casale Monferrato 1810 - Roma 1882). Medico, ma
maggiormente dedito all'agricoltura e al giornalismo, nel 1848
accorse volontario in Lombardia per combattere gli Austriaci e nel
maggio fu eletto deputato. Dapprima contrario alla ripresa delle
ostilità con l'Austria, quindi favorevole alla resistenza a
oltranza dopo la sconfitta di Novara, votò contro la pace di
Milano. Vicepresidente della Camera (1853), ministro dell'Istruzione
(1855), poi delle Finanze (1858), fu eletto (1860) presidente della
Camera, ed esercitò quest'ufficio con rigida
imparzialità. Accentuatasi intanto la sua evoluzione dal
centro-sinistra alla destra, della quale divenne uno dei capi
più autorevoli, fu ministro dell'Interno (sett. 1864 - ag.
1865), nuovamente presidente della Camera (1867-68 e 1869); quindi,
presidente del Consiglio (dic. 1869 - luglio 1873), proseguì
la riduzione delle spese militari in un regime di stretta economia,
evitando l'intervento in favore della Francia, allora in guerra con
la Prussia. Proprio la disfatta francese permise l'acquisizione di
Roma al Regno (1870). Dimessosi perché respinti i suoi
provvedimenti finanziarî, visse poi prevalentemente a Torino,
ove (dal 1878) fu presidente dell'Associazione costituzionale.
*
di Silvano Montaldo
LANZA, Giovanni. - Nato a Casale Monferrato il 15 febbr. 1810, perse
in giovane età il padre Francesco, fabbro e negoziante in
ferro, ma grazie all'impegno della madre Angela Maria Inardi e
all'aiuto di uno zio la famiglia raggiunse una certa agiatezza,
tanto da acquistare nel 1836, per 41.550 lire, una proprietà
di 33 ettari a Roncaglia. Dopo gli studi nel reale collegio di
Casale, nell'autunno 1827 si trasferì a Torino per terminare
le scuole secondarie e iscriversi alla facoltà di medicina; a
causa dei provvedimenti repressivi adottati nel 1830, dovette
però completare gli studi presso l'ospedale di Vercelli e,
tornato nella capitale (dove potè laurearsi solo nel 1832),
sviluppò una forte insofferenza verso l'autoritarismo e il
gesuitismo che dominavano l'Università. L'anno successivo,
approfittando delle facilitazioni previste dall'ordinamento, si
laureò anche in chirurgia. Durante il periodo torinese
stabilì un legame di amicizia con A. Sobrero e con la
famiglia di C. Zoppis, di cui il 25 luglio 1851 sposò la
figlia Clementina.
Alla mancanza di una tradizione familiare e all'origine provinciale,
che di fatto gli precludevano l'accesso alla carriera accademica, il
L. reagì con un forte impegno nello studio: nel novembre 1834
si trasferì a Pavia, dove insegnavano scienziati
d'avanguardia, come B. Panizza, e stava iniziando ad affermarsi il
metodo positivo e sperimentale. Dovette, però, interrompere
gli studi pavesi per una grave infezione, contratta nel gennaio 1835
durante l'esecuzione di un'autopsia e, nell'agosto seguente, prese
la decisione di tornare in Piemonte per fronteggiare l'epidemia di
colera. Dopo aver prestato volontariamente la sua opera in provincia
di Cuneo e a Genova, il L. rientrò a Pavia, da dove, nel
marzo 1836, raggiunse Milano per visitare ospedali e istituti di
assistenza, ma il soggiorno fu interrotto dalla polizia austriaca.
Il suo confidente e biografo E. Tavallini accenna all'imprudenza del
L., che "osava qualche volta chiacchierare anche dello stato in cui
giaceva allora l'Italia e dell'assolutismo dei troppi suoi governi;
e le sue idee egli spiattellava apertamente, senza cautele"
(Tavallini, I, pp. 23 s.).
Costretto a rinunciare al proposito di recarsi a Vienna, il L. si
trasferì a Parma, poi a Modena e a Bologna, da dove raggiunse
a piedi, con lo zaino in spalla, Firenze. Vi si fermò alcuni
mesi, entrando in contatto con M. Bufalini, sostenitore dello
sperimentalismo. Rientrato a Torino nel 1837 con un notevole
bagaglio di conoscenze, il L. tentò la carriera accademica,
ma un'affezione oftalmica lo costrinse nuovamente a lasciare gli
studi e a trasferirsi a Roncaglia. In questa circostanza il L.
maturò la decisione di dedicarsi alla cura della
proprietà terriera applicandovi metodi scientifici.
All'epoca la ricostituzione dell'antico Senato come suprema
magistratura di appello per il Piemonte orientale stava attirando a
Casale giovani avvocati di idee liberali, quali U. Rattazzi, C.
Cadorna, F. Mellana, P.D. Pinelli, che trovarono un luogo di
aggregazione presso l'Accademia filarmonica, di cui il L. divenne
socio. Agli studi agronomici e alla sperimentazione di aratri e
seminatrici in ferro affiancò la lettura di Muratori e Botta,
Denina, Sismondi, Hume e Galileo, di diverse opere di storia
parlamentare inglese, di legislazione del Piemonte, Belgio,
Inghilterra, e di alcune traduzioni dal tedesco.
Furono però anche anni di insoddisfazione e incertezza per il
L., cui pesavano l'orizzonte ristretto e il senso di
inutilità, solo in parte mitigato dall'assistenza gratuita
che prestava ai poveri della zona. Da qui la decisione di ritentare
la strada di Torino, cercando un'occupazione presso un ente
ospedaliero o assistenziale; il L. dovette, però, scontrarsi
di nuovo con le chiusure corporative e i limiti del mercato del
lavoro, che lo costrinsero ad accettare il ruolo di medico
volontario presso il ricovero di mendicità.
Nel 1842 la nascita dell'Associazione agraria fornì
l'opportunità di pubbliche discussioni su temi economici e
agì come palestra di educazione politica. Aderendovi tra i
primi, il L. ne divenne uno dei principali animatori, svolgendo
un'intensa attività pubblicistica sulle pagine della Gazzetta
dell'Associazione, cui affiancò la collaborazione alle
Letture di famiglia di L. Valerio e al Messaggiere torinese di A.
Brofferio, occupandosi di statistica, credito agrario, enologia,
rete viaria, insegnamento e piccola proprietà contadina,
pauperismo e beneficenza. Ebbe inoltre vari incarichi
nell'Associazione e fu tra i fondatori del comizio agrario di
Casale.
Nel 1846 andavano delineandosi con maggiore chiarezza schieramenti
partitici caratterizzati da una visione profondamente diversa dei
principali problemi politici e sociali da affrontare, il che
provocò una spaccatura nel movimento riformatore. Dopo un
duro scontro con C. Cavour, allora su posizioni piuttosto
conservatrici, Valerio, il L., M. Cordero di Montezemolo e R. Sineo
assunsero il controllo dell'Agraria, grazie all'appoggio dei
ministri più orientati verso le riforme e dello stesso Carlo
Alberto, interessati a conservare buoni rapporti con un gruppo la
cui influenza era crescente nel paese, nonostante gli allarmismi di
chi lo indicava come "parti libéral exagéré",
radicale o "populaire". In realtà, come il L. ammise un anno
più tardi, i suoi massimi ideali erano l'unità e
l'indipendenza della patria, "la fratellanza di tutti i suoi
abitanti, la conquista dei diritti, che solo possono rendere
prospera la sua sorte futura, rendere e ripartire una maggiore copia
di beni fra tutti gli italiani, e far cessare quella ineguaglianza
di diritti, che mantiene miserabile e ignorante la più gran
parte di loro" (il L. a C. Zoppis, 7 sett. 1847, in Le carte di G.
Lanza, I, p. 163).
Nel maggio 1846 il L. si recò in Toscana, dove per conto di
Valerio e di C. Balbo incontrò G. Capponi, G.P. Vieusseux, C.
Ridolfi, E. Mayer. Nei mesi seguenti assunse una posizione di
rilievo nelle iniziative volte a incitare il governo a più
rapide riforme e a spingerlo su posizioni sempre più
intransigenti nei confronti dell'Austria. Fu lui, alla fine
dell'agosto 1847, a scrivere l'indirizzo al re col quale si offriva
all'esercito il concorso di una guardia nazionale e a raccogliere,
insieme con Valerio e G. Cornero, adesioni a tale documento durante
il congresso agrario di Casale, finché non intervenne il
presidente F. Avogadro di Collobiano, che denunciò la vicenda
a Carlo Alberto provocando la celebre lettera in cui questi
annunciava il proposito d'intraprendere una guerra d'indipendenza.
In novembre il L. fu tra i fondatori della Concordia, il giornale
politico voluto da Valerio, da cui si allontanò in dicembre
per fondare l'Opinione, che, diretto da G. Durando, si
collocò in una posizione intermedia tra la Concordia e il
Risorgimento di Balbo e Cavour. La riconciliazione con Valerio
avvenne il 7 genn. 1848, durante la riunione dei giornalisti
torinesi all'albergo d'Europa, quando Cavour avanzò la
proposta di chiedere al re la costituzione e Valerio e il L., decisi
a restare fedeli alla direttiva giobertiana di evitare passi che
potessero incrinare i buoni rapporti con Carlo Alberto, rifiutarono
di aderire alla proposta.
Alla notizia dell'insurrezione di Milano il L. varcò il
Ticino armato di fucile, impegnandosi tra i volontari nella
propaganda antimazziniana e filoalbertista. In Lombardia lo
raggiunse la notizia che tre collegi lo avevano proposto come
candidato alle prime elezioni del Parlamento subalpino. Fu quello di
Frassineto a eleggerlo, dando inizio a una carriera politica
destinata a proseguire ininterrottamente per quattordici
legislature. Il suo primo collegio lo riconfermò fino al 1874
(nella VII legislatura in unione con Occimiano, dall'VIII all'XI
accorpato ad altri collegi, con capoluogo Vignale), quando,
sconfitto a Frassineto, fu eletto in quello di Torino II, che lo
riconfermò nelle elezioni del 1876 ma non in quelle del 1880,
quando si affermò nella sua città.
All'esordio parlamentare militò a sinistra, rivendicò
il carattere popolare della guerra e in agosto rifiutò la
carica di primo ufficiale agli Interni che gli offriva l'effimero
governo presieduto da G. Casati, accettando invece l'incarico di
commissario straordinario della milizia comunale di Vercelli e
Casale. Salito al potere V. Gioberti, il L. ne sostenne fortemente
l'operato, alla Camera e sull'Opinione, e continuò a
difenderlo anche quando si profilò l'intervento in Toscana
per restaurare Leopoldo II, che portò alla crisi del
ministero. Le divergenze insorte con i democratici si accentuarono
di fronte alla ripresa delle ostilità con l'Austria, che il
L. non voleva avvenisse senza il concorso degli altri Stati
italiani. Secondo il Risorgimento, egli era la guida della Sinistra
moderata che si stava differenziando sempre più dalla
Sinistra pura di Valerio. Dopo la sconfitta di Novara, trascorsi i
giorni più difficili in cui il L. lanciò accuse di
tradimento e invocò la resistenza popolare, tale processo di
separazione proseguì e si rafforzò con l'ascesa al
potere di M. d'Azeglio: il L., Cornero e Cadorna, preoccupati che
l'intransigenza di Valerio mettesse a rischio lo statuto, si
staccarono dall'opposizione e tra l'estate e l'autunno incontrarono
più volte gli esponenti del governo.
Chiusosi il biennio rivoluzionario con il trattato di pace, che il
L. respinse rilevandone il carattere incostituzionale, insieme con
Rattazzi, Cornero, Cadorna e Buffa fondò il centro-sinistra e
assecondò l'impegno di d'Azeglio per lo sviluppo del
liberalismo. Come membro della commissione permanente di Agricoltura
e commercio e della commissione generale di Bilancio, si
sobbarcò a un duro lavoro partecipando alla trattazione di
numerose questioni e affinando la conoscenza dei meccanismi della
vita statale. Fu per questa via che il L., dopo un iniziale
scetticismo, si rese disponibile a partecipare al connubio, con il
quale uomini che avevano un passato di militanza democratica
facevano il loro ingresso nella classe di governo, aprendo la strada
ad altri antichi esponenti della democrazia radicale, di ogni parte
d'Italia, che li seguirono negli anni successivi formando la Destra
storica.
Il 16 nov. 1853 il L. fu eletto alla vicepresidenza della Camera,
cui venne riconfermato nella quinta legislatura, durante la quale
fece parte anche della commissione di Bilancio, di cui fu relatore,
di quelle di Finanza e del Catasto; inoltre, fu commissario di
vigilanza della Cassa depositi e prestiti. Grazie a un impegno
febbrile, sviluppò una grande competenza in queste materie e
rafforzò l'ascendente sui colleghi. Liberista intransigente,
marcò il proprio dissenso dal governo sui trattati di
commercio, ma lo sostenne nei difficili mesi del 1854 e nel 1855,
quando, convinto che Cavour dovesse restare al potere,
rifiutò l'incarico ministeriale offertogli da Durando
all'epoca della crisi Calabiana. Tale coerenza gli valse la stima di
Cavour, di cui divenne confidente. La loro collaborazione
iniziò con la preparazione della spedizione in Crimea, quando
il L. si adoperò per allentare le resistenze della Sinistra e
fu relatore della commissione che esaminò il trattato di
alleanza. Il 31 maggio 1855 il L. entrò nel governo Cavour
come ministro della Pubblica Istruzione. Furono Rattazzi e lo stesso
Vittorio Emanuele II a vincere le perplessità del L., conscio
della necessità di cambiare profondamente il sistema
educativo e adeguare l'università ai livelli europei
facendone un pilastro dell'ideologia liberale.
Il progetto si scontrò con un bilancio statale critico, che
costrinse a concentrare le risorse su Torino, e con l'opposizione
dell'establishment accademico piemontese a uno svecchiamento
radicale che facesse spazio a scienziati provenienti dagli altri
Stati italiani e con esperienze di militanza politica e d'esilio,
come R. Piria e S. Cannizzaro. Per vincere le resistenze, il 12 nov.
1855 il L. presentò in Senato un progetto di legge sul
riordinamento dell'amministrazione superiore della Pubblica
Istruzione, sul quale si aprì un ampio dibattito. Nonostante
la forte opposizione degli ambienti ecclesiastici, la legge
entrò in vigore il 22 giugno 1857, rafforzando
l'autorità del ministro e contribuendo a qualificare in senso
liberale la condotta del governo. Non giunse in aula, invece, il
disegno di legge sulla scuola elementare presentato il 10 dic. 1855,
non meno ambizioso ai fini di una politica di nazionalizzazione: il
L. dovette limitarsi a far approvare la parte relativa alla
formazione dei maestri, ma il controprogetto redatto dalla
commissione parlamentare confluì nella legge Casati, che
inoltre disegnò l'apparato amministrativo della scuola
italiana plasmandolo sul modello della legge del 1857.
Nel gennaio 1858, all'uscita di Rattazzi dal governo, il L. ebbe la
reggenza del ministero delle Finanze, in cui si era già
impegnato per brevi periodi nel 1855 e nel 1856 in sostituzione di
Cavour. Ciò non fu senza conseguenze: l'astio di Rattazzi
verso il conte si estese anche al L., il quale, intanto, si
addossava un enorme lavoro, fino a che, in ottobre, ottenne la
titolarità delle Finanze e cedette il dicastero
dell'Istruzione a Cadorna. Dopo aver sostenuto una dura battaglia
durante la discussione del bilancio preventivo del 1859, il L.,
d'accordo con Cavour, per appianare le difficoltà finanziarie
e approntare le risorse necessarie alla realizzazione degli accordi
di Plombières varò un prestito interno di 50 milioni
di lire. L'operazione, non priva di rischi, ottenne un notevole
successo, che assunse anche un chiaro significato politico
dimostrando il consenso che il governo riscuoteva presso i ceti
medi.
Non meno ardito fu il salvataggio della Banca nazionale sarda, in
condizioni critiche per l'eccessiva esposizione verso il Credito
mobiliare, che lo stesso L. aveva dovuto liquidare, e per i forti
acquisti e le numerose anticipazioni su azioni e obbligazioni
ferroviarie. L'operazione fu realizzata con l'assunzione da parte
dello Stato della proprietà di alcune linee ferroviarie,
lasciando libera la conversione tra azioni e titoli del debito
pubblico.
Dimissionario col resto del ministero dopo l'armistizio di
Villafranca, il L. non entrò nel nuovo governo Cavour, ma il
10 apr. 1860 venne candidato dal conte alla presidenza della Camera
in contrapposizione a Rattazzi. Fu un'elezione contrastata, per
l'ostilità che circondava Cavour da quando si era diffusa la
notizia dell'intenzione di cedere Nizza e Savoia, e per i rancori
personali e la fama di eccessiva rigidità che il L. si era
acquistato durante la permanenza al governo.
Sul seggio presidenziale il L. non fece nulla per smentire tale
opinione, guadagnandosi quel nomignolo di "carabiniere" che gli
rimase cucito addosso, in cui si riflettevano certe sue asprezze
caratteriali ma anche le esigenze di una fase del tutto
straordinaria, che richiedeva l'assimilazione delle regole della
vita parlamentare da parte della nuova classe politica, il
consolidamento delle istituzioni rappresentative e lo sviluppo
dell'azione governativa in tempi rapidi. Benché non avesse
approvato l'impresa dei Mille, temendo il rischio di una guerra
civile e di un'estensione internazionale del conflitto, in
qualità di presidente della Camera accolse il re Vittorio
Emanuele II a Napoli. Da quel viaggio il L. trasse la convinzione
che gli ordinamenti costituzionali non sarebbero bastati per
governare le nuove province e che fosse necessaria una sorta di
dittatura per "rigenerare civilmente e politicamente gl'italiani del
Sud" (il L. a Cavour, 8 dic. 1860, in Tavallini, I, p. 253).
Tornato semplice deputato con l'inizio della nuova legislatura per
favorire un riavvicinamento tra Rattazzi e Cavour, alla morte di
quest'ultimo il L. era ormai uno dei capi della Destra, ma,
preoccupato per l'emergere delle divisioni regionali tra i partiti,
attonito di fronte ai fatti di Aspromonte, si occupò
soprattutto di questioni finanziare e amministrative e presiedette
la commissione d'inchiesta sulle Ferrovie meridionali, che per la
prima volta mise in luce i pericolosi legami tra deputati e ambienti
affaristici. Al governo ritornò in condizioni difficilissime
il 27 sett. 1864, dopo i tumulti avvenuti a Torino il 21 e 22 in
seguito alla notizia della perdita del ruolo di capitale. Costretto
alle dimissioni M. Minghetti, che alcuni giorni prima aveva proposto
al L. di entrare nel ministero, l'incarico di formare un nuovo
governo cadde su A. Ferrero della Marmora, che affidò al L.
il dicastero dell'Interno.
Pur riconoscendo come inopportuno e dannoso il trasporto della
capitale, il L. presentò la convenzione di settembre come un
passo verso la soluzione della questione romana e insistette sul
fatto che essa non conteneva una rinuncia a Roma e che il ritiro
delle truppe francesi apriva la via ad accordi diretti col papa non
escludendo la possibilità che i Romani prendessero
l'iniziativa. In novembre la convenzione fu approvata e in dicembre
poté essere promulgata la legge per il trasporto della
capitale, ma il risentimento per l'abbandono di Torino indusse la
maggioranza dei deputati piemontesi a costituire l'Associazione
liberale permanente, decisa a difendere gli interessi della regione
e a combattere qualsiasi governo che non avesse perseguito
l'obiettivo di Roma capitale.
Il clima politico infuocato sortì tuttavia l'effetto di
accelerare la fine dell'incertezza legislativa e amministrativa in
cui versava il Paese. Il L. e il guardasigilli G. Vacca presentarono
due disegni di legge per autorizzare il governo a rendere esecutivo
con semplice decreto un ampio pacchetto di provvedimenti quasi tutti
ancora in discussione nelle commissioni e mai giunti in aula.
L'approvazione del disegno di legge Lanza subì però un
iter diverso. Ministro e commissione parlamentare si accordarono per
la presentazione di sei nuove leggi come allegati di un'unica
brevissima legge: una sorta di voto in blocco del corpus normativo
fondante il nuovo ordinamento amministrativo, che all'epoca
sollevò più di una perplessità sulla
legittimità costituzionale della procedura: ancora oggi
è oggetto di discussione se la delega ottenuta dal governo
segnò il tramonto dell'illusoria centralità delle
Camere o fu piuttosto una temporanea cessione di sovranità da
parte di un Parlamento consapevole dei suoi limiti. I lunghi e
sterili conflitti in cui si erano impantanati Camera e Senato negli
anni precedenti facilitarono infatti il compito dell'esecutivo e
dopo solo tre mesi di discussione un Parlamento demotivato e stanco
cedette: la legge di unificazione amministrativa, destinata a
diventare un perno della legislazione italiana, venne promulgata il
20 marzo 1865.
Completata l'inchiesta sui fatti di Torino, il L. dovette affrontare
un altro difficile tornante: aiutato dal presidente della Camera,
G.B. Cassinis, radunò nella sua abitazione i principali
deputati piemontesi per persuaderli a non sollevare discussioni e si
accordò con B. Ricasoli per un ordine del giorno che
troncò ogni polemica, ma sottovalutò la portata del
risentimento popolare e non impedì lo svolgimento del
tradizionale ballo a corte per il carnevale, che fornì
l'occasione a una parte della cittadinanza di dimostrare
l'ostilità verso lo stesso sovrano. Il L. offrì le sue
dimissioni, subito respinte, ma dovette impegnarsi in una difficile
mediazione tra la corte e il Consiglio comunale. Ad avvicinare il L.
a Vittorio Emanuele II fu, in quei mesi, il suo coinvolgimento nella
diplomazia parallela del sovrano per la preparazione di
un'insurrezione popolare in Veneto e in Dalmazia, poi abbandonata
quando fu stretta l'alleanza con la Prussia.
Fino ad allora il L. aveva avuto un peso notevole nella compagine
ministeriale; la situazione si modificò di fronte alla
questione romana. Irritato per il modo con cui il governo aveva
lasciato fallire la missione di F.S. Vegezzi e per il ritiro del
progetto Vacca-Sella sulla soppressione degli ordini religiosi, il
L. si attirò l'ostilità delle correnti laiche e
progressiste e si trovò sempre più isolato. Infatti,
per quanto piemontese, egli non entrò mai nella Associazione
permanente e mantenne una certa equidistanza rispetto alle divisioni
regionali, auspicando il ricompattamento dei partiti intorno a
principî generali. A queste idee si ispirava una sorta di
avvertimento agli elettori, scritto da d'Azeglio e promosso dal L.
in vista delle elezioni politiche ormai imminenti, che egli
però non poté organizzare: rassegnò le
dimissioni il 22 ag. 1865, dopo uno scontro con Sella, che aveva
nominato a segretario delle Finanze G. Finali, uomo della
Consorteria tosco-romagnola e amico di Minghetti.
Il L. intervenne ancora contro il malcostume politico durante la
discussione della legge sulle incompatibilità parlamentari,
ma si concentrò soprattutto sulla situazione delle Finanze,
come presidente della commissione per i provvedimenti finanziari e
membro della commissione di Bilancio. Nel novembre 1867 L.F.
Menabrea, che aveva assunto il governo dopo le dimissioni di
Rattazzi, per dividere l'opposizione fortemente mobilitata di fronte
agli errori che avevano portato al disastro di Mentana, propose alla
presidenza della Camera il L., che non aveva approvato la politica
rattazziana e che, pur non essendo un seguace del governo, non gli
era ostile. Il 9 dic. 1867 il L. fu eletto contro Rattazzi,
candidato della Sinistra, e nel suo discorso di insediamento
replicò alla presa di posizione del ministro francese E.
Rouher, che aveva fermamente negato il diritto dell'Italia su Roma.
Tale presidenza non sarebbe durata a lungo: il 6 ag. 1868 il L.
abbandonò il suo seggio per pronunciare un durissimo discorso
contro la legge istitutiva della Regìa cointeressata dei
tabacchi voluta dal ministro L.G. Cambray Digny. La Regìa fu
approvata e il L. si dimise dalla presidenza, ma dalla discussione
era emerso un nuovo schieramento delle parti politiche: si
pronunciarono infatti contro la convenzione la Permanente, il L.,
Sella e i loro seguaci, il gruppo rattazziano e la maggioranza della
Sinistra.
Si trattava di forze molto eterogenee, che però si erano
già espresse congiuntamente contro il macinato e le
operazioni di credito del governo e, più in generale, si
opponevano a una condotta politica che subiva fortemente le
influenze della corte. La votazione aveva inoltre aggravato la
frattura fra i due più forti gruppi della Destra, i
piemontesi e i toscani. Menabrea venne così a trovarsi in
serie difficoltà nel novembre seguente, quando le voci
circolanti sulla corruzione di alcuni deputati che avevano votato in
favore della Regìa furono rilanciate dalla stampa di
sinistra. La questione si trascinò nei mesi seguenti, tra
vari colpi di scena, senza scalfire la stretta compenetrazione tra
capitalismo bancario e affaristico e ceto politico, ma logorò
il governo.
Il 19 nov. 1869 le forze che si erano opposte alla Regìa
riuscirono a eleggere il L. alla presidenza della Camera contro il
candidato governativo A. Mari. Il giorno dopo Menabrea si dimise,
aprendo una lunga crisi, resa difficile dall'atteggiamento del re,
che si era fortemente esposto, e dall'impossibilità di
fondare un nuovo governo con la maggioranza che aveva eletto il
Lanza. Vittorio Emanuele II cercò finché poté
di evitare di conferire l'incarico al L., il quale, del resto, non
intendeva far leva sulla maggioranza prevalentemente di sinistra che
lo aveva votato, dalla quale non voleva essere dominato e da cui lo
separava anche la convinzione della necessità di aumentare la
pressione fiscale per raggiungere il pareggio. Lo stesso gruppo
piemontese era tutt'altro che compatto, dato che il L. e Sella erano
rivali tra loro ed erano stati spesso in contrasto con la
Permanente. All'inizio di dicembre il L. rinunciò a
costituire il governo, ma il fallimento dell'incarico a E. Cialdini
e poi a Sella lo mise in condizione di riprovare e di riuscire.
Il nuovo governo entrò in carica il 14 dic. 1869, composto
dal L. (presidenza e Interno), Sella (Finanze), E. Visconti Venosta
(Esteri), G. Govone (Guerra), M. Raeli (Giustizia), C. Correnti
(Istruzione), G. Gadda (Lavori pubblici), S. Castagnola
(Agricoltura, industria e commercio), cui si aggiunse, l'8 genn.
1870, G. Acton (Marina): negli uomini, quasi tutti di origine
settentrionale, rappresentava quanto di nuovo e di avanzato poteva
esprimere il grande partito liberale moderato, sebbene si
presentasse piuttosto in nome delle proprie idee che di un partito,
capace di garantire la continuità della linea della Destra in
politica estera e in politica finanziaria e al tempo stesso di porre
fine all'eccessiva faziosità verso la Sinistra costituzionale
che aveva caratterizzato il governo Menabrea. Inoltre, il L.
costrinse Vittorio Emanuele II a limitare le interferenze del
partito di corte, ottenendo il licenziamento di F.A. Gualterio da
ministro della Real Casa e il ritiro di Menabrea e Cambray Digny
dagli incarichi che avevano presso la Casa militare e civile del re.
Il 15 dicembre il L. presentò il governo alla Camera
evidenziando la centralità del problema finanziario e
ribadendo una linea moderata in tutte le altre questioni, ma il
Sella chiese misure gravi e impietose, che urtarono la maggioranza.
Fu Minghetti, ispirato dagli ambienti di corte, a soccorrere il
governo con una manovra che indebolì il L. il quale, accusato
dai giornali di essere stato salvato dalla Consorteria, attaccato
anche dalla Sinistra e da Rattazzi, cadde in una profonda crisi
morale. Le sue difficoltà si acuirono in maggio e in giugno,
quando scoppiarono in varie parti d'Italia i tentativi
insurrezionali mazziniani. Messo sotto accusa dalla Consorteria che
puntava a sostituirlo con Minghetti, il L. ricevette un aiuto dalle
tensioni scoppiate tra Francia e Prussia: il 25 luglio 1870, a
guerra dichiarata, il dibattito parlamentare sulla situazione
dell'ordine pubblico non poté che riconfermare il suo
operato.
D'altra parte, la crisi internazionale indusse il L. a moltiplicare
gli sforzi contro l'organizzazione repubblicana: il 12 agosto
Mazzini, appena sbarcato a Palermo, fu arrestato e trasferito a
Gaeta, dove restò imprigionato fino al 14 ott. 1870, quando
fu liberato in seguito all'amnistia decretata per la presa di Roma.
Nel frattempo altri motivi di preoccupazione erano venuti al L.
dall'apertura del concilio Vaticano I (8 dic. 1869), rispetto al
quale il governo aveva cercato di rinforzare la corrente
antinfallibilista, e, su un altro fronte, dalla politica personale
di Vittorio Emanuele II a sostegno di un'alleanza tra Vienna, Parigi
e Firenze in funzione antiprussiana. Le trattative si erano arenate
di fronte alle richieste italiane per Roma, ma lo scoppio della
guerra e la richiesta d'aiuto partita da Napoleone III riproposero
la questione, nonostante il governo si fosse subito proclamato
neutrale. Visconti Venosta seppe prendere tempo, tenendo in sospeso
le offerte francesi fino a quando le vittorie prussiane di inizio
agosto costrinsero il re e i militari che più si erano
impegnati per l'alleanza con la Francia a recedere dalle loro
posizioni. Ciononostante, per tutto agosto Vittorio Emanuele II
continuò a esprimere la propria ostilità al governo,
tanto da indurre il L. a presentare il 7 settembre le dimissioni,
che tuttavia furono respinte.
Il ritiro delle truppe francesi accelerò la ricerca di una
soluzione della questione romana: di fronte al pericolo di colpi di
mano di matrice garibaldina o repubblicana, il governo si
cautelò inviando un forte contingente sul confine del Lazio
al comando di R. Cadorna e chiedendo al Parlamento uno stanziamento
straordinario di 40 milioni di lire per spese militari. Alla Camera,
riconvocata d'urgenza il 16 agosto, il L. difese l'operato di
Visconti Venosta dagli attacchi della Sinistra dichiarando che il
governo avrebbe approfittato di ogni circostanza per risolvere la
questione romana, ma escludendo il ricorso a mezzi rivoluzionari. Il
20 agosto la Camera approvò un ordine del giorno di fiducia
al governo con una formula che ribadiva le aspirazioni nazionali su
Roma, ma senza rassicurare la Sinistra, che minacciò di
dimettersi in massa. A questo punto, con Sella deciso a lasciare
qualora il governo non avesse mantenuto l'impegno, il L. fu
costretto a premere su Visconti Venosta, che con molte cautele stava
avviando la preparazione diplomatica di un'eventuale occupazione
dello Stato pontificio.
Il Consiglio dei ministri prese per base di future trattative con il
pontefice il progetto di sistemazione preparato da Cavour e diede
ampie informazioni in proposito ai rappresentanti italiani
all'estero. Il 3 settembre, alla notizia della sconfitta francese di
Sedan, la Sinistra rinnovò la minaccia di dimissioni in massa
e una forte agitazione percorse l'opinione pubblica del Paese, ma il
Consiglio dei ministri respinse la proposta di Sella e Castagnola di
procedere all'occupazione dello Stato pontificio. Il giorno
successivo la proposta, avanzata dal L., fu approvata nonostante i
voti contrari di Visconti Venosta, Acton e Govone, ma prevalse
l'opinione di non estendere l'occupazione alla città di Roma.
Solo il 5 settembre, quando si seppe che in Francia era stata
proclamata la repubblica, si decise all'unanimità di occupare
anche Roma, previo un ultimo tentativo di accordo con Pio IX
affidato a G. Ponza di San Martino, mentre Visconti Venosta inviava
una nuova circolare ai rappresentanti italiani in cui giustificava
la decisione con la necessità di garantire la sicurezza
dell'Italia. Il 20 settembre, fallita la missione di Ponza di San
Martino e anche l'ultimo tentativo di evitare il ricorso alle armi
fatto dal ministro prussiano a Roma, la fanteria e i bersaglieri
entrarono in Roma. Il ministero diede però l'impressione di
essere stato incerto fino all'ultimo, meritandosi gli icastici versi
carducciani su "L'Italia grande e una" che andava nottetempo a Roma
"perché il dottor Lanza teme i colpi di sole".
La presa di Roma non diminuì le tensioni all'interno della
compagine governativa: il L. e Sella si scontrarono sui tempi
dell'andata a Roma del re (che il primo voleva avvenisse solo dopo
la sistemazione dei rapporti col papa) e sulla decisione del secondo
di candidarsi alle elezioni come rappresentante della Città
eterna: a tale proposito Sella rinunciò quando il L.
minacciò nuovamente di dimettersi.
Dopo lo svolgimento del plebiscito per l'annessione, che fu esteso
alla Città leonina, e il fallimento delle trattative col
cardinale G. Antonelli, il 20 nov. 1870 si svolsero le elezioni
politiche generali. Il governo si presentò con un programma
che era il risultato del suo carattere composito e non si prestava a
favorire un nuovo e più chiaro schieramento dei partiti che
anche il L. auspicava. Al tempo stesso, però, il governo si
riaffermava come punto di riferimento insostituibile per coloro che
erano convinti della necessità di chiudere le grandi
questioni ancora aperte e avviare una nuova fase nella vita del
Paese. Le elezioni, in cui per la prima volta non si verificarono
forti interferenze governative, cosicché lo stesso presidente
del Consiglio fu costretto a ricorrere al ballottaggio, furono
caratterizzate da una bassissima affluenza e portarono alla Camera
ben 184 nuovi deputati, che sedettero in prevalenza al Centro e
contribuirono a rendere ancor più sfumate le distinzioni tra
i partiti. Anche questo era il segno di una svolta che il governo L.
si assunse il compito di portare a compimento, sebbene la Sinistra
passasse in blocco all'opposizione, di cui si fece portavoce
Rattazzi.
Il 9 dicembre il L. presentò tre disegni di legge relativi
alla conversione in legge del decreto di accettazione del plebiscito
romano, al trasporto della capitale a Roma, alle garanzie di
indipendenza del papa e del libero esercizio dell'autorità
spirituale da parte della S. Sede. Nella discussione della legge
delle guarentigie il L., seguace del principio cavouriano della
"libera Chiesa in libero Stato", accettò le modifiche
introdotte dalla commissione incaricata di studiare i punti
più controversi, che limitò il separatismo del
progetto originario introducendo alcune restrizioni
giurisdizionalistiche. Il testo finale, approvato il 2 maggio 1871,
per quanto respinto da Pio IX, regolò i rapporti tra il
governo e la S. Sede, nonostante l'assenza di rapporti ufficiali tra
le due parti, e fu un punto di riferimento costante della politica
estera italiana.
Per il suo operato, il L. ricevette nell'ottobre 1870 il collare
dell'Annunziata, la massima onorificenza sabauda, che lo poneva in
una sfera di particolare vicinanza al re. Il governo poté
contare su un periodo di relativa tranquillità politica, che
Sella utilizzò per combattere il disavanzo dello Stato, ma
dovette affrontare una recrudescenza di criminalità che,
sommandosi al diffuso malcontento popolare, rese esplosiva la
situazione in alcune province. Nel marzo 1871 il L. presentò
una serie di provvedimenti sulla pubblica sicurezza ispirati da una
logica di stretta difesa dell'ordine che non teneva presente la
richiesta di un nuovo rapporto tra il cittadino e lo Stato posta dal
diffondersi di organizzazioni politiche anche fra i ceti
medio-bassi. La ricerca di una parziale risposta a queste esigenze
era invece alla base dei progetti di riforma amministrativa del L.,
che stava studiando per correggere gli aspetti più negativi
dell'ordinamento centralistico e gerarchico adottato nel 1865 (e che
già il 15 marzo 1870 aveva presentato una proposta di riforma
della legge comunale e provinciale, poi ritirata). Ribadita
l'intenzione di attuare una riforma amministrativa nel programma
elettorale, il L. nominò una commissione per studiare il
problema. Fu un lavoro importante, di cui egli tenne conto quando,
il 1° dic. 1871, propose un nuovo ddl per modificare
l'ordinamento comunale e provinciale. Pur riproducendo
sostanzialmente i progetti dell'anno precedente, il L. aggiunse
alcune innovazioni, quali la concessione del voto amministrativo ai
corpi collettivi e alle donne, pensando di attuare così il
massimo di decentramento possibile per i tempi; anche questo
progetto, però, fu criticato sia a destra, sia a sinistra e
venne definitivamente respinto dalla commissione incaricata di
esaminarlo. Né ebbe maggiore fortuna il progetto di legge sul
riordino della guardia nazionale, che decadde con la fine della
legislatura; e il L. non riuscì a risolvere neppure le
carenze della legge sulla sanità pubblica, di cui era
chiaramente consapevole. Ormai la forza propulsiva del governo
andava esaurendosi, come dimostrò la vicenda della legge
sulla scuola preparata da Correnti.
La riforma, che prevedeva l'abolizione della figura del direttore
spirituale, fu sostenuta dalla Sinistra e ostacolata dalla Destra.
Il governo si trovò così in una posizione ambigua,
dalla quale uscì solo con il ritiro del progetto e le
dimissioni di Correnti, cui il L. associò le sue e che furono
nuovamente respinte. Le difficoltà del governo si accrebbero
a causa di alcuni incidenti politici a sfondo regionale, suscitati
dalla condotta del prefetto di Napoli e dalla vicenda dell'arsenale
di Taranto, che costarono al L. pesanti accuse di
antimeridionalismo.
Tuttavia, al governo spettò ancora il compito di varare la
legge sulle corporazioni religiose e la liquidazione dell'asse
ecclesiastico in Roma, che aveva un riflesso internazionale non
trascurabile poiché nella capitale risiedevano gli organi
centrali o i rappresentanti presso il papa degli ordini religiosi,
molti dei quali avevano all'estero la maggior parte delle loro case
e dei loro membri. La legge, che provocò forti discussioni,
fu approvata il 27 maggio 1873.
Pochi giorni dopo moriva Rattazzi: il L. perdeva un avversario
personale, ma la Destra non aveva più motivo di volere a
tutti costi un governo Lanza per evitare il rischio che Rattazzi
tornasse al potere. Respinte le proposte di quanti lo invitavano a
cercare un compromesso con la Sinistra, d'accordo con Sella il L.
decise di cadere in Parlamento sui provvedimenti finanziari
necessari per evitare che le maggiori spese richieste dalla riforma
dell'esercito facessero fallire il programma di risanamento. Il 25
giugno 1873, un ordine del giorno accettato dal ministero che
chiedeva l'immediata discussione dei provvedimenti finanziari fu
respinto dalla Camera, in cui ben 257 deputati erano assenti. Il
governo diede le dimissioni e il L. si adoperò per facilitare
la nascita del nuovo ministero guidato da Minghetti.
Uscito dal governo, il L. assunse una posizione defilata, pur
godendo di un notevole prestigio personale. La fase calante della
sua carriera politica fu però angustiata da una serie di
denunce sul suo operato come ministro e presidente del Consiglio. Le
accuse più gravi riguardarono l'esistenza di dossier
personali sui capi dell'opposizione e l'intervento contro D. Tajani,
procuratore generale presso la corte d'appello di Palermo; ma non
minori amarezze costò al L. il ricorrente sospetto di essersi
sempre opposto alla conquista di Roma. Emarginato anche da Sella e
Minghetti, che tentarono di ricostruire le file della Destra dopo il
1876, si impegnò nella vita politica locale lottando contro
la diffusione delle risaie e per la tutela della salute pubblica;
presiedette l'Associazione costituzionale, sorta a Torino per
difendere le istituzioni statutarie, e fondò un'analoga
organizzazione a Casale. Le sue apparizioni alla Camera furono
però sempre più rare, anche a causa di crescenti
difficoltà finanziarie. Nel 1882, benché malato, volle
essere presente in Parlamento in occasione della discussione di un
nuovo progetto di legge comunale e provinciale. Per pagare le spese
del viaggio fu costretto a vendere l'ultima coppia di buoi rimasta a
Roncaglia.
Il L. morì a Roma il 9 marzo 1882, in una stanza d'ammezzato
dell'albergo New York.
Al vice parroco di San Lorenzo in Lucina, che lo sollecitava a
ritrattare in punto di morte quanto aveva commesso contro la
religione e le leggi della Chiesa, il L. non rispose.