CARLO ALBERTO, re di Sardegna.

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Re di Sardegna (Torino 1798-Oporto, Portogallo, 1849).

Figlio di Carlo Emanuele di Carignano e di Maria Cristina di Sassonia-Curlandia, ricevette a Parigi e poi a Ginevra un'educazione aperta e liberale e fu luogotenente dei dragoni nell'esercito napoleonico. Richiamato in Piemonte nel 1814 e riconosciuto erede al trono, insofferente all'atmosfera reazionaria della corte di Vittorio Emanuele I, si legò di amicizia ad alcuni giovani esponenti del liberalismo piemontese, tra cui Santorre di Santarosa e Carlo di San Marzano, i quali speravano nel suo aiuto per una concreta realizzazione dei loro ideali.

Scoppiato il moto liberale nel marzo 1821, Carlo Alberto, reggente per l'abdicazione del re Vittorio Emanuele I, concesse la Costituzione di Spagna; ma poi non osò opporsi alla volontà del nuovo sovrano Carlo Felice che da Modena gli ingiunse di abrogare la Costituzione. Ritiratosi a Firenze presso il suocero granduca di Toscana, una volta fallito il moto piemontese, Carlo Alberto vide minacciata dall'Austria la sua successione al trono: per dar prova del suo lealismo partecipò allora alla spedizione contro i liberali spagnoli, distinguendosi nella presa del Trocadero (1823).

Succeduto a Carlo Felice nel 1831, nei primi anni di regno attuò una politica risolutamente reazionaria: nel 1831 stipulò una convenzione militare con l'Austria, nel 1833-34 represse spietatamente il moto mazziniano e poi appoggiò finanziariamente i tentativi di restaurazione borbonica in Francia. Ma con una serie di riforme interne, specie a partire dal 1840, ispirate da una sorta di assolutismo illuminato (nuovo codice, abolizione delle dogane interne e della feudalità in Sardegna, appoggio alla cultura e alla scuola) potenziò il Piemonte a cui ormai si rivolgevano le simpatie delle correnti moderate.

Il 4 marzo 1848 Carlo Alberto, seguendo l'esempio dei Borbone di Napoli e di Pio IX, concesse lo Statuto e poco dopo (23 marzo) dichiarò guerra all'Austria, contro cui già Milano era insorta. La campagna militare, dopo le iniziali vittorie di Goito, Pastrengo e Peschiera, volse ben presto al peggio (sconfitta di Custoza del 25 luglio) e Carlo Alberto dovette firmare l'armistizio Salasco (9 agosto). Accusato di debolezza e di tradimento, volle riprendere le armi nonostante la grave impreparazione dell'esercito, ma fu subito sconfitto a Novara (23 marzo 1849).

Abdicò allora in favore del primogenito Vittorio Emanuele ed esulò in Portogallo, dove poco dopo si spense. La leale ripresa del conflitto, la rinuncia al trono e l'esilio riscattarono presso i contemporanei gli errori e le debolezze del passato e indussero taluni storici a esaltare la figura dell'infelice sovrano. Nella più recente storiografia prevale invece un più equilibrato giudizio e una più approfondita indagine sulle cause delle incertezze che caratterizzarono la politica di Carlo Alberto.

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DBI

di Giuseppe Talamo


Nato a Torino il 2 ott. 1798 da Carlo Emanuele, principe di Carignano, e da Maria Cristina Albertina, principessa di Sassonia Curlandia, venne tenuto a battesimo il giorno successivo da Carlo Emanuele IV e dalla regina Maria Clotilde e gli furono imposti i nomi di Carlo Emanuele, Vittorio, Maria, Clemente, Saverio, Alberto.

Carlo Emanuele e Maria Cristina Albertina si erano uniti in matrimonio nel novembre del 1797. Il loro arrivo a Torino (20 novembre) - soprattutto per opera della sposa, non bella, ma vivace e disinvolta, di un'eleganza originale che sfiorava talvolta la bizzarria - aveva ravvivato l'ambiente stantio e tradizionale della capitale sabauda. A palazzo Carignano, in un ininterrotto susseguirsi di feste e trattenimenti, i due principi avevano accolto la migliore società piemontese con grande larghezza, senza nessuna preclusione politica, compresi gli ex giacobini, appena liberati dall'amnistia sovrana. Del resto Carlo Emanuele, che aveva combattuto con onore nelle campagne del 1793 e 1794 contro i Francesi, era stato educato in Francia e non era rimasto indifferente alle idee colà dominanti. Quanto a Maria Cristina, non si era mai preoccupata di celare le sue simpatie per la Francia rivoluzionaria.

Quando Carlo Emanuele IV fu costretto a rinunciare al trono dagli occupanti francesi il 9 dic. 1798, i principi di Carignano preferirono restare a Torino, aderendo al nuovo regime, ma le alterne vicende militari e politiche e la volontà dei Francesi li spinsero poco dopo a trasferirsi a Chaillot, presso Parigi. Qui nel corso del 1800 nasceva Elisabetta (13 aprile) e moriva il principe Carlo Emanuele (24 luglio). La scomparsa del principe di Carignano venne acuendo, in Vittorio Emanuele I, re dal 1802, e nel fratello Carlo Felice, che era allora duca del Genevese, i timori per l'educazione "diabolica" che C. A. avrebbe ricevuto dalla madre "giacobina". Il sovrano sabaudo anzi, per ottenerne dalla principessa vedova l'affidamento, ventilò anche una minaccia (lett. a Carlo Felice del 24 luglio 1805, in Perrero, p. 27) di non sostenere i diritti di C. A. contro una pretesa avanzata sui beni dei Carignano dal ramo cadetto, rappresentato da Giuseppe Maria figlio di Eugenio di Carignano conte di Villafranca. La cosa non ebbe seguito, e C. A. seguitò a condurre, in quegli iniziali anni del secolo, una fanciullezza resa più incerta e amara da notevoli difficoltà economiche. La principessa di Carignano infatti, già invisa alle corti di Sardegna e di Sassonia per le sue simpatie politiche, venne privata dei suoi beni dai Francesi, e la sua situazione sarebbe stata assai critica se non le fosse stato vicino il conte Alessandro di Saluzzo che, con notevoli sacrifici finanziari (ipotecò i suoi beni e prese la tutela dei minori, secondo la testimonianza del Costa, p. 11), tentò ripetutamente di recuperare dal governo francese i beni confiscati ai Carignano. I tentativi non ebbero esito favorevole, ma il 22 febbr. 1810 un decreto imperiale - considerati l'incameramento nel demanio francese dei beni dei Carignano, i servigi resi alla Francia dal defunto principe Carlo Emanuele, e la precaria condizione economica di C. A. - stabiliva di conferire a quest'ultimo il titolo di conte, una rendita annua di centomila franchi e "l'obligation d'avoir un hôtel situé dans notre ville de Paris, et dont la valeur ne pourra étre moindre de celle de deux années du revenu du dit majorat" (Costa, p. 339). Questa "munificenza" di Napoleone I ebbe certamente una motivazione politica, e qualsiasi altra interpretazione (come quella di un "tendre sentiment du maître pour l'excentrique princesse de Carignan", avanzata dal Costa, p. 12) sembra priva di fondamento.

Nello stesso anno la principessa - si disse da taluno per evitare un matrimonio impostole - sposò Julien Maximilien Thibaut conte di Montléart, di ventitrè anni, ma "petit, boiteux, assez laid, et à peine auditeur au conseil d'Etat". Questo matrimonio peggiorò definitivamente i rapporti della principessa di Carignano con la famiglia reale che, se precedentemente l'aveva a stento sopportata, d'ora in avanti la considererà uscita dalla famiglia e provvederà perfino a far cancellare il suo nome dall'almanacco reale. C. A. soffrì molto per il matrimonio della madre e la forzata sottomissione al padrigno. Ebbe inizio allora quella introversione che sarà un tratto caratteristico della sua personalità. "Il n'aimait personne et personne ne l'aimait. Ses songes étaient ses seuls amis. Il n'avait que sa réverie pour confidente" (Costa, p. 15).

Finché rimase a Parigi, C. A. venne educato dall'abate Liautard, poi frequentò saltuariamente il collegio S. Stanislao. Ma nel marzo del 1812 la principessa di Carignano, forse a causa della "mauvaise humeur impériale" (Costa, p. 16), si trasferì da Parigi a Ginevra, e qui C. A. venne affidato al pastore protestante Jean Pierre Vaucher che nel vecchio centro cittadino (a rue de Saint-Léger, 22) aveva un "pensionnat", dove, il giovane principe, nonostante la severità del trattamento e la scarsezza di comodità, si ambientò assai bene, tanto da serbarne sempre un buon ricordo.

Il periodo trascorso a Ginevra esercitò una indubbia influenza sulla sua formazione: "la vita in un ambiente di borghesia intellettuale, la familiarità e l'ammirazione per uomini di quella borghesia davano a Carlo Alberto lo amore alla scienza e agli studi, l'abitudine al lavoro, l'educazione dello spirito e del corpo a piccoli sacrifici, a privazioni e a disagi" (Rodolico, I, p. 21). Rousseau sarebbe stato ben presente in questo momento educativo di C. A., per opera appunto del Vaucher, considerato un "devoto" (Costa) o almeno "un ardente ammiratore del Rousseau" (Rodolico). Questa influenza rousseauiana è stata giustamente ridimensionata dal Ruffini, che ha rilevato: 1) che C. A. conobbe direttamente assai più tardi le opere di Rousseau; 2) che questo pensatore non era molto popolare a Ginevra nei primissimi decenni dell'800, tanto che i testi fondamentali dell'insegnamento accademico erano i trattati del Vernet, "così poco propenso al Rousseau"; 3) che il Vaucher era un sociniano e la sua religione era basata su di un razionalismo teologico, non semplicemente filosofico.

La sconfitta di Napoleone a Lipsia (1619 ott. 1813) e l'avanzata degli Austriaci verso occidente indussero la madre di C. A. a lasciare con tutta la famiglia Ginevra e a trasferirsi in Francia. Nel dicembre del 1813 C. A. tornò al collegio di S. Stanislao e vi rimase fino al gennaio successivo, quando andò a Bourges (che era la sede del reggimento dragoni al quale era stato assegnato) presso il locale liceo-collegio militare. Ma gli avvenimenti politico-militari incalzavano: Parigi venne occupata a fine marzo l'imperatore abdicava il 6 aprile. E con la caduta di Napoleone crollava "tutto un mondo di idee, di sentimenti, di aspirazioni nella coscienza di giovani come C. A." (Rodolico, I, p. 24). Agli inizi di maggio con la madre lasciò Bourges, il 16 dello stesso mese fu ricevuto alle Tuileries da Luigi XVIII. Qualche giorno più tardi C. A., con il consenso della madre, partì per Torino, dove giunse il 26 maggio. Vittorio Emanuele I avrebbe voluto in realtà presso di sé anche Elisabetta (non la madre beninteso, che non avrebbe potuto neanche accompagnare la figlia a Torino); ma questa restò in un primo tempo a Parigi per assistervi la madre ammalata, e poi si recò con la stessa alla corte di Dresda, in Sassonia.

Vittorio Emanuele I aveva voluto subito C. A. presso di sé per provvedere alla sua educazione, per cancellare da essa le influenze degli anni ginevrini e parigini. Fu scelto nel giugno 1814 come "governatore" del principe il quarantasettenne conte Filippo Grimaldi del Poggetto, di provata fede monarchica, assai religioso e molto severo, ma la scelta non si rivelò felice.

La prevalente preoccupazione di recuperare alla religione cattolica il giovane principe fece sì che gli si mettesse accanto un sacerdote che non lo abbandonava mai; la stessa severità del Grimaldi finì con l'accentuare certi difetti di Carlo Alberto. Giustamente si è parlato per questo periodo di "anni perduti …anni d'irrequietezza, di malavoglia ed infingardaggine ed anche di cattiveria" (Rodolico, I, p. 30). Le testimonianze più disparate concordano in una valutazione negativa di C. A., di cui vengono sottolineate costantemente la pigrizia, la scarsa capacità di applicazione, la povertà di interessi. Particolarmente preoccupata per la sua formazione religiosa era la regina Maria Teresa alla quale C. A. appariva un "deista" se non un "pirronista" (lett. del 13 febbr. 1816 e del 30 genn. 1817a Carlo Felice, in Rodolico, II, p. 34), come appariva ignorante di cose religiose allo stesso Vittorio Emanuele che ne scriveva al fratello Carlo Felice (16 apr. 1817, in Ruffini, p. 3). D'altronde, C. A. era anche in quegli anni praticante e osservante: come si possono spiegare allora le opinioni pocoortodosse che esprimeva nelle conversazioni private con la regina? Il Perrero ha ritenuto che si atteggiasse a miscredente quando fingeva di confidarsi con Maria Teresa. Con un giudizio più equilibrato e motivato il Ruffini, pur nonescludendo che il fastidio per certo bigottismo della corte sabauda e per il controllo continuamente esercitato su di lui potesse indurre il principe, nei colloqui con la regina, ad accentuare certe espressioni razionalistiche, ha dimostrato che C. A. non era in quegli anni né un deista né uno scettico, che il razionalismo che egli esponeva non era né il deismo dei miscredenti né la religione naturale di cui parlava Maria Teresa, ma quel particolare razionalismo teologico ginevrino (socinianismo) che aveva un'indubbia connotazione religiosa. Si può spiegare così anche come i rapporti tra il Vaucher e C. A. siano restati ottimi (a C. A. il Vaucher - che era sempre stato professore di botanica a Ginevra, prima di occupare la cattedra di storia ecclesiastica - dedicò la Histoire physiologique des plantes d'Europe, in 4 volumi, pubblicata a Parigi nel 1841, l'anno della sua morte) anche quando, dopo l'esilio fiorentino, la religiosità del giovane principe raggiunse forme di autentica esaltazione.

Consapevole della vanità della sua opera presso C. A., e della ostilità della regina, il Grimaldi diede le dimissioni, accettate dopo qualche resistenza nel maggio 1816 dal sovrano che nominò al suo posto il cavaliere Policarpo Cacherano d'Osasco, ultrasettantenne. La sostituzione non giovò al miglioramento dei rapporti tra C. A. e la regina, che continuò a giudicare il giovane principe "nullement mauvais, mais uniquement sensible au plaisir de se mocquer de tout le monde" (lett. a Carlo Felice, 27 maggio 18 16, in Perrero, p. 101).

Il limite umanamente più grave di C. A. sarebbe consistito in una mancanza di sensibilità, in una incapacità di affetto che avrebbe prodotto nell'interlocutore una inevitabile diffidenza, come accadrà - ricorda lo stesso Perrero - all'Azeglio nel notissimo colloquio descritto nei Miei ricordi.Si deve, a nostro avviso, parlare piuttosto della solitudine del principe diciottenne, privo di affetti familiari, non impegnato nella vita politica né in quella militare, tutto chiuso nella sua immaginazione fantastica, "senza alcuna idea, alcun fatto, alcuna persona, tra precettori e sacerdoti, che fossero stati in grado di svegliare, d'infiammare la sensibilità di quell'animo e la fantasia di quella mente" (Rodolico, I, p. 40).

Intanto si era già pensato, da più parti, ad un matrimonio. La madre di C. A. aveva proposto, ma senza successo, una principessa di Sassonia; pare che la stessa regina Maria Teresa pensasse di fargli sposare una delle sue figlie (la voce, riportata dal Costa, è nettamente smentita dal Perrero). Fatto sta che verso la fine di quel 1816, agli inizi di novembre, C. A. chiese formalmente a Vittorio Emanuele I e alla regina l'approvazione per la richiesta dell'arciduchessa Maria Teresa, figlia di Ferdinando III granduca di Toscana, nata a Vienna il 21 marzo 1801. Espletate le formalità preliminari, C. A. partì il 17 marzo 1817 per Firenze per conoscere la futura sposa, vi giunse il 21 e il giorno successivo fu ricevuto a corte, dove fece un'ottima impressione. La corte granducale anzi anticipò i tempi, pubblicizzando la notizia del fidanzamento prima del formale assenso da parte di Vittorio Emanuele I. C. A. intanto proseguiva per Roma -, dove si trattenne fino al 25 aprile e vide Carlo Felice -, e per Napoli. Ritornato a Firenze il 21 maggio vi si fermò alcuni giorni - nei quali avvenne il fidanzamento ufficiale - per recarsi poi a Venezia, dove giunse il 28 maggio, e rientrare a Torino il 4 giugno. Di lì a pochi mesi, il 30 sett. 1817, erano celebrate a Firenze, in S. Maria del Fiore, le nozze. Gli sposi lasciarono la capitale toscana il 6 ottobre e si diressero verso Torino dove fecero il loro ingresso solenne l'11 ottobre fra le festose accoglienze della popolazione.

I pochissimi anni che separarono il matrimonio dai tragici avvenimenti del '21 furono i più sereni per Carlo Alberto. Per mezzo di Giacinto di Collegno, divenuto suo scudiero il 31 marzo 1816, si avvicinò a quel gruppo di giovani che avevano costituito nel 1804 l'Accademia dei Concordi (Luigi Provana, Luigi Ornato, Carlo Vidua, Cesare e Ferdinando Balbo) per difendere la lingua e la tradizione italiana, e che perseguivano ancora tali finalità, accostando all'Alfieri il Foscolo, il Petrarca e il Machiavelli, non più contro il cosmopolitismo settecentesco di ispirazione illuministica, ma contro il dilagare dell'influenza asburgica nella penisola.

Furono questi giovani a proporre a C. A. come segretario il letterato Alberto Nota, che riuscì a stabilire alcuni contatti, peraltro abbastanza casuali e superficiali, tra il principe e alcuni letterati di gran fama (Monti, Giordani) i quali non risparmiarono lodi allo "astro sorgente". Probabilmente l'azione del Nota sulla formazione di C. A. è stata sopravvalutata dalla Avetta, ma ciò che ci sembra debba essere sottolineato è che questi non inusuali giudizi adulatori da parte di rappresentanti autorevoli ma disponibili del mondo della cultura contribuirono a creare attorno a C. A. una aspettativa che avrà poi esiti traumatici e drammatici sia per quel che gli altri si aspettavano dal giovane principe sia per quel che C. A. si aspettava da se stesso in vista della funzione che avrebbe dovuto assolvere.

Si andarono così raccogliendo attorno al principe di Carignano i fautori di un rinnovamento dello Stato sabaudo che guardavano con simpatia alla Francia che in quegli anni effettuava "la grande tentative d'expansion de la Charte" di cui ha parlato H. Contamine. In quei mesi in Piemonte sembravano poter essere coronati da successo alcuni tentativi di riforme di un certo respiro: Prospero Balbo, nel settembre 1819, era stato incaricato di preparare una riforma dell'amministrazione e della giustizia. Nel luglio del 1820 però dovette rinunciare all'incarico. I primi mesi dell'anno erano stati costellati, sull'intera scena europea, da una serie di fatti inquietanti: la rivolta di Cadice (1º gennaio), la concessione della costituzione del 1812 da parte di Ferdinand VII (9 gennaio), l'uccisione del duca di Berry (9 febbraio). Nel diffuso malessere causato nel Regno sardo da questi avvenimenti, nasceva il primogenito di C. A., Vittorio Emanuele (14 marzo). L'inizio dell'estate intanto confermava l'instabilità politica di un altro Stato della penisola: il 2 luglio si sollevavano alcuni reggimenti nel Napoletano e il 13 dello stesso mese Ferdinando I concedeva la costituzione di Spagna.

Quale era il giudizio di C. A. su questo avvenimento? "…Le Royaume de Naples et la Sicile ne nous font que trop voir - scrisse al D'Auzers il 14 settembre del 1820 (lettera edita da Boyer) - les excès auxquels l'irréligion, l'ambition et l'ignorance réunies peuvent conduire les hommes; qui aurait pu croire que les révolutionnaires de Naples ne s'entendissent pas même entr'eux, qu'ils ne connussent pas les bases du nouveau gouvernement qu'ils veulent donner à leur malheureuse patrie et qu'au moment de se voir attaqués par une armée autrichienne ils ne s'occupent que de leurs divisions et peut-être même de massacres; ceux de la Sicile ne rappèlent que trop les Vépres Siciliennes et les horreurs de la révolution, il parait que les révoltés se livrent à tous les genres d'iniquités possibles, plusieurs villes ont déjà été brulées, la plupart des Seigneurs et des Grands propriétaires sont massacrés".

Ciò che C. A. condanna sono gli "eccessi" commessi dai rivoluzionari, la loro incapacità politica - non sapevano neanche quale governo costituire - e, soprattutto, il non aver saputo far tacere i loro dissensi di fronte all'Austria, non il regime costituzionale come tale. Il suo orientamento, pertanto, non ci sembra sulla linea di "quel partito di destra che predominava in Francia dopo il giugno 1820" (Rodolico, I, p. 93), ma piuttosto di un regime temperato (come lo stesso C. A. scriverà più tardi al De Sonnaz) secondo la Charte del 1814 cioè, e non la costituzione spagnola del 1512. Lo stesso giudizio di L. Blanch, inviato napoletano nell'agosto 1820 a Torino per riferire sugli orientamenti del Regno sardo ("Il principe di Carignano passa per liberale senza che di ciò abbia dato alcuna prova: è amato dall'esercito e anch'esso odia gli Austriaci", in L. Blanch, Scrittistorici, a c. di B. Croce, Bari 1945, II, p. 144), va letto riflettendo che si tratta del giudizio di un inviato di un governo costituzionale, e quindi esigente nel riconoscere la qualifica di liberale. Significativo comunque che, anche a parere del Blanch, C. A. passasse a Torino per liberale, opinione giustificata da coerenti atteggiamenti del principe. Proprio nell'estate del 1820, infatti, mentre Vittorio Emanuele I rifiutava i pressanti inviti dell'Austria perché il Regno sardo partecipasse con forze proprie alla campagna contro il governo costituzionale di Napoli, C. A. aveva contatti con i federati lombardi (vide due volte il Pecchio) nell'ipotesi di una guerra contro l'Austria, in qualche modo avvalorata dallo stesso atteggiamento del sovrano.

Gli inizi del 1821 non furono tranquilli in Piemonte: le dimostrazioni studentesche e gli scontri con la forza pubblica dell'11 e del 12 gennaio acquistarono, in un'atmosfera già preparata, una motivazione politica precisa, inizialmente inesistente. Le voci di un imminente tentativo rivoluzionario, al quale era associato il nome di C. A., divennero più numerose e insistenti. Il giorno successivo alla partenza di Carlo Felice da Torino, il 5 marzo, vennero effettuati i primi arresti, sulla base di alcune lettere sequestrate che menzionavano anche il principe di Carignano, al quale peraltro vennero fatte conoscere. Il 6 marzo ci fu un primo colloquio tra C. A. e Santorre di Santarosa, Giacinto di Collegno, Carlo di San Marzano, Moffa di Lisio: di tale colloquio - e quindi dell'impegno assunto dal principe - abbiamo due contrastanti testimonianze ne La rivoluzione piemontese di Santarosa e nei Memoriali scritti da C. A. nel 1821 e nel 1839, che rispettivamente affermano o negano il consenso di quest'ultimo all'insurrezione.

Probabilmente C. A. che, in linea di massima, era (o credeva di essere) d'accordo con i "ribelli", ritenne di poter essere il mediatore tra il sovrano e l'elemento liberale. La convinzione di poter assolvere a questa funzione mediatrice - in maniera autonoma, a nostro avviso, e non "subordinata al previo volere del Re", come ha ritenuto il Luzio - non era certo sorta allora, ma rifletteva la generale attesa che da anni si era andata creando attorno alla figura del principe e che finiva per condizionare la sua stessa azione politica.

Il 7 marzo Vittorio Emanuele I partì per Moncalieri, dopo aver avuto (secondo la testimonianza di Saluzzo) ampie assicurazioni da C. A. sulla scoperta della trama rivoluzionaria e sulla rinuncia a qualsiasi tentativo di forza. Secondo il Rodolico il Saluzzo commise un errore di data: il colloquio sarebbe avvenuto non la sera del 6 o la mattina presto del 7 - prima cioè della partenza del re - la sera del 7, quando C. A., su consiglio anche del Balbo, era riuscito a far rinviare il moto. Più verosimile ci sembra la ricostruzione dell'Omodeo, secondo il quale "il Carignano, in possesso del grave segreto, rassicura il re e lo fa allontanare da Torino; poi, agendo sui congiurati, fa rimandare il moto: vuol porsi nella posizione di mediatore e quasi di arbitro tra le due parti" (p. 188). Un nuovo colloquio tra C. A. e i congiurati ebbe luogo l'8 marzo: in esso il principe assunse, anche secondo la testimonianza del Santarosa, un atteggiamento più cauto; e infine un ultimo incontro ci fu il giorno 9, quando C. A. mirava ormai soltanto a saperne un po' di più sui progetti rivoluzionari e quindi tutte le sue verbali adesioni alle tesi dei rivoluzionari erano finalizzate a questo scopo. Intanto il pomeriggio del 10 marzo il sovrano rientrò a Torino, allarmato dalle voci di ammutinamenti di reparti militari a Pinerolo e ad Alessandria, ch'egli però attribuiva alle dicerie che circolavano sulla pretesa consegna di fortezze agli Austriaci. L'11 si riuniva il Consiglio della Corona per affrontare il problema della costituzione, mentre un gruppo di militari ammutinati, giunti presso porta Nuova, chiedeva la costituzione di Spagna. In quella sede C. A. (secondo quanto affermato da P. Balbo nel suo Diario) si dichiarò favorevole alla concessione di una costituzione, purché non fosse quella di Spagna. E tale parere stava per prevalere anche perché di fronte a coloro che erano favorevoli c'erano soltanto quattro persone che non aprirono bocca, come scrisse la regina Maria Teresa alla moglie di Carlo Felice il 26 apr. 1821 (in Rodolico, I, p. 160), quando il conte di San Marzano, reduce da Lubiana, confermò che mai le grandi potenze avrebbero tollerato la concessione di una costituzione di qualsiasi genere. A questo punto gli avvenimenti precipitarono: mentre il re col principe di Carignano stava per partire per Asti per raccogliervi le truppe fedeli, giunse la notizia che la cittadella di Torino si era ribellata. Era il 12 marzo: la sera Vittorio Emanuele I convocava i ministri per comunicare loro la decisione di abdicare a favore di Carlo Felice; nell'attesa del rientro di questo da Modena avrebbe tenuto la reggenza Carlo Alberto. Per l'intera giornata del 13 il reggente fu sottoposto a fortissime pressioni da parte dei costituzionali perché concedesse la costituzione spagnola: qualsiasi altra concessione sarebbe stata ritenuta del tutto insufficiente. Non mancarono manifestazioni popolari dinnanzi al palazzo reale: in una situazione di grande tensione tutte le autorità convocate da C. A. - decurioni di Torino, ministri, generali - convennero sulla opportunità di cedere per evitare una guerra civile. La sera di quello stesso giorno il reggente concedeva la costituzione di Spagna, salva l'approvazione di Carlo Felice, e due giorni più tardi prestava il giuramento. Contemporaneamente, era premuto anche dai federati lombardi perché dichiarasse la guerra all'Austria. Ma se aveva dovuto cedere di fronte alla prima richiesta e concedere la costituzione, C. A. era ben deciso a non cedere di fronte alla seconda. Tentò anzi di servirsi del diffuso sentimento antiaustriaco per raccogliere truppe al confine con la Lombardia da utilizzare in realtà, per stroncare la rivoluzione. I contrasti con la Giunta di governo e con il comitato di Alessandria andavano aumentando, quando il 18 marzo giunse a Torino Silvano Costa de Beauregard, scudiero di C. A., con un proclama di Carlo Felice che dichiarava "nullo qualunque atto di sovrana competenza che possa essere stato fatto o farsi ancora dopo l'abdicazione" di Vittorio Emanuele I, non emanato da Carlo Felice o dallo stesso "espressamente sanzionato". Di fronte all'evidente sconfessione della reggenza, C. A. convocò il Consiglio dei ministri a cui comunicò la sua decisione di dimettersi, ma dovette rinunciarvi per il rifiuto dei ministri di assumere il potere in una situazione che stava precipitando verso la guerra civile il 19 e il 20 marzo, infatti, le pressioni su C. A. per l'immediata dichiarazione di guerra all'Austria aumentarono ancora di intensità. Il 21 marzo, dopo aver fatto allontanare da Torino la moglie e il piccolo Vittorio Emanuele, il principe lasciò di notte palazzo Carignano; si fermò la giornata del 22 a Rondissone raggiunse il 23 San Germano dove il generale Roberti, dopo avergli consegnato un messaggio di Carlo Felice ("Puisque vous voulez un ordre de ma main, je vous donne celui de vous rendre incessamment à Novare"), assunse il comando delle truppe che avevano seguito il Carignano. A Novara questi trovò l'ordine di Carlo Felice di recarsi subito in Toscana: la speranza ch'egli aveva di poter rientrare con le truppe a Torino per restaurarvi l'autorità sovrana (e impedire l'intervento austriaco) era definitivamente svanita.

Si chiudeva così una pagina della vita di C. A. sulla quale si aprirono subito, e durarono a lungo, più tenaci e violente le polemiche. L'incertezza della sua condotta spiega le accuse di tradimento che dalle due parti gli vennero rivolte. Sul problema, nonostante la ricchezza della documentazione, non ci sembra accettabile la soluzione del Rodolico che, riconosciuta la responsabilità del Carignano per i contatti avuti con i costituzionali ancora fino all'8 e al 9 marzo, conclude che il principe non fu "nè un settario, nè un liberale, nè un rivoluzionario; egli volle essere il soldato del re sabaudo e della Patria italiana" (I, p. 208). Senza essere un "rivoluzionario", C. A. aveva ampiamente partecipato alle speranze di quanti intendevano rinnovare in senso costituzionale il Regno sardo, accentuandone la politica "orientale" in senso antiaustriaco. Queste sue tendenze erano state certo ingigantite da voci interessate a presentarlo come "liberale" per dare prestigio e autorità al movimento, ma egli ne ebbe consapevolezza e la sua condotta sembrò confermare in larga misura tale fama. D'altronde, data la struttura sociale del Regno, poche grandi famiglie creavano l'opinione pubblica: "La veritable boussole de l'opinion publique - scrisse il d'Auzers - est entre les mains d'une centaine de familles, résidant six mois de l'année à Turin et six autres dans leurs terres…" (Boyer, p. 30) e le tendenze novatrici erano abbondantemente sparse nella giovane nobiltà piemontese che costituiva appunto quelle "grandes familles". Per la fama di "liberale" che lo circondava da tempo, per i rischi che aveva corso, per gli stessi personali rapporti di amicizia esistenti con alcuni autorevoli membri di questa inquieta nobiltà piemontese, C. A. ritenne di poter controllare il movimento, salvando al contempo le prerogative della monarchia e le istanze essenziali dei costituzionali. L'irrigidimento di questi ultimi sulla costituzione di Spagna e sulla richiesta immediata di guerra all'Austria, da un lato, e l'abdicazione di Vittorio Emanuele I, dall'altro, tolsero qualsiasi possibilità di successo al suo tentativo, sul quale si addensarono da entrambe le parti le accuse di tradimento e di mistificazione basate su atteggiamenti e disposizioni ambigue e contraddittorie, dalla mancata denuncia dei piani dei rivoluzionari alla preparazione della controrivoluzione, al ritardo nella pubblicazione del proclama di Carlo Felice dal 18 al 21 marzo.

A Firenze C. A. giunse il 2 aprile, ancora deciso però a non subire passivamente la volontà di Carlo Felice: pensava infatti di recarsi presso Vittorio Emanuele I per giustificare la propria condotta e per spingerlo a riprendere la corona. Convintosi, anche per merito dell'amico C. Alfieri, della pericolosità dell'iniziativa, stese il suo primo scritto sugli avvenimenti del marzo piemontese che contribuì ad aumentare la generale ostilità e l'isolamento che lo circondavano. La profonda depressione che s'impadronì di lui lo spinse a progettare viaggi in terre lontane, perfino a pensare di togliersi la vita. Intanto in Piemonte, dopo la sconfitta delle truppe costituzionali dell'8 apr. 1821 presso Novara, cominciavano la repressione e l'epurazione, assai pesanti ma sempre inferiori a quanto desiderava Carlo Felice "un po' per consapevole e saggia politica tendente ad evitare che si facessero troppi martiri, un po' per le solidarietà personali e di classe che pur esistevano tra il più dei condannati e le famiglie nobiliari che fornivano i quadri del governo restaurato" (Romeo, pp. 29 s.).

Convinto moralmente della colpevolezza di C. A. (nel novembre dell'anno 1822 appariva De la Révolution piemontaise del Santarosa che accusava il principe di aver dato la sua approvazione al piano dei ribelli), Carlo Felice cercò in tutti i modi di escluderlo dalla successione a favore del figlio Vittorio Emanuele, dopo un inevitabile periodo di reggenza. Ma a tale piano erano contrari non soltanto il conte de La Tour, che aveva sostituito nel luglio 1822 il conte Della Valle alla segreteria degli Esteri, ma le stesse grandi potenze: la Francia favorevole al riconoscimento dei diritti di C. A. in funzione antiatistriaca, l'Inghilterra preoccupata per la situazione europea (rivoluzione in Spagna e rivoluzione in Grecia), le corti tedesche, lo stesso Metternich cui bastava soltanto un impegno in senso conservatore di Carlo Alberto. Da questa mutata atmosfera nacque il piano di Carlo Felice, maturato nel congresso di Verona nel dicembre 1822, consistente nell'inviare C. A. a combattere in Spagna i liberali per scavare un solco definitivo tra il principe e i costituzionali Piemontesi, e nel sottoporlo successivamente a un solenne giuramento di mantenere intatte le leggi fondamentali del Regno sabaudo.

Fu lo stesso C. A. a sollecitare da Carlo Felice l'autorizzazione a partire per la Spagna (febbraio 1823), giunta soltanto il 26 aprile. Il 2 maggio, in compagnia del generale Faverges, del colonnello Isasca, del conte di Robilant e del conte SilvanoCosta, s'imbarcò per Marsiglia dove giunse il 7 maggio. Proseguì poi per Baiona, Burgos, Madrid dove rimase dal 24 maggio al 2 giugno, Cordova, e finalmente Porto Santa Maria, in attesa dell'attacco contro la penisola del Trocadero che costituiva l'ultima difesa della baia di Cadice: il coraggio mostrato nell'assalto alla fortezza (agosto 1823) gli fruttò la croce di S. Luigi e soprattutto l'attesa "riabilitazione". Giunto a Parigi il 3 dicembre, sottoscrisse verso la fine del mese, nell'ambasciata di Sardegna, il giuramento deciso a Verona sul mantenimento delle leggi fondamentali dello Stato sabaudo. Poco dopo moriva Vittorio Emanuele I (10 genn. 1824), ma soltanto sul finire del mese C. A. ebbe il permesso di rientrare in patria. Giunse a Torino il 7 febbraio, ma potè entrarvi solo dopo le 10 di sera, allo scopo evidente di evitare manifestazioni pubbliche e festeggiamenti. Da quella primavera ebbe inizio per il Carignano una sorta di esilio in patria: se è vero, infatti, ch'egli aveva avuto il perdono dal sovrano, è pur vero che fin dalla prima udienza (8 febbraio) - che il Costa definì "burrascosa", ma che certo non fu cordiale -, i rapporti tra il sovrano e C. A. si mantennero strettamente formali. Il sovrano lo nominò, è vero, suo erede universale (5 marzo 1825), ma non volle mai concedergli il titolo di Altezza reale, al quale aveva diritto la moglie quale arciduchessa, per conservargli semplicemente quello di Altezza serenissima. Per smentire le voci di possibili insidie ai diritti di successione, dietro le quali si vedeva, più che Francesco IV di Modena, lo stesso imperatore d'Austria, Torino e Vienna organizzarono una visita di Francesco I a Genova nel maggio 1825.

A parte la tarda e un po' fantastica ricostruzione del Mettenich (C. A. in ginocchio di fronte a Carlo Felice e all'imperatore ottiene finalmente il completo perdono e il riconoscimento dei suoi diritti di successione), l'episodio rientrava nella schermaglia diplomatica tra Francia e Austria che aveva per oggetto il Regno sardo. D'altronde l'estremo riserbo di C. A., la sua docilità di fronte a Carlo Felice impensierivano non poco il Barante, rappresentante francese a Torino, il quale si mostrava assai pessimista nelle previsioni sul futuro sovrano. Eppure, scriveva l'ambasciatore, "il n'est pas sans activité d'esprit … il a de l'instruction. Sa conversation est d'un homme qui a lu et qui a réfléchi". La sua sensibilità verso l'opinione pubblica, la sua ricerca del consenso lo rendevano assai diverso da Carlo Felice. Qualche giornale francese avrebbe dovuto pubblicare - suggeriva il Barante, il cui consiglio non fece in tempo ad avere seguito - un articolo cauto dove ci fossero elogi, speranze e suggerimenti di riforme appena C. A. fosse salito al trono (Segre, p. 476).Carlo Felice morì il 27 apr. 1831. Le attese per l'ascesa al trono di C. A. erano varie e contraddittorie: a voci su presunti complotti a favore del duca di Modena, che avrebbero potuto contare sulla connivenza di alcune alte cariche dello Stato, si alternavano voci su altrettanto presunti contatti tra il nuovo sovrano ed elementi liberali. Ma la posizione immediatamente assunta, coerentemente antiorleanista, fu di affiancamento all'Austria in senso antifrancese.

Come scrisse lo stesso C. A. alcuni anni più tardi, "la fermentation, l'inquiétude étaient générales". Da parte dell'Austria vi era ad esempio una persistente diffidenza. Pur ritenendo il nuovo re "pour le moment très sincérement devoué à la bonne cause", il Bombelles, nuovo ambasciatore austriaco a Torino dopo il conte di Sennft, pensava che l'Impero non avrebbe più potuto contare su un alleato fedele "par principe et par prédilection… ce n'est que dans ses interêts que nous avons à l'avenir à chercher la garantie de sa fidelité" (dispaccio del 6 giugno 1831, in Rodolico, I, p. 455). Questa diffidenza non era per nulla giustificata: proprio sul piano dei "principi" l'atteggiamento di C. A. non dava adito a dubbi di sorta, come dimostrano ad abundantiam la sua totale adesione alla politica di Carlo X e il suo incontenibile odio contro Luigi Filippo, "scélérat", "lâche", "infâme", come era definito in una nota lettera al d'Auzers del 22 ag. 1830 (in Rodolico, I, p. 449). Alla notizia dello scoppio della rivoluzione di luglio, C, A. aveva addirittura chiesto a Carlo Felice di poter andare a combattere a favore di Carlo X "pour abattre Louis Philippe et l'infame gouvernement provenant de la Révolution" ma l'autorizzazione del sovrano era arrivata insieme con la notizia dell'abdicazione dell'ultimo Borbone (cfr. F. Salata, p. 60). C. A. non aveva alcun dubbio che il successo della monarchia orleanista avrebbe segnato per tutta l'Europa l'inizio di un periodo di rivolgimenti e che la Francia di Luigi Filippo non solo avrebbe aiutato direttamente o indirettamente i movimenti liberali nell'intero continente, come le rivoluzioni belga (agosto 1830) e polacca (novembre 1830) sembravano confermare, ma avrebbe anche ripreso ai danni degli Stati vicini una politica espansionistica. Di qui la profonda convinzione della necessità di abbattere l'usurpateur.

Il sovrano diede disposizioni alle autorità della Savoia e di Nizza per facilitare l'ingresso dei legittimisti, diede loro dal suo patrimonio privato la somma di 780.000 franchi - a quanto egli stesso scrisse nel citato Diario - e li spinse ad iniziare la progettata rivoluzione in Francia con grande energia perché un ritardo avrebbe potuto compromettere la cosa. Nella delicata situazione internazionale e italiana del 1831 non vennero ascoltati da C. A. i suggerimenti del conte di Sales, ministro sardo a Parigi, che dava una più realistica valutazione della monarchia francese e cercava di trattenere il suo governo da una immediata alleanza con l'Austria. Le trattative per una convenzione militare tra i due paesi iniziate da Carlo Felice nel 1829, vennero rapidamente portate a termine. Stipulata il 23 luglio 1831 (una convenzione supplementare venne firmata il 27 marzo 1832, e quattro articoli addizionali nel febbraio 1835), la convenzione prevedeva non soltanto la difesa di entrambi gli Stati "contre toute aggression et entreprise de la part de la France", ma anche l'opposizione di quest'ultima all'ingresso nel Regno sardo di truppe austriache chiamate dal sovrano a causa di una rivoluzione interna o di tentativi di penetrazione da parte di fuoriusciti.

Il carattere "ideologico" della politica estera carloalbertina di questi anni ci sembra indiscutibile, come è dimostrato anche dagli aiuti forniti ai carlisti in Spagna contro Isabella, e a don Miguel in Portogallo contro Maria da Gloria. Solaro della Margarita, successo nel 1835 al La Tour, che pure diede più mordente alla politica sabauda, fino ad allora quasi identificata con quella asburgica, accentuò questo carattere "ideologico" rompendo i rapporti diplomatici e poi anche quelli commerciali con Spagna e Portogallo con conseguenze assai gravi per il commercio del regno. Alla fine del decennio la tensione diminuì, ma bisogna aspettare il 1842 per il riconoscimento di Maria di Portogallo e addirittura il 1848 per il riconoscimento di Isabella II di Spagna, nove anni dopo la fine della guerra civile (31 ag. 1839). Difesa del legittimismo dovunque corresse pericolo, lotta contro la rivoluzione dovunque si manifestasse e nonostante i suoi camuffamenti (come in Francia): questi due motivi caratterizzano la politica estera sarda nei primi due lustri del regno di Carlo Alberto. Questa intransigenza causò un raffreddamento nel rapporti con l'Inghilterra, completando quell'isolamento del Regno sardo dalle potenze occidentali che non poteva non tradursi - quali che fossero le aspirazioni autonomistiche di C. A. e dello stesso Solaro della Margarita - in un più stretto legame con l'Austria.

L'ossessione antiliberale, così largamente presente nell'animo di C. A., fu avvalorata da alcuni gravi avvenimenti che si susseguirono nel Regno a partire dalla primavera del 1831, appena salito al trono: prima i Cavalieri della libertà, che aspiravano a una trasformazione dello Stato in senso costituzionale e sui quali si stava già indagando negli ultimi mesi del regno di Carlo Felice; due anni più tardi, nel 1831, la mazziniana Giovine Italia, diffusasi anche nell'esercito, i cui preparativi vennero scoperti per caso; tra gli ultimi di gennaio e i primissimi di febbraio del 1834, la tentata invasione della Savoia e il contemporaneo tentativo di Genova.

Ma ciò che soprattutto sconvolse l'animo del re fu il timore di una infiltrazione mazziniana nell'esercito che, in uno Stato assoluto come il Regno sardo, costituiva il primo e indispensabile strumento del potere. Questo spiega l'adozione di misure non solo di estremo rigore, ma talvolta di palese illegalità, come la decisione di far giudicare anche i civili da tribunali militari, che aveva suscitato forti perplessità e comunque una eco sfavorevole nella magistratura. Al termine dei processi si ebbero 26 condanne a morte, di cui 12 eseguite (tra le quali quella di A. Vochieri), alcune decine di condanne al carcere, oltre 200 all'esilio. Nel cinico uso di pressioni e di intimidazioni di ogni genere (in questa atmosfera maturò il suicidio di J. Ruffini) si segnalarono il conte B. Andreis di Cimella, presidente della Commissione speciale creata il 5 maggio 1833 per collegare l'opera dei vari tribunali militari, A. Tonduti de L'Escarène, ministro dell'Interno dal luglio 1831 al posto di B. Falquet, il generale M. G. Gaiateri di Genola, presidente del Tribunale militare di Alessandria. Ma la responsabilità diretta dello stesso sovrano, naturalmente per quanto riguarda non singoli episodi ma la generale impostazione dei processi (il console di Toscana a Genova parlò di "piena illegalità morale"), è indubbia. Lo stesso Rodolico, che tende a scagionare il sovrano e i giudici da qualsiasi accusa di illegalità ("osservanza scrupolosa delle norme procedurali allora in vigore" e "onestà intemerata dei giudici"), non può non attribuire a C. A. "la responsabilità delle spietate condanne del '33", anche se poi gli riconosce il merito di essersi fermato dopo il novembre 1833 (II, pp. 156 s.).

Con il 1835 l'atmosfera accenna a mutare: L'Escarène lascia il ministero dell'Interno, è allontanato T. Pacca capo della polizia. Tranquillo della situazione interna, il sovrano riprese il programma di svecchiamento dello Stato, timidamente iniziato appena salito al trono abolendo alcune pensioni del tutto ingiustificate, rinunciando alle riserve di caccia reali (tranne Racconigi), abolendo alcune pene particolarmente crudeli, ma soprattutto creando (19 ag. 1831) il Consiglio di Stato e suscitando diffuse speranze circa una possibile trasformazione della struttura del Regno.

Il Consiglio era diviso in tre sezioni: Interno (quattro membri ordinari e il presidente), Finanze (quattro membri ordinari e il presidente), Giustizia (sei membri ordinari e il presidente). Ma, come è stato più volte rilevato, la nuova istituzione non assolse a compiti di rilievo, soprattutto perché funzionò sempre a sezioni separate (la sezione più attiva fu quella delle Finanze presieduta da P. Balbo) e non venne mai convocato quel Consiglio compiuto che si sarebbe dovuto riunire ogni anno con l'intervento di tutti i consiglieri.

La riforma dei codici fu il settore in cui si esplicò con indubbi risultati l'attività riformatrice del re. C. A. fin dal giugno 1831 aveva nominato una commissione presieduta dal Barbaroux, articolata in quattro sottocommissioni, con l'incarico di preparare i nuovi codici civili, penali, di commercio e di procedura. Il sovrano intendeva dare al Regno una legislazione più adeguata ai tempi, ma era fermamente deciso a rispettare il più possibile gli istituti preesistenti là dove un mutamento avrebbe potuto in qualche modo limitare il carattere assoluto dello Stato e rivelarsi una concessione alle tendenze liberaleggianti anche nella forma più moderata.

I prescritti pareri dei Senati di Piemonte, Genova e Savoia, del Consiglio di conferenza e della Camera dei conti spesso divergenti tra loro, resero l'iter di questa riforma assai lungo e macchinoso. Il codice civile, giudicato di recente da N. Nada "una soluzione intermedia fra il Codice napoleonico e la preesistente legislazione sabauda" (p.134), fu promulgato il 20 giugno 1837.Se in taluni settori specifici (diritto d'autore e proprietà delle acque) esso accolse soluzioni veramente innovatrici, nella generale impostazione, come è dimostrato dalle norme riguardanti il matrimonio e dalla conservazione di fidecommessi e maggioraschi, non prese "per norma" il codice napoleonico, nonostante quanto affermato nella seduta inaugurale della commissione. L'azione del sovrano, preoccupata soprattutto di riconoscere alla religione cattolica una forte posizione di spicco, fu continua e decisa. Fu anzi il Consiglio di Stato ad evitare affermazioni di principio che sarebbero state fuori luogo, ed una proclamata "sottomissione del re alle leggi della Chiesa" (Rodolico, II, pp. 241 s. e nota).

Anche alla stesura nel nuovo codice penale (promulgato il 26 ott. 1839)C. A. in qualche modo partecipò, insistendo sul concetto di pena emendamento e quindi limitando il più possibile la pena di morte, ma esigendo le pene più severe per gli autori di sacrilegi e per i suicidi, privati dei diritti civili (i loro testamenti perdevano qualsiasi valore giuridico) e delle onoranze funebri. Nel 1842 vennero promulgati sia il codice di commercio, dove le innovazioni trovarono minori resistenze, sia il codice di procedura, preceduto da un editto del 1840 che apportava delle modifiche nell'istruzione del processo e nella garanzia dei diritti dell'accusato.

Legato con la riforma dei codici era il problema di una migliore tenuta dei registri di stato civile, affidati fino alla Rivoluzione francese al clero, al quale erano ritornati con la Restaurazione. Da parte sarda non si intese affrontare la questione di principio - autorità ecclesiastica o autorità civile - ma ci si limitò a chiedere l'unificazione delle procedure per migliorare tecnicamente il servizio. Si propose perciò, nell'ottobre 1832, di lasciare i registri ai parroci, che avrebbero dovuto attenersi ad una serie di norme comuni per le registrazioni, dandone una copia all'autorità comunale. Roma accettò, ma richiese un chiaro richiamo alle istruzioni dell'autorità ecclesiastica che il governo di Torino non ritenne però di poter accordare.

La volontà riformatrice di C. A. si era manifestata del resto, fin dagli inizi del regno, anche nei rapporti con la Cliesa: ne è testimonianza la Memoria inviata nel 1831 al pontefice sulla riforma della disciplina, dei costumi e dell'istruzione del clero nel Regno sardo. Lontanissimo da qualsiasi pretesa giurisdizionalista, come da qualsiasi pur larvata forma di separatismo, il re voleva poter contare su un clero migliore moralmente e culturalmente perché attribuiva un grande valore al suo appoggio per un ordinato andamento dello Stato. L'iniziativa non poteva non incontrare serie difficoltà, e soltanto il 25sett. 1832 il pontefice creò due commissioni, rispettivamente per il clero regolare e per il clero secolare. Ma le proposte della prima suscitarono proteste e ostilità vivissime, cosicché i conventi soppressi furono pochissimi, e dall'indagine sul clero secolare non si ricavò nulla perché non fu possibile dimostrare l'entità e la consistenza degli inconvenienti lamentati.

Alla Sardegna C. A. dedicò cure particolari. Nell'isola si era già recato nel 1829, redigendo una memoria (Voyage en Sardaigne, 1829), frutto anche degli scambi di idee avuti con Emanuele Pes di Villamarina, autore egli stesso di uno scritto sui problemi dell'isola (Pensieri sulla Sardegna).L'idea centrale della memoria carloalbertina era costituita dalla soppressione della giurisdizione feudale. I feudi appartenenti a nobili di nazionalità "estera" avrebbero dovuto essere riscattati in contanti, gli altri con cartelle di rendita. Quanto alle terre originariamente del demanio comunale, poi abusivamente occupate dai feudatari, proponeva che venissero date in proprietà ai contadini della comunità, che poi sarebbero stati agevolati dallo Stato per pagare al proprietario il prezzo del riscatto.

Al problema sardo C. A. rivolse subito la sua attenzione una volta salito al trono: il 16 luglio 1832 il Barbaroux presentava a un consiglio di conferenza un editto, in sedici articoli, sulle riforme da attuare in Sardegna. Ma la proposta di abolire la feudalità "senza indennizzo" per i feudatari suscitò una vasta opposizione che portò alla sospensione del provvedimento. Il problema non fu però accantonato, come dimostrò, tra l'altro, la decisione (aprile 1833) di affidare i problemi dell'isola, trattati fino ad allora dal ministro dell'Interno, al Villamarina. Finalmente il 21 maggio 1836 venne emanato un editto che aboliva la giurisdizione feudale e sopprimeva i servizi personali; per i pesi feudali le comunità avrebbero dovuto dare una indennità ai feudatari (la relativa somma sarebbe stata anticipata dallo Stato), commisurata alla rendita del feudatario.

Gli effetti di questa riforma furono certamente lontani dalle aspettative, sia perché, come è stato concordemente osservato, gli amministrati venivano a sopportare l'intero peso dell'operazione, sia perché spesso i nuovi proprietari furono peggiori degli antichi, come era accaduto del resto nell'Italia meridionale con l'applicazione della legge eversiva della feudalità del 1806. Bisogna tuttavia riconoscere che venne spezzato un immobilismo secolare, che si posero allora alcune delle condizioni per un reale miglioramento della Sardegna, che si iniziò quel processo di parificazione tra i Sardi e gli altri cittadini del Regno che non avrebbe potuto avere inizio senza queste premesse. Tanto più che alle misure contro la feudalità si accompagnarono un sensibile miglioramento del sistema stradale, delle comunicazioni marittime e del sistema postale, un maggior impiego di capitali nelle industrie dell'isola, una certa liberalizzazione del commercio.Queste misure antifeudali rientravano, del resto, nella generale politica economica di C. A. che, sia pure con cautela si avviava verso una riduzione dei dazi doganali e una graduale abolizione dei vincoli protezionistici. Fin dal 1834 venne ridotto ad un terzo il dazio sul grano - da 9 lire a 3 lire il quintale -; l'anno successivo fu consentita l'esportazione della seta greggia, e poco dopo vennero ridotti i dazi di importazione su alcuni prodotti di fondamentale interesse per varie industrie - carbon fossile, metalli, tessuti - e, insieme, favorito l'acquisto di nuove macchine industriali all'estero. Nonostante questa nuova politica doganale, comportante minori entrate, il bilancio del Regno fu, almeno dal 1835 costantemente in attivo e si potè quindi spendere per migliorare la agricoltura (canali di irrigazione) e per le comunicazioni via terra (strade e ferrovie) e via mare (porti di Genova e di Savona). Nel riconoscere questi aspetti positivi non si può però non ricordare, come ha fatto R. Romeo, che su un bilancio oscillante dai 70 agli 84 milioni, la spesa media destinata ad opere pubbliche o, in genere, all'incremento della vita economica del paese, con 2 milioni annui, rappresentava il 2,4%-2,8% del totale, mentre quella per l'esercito era di 30 milioni all'anno, con risultati, tra l'altro, non del tutto soddisfacenti almeno per quanto riguardava il genio e i servizi logistici.

L'indubbio sviluppo economico del Regno sardo sotto C. A. è stato considerato di recente da N. Nada l'elemento portante di un più vasto processo (pp. 187 ss.). "L'espansione economica portava automaticamente con sé una conseguenza di grande portata sociale: l'ascesa, il potenziamento della borghesia e, possiamo aggiungere, il progressivo imborghesimento della nobiltà, la quale prese a sua volta vivissima parte non solo alla elaborazione della legislazione albertina, ma alle imprese economiche che andavano allora sviluppandosi. In tal modo il processo di svuotamento dall'interno delle strutture politiche e sociali dell'antico Stato sabaudo andava facendosi sempre più profondo; e lo sviluppo di questo processo rendeva a sua volta sempre più evidente la necessità di uno svecchiamento sempre più radicale di quelle strutture". Le riforme carloalbertine, insomma, al di là della stessa volontà o consapevolezza del sovrano, avrebbero preparato "in misura notevole il trionfo della borghesia e l'avvento dello Stato costituzionale".

In realtà, lo sviluppo economico del Regno sotto C. A., pur indiscutibile e di rispettabili proporzioni, specie se si prende come termine di confronto il regno di Carlo Felice o di Vittorio Emanuele I, non avrebbe potuto produrre tali effetti in un quadro politico molto carente che conservava - per fare soltanto degli esempi - un sistema delle imposte con gravi sperequazioni (anche a causa della mancanza di un moderno catasto), un'istruzione affidata in massima parte al clero (particolarmente ai gesuiti), una classe nobiliare con anacronistici privilegi, un esercito permeato di ideali legittimisti. Solo quando muterà questo quadro politico generale le riforme assumeranno un nuovo carattere.

Gli stessi motivi di frizione fra il sovrano e gli elementi più conservatori (a proposito ad esempio della chiamata a Torino dell'abate F. Aporti nel 1844, o della nomina di C. Alfieri a capo del Magistrato della riforma al posto del dimissionario mons. Pasio vescovo di Alessandria), o i contrasti con l'Austria (1843)per il trattato di commercio fra il Regno sardo e il Canton Ticino o per i progetti ferroviari sardi che miravano ad unire Genova alla Svizzera senza entrare nel Lombardo-Veneto, acquistarono un nuovo e preciso significato quando mutò il generale clima politico della penisola dopo l'avvento di Pio IX. Pur avendo riformato la legislazione, riordinate le opere pie e le finanze, protetto le lettere, le arti e le scienze, C. A. - come scrisse C. Balbo (Della storia d'Italia dalle origini fino ai nostri tempi. Sommario, a cura di G. Talamo, Milano 1962, p. 524) - aveva agito "troppo lentamente, insufficientemente, come se avesse a durar sempre il regno assoluto o s'avessero secoli a far passi alla libertà. E quindi quando venne questa, ed insieme l'occasione all'indipendenza, il suo Stato ed egli stesso si trovarono apparecchiati all'una ed all'altra pocopiù che se non si fosse fatto nulla e tutte le riforme fatte da lui ebbero ed han bisogno d'esser riformate".

Su di un piano ben diverso si attestarono le riforme carloalbertine del '47. A torto il Brofferio giudicava che "in nulla cangiavano l'ordine politico" perché non concedevano la libertà di stampa, conservavano gli arbitri della polizia, mantenevano in vita il foro ecclesiastico. Non si può infatti negare valore politico al provvedimento che decise il trasferimento della polizia dal ministero della Guerra a quello dell'Interno, all'editto del 29 ott. 1847 che soppresse tutti i privilegi di foro tranne quello ecclesiastico, alle Patenti del 30 ottobre che abolivano la censura ecclesiastica, all'editto del 27 novembre che ammetteva il principio della eleggibilità delle cariche amministrative.

Certo neanche queste riforme - nonostante uscissero dal quadro politico tradizionale - soddisfecero l'elemento liberale che chiedeva, come segno inequivocabile di una diversa politica, l'espulsione dei gesuiti, l'amnistia per i condannati del 1821 e del '31, la guardia civica, e, soprattutto, la costituzione. Di fronte a tali richieste l'atteggiamento del Consiglio di conferenza andò rapidamente modificandosi: il 7 genn. 1848 respinse ogni richiesta, il 17 si chiese addirittura "si un tel acte [chiedere la costituzione] pouvait se considérer comme contemplé par le Code pénal", ma il 3 febbraio - dopo l'esempio di Ferdinand II di Borbone - espresse parere favorevole alla concessione di una costituzione. Dopo le analoghe prese di posizione dei Consigli comunali di Torino (5 febbraio) e di Genova (7 febbraio), il re, che ai primissimi di febbraio sembrava deciso ad abdicare, dopo un colloquio con il vescovo di Vercelli monsignor d'Angennes si convinse della necessità di cedere. Il 7 febbraio a conclusione di una lunghissima seduta, il Consiglio di conferenza decise per il giorno successivo la promulgazione di un proclama reale con l'annunzio di una carta costituzionale. Il febbr. 1848, infatti, un proclama in quattordici articoli preannunciava le basi del futuro statuto: la religione cattolica era definita unica religione dello Stato con la tolleranza per gli altri culti; il potere legislativo era esercitato dal re e da due Camere, una elettiva e l'altra di nomina regia; era poi disposta una riduzione del prezzo del sale. In tre riunioni svoltesi il 10, 17 e 24 febbraio, il Consiglio di conferenza esaminò i vari articoli dello statuto: C. A. vi partecipò costantemente, mostrandosi "fermo nel proposito d'impedire che il nuovo regime potesse in qualsiasi modo essere di danno alla Chiesa" (Rodolico, III, p. 274). L'arrivo della notizia della rivoluzione parigina e della caduta della monarchia di Luigi Filippo fece accelerare i lavori, che si conclusero nelle due sedute del 2 e del 4 marzo. Lo statuto fu firmato lo stesso 4 e promulgato il seguente 5 marzo 1848: gli ottantaquattro articoli che lo costituivano rappresentavano lo sviluppo dei principi già enunciati nel proclama dell'8 febbraio. Alla emancipazione dei Valdesi (17 febbraio) seguiva il 25 marzo quella degli ebrei.

Dopo la concessione dello statuto il ministero Borelli si dimise, e il 16 marzo veniva costituito un ministero presieduto da C. Balbo (Affari Ecclesiastici, Grazia e Giustizia: Sclopis; Affari Esteri: Pareto; Interno: Ricci; Finanze: Revel; Lavori Pubblici: Des Ambrois; Istruzione Pubblica: Bon Compagni). Fu emanata una amnistia politica, una legge sulla stampa che aboliva la censura preventiva, una legge elettorale elaborata da una commissione presieduta dal Balbo e composta dal Gallina, dallo Sclopis, dal Mariani, dal Ferrari, dal Cavour, dal Sineo, dal Ricotti.

Il 19 marzo giungevano a Torino le prime notizie della insurrezione milanese; fu convocato un Consiglio dei ministri che decise di predisporre misure militari, ma di non entrare per il momento in guerra. Certo C. A. non era contrario a muover guerra all'Austria, ma non mancavano preoccupazioni internazionali e interne. Si temeva che la Francia repubblicana iniziasse una politica espansionistica o favorisse le correnti repubblicaneggianti della Liguria; tra le grandi potenze, la Russia e la Prussia erano palesemente favorevoli all'Austria, e la Gran Bretagna consigliava estrema prudenza. All'interno del Regno poi era innegabile una certa concitazione degli animi: l'autorità era scossa, bisognava stabilire un nuovo tipo di rapporto fra lo Stato e i cittadini, e sostituire uomini troppo compromessi con le vecchie istituzioni. Ma gli avvenimenti milanesi incalzavano: il 23 marzo un nuovo Consiglio dei ministri decideva l'entrata in guerra poche ore prima che il conte E. Martini portasse a Torino la notizia della liberazione di Milano. La sera dello stesso giorno il ministro degli Esteri Pareto comunicava ai rappresentanti delle grandi potenze l'intervento delle truppe sarde in Lombardia - come è detto nella nota di Abercromby - per impedire che il movimento repubblicano si estendesse dalla Lombardia all'intera penisola ed evitare "les catastrophes qui pourraient avoir lieu, si une telle forme de Gouvernement venait à être proclamée". Sulla condotta della guerra da parte piemontese non mancarono le critiche più violente, in particolare su C. A. che all'inizio delle ostilità aveva assunto il comando supremo delle truppe.

Delle tre possibilità che a giudizio del Pieri si presentavano all'esercito sardo ("operare dalla montagna attraverso il Trentino sbarrando la via dell'Adige e collegandosi per Rovereto e la Vallarsa con Vicenza e colla pianura veneta… varcare ed eventualmente forzare il Mincio e l'Adige… mantenendo una testa di ponte sulla destra dell'Adige… porsi a sud del Quadrilatero, colla sinistra appoggiata al Po… la destra a cavaliere dell'Adige, al di sopra di Legnago, in modo da comunicare con Vicenza e con Padova"), C. A. non ne scelse nessuna, e ritenne invece necessaria la conquista delle città fortificate ancora occupate dagli Austriaci.

Colse significativi successi in aprile (Valeggio, 11; Pastrengo, 30) e in maggio (Peschiera e Goito, 301, ma proprio alla fine di questo mese il ricongiungimento delle truppe del Radetzky con quelle di rinforzo del Nugent capovolgevano le sorti della campagna. Intanto a Torino l'8 maggio aveva iniziato la sua attività il Parlamento subalpino, che aveva subito affrontato il maggiore problema politico, cioè la fusione della Lombardia e delle quattro province venete al Regno sardo. Il compromesso adottato (atti pubblici intestati a C. A., governo responsabile verso il Parlamento ma impossibilitato a concludere trattati politici e commerciali senza il voto favorevole della Consulta lombarda e della Consulta delle province venete) finì per scontentare tutti. Nulla comunque di quanto deciso venne attuato a causa degli sfavorevoli avvenimenti militari (Custoza, 25 luglio). Il 4 agosto, davanti a Milano, ci fu un nuovo scontro fra Austriaci e Piemontesi, terminato anch'esso con un successo degli Imperiali. Il giorno seguente C. A., tra manifestazioni ostili della popolazione, lasciava Milano.

Sulla volontà di difendere la capitale della Lombardia da parte di C. A. si è accesa una vivace polemica, originata dalla convinzione che questi avesse già deciso prima del 4 di evacuare Milano. Questa interpretazione, sostenuta soprattutto dallo Spellanzon, si basava su un ordine di operazione del sovrano - ma scritto dal generale Salasco - alla 1a divisione di trovarsi il 5 agosto a Pavia "ed il 6 riunirsi costà al rimanente dell'armata". Ma il Pieri e C. Pischedda hanno dimostrato che molti piemontesi usavano costà nel senso di qua (cioè per indicare il luogo della persona che parla o scrive), e che quindi quel costà indicava Milano e non, secondo una interpretazione lessicale corretta ma qui impropria, Pavia. Esclusa la volontà di essere sconfitto da parte di C. A., restano valide però molte delle critiche che allora e successivamente vennero mosse sia al sovrano, dotato, com'ha scritto il Pieri, di "coraggio puramente passivo" ma non di capacità di comando, sia al generale Bava, per "non aver saputo o voluto manovrare ai fianchi dell'assalitore", sfruttando l'errore del Radetzky di aver unito tutte le sue forze per un attacco frontale (Rodolico, III, pp. 437 s.). La difesa della città lombarda avrebbe inoltre potuto esser organizzata molto meglio, sfruttando le caratteristiche del terreno, "creando un campo trincerato a base di capisaldi costituiti da numerose e robuste fattorie", come era stato fatto a Verona dalle truppe austriache.

Dopo l'armistizio Salasco (9 agosto) e le dimissioni del ministero Casati, il nuovo governo Sostegno-Pinelli venne violentemente attaccato dai democratici che riuscirono, nel dicembre, a portare al governo Gioberti (Interno: Sineo; Affari Ecclesiastici, Grazia e Giustizia: Rattazzi; Agricoltura e Commercio: Buffa; Finanze: Ricci; Istruzione: Cadorna; Lavori Pubblici: Tecchio; Guerra: De Sonnaz), a sciogliere la Camera (30 dicembre) e a cogliere un successo elettorale nel rinnovo di questa (15-22 genn. 1849). Ma le dimissioni del Gioberti, sostituito dal generale Chiodo (21 febbraio) segnarono il prevalere di quanti volevano la ripresa delle ostilità, alla quale oramai lo stesso C. A. inclinava. Il sovrano questa volta non assunse il comando supremo (dato al generale polacco Chrzanowsky). Dopo qualche successo iniziale le truppe piemontesi furono battute a Novara (23 marzo). Per mezzo del generale Fecia di Cossato il re chiese le condizioni per un armistizio: il generale Hess rispose che gli Austriaci avrebbero interrotto le ostilità e sospeso la "marcia su Torino" soltanto se avessero potuto occupare la Lomellina e la piazza di Alessandria. Il Cossato credette addirittura che si volesse in ostaggio il duca di Savoia. C. A. decise allora di abdicare a favore del figlio Vittorio Emanuele e qualche ora dopo, nella stessa notte fra il 23 e il 24 marzo, con il nome di conte di Barge, partiva in direzione di Vercelli, senza che si conoscesse la località nella quale intendeva recarsi. Fermato poco dopo da truppe austriache comandate dal generale Thurn - ma non riconosciuto, come erroneamente scrissero il Cibrario e qualche studioso sulla sua scia - poté proseguire il viaggio il 25 marzo. Alcuni rapidi appunti autografi pubblicati dal Salata (pp. 446 s.) consentono di seguire l'itinerario di C. A. giorno per giorno: passato il confine con la Francia, il 26 era ad Antibes, il 29 a Tolosa, il 1º aprile a Baiona, il 3 a Tolosa di Spagna, dove su richiesta del governo piemontese confermò l'atto di abdicazione; il 15 aprile entrò in Portogallo e il 19 giunse ad Oporto, dove andò ad abitare alla villa "Entre Quintas".

Quivi C. A. si chiuse nella più stretta solitudine, minacciando di scegliersi una residenza molto più lontana se dal Piemonte fossero continuate a giungergli ambascerie e visite di vario genere. All'inizio dell'estate le sue condizioni di salute si aggravarono rapidamente, e il 28 luglio 1849 sopravvenne la morte.

L'infelice fine del giovane sovrano - shakespeariana, come la definì l'Omodeo - segnò l'inizio del mito che divenne trasfigurazione poetica di un dramma individuale, e servì da provvida copertura alle manchevolezze di un re ed ai limiti aristocratici e antipopolari di una monarchia. Lo squilibrio - così drammatico tra l'aspirazione a grandi cose cui si credeva misticamente chiamato e la sua effettiva irrisolutezza (che il Metternich, nelle sue Memorie, sintetizzò nella costante opposizione tra l'ambition et la faiblesse)trovava ad Oporto la sua soluzione. Non obbligato più a misurarsi con la realtà, C.A. poteva tranquillamente, leggendo Plutarco, aspettare la morte. "Je continue à faire une vie fort solitaire [scrisse alla contessa di Robilant il 26 giugno, nell'ultima lettera inviatale] et n'ayant point un grand enthousiasme pour les événements modernes, j'ai pris maintenant pour lecture les grands hommes de Plutarque" (in Salata, p. 454).