www.treccani.it
di Alberto Beniscelli
Nacque a Venezia il 13 dic. 1720, dal conte Iacopo
Antonio e da Angela Tiepolo. La famiglia, di lontane origini
bergamasche, si era trasferita nel Veneto nel secolo XVI, divenendo
proprietaria di terre in Friuli che davano diritto alla riscossione
di scarsi tributi e al riconoscimento del titolo nobiliare. Non
tutto fu facile negli anni dell'adolescenza e della giovinezza, per
sopraggiunte difficoltà economiche, come raccontò lo
stesso G. nelle Memorie inutili. Se i fratelli maggiori Gasparo e
Francesco avevano ancora potuto seguire un regolare corso di studi
in pubblici collegi, l'educazione del G. fu affidata alla
occasionale capacità di volonterosi parroci di villa o,
più avanti, di più colti ma altrettanto pedanti
sacerdoti di città. L'insoddisfacente rapporto con i maestri,
tuttavia, non gli impedì di approfondire la lingua e la
poesia italiana, anche sull'esempio e per i consigli del primogenito
Gasparo, che nel frattempo si stava rivelando letterato di sicure
capacità. Proprio il desiderio di emulare il fratello fece
scattare nel G. la passione per gli studi e insieme la
rivendicazione ribellistica, alternativa della propria formazione da
autodidatta. Lesse gli scrittori della tradizione tre-cinquecentesca
toscana, i novellieri F. Sacchetti o A. Firenzuola, gli irregolari
L. Pulci, Burchiello, F. Berni, apprese i rudimenti della lingua
francese al solo scopo di comprendere le novità d'una nazione
che cominciava a non amare - scrisse - "furiosamente".
Molti componimenti giovanili sono inseriti in raccolte d'occasione
mentre, sulla scia della tradizione bernesca particolarmente viva
nella Venezia del tempo, il G. compose, ma non pubblicò,
alcuni poemi (il Berlinghieri, il Don Chisciotte, il Gonella) e
versificò col titolo La filosofia morale i Discorsi degli
animali di A. Firenzuola, adattamento destinato anch'esso a rimanere
inedito. Sempre in "fresca età" - ma indagini recenti datano
al 1747 circa la composizione - lavorò a un corpus
novellistico di dodici testi, undici dei quali pubblicati come
Saggio di novelle nella più tarda edizione Colombani.
Dopo una parentesi in Dalmazia (1740-44) al seguito dell'esercito
veneto, il G. riprese gli studi letterari. Fu particolarmente attivo
nell'Accademia dei Granelleschi, nata nel 1747 per volontà di
Gasparo e di altri sodali sulla scia di precedenti radunanze tenute
in casa Gozzi. Nonostante Gasparo vi perseguisse l'intento di
conciliare le eredità della tradizione con le esigenze di un
rinnovamento degli istituti letterari, su sollecitazione del G.
molti accademici si dilettarono piuttosto di stili (talvolta anche
di pratica) burleschi, con le varie declinazioni della beffa,
parodia, satira, invettiva. Nelle alterne vicende del sodalizio la
tendenza rappresentata dal G. venne anzi a prevalere, dando vita a
una cospicua e sostanzialmente anonima messe di versi,
caratterizzata al più da ostilità nei confronti delle
novità ideologico-culturali, che era anch'essa lezione
appresa dal più giovane dei Gozzi. Ma a scuotere le
consuetudini accademiche fu ancora il G., quando tra la fine del
1757 e l'inizio del 1758 scrisse e pubblicò presso l'editore
Colombani La tartana degli influssi per l'anno bisestile 1756.
In quest'operetta satirica il G. finse di stampare un almanacco d'un
amico appena defunto, organizzato come tradizione voleva per ottave,
sonetti, capitoli in terza rima. L'autoritrattistica denuncia di un
"poeta" affannato e solitario, che per un'ultima volta irride con i
suoi versi il mondo circostante, corroso dalle permissive dottrine
dei "lumi", e la recente letteratura che quelle degradazioni sociali
e morali agevola e veicola, ha come bersaglio ambiti e personaggi di
stretta attualità. Intanto, tra i luoghi in cui da sempre
cultura e società dialogano, viene individuato il vasto campo
del teatro, importante nella Venezia del tempo per le sue
capacità di richiamo e le istanze riformatrici che lo
percorrevano, attraendo persino l'"illuminato" Gasparo. In secondo
luogo vengono additati alla pubblica esecrazione i due scrittori che
- in opposizione tra loro e con modi e risultati affatto diversi -
stavano impegnandosi per un rinnovamento della drammatica. Pietro
Chiari e Carlo Goldoni, ritratti nelle buffe vesti di spadaccini che
si scambiano fendenti scomposti e proibiti in mezzo a una folla
tumultuante, sono appunto coloro che lavorano un tanto a pezzo,
scrivono troppo e troppo sciattamente, rubano idee e mescolano
linguaggi, importano dalla vicina Francia "Marianne" e
"filosofesse", le interpreti più aggiornate dei perniciosi
comportamenti, e le trasferiscono in palcoscenico.
Era un attacco particolarmente duro ai recenti tentativi di riforma
teatrale e ai loro più fortunati interpreti. Il più
autorevole dei due, il Goldoni, rispose, con molta misura, nelle
terzine All'illustrissimo signor avvocato Giuseppe Alcaini. La
polemica mise a rumore l'intero ambiente culturale di Venezia; il G.
controbatté con La scrittura contestativa al taglio della
tartana, del 1758, e alle successive repliche goldoniane, contenute
in un passo del poemetto La tavola rotonda, fece seguire un secondo
poemetto, I sudori d'Imeneo, edito da Zatta nel 1759. Anche i
Granelleschi si mobilitarono in difesa del sodale; tra 1760 e 1761,
presso il libraio e stampatore Colombani, pubblicarono Atti
accademici miscellanei nei quali gli scritti in versi sono
interamente volti a caricaturare scelte e messinscene goldoniane.
Quando, nello stesso 1761, il G. ripensò con più calma
gli statuti letterari della tradizione e mise mano al poema in
ottave e in dodici canti La Marfisa bizzarra, terminato soltanto nel
1768 e pubblicato nel 1772 presso Colombani, non dimenticò
gli obiettivi polemici della sua ultima battaglia.
Le vicende narrate ne LaMarfisa bizzarra sono quelle della
stravagante eroina boiardesca, trasformata in una bizzosa dama del
Settecento. L'impasto tra gli antichi modelli dell'epica
cavalleresca e gli anacronistici camuffamenti rimanda immediatamente
alla linea, pedantesca e "divertente", che dall'esempio di M.M.
Boiardo e del suo "rifacitore" toscano F. Berni viene attraversando
la sei-settecentesca sperimentazione eroicomica, da A. Tassoni a N.
Forteguerri, fino a talune soluzioni satiriche del Giorno pariniano
che il G. ricorda nella prefazione. Tuttavia anche questo più
approfondito e sapiente uso del gioco letterario era ormai
interamente finalizzato a una radicale denuncia. Come ai tempi della
Tartana il poeta, nelle vesti del buon paladino Dodone, si era
riservato uno spazio da cui giudicare personaggi ed eventi.
Travestiti a loro volta da cavalieri, reggono le fila degli intrighi
e delle confusioni Goldoni e Chiari. Del resto Marfisa è una
"filosofessa" cavata di peso dalle loro commedie e destinata a finir
male come molte eroine della drammaturgia contemporanea. I contenuti
e le forme polemiche della Tartana risultano rinvigoriti da una
narrazione che rinforza ulteriormente la voce dello scrittore e
allarga i riferimenti ai modi e alle responsabilità d'un
teatro visto come emblema della più generale decadenza,
specchio deformato di una realtà nella quale i due nefasti
suggeritori muovono a loro volta protagonisti e comprimari per farli
interpreti delle destabilizzanti aspirazioni all'ascesa sociale, dei
cedimenti alla nuova morale del commercio e del lusso, delle
compromissioni con un potere pubblico arrendevole e corruttibile.
Ciò che nella Tartana era appena accennato, ne LaMarfisa
bizzarra assume dunque l'aspetto d'un vero e proprio pamphlet
antilluministico.
Il risultato era certamente interessante, soprattutto in relazione
all'evoluzione del poema eroicomico, alla sua capacità
d'oltrepassare la misura del divertissement accademico per discutere
il tempo presente e il ruolo della letteratura (specie, in questo
caso, della drammatica). Ma era ormai chiaro che l'interesse del G.
si era direttamente appuntato sul teatro. Che non si trattasse
più e solo di un rapporto polemico dall'esterno, ma di un
coinvolgimento interno ai problemi e alle tecniche della messinscena
fu dimostrato da una recensione, stesa ancora in forma
burlesco-satirica, e da un incontro risultato decisivo. Nel 1758 (in
altra sede ho però ipotizzato una datazione 1760-61) il G.
aveva steso un intervento in prosa, Il teatro comico all'osteria del
Pellegrino, che per ragioni di censura fu pubblicato solo
nell'edizione Zanardi del 1805.
Sotto le apparenze granellesche, vi aveva smontato con estrema
lucidità la dilogia goldoniana della Putta onorata e della
Buona moglie. A suo parere, essendo affidato alla protagonista
Bettina l'inedito compito di mettere in scena i sospiri, i pianti,
le pene d'amore che un tempo erano di esclusiva competenza dell'alto
repertorio melodrammatico, i tradizionali rapporti scenici
risultavano irrimediabilmente rovesciati. I nobili, che di quel
repertorio erano da sempre stati i protagonisti, erano trasformati
in personaggi negativi, persino comici nelle loro viziose ossessioni
di stupratori e giocatori d'azzardo. E le maschere di Arlecchino o
Brighella, costrette a prestare voce e gesti a personaggi di bassa
ma realistica estrazione, vedevano sottrarsi ogni spazio di libero e
stilizzato gioco. Dunque il G., scrivendo con Il teatro comico
all'osteria del Pellegrino un'angolata pagina di critica teatrale,
uscì dalle pastoie "accademiche".
Al passaggio dalla posizione di acuto osservatore della scena
contemporanea a quella di autentico protagonista mancava, a questo
punto, solo l'occasione, che si presentò con la maschera e il
mestiere di Antonio Sacchi. Il grande capocomico, non dimenticato
coautore e protagonista del goldoniano Servitore di due padroni, era
rientrato da poco a Venezia dopo una lunga peregrinazione fino in
Portogallo. Nonostante la compagnia restasse tra le più
famose e importanti, Sacchi e i suoi compagni erano ormai ai margini
dell'intensa vita teatrale veneziana, incapaci di adattarsi a opere
che li costringevano a muoversi su schemi sempre meno suscettibili
d'improvvisazione e a togliersi persino le impronte di cuoio dal
volto. L'intesa col G. era perciò nei fatti. Nel polemizzare
con i "riformatori" e nello smontarne le opere egli non aveva
dimenticato di contrapporre loro l'"arte" di Sacchi. Già
nella Tartana l'attore, appena rientrato in patria, era stato
salutato come colui che avrebbe riportato l'"allegria" nei teatri
pervasi dalla sottile "noia" che le commedie riformate e regolate,
con la loro poetica della verosimiglianza, stavano spargendo
all'insaputa dei molti sostenitori. Ora, nel 1761, in un lungo Canto
ditirambico de' partigiani del Sacchi Truffaldino uscito a stampa
senza indicazioni di tipografia, il G. gli attestò una
condivisa solidarietà e lo esortò a mostrarsi in
palcoscenico senza timori e complessi. Per aiutare Sacchi e la sua
troupe a riconquistare fiducia e spettatori iniziò a fissare
su fogli sparsi prologhi, battute e trame. Si è all'immediata
vigilia dell'ideazione e messinscena delle dieci Fiabe teatrali: la
sera del 21 genn. 1761 fu rappresentata al S. Samuele L'amore delle
tre melarance.
La pièce sceneggia la storia d'un principe malinconico, la
cui felicità e la cui stessa vita dipendono, per la
maledizione di una fata nemica, dal ritrovamento dei pomi incantati.
Malamente protetto da un mago di scarso valore, il principe
partirà per la difficile ricerca insieme con un fedele
compagno. La fiaba ha diverse declinazioni folcloriche e una precisa
ascendenza letteraria, la novella Le tre cetra (I tre cedri) in Lo
cunto de li cunti di Giambattista Basile. Quel che conta notare,
comunque, è l'intenzione allegorico-parodica che, tra
folclore e letteratura, guida la sceneggiatura. Questa
volontà fu certificata dallo stesso G. quando - passati dieci
anni e accettate le insistenti offerte dell'editore Colombani -
decise di pubblicare la fiaba nell'inconsueta forma di una "analisi
riflessiva". Solo il prologo, infatti, era a stampa al momento della
rappresentazione, mentre lo svolgimento della vicenda era appena
tracciato, e non più che in qualche passo compiutamente
scritto. Stendendo nel 1772 la primitiva "traccia" e corredandola di
fitte didascalie sulla recitazione, le invenzioni scenotecniche, gli
obiettivi polemici, le reazioni degli spettatori, il G. ebbe modo di
spiegare fino in fondo il significato metateatrale della sua
provocazione. Non soltanto lo stolto mago e una cattiva fata
rappresentano direttamente il Goldoni e il Chiari, impegnati l'uno
contro l'altro per conquistare la scena veneziana, ma tutti i
passaggi fiabeschi servono a discutere i modi stessi della
drammaturgia contemporanea: quelli delle basse "tabernarie" di
Goldoni, appunto, o quelli delle dilatate e piagnucolose "tragedie"
in roboanti versi martelliani dell'abate Chiari. Il lieto fine, che
permette al principe di trovare felicità e amore, è
dovuto agli interventi, casuali ma risolutivi, del "faceto"
accompagnatore Truffaldino, vale a dire alla lezione scenicamente
vincente della commedia dell'arte.
Dopo aver attentamente analizzato le reazioni del pubblico,
divertito e nel contempo avvinto, il G. capì che la fiaba di
magia aveva in sé una potenzialità drammaturgica da
non sottovalutare. Invece di insistere sul nesso maschere-parodia,
egli scommise per intero sull'effetto-spettacolo, la
rappresentabilità del meraviglioso fiabesco, il fascino che
essa può produrre. L'intenzione di costruire testi
soprattutto antigoldoniani non venne meno, ma per realizzarla scelse
allora una diversa via, che escludeva la polemica diretta e lo
sberleffo derisorio, affidandosi alla forza delle singole forme
teatrali, dei singoli piani di linguaggio che vengono studiati e
montati per sceneggiare nuovi racconti. Questa importante svolta fu
messa a fuoco nelle ravvicinate e complesse fasi di stesura del
Corvo e del Re cervo, rappresentati nell'ottobre 1761 e nel gennaio
1762.
L'impiego di testi autorizzati - ancora il basiliano Cunto de li
cunti ovvero due novelle tratte dalla settecentesca silloge francese
dei cicli "orientali", i quarantun volumi de Le cabinet des
fées - consentì al G. di sbozzare o ricostruire storie
ben definite: quella di Millo, re di Frattombrosa, malinconico per
via di un sortilegio, e di Armilla, la giovane figlia d'un
negromante che sola è in grado salvargli la vita; o l'altra
di re Deramo e della sua sposa Angela, la cui felicità, messa
in forse da magici segreti e da perfidi cortigiani, può
essere riconquistata al prezzo di affanni e dedizione. Esso gli
consentì anche di far convergere intorno a quelle storie, ai
loro nuclei forti, l'intero repertorio recitativo, già
esibito nelle Tre melarance e che intendeva ulteriormente
rivitalizzare, degli "zanni" e dei "magnifici". Ma i loro compiti e
spazi vengono ora precisati in direzione d'una disposizione
gerarchica dei ruoli e dei linguaggi, funzionale al dominio scenico
delle superiori motivazioni.
Quando ancora era viva nel pubblico veneziano l'eco del grande
successo di Re cervo, a fine gennaio 1762 il G. mise mano alla
Turandot, il cui notevole successo convinse Sacchi a spostare la
propria compagnia nel più ampio teatro S. Angelo.
Nell'ottobre 1762 andò in scena la fortunata Donna serpente.
Con la Turandot, ricavata anch'essa, come i testi successivi, dalla
novellistica franco-orientale, il G. sfidò i detrattori,
eliminando gli effetti di magia e di trasformazioni che potevano
facilitare un consenso di pubblico ed evidenziando i temi seri e
declamati dell'ispirazione. Scelta dunque la vicenda di coraggio e
di passione di cui è interprete la bella e crudele
principessa di Cina, decisa a opporsi alle richieste che
l'ardimentoso e sconosciuto principe dei Tartari le muove a rischio
della vita, il commediografo concentra la trama sui duetti dei
protagonisti, sui ripetuti "bei gesti" dell'uno e la sempre
più tormentata resistenza dell'altra, in un crescendo
melodrammatico che offre le diverse variazioni della
generosità, dell'orgoglio, dell'onore, dell'amore infine. Con
la Turandot acquista dunque uno spicco decisivo il nucleo
drammatico-patetico che sorregge l'inconsueta favola. A parere del
G. la forza, anche scenica, degli amorosi "eroismi" non va
perciò allentata, ma semmai rinvigorita alla luce del
"meraviglioso" intensamente sperimentato ai tempi del Re cervo.
Dall'inesauribile serbatoio "orientale" egli ricava allora una
seconda "folle" storia d'amore, che è insieme una bella fiaba
di magia. La vicenda di una principessa-fata che si è
innamorata, contro i decreti che regolano il suo mondo, d'un uomo
mortale, e che dovrebbe compiere atti tali da farsi maledire dal suo
sposo e costringerlo ad affrontare alcune difficili prove per
riconquistarla, è la trama de La donna serpente. È
compito del registro fiabesco e degli intensi correlativi
spettacolari divaricare ulteriormente il piano della realtà
stralunata degli zanni, o di quella assennata dei magnifici, da
quello, vittorioso infine, del sogno. Il conclusivo approdo, per
forza di magia, alla remota terra dell'oro, simbolo settecentesco (e
volterriano) della felicità, dota l'itinerario dei due
innamorati di una valenza paradigmatica che va oltre
l'approfondimento melodrammatico del nesso ragione-follia e si
riverbera sulla stessa funzione del teatro, radicalmente alternativo
al "mondo".
Il risultato raggiunto nella Donna serpente è decisivo e
ricco di indicazioni metateatrali. Le successive opere fiabesche (la
Zobeide, dell'autunno 1763, Ipitocchi fortunati e Il mostro
turchino, del novembre-dicembre 1764) si limitano a riproporre una
formula ormai sfruttata e conosciuta, che l'autore non riesce a
forzare per mezzo d'ulteriori innovazioni e anzi appesantisce con
inserimenti didascalici o con eccessi "tragici", come nella Zobeide.
Il G., peraltro, avvertì l'esaurirsi della propria inventiva
e reagì. Da consumato sperimentatore, decise di
riscompigliare tutto, di riproporre per altre vie le proprie
immutabili idee sul teatro, di riattraversare temi e atmosfere
settecentesche con nuovi tagli e montaggi. Per realizzare tutto
ciò tornò all'origine della sua ispirazione teatrale e
nel gennaio 1765 scrisse l'Augellino belverde, ideale prosecuzione
dell'Amore delle tre melarance. La decima fiaba, Zeim re de' geni,
del novembre 1765, non spense l'eco degli applausi che avevano
salutato nell'Augellino il vittorioso congedo gozziano. Nel reame di
Monterotondo, il principe "malinconico" è divenuto nel
frattempo "vedovo" per gli intrighi della terribile madre, che ha
fatto seppellire viva la sua giovane sposa in una oscura prigione e
commissionato l'uccisione dei due figli gemelli. Salvati in
realtà da genitori adottivi di umile estrazione, ma corrotti
dalla corrente ideologia dei "lumi", essi pagheranno l'iniziale
arroganza attraverso un fiabesco percorso d'iniziazione, in parte
cavato da una novella della secentesca raccolta di Pompeo Sarnelli,
la Posilicheata, concluso con l'immancabile lieto fine. È
l'ultima, importante svolta della drammaturgia gozziana. La
pièce non ha infatti una finalità parodica, come
nell'Amore delle tre melarance, e neppure esalta il primato
alternativo ed esclusivo dei grandi gesti e sentimenti, come nelle
"tragicommedie" centrali. È invece "filosofica", interessata
cioè a delineare un itinerario d'educazione. Il reagente
fiabesco-teatrale interviene non già per operare scarti
rispetto alla realtà e opporle altri mondi compatti e
irraggiungibili ai più, ma per attraversarla, mutarla e
indicare così nuove convinzioni e comportamenti. Il fluire
del racconto e delle sorprese sceniche si fa rapido, il ritmo
raggiunto alleggerisce le stesse ipoteche ideologiche e coinvolge
protagonisti, comprimari e (persino) spettatori in una collettiva e
"aperta" conversione finale. Che resta la soluzione forse più
brillante, certo più nota dell'intero teatro del Gozzi.
In realtà egli aveva già vinto la battaglia teatrale
fra il carnevale e l'autunno 1762, al momento della sua maggiore
inventività. Nell'aprile di quell'anno il Goldoni si era
infatti deciso ad accettare le offerte che provenivano da Parigi e
lasciava per sempre Venezia, deluso anche dal sensibile calo degli
spettatori al teatro S. Luca, presso cui collaborava come autore.
L'abate Chiari, per sua parte, si era allontanato dalla città
proprio nell'aprile dello stesso anno. Improvvisamente il G. si era
trovato solo, e questa non era una buona condizione per uno
scrittore che aveva costruito il proprio teatro in competizione con
le scelte altrui.
Tuttavia non disarmò. Privo del suo stimolante avversario,
concluso quello che egli stesso in un passo delle Memorie inutili
definì un percorso "omogeneo", ripartì dall'occasione
di sempre: aiutare i comici della compagnia Sacchi nella giornaliera
conquista dei consensi. In un clima fattosi più incerto e
confuso, ma pur sempre affollato di iniziative e polemiche teatrali,
cercò di non smarrire l'identità recitativa dei suoi
protetti e di non rinnegare i criteri messi a fuoco nelle Fiabe.
Così si rivolse al vasto repertorio drammaturgico del
Seicento spagnolo, costituito da opere di forte tenuta narrativa e
spettacolare, cominciando a lavorare su autori quali P.
Calderón de la Barca, Tirso de Molina, J. de Matos Fragoso.
Le molte messinscene si intitolano La donna vendicativa (1767), La
caduta di donna Elvira e La punizione nel precipizio (1768), Il
pubblico segreto (1769), Le due notti affannose (1771), I due
fratelli nemici (1773), La malia nella voce (1774), Il moro di corpo
bianco (1775). Si tratta di "tragicommedie" che presentano fondali
decorati e slontananti - le regge di Saragozza o di Aragona, le
campagne della Navarra, gli squarci marittimi del Salernitano - dove
si ambientano vicende di principi e duchi "caricate" nell'intrigo e
nella psicologia in modo da scartare vistosamente dagli altrettanto
intricati ma "quotidiani" casi dell'odiata drammaturgia
postgoldoniana, e contrappuntate da inserti affidati come sempre
alle improvvisazioni. La particolare attenzione alle ragioni e alle
esigenze dei comici portò il G. a cedere sempre più
spesso alle loro richieste. La più imprevedibile fu proprio
il parziale abbandono della recitazione in maschera, giustificato
dal progressivo logoramento degli interpreti, dalla sempre
più forte concorrenza delle opere interamente di "carattere",
dalla mutata composizione della compagnia.
Già nel 1762 Sacchi aveva chiesto allo scrittore due commedie
(il Cavaliere amico e la Doride) senza ruoli destinati
all'improvvisazione, "per aver qualche sera del riposo". Nel 1771
poi, mentre con i buoni uffici del G. la troupe si trasferiva al
teatro S. Luca, il bravissimo Pantalone Cesare Darbes (o d'Arbes) lo
abbandonò e fu scritturata come prima donna Teodora Ricci,
attrice di forte temperamento. Quando l'anno seguente arrivò
Carlo Coralli, per sostenere "in concorrenza" con un Sacchi via via
più stanco il ruolo di Truffaldino, riscuotendo però
molto meno successo, fu chiaro lo spostamento degli equilibri
all'interno della compagnia. Tra il G. e la Ricci iniziò un
rapporto di lavoro e d'amore durato sei anni e sfociato in aperti e
"comici" contrasti con altri pretendenti. Per intanto lo scrittore
aveva promesso all'amica "de' soccorsi scenici a lei appoggiati".
Così andò in scena La donna innamorata di vero (1771),
una commedia a "intreccio bizzarro" in cui l'attrice fu impegnata in
un difficile gioco delle parti che tuttavia non convinse attori e
pubblico. Interessato ormai a ideare ruoli di sempre maggiore spicco
per la Ricci - tanto da tradurre a sua misura, nel 1771, persino un
odiato dramma francese, Il Fajel di F.-Th. d'Arnaud - nel 1772 il G.
scrisse La principessa filosofa.
In quest'opera le maschere vengono accantonate e si stabilizza
così una scelta adottata anche in esiti più tardi e in
assenza di Teodora (Il metafisico, 1778, o Bianca contessa di Melfi,
1779). Nel frattempo, infatti, la Ricci si era allontanata, complici
le rivalità dei colleghi e le gelosie del Sacchi, ma
soprattutto gli echi di uno scandalo teatrale e mondano di cui era
stata protagonista insieme con il Gozzi. Il 10 genn. 1777 era andata
in scena, al S. Luca, una nuova composizione titolata Le droghe
d'amore, in cui il pubblico aveva riconosciuto nella figura di don
Adone, "damerino affettato", la caricatura di Pietro Antonio
Gratarol, amante da qualche tempo di Teodora. L'incidente non era
stato di poco conto: il Gratarol, segretario del Senato malvisto dal
patriziato per la sua affiliazione alla massoneria, aveva
addirittura dovuto lasciare Venezia.
Se i risvolti biografici e politici della disputa dettero vita alla
scrittura memorialistica, di contro rallentarono la pratica
teatrale. L'interruzione dei rapporti con la Ricci non fu
definitiva. Per lei il G. compose nel 1782 la commedia L'amore
assottiglia il cervello e scrisse ancora due opere di forte impegno
recitativo, La figlia dell'aria e Cimene Pardo. Queste ultime
rappresentazioni sono però databili al 1786, quando da alcuni
anni la compagnia Sacchi si era sciolta. Nel laborioso decennio
delle Fiabe e delle prime pièces d'argomento spagnolo il G.
non aveva pubblicato i propri testi teatrali. Nel 1772, dopo molte
insistenze di amici ed editori, accettò di stampare i lavori
fiabeschi e quelli d'imitazione spagnola composti fino ad allora,
licenziando gli otto volumi dell'edizione Colombani (Opere, Venezia
1772-74; altri due volumi vennero pubblicati a Venezia, nel 1787 dal
Foglierini e nel 1792 dal Curti Vitto). Più avanti il G.
curò una seconda più ampia edizione in quattordici
volumi presso lo stampatore Zanardi (Opere edite e inedite, Venezia
1801-04; mentre, nel 1805, il vol. XV riunì le Opere edite ed
inedite non teatrali).
La decisione del G. fu certamente mossa dalla constatazione che i
comici avevano ecceduto nella libertà di adattare i testi
alle circostanze. Di là da questa esigenza di carattere
"restaurativo" è vero tuttavia che egli avvertì la
necessità di imprimere sulla pagina i risultati d'un lungo
esperimento teatrale, per riassumerne e spiegarne le
finalità. Troppi erano i possibili fraintendimenti in
quell'incerto panorama postgoldoniano, e troppe variazioni stava
introducendo egli stesso nel primitivo e compatto nucleo fiabesco
con i suoi nuovi argomenti. Non a caso i volumi Colombani vengono
prefati da un Ragionamento ingenuo e da una Appendice che sono un
ripensamento del suo intero percorso drammatico e una guida
interpretativa. Il nuovo punto di riferimento polemico e di
conseguente scarto sono i postgoldoniani cedimenti del drame
larmoyant, definitivamente imperante grazie ai molti traduttori, in
particolare Elisabetta Caminer, che lo stavano imponendo
all'editoria e ai palcoscenici veneziani. In un maturo Settecento
dove il nuovo genere del romanzo contaminava pesantemente il teatro,
le protagoniste femminili di quella drammatica flebile ponevano in
scena intrighi d'amore in cui un indebolito onore, messo a dura
prova, si riscattava a stento nelle lacrime finali. Grazie alla loro
interpretazione, il segno romanzesco-larmoyant aveva ormai snervato
del tutto la tenuta, ideologica e soprattutto scenica, delle
rappresentazioni contemporanee.
In un autore fortemente attento, come ancora nel Ragionamento
ingenuo, a misurare con ostinazione le proprie convinzioni su quelle
altrui, il tardo approdo all'autobiografia - così comune nel
secolo XVIII a intellettuali e a scrittori di teatro: Goldoni, Da
Ponte, Casanova, Alfieri - si caratterizza per una dichiarata
intenzione polemico-apologetica. In origine sta la controversa
messinscena delle Droghe d'amore. Fuggito il Gratarol a Stoccolma,
apparve a Venezia, nel 1780, una Narrazione di suo pugno contro
colui che lo aveva politicamente e moralmente rovinato. Il G., ormai
libero dalle venete censure, rispose allora con due volumi di
Memorie inutili, divenuti tre al momento della pubblicazione presso
l'editore Palese (Venezia 1797). Perciò, quando il lettore,
nella dedicatoria, è chiamato in prima persona a stabilire
torti e ragioni del caso Gratarol, è sulla "verità" di
un intero percorso biografico che deve esercitare il proprio
"giudizio".
In anni non diversi, a Parigi, il Goldoni stava invitando i lettori
dei suoi Mémoires - amici cortesi e non giudici - a seguire
con fiducia le vicende da lui narrate secondo un rapporto pacificato
e lineare con la "verité". Ma per l'appunto Goldoni si
accingeva a dar vita, programmaticamente, a un racconto in cui la
posizione personale avrebbe coinciso, fino a confondervisi, con la
storia progressiva e consolidata della sua riforma. Non così
il G., che esibì un punto di vista rilevato, muovendosi per
contrasto, usando costantemente la propria opera a testimonianza o a
prova sempre decisiva, chiedendo al lettore, erede dell'antico
pubblico, di schierarsi. Nei molti, efficaci episodi "teatrali"
delle sue pagine - i furori giovanili, le liti familiari, le sfide
impossibili, la "commedia" Ricci-Gratarol - non giocò a
nascondersi, come accadde spesso al Goldoni, ma comparve,
apparentemente trascinato in scena da altri, nelle vesti di attore
protagonista. E le volte che, al modo di Goldoni, riuscì a
defilarsi dagli eventi per meglio osservarli, non adoperò le
mobili e persuasive tecniche dell'ironia ma quelle di un "riso"
forte e "ingenuo", oppositivo e "inutile". Come ingenuamente
superfluo l'irriducibile conservatore immaginava dovesse essere lo
spettacolo, in una società sempre più interessata e
utilitaristica; e come i suoi molti estimatori d'area tedesca ed
europea sapranno interpretare e aggiornare, lungo il corso
dell'Ottocento e del Novecento, chiamandolo di volta in volta a
testimoniare le ragioni d'un teatro eversivo, fantastico,
pasticheur.
Dopo aver messo mano alle ultime revisioni dei suoi scritti il G.
morì a Venezia, il 4 apr. 1806.