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di Paolo Petroni
Di famiglia, romagnola, originaria di Modigliana per parte di padre,
nacque a Firenze il 10 ottobre del 1879 da Dante, magistrato, e da
Giulia Nencioni.
Il nonno Filippo, drammaturgo, aveva dovuto abbandonare il paese
natale per la Toscana, perché sospettato di essere
filocarbonaro; il padre, che era magistrato alla Corte d'appello di
Firenze, appassionato musicista e compositore, aveva in
gioventù lui pure scritto testi per il teatro. La madre,
discendente da vecchia famiglia fiorentina, era figlia della
fondatrice di una buona e ben frequentata scuola della città,
l'istituto femminile "Nencioni" che diresse sino a quando il figlio
tornò dalle Cascine del Riccio, dove, secondo l'uso del
tempo, era stato dato a balia: "L'Istituto si chiude; sappia il
perché l'Italia / Alla signora Giulia torna Bruno da balia",
cantarono in una recita le ultime alunne della scuola.
Il C. crebbe in un villino alle "Cure", quasi sulla riva del
Mugnone, e sempre sottolineerà l'importanza di aver vissuto i
primi anni a contatto della natura, derivandone una
inadattabilità al chiuso, una insofferenza per tutto
ciò che è artefatto, che è costrizione. La
biblioteca materna, ricchissima di classici, fu alla base della sua
formazione letteraria, assieme a quella dello zio, il poeta Enrico
Nencioni, grande amico del Carducci. E il mito dell'uomo Carducci
durò nel giovane C. sino a quando riuscì a
incontrarlo, vecchio e malato. In casa apprende il latino e il
francese, che parla e legge come l'italiano. "Anni difficili quelli
dell'adoloscenza, anni travagliosi quelli della prima giovinezza;
poi le irrequietudini, il non trovare una via secondo il proprio
spirito", ricorderà sessantenne, parlando della propria
educazione, rigorosa tanto da fargli per sempre odiare ogni
tirannia, ma aperta e diversa da quella solita, tanto che la
definisce "anti-borghese" per la sua attenzione ai problemi
spirituali più che a quelli materiali e "democratica"
socialmente, secondo gli insegnamenti evangelici della 'amatissima
madre.
Nell'Età favolosa, il libro autobiografico amato dall'autore
più d'ogni altro, uscito nel 1940 e che gli procurò
l'anno successivo il premio per la letteratura dell'Accadernia
d'Italia, si legge questa semplice confessione, che bene lascia
intendere come una certa visione delle cose sia rimasta sempre alla
base di tutti gli scritti del C.: "Dell'educazione religiosa ho
risentito i benefici tutta la vita. E anc'oggi debbo a codesta
educazione se, dopo tante crisi, mi sia ancora possibile, nei
momenti di grazia, la comunione con Dio".Prima di laurearsi a Urbino
in giurisprudenza e iniziare l'esercizio dell'avvocatura che, sino
al 1940, "gli ha servito per molti anni come osservatorio di
umanità", frequentò i corsi di lettere presso
l'Istituto di studi superiori di Firenze, quindi quelli della
facoltà di medicina, con predilezione per l'anatomia e poi la
psichiatria, e infine le lezioni di scienze sociali dell'istituto
"Cesare Alfieri". Tra questi studi e quelli a Urbino vi è un
breve periodo in cui si arruola prima come allievo ufficiale di
complemento e quindi si impiega in un ufficio delle Ferrovie
meridionali. L'avvenimento più importante di questi anni,
quelli faticosi e un po' disordinati in cui cerca la propria strada,
resta la pubblicazione del suo primo lavoro letterario, La
crittogama (1909).
Scritto nella solitudine della propria stanza, mentre abitava ancora
con i suoi, il libro venne stampato da un piccolissimo editore
locale, Francesco Lumachi, e rimase praticamente invenduto, grazie
anche a una critica decisamente negativa. G. Bellonci, sul Giornale
d'Italia, invitava chiaramente il C. a cambiare mestiere ed è
noto il suo scontro con Papini, che lo apostrofó
pubblicamente col suo fare deciso, dicendogli: "Eh, giovanotto, si
comincia male!", ottenendo una risposta non meno schietta: "Tutto
sta a vedere come si finisce". E finirà con una grande
amicizia e stima reciproca, testimoniata dall'autore delle
Stroncature con uno dei suoi più umorosi e precisi Ritratti
italiani, che, tra l'altro, mette in guardia "contro le prime
impressioni" e polemizza con i molti che credono "di poterlo ficcare
senza altro esame nel pacchetto dei bozzettisti dialettali". Erano
passati quasi venticinque anni dal primo incontro e il C. aveva
oramai pubblicato varie cose. Allora solo il polemico G. P. Lucini
lo difese di sfuggita sulle pagine di Poesia, la rivista di
Marinetti: un difensore interessante se si pensa al suo feroce odio
"antigabriellino" proprio mentre i più accusavano, magari
superficialmente ma non del tutto a torto, La crittogama dì
dannunzianesimo. Scritto in prosa, con apparenze di romanzo, il
primo libro del C., risulta tutto una lirica effusione con abbandoni
sensuosamente romantici, che, se si vuol credere a una sua
conoscenza della poesia inglese grazie allo zio Nencioni, riporta
assonanze, più che tracce, d'atmosfera quasi preraffaellita.
Seguì un decennio di formazione e approfondimento silenzioso,
di vita appartata, di travagli fisici e spirituali, dovuti anche
alla morte del padre, col quale da anni non scambiava una parola, un
gesto affettuoso. È un avvenimento che lo costringe alla
scoperta della realtà, che spezza il lirico incanto
dell'"età favolosa". Poi, allo scoppio della guerra, nel '15,
viene richiamato, ma è ben presto "riformato in servizio".
Allora, grazie al molto tempo libero, torna all'attività
letteraria. Aveva vissuto nella Firenze de La Voce, prima, e di
Lacerba, poi, completamente appartato, aderendo idealmente alla
prima, ma in modo generico e con molte riserve per "certe
particolari ideologie crociane", come ha scritto lui stesso, e in
completo disaccordo con la seconda, per ragioni "morali,
intellettualì ed artistiche". La sua cultura letteraria
è quindi principalmente classica, con letture dei grandi
russi, dei pensatori cattolici francesi e di tutta una certa linea
italiana naturalistica e toscana in particolare, arricchita e certe
volte confusa da un'attenzione, una tendenza, spiritualista.
Quest'ultimo aspetto diventerà evidente e acquisterà
una dimensione più dialettica nelle opere teatrali, e
specialmente in Yo, el Rey (1949), per la quale si è fatto il
nome di Claudel.
Si tratta di una tragedia storica, scenicamente riuscita (e che
già solo per questo meriterebbe più attenzione), sui
rapporti tra Don Carlos e Filippo II, combattuto tra i sentimenti
familiari e i doveri di re, che "risponde soltanto a Dio di quel che
fa". Lo spessore psicologico di questi personaggi, del loro dramma
della debolezza, del dubbio, della fede e dell'autorità, ne
fa una delle cose migliori del Cicognani. Lo scarto tra mondo reale
e mondo poetico è al centro invece dell'altro testo teatrale,
non a caso dedicato a Pirandello, Bellinda e il Mostro.
Tutta la visione del mondo del C. è a suo modo tragica; nelle
novelle come nei romanzi i personaggi sono in continua lotta con
forze diverse e oscure, con tentazioni terrene e aspirazioni
trascendentali, con le sconosciute e prepotenti volontà.del
proprio essere e i doveri di un ruolo, di una situazione, in genere
familiare e sociale. Le solide strutture della società
borghese del primo Novecento, i villini residenziali della
fanciullezza sono la naturale cornice delle sue storie, sono il suo
mondo, non più "favoloso" come nei ricordi dichiaratamente
autobiografici, ma nemmeno drammaticamente vissuto o rivissuto, per
arrivare alle mai raggiunte cupezze di un Tozzi o alle assai
più lontane visioni grottesche di un Pirandello. Quando, a
settantacinque anni, il C. cercherà di addentrarsi in un
mondo nuovo, di andare più a fondo nella "oscura" psicologia
dei personaggi, coinvolti in una serie di legami e situazioni
intrecciate difficilmente riassumibili, scriverà le sue
pagine meno riuscite, quelle de La nuora, in cui spesso la
moralità diviene moralismo e la narrazione, meno sentita, si
fa manierata. Si tratta comunque di una costruzione ambiziosa e con
esiti non disprezzabili, anche se lontani dal livello raggiunto in
libri precedenti. Basti pensare a La Velia, uscito nel '23, che
rompe con la tradizione bozzettistica, supera i limiti della
narrativa di memoria e appare oggi un po' come il capostipite di
tanti ritratti neorealistici di città.
Il naturalismo di queste pagine, che rappresentavano un preciso
rifiuto del dannunzianesimo imperante, supera la semplice attenzione
alla realtà sociologica, grazie a una interna visione
metafisica, attraverso la quale sono raggiunti accenti di dolorosa
verità, di adesione alla ineluttabilità della natura.
E' la storia, per dirla con Cecchi (1972), "della popolana astuta e
sensuale che entra in una famiglia di zotici arricchiti e
rapidamente la devasta". Velia è travolta dal suo stesso
irrazionale e sensuale modo d'essere, come certi personaggi di E.
Zola, ma proprio in questa sua incoscienza risiede la sua forza, la
sua innocenza.
Caratteri umani, casi patologici, affrontati in modo anche crudo, ma
con un fondo di amara pietà e partecipazione, troviamo anche
nel suo secondo romanzo, Villa
Beatrice. Pure in queste pagine tutto è contenuto e
misurato, quasi circoscritto in una realtà regionale,
fiorentina, che rivela la profonda consonanza d el C. con tutti
quegli scrittori toscani dell'Ottocento, che non. a caso Pancrazi
antologizzò, per evidenziare certi caratteri nascenti, non
secondari per la storia letteraria dei nostro paese sino al secondo
dopoguerra.
La protagonista e le sue vicende (sottointitolate nell'ultima
edizione "Storia di una donna frigida") sono un po' l'opposto di
quelle della Velia; qui la protagonista è costretta a
soffocare se stessa e i propri istinti da un sordo e gretto mondo
familiare, tanto da arrivare a meditare il suicidio, ma il dramma
è evitato dal fervore di un parroco e dalla conversione alla
vita di Beatrice: "La legge dello spirito che vuole il dono di
sé sino al sacrificio per gli altri, la legge dell'amore era
stata più forte". La vibrante partecipazione dello scrittore
diviene non superficiale ritratto psicologico. Nonostante una certa
modernità del dramma di Beatrice, questo secondo romanzo
appare più invecchiato dei primo, ha acquistato un'aria quasi
fuori dal tempo, che, come notò finemente E. Falqui (1970),
"stende sulle pagine un curioso velo di nobiltà". Un effetto
che è da attribuirsi anche al linguaggio del C., che per
qualcuno toscaneggia ai limiti del dialetto e usa in ogni modo un
vernacolo fiorentino, che dà un carattere particolare, se si
vuole storicamente illustre, alla sua prosa, viva e aderente nei
momenti migliori, "arcaicizzante" quando è più
lavorata "letterariamente". Per molti, attenti principalmente alla
resa immediata, le pagine migliori del C. sono quelle di memoria, in
cui la prosa, grazie alla naturale forza evocativa dei ricordi,
raggiunge una grande semplicità e la confessione nasce dal
recupero dei particolarì, dall'attenzione alle cose minute,
alle coincidenze fantastiche e naturali della vita di ognuno. Ci si
riferisce agli scritti sull'infanzia de L'età favolosa e, per
esempio, ai brani sulla malattia in Viaggionella vita.
Il tessuto connettivo di tutto il lavoro del C., con momenti anche
notevoli, è rappyesentato dal vasto corpus delle novelle e
dei racconti, dieci volumi usciti nell'arco di quaranta anni, il
primo dei quali, 6storielle di novo conio del 1917, assieme, l'anno
dopo, a Gente di conoscenza (editi dalla Libreria della Voce), lo
impose alla attenzione della critica. Erano il nuovo frutto
letterario del C. messo in congedo durante la guerra, assai diverso
dal personaggio che aveva scritto Crittogama, anche se un po' troppo
legato a certi schemi ottocenteschi, alla tentazione del bozzetto,
cui si confà la stessa breve misura di tali prose. Ciò
che ne salva molte è l'insistente stile analitico, il
tentativo di mostrare i motivi e le ragioni che la trama nasconde,
sia in certe pagine documentarie, quasi da "macchiaiuolo", sia in
altre più dure e vicine ai romanzi, ma spesso addolcite da
una malinconia d'atmosfera crepuscolare.
Citiamo come esempi relativi Bechésce e La bambola di
biscuit, in cui il distacco da modelli come il Fucini (tanto citato
da tutti) è già nell'invenzione del tema,
nell'abbandono del mondo delle memorie, della testimonianza su un
"carattere". In genere più fantasiose e originali, ma spesso
anche più contingenti, risultano le pagine de L'omino che
à spento i fochi, mentre più palesemente ispirati ai
motivi della sua religiosità sono le novelle de La mensa di
Lazzaro, fiduciose nelle possibilità di redenzione dell'uomo.
Impressioni e ricordi sulla guerra sono invece in Il soldato Pandino
e altri racconti, pubblicato nel '46.
Legato d'amicizia a uomini come Cecchi, Papini e Pea, il C.,
nonostante l'ambiente in cui visse, fu sempre un isolato più
ancora che un appartato, quasi chiuso, come scrittore e
intellettuale. in una fedeltà a se, stesso, a un tempo
passato. anche se non remoto, a una Firenze che è anche
quella dei ricordi giovanili di Soffici o delle Stampe di
Palazzeschi, ma priva di ogni umore caricaturale o critico. A parte
le incertezze della giovinezza, anche la sua vita è
tranquilla e lineare, specie quando abbandona l'esercizio della
professione e si ritira definitivamente a Montereggi, sulle colline
flesolane, assieme alla moglie Eleonora e al figlio Dante. Nel 1955
la prima, figlia di un gioielliere di Ponte Vecchio, diviene
improvvisamente cieca, tanto improvvisamente da chiedergli
perché abbia spento tutte le luci di casa. Questo
avvenimento, assieme alla teoria che "si possono mettere al mondo
personaggi, finché si è capaci di far figli: la
creazione è una sola", lo spingono a metter da parte la
letteratura. Così poco dopo, quando la moglie muore, scrive
un Congedo, che appare a conclusione dell'ultimo volume (1963) della
sua opera omnia edita da Vallecchi, che nel '55 aveva ottenuto il
premio Marzotto. Un congedo che gli procurerà una lettera del
papa Paolo VI, in cui si legge: "Ci lasci dirle come anche noi
ammiriamo la saggezza di tale proposito e come vorremmo che ora, in
così grave e pio silenzio, parlasse la voce intima e profonda
del Presente ineffabile, che non mai si può congedare". Per i
suoi novant'anni la città di Firenze gli dedicò
solenni onoranze in Palazzo Vecchio.
Morì due anni dopo, a Firenze, il 16 novembre 1971, oramai
sordo e legato a un unico libro, cui confessava di tornare tutte le
sere, l'Imitazione di Cristo. Aveva collaborato a vari giornali
(Secolo di Milano, Corriere della sera, Gazzetta del popolo, Tempo
di Roma e Resto del carlino)e a qualche rivista, Pegaso in
particolare, su cui uscì anche a puntate Villa Beatrice, e la
Nuova Antologia.