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Nacque a Pisa il 15 febbr. 1564 da Vincenzio e
Giulia Ammannati.
I Galilei (detti così dal nome o soprannome d'un antenato,
il cui cognome era Bonaiuti) appartenevano alla nobiltà
fiorentina e la loro genealogia è nota dal secolo XIV.
Esecutore e compositore di musica, teorico tra i maggiori del
Cinquecento, Vincenzio trasmise doti e passione ai figli Galileo,
virtuoso di più strumenti, e Michelangelo, musicista
professionista. Dalla sua attività non trasse però
redditi adeguati, sebbene l'integrasse col commercio di tessuti:
le fonti parlano di ristrettezze o anche di povertà. Nel
1562, trasferitosi a Pisa, vi aveva sposato l'Ammannati. A Galileo
seguirono Virginia (1573), Michelangelo (1575) e Livia (1578).
Altri figli, Benedetto e Anna, morirono presto; vi fu forse
un'altra sorella, Lena (Elena).
Fino al 1574 la famiglia rimase a Pisa, affidata durante le
assenze di Vincenzio al cognato Muzio Tedaldi, e il G.
v'iniziò gli studi. Entro la fine del 1574 i Galilei si
trasferirono a Firenze, dove egli studiò lingue e
letterature classiche forse con un J. Borghini, alle cui carenze
avrebbe supplito con l'impegno personale (restano versioni da
autori greci). V. Viviani, il cui Racconto istorico della vita di
G. è fonte principale sulla sua infanzia e gioventù,
parla del gusto di riprodurre macchine e congegni, annuncio della
manualità tecnica del G. maturo, e ne esalta le doti per il
disegno (forse dipinse anche per diletto). Nel 1578 il Tedaldi
parlò dell'intento del padre di far frequentare al giovane
l'Università di Pisa e si disse lieto che "haviate riavuto
Galileo". La frase è stata collegata a studi con i padri
vallombrosani: secondo Viviani il G. studiò logica con un
membro dell'Ordine; una fonte lo dice ex novizio in S. Trinita,
casa vallombrosana di Firenze; una afferma che aveva studiato a
Vallombrosa, da dove il padre l'avrebbe tolto col pretesto di cure
agli occhi. Questi studi sarebbero quindi avvenuti tra 1577 e
1578, ma l'ammissione al noviziato non poteva precedere il
compimento del quindicesimo anno, e il periodo a Vallombrosa non
trova conferme. Forse, per ragioni economiche, Vincenzio
collocò il figlio come studente in S. Trinita lasciando
credere che sarebbe entrato nell'Ordine, e frequentando la scuola
conventuale da interno, in abito monastico, il G. poté
essere ritenuto un novizio. Nel settembre 1581
s'immatricolò nel corso di arti della Sapienza pisana per
conseguire la laurea in medicina, ritenuta dal padre mezzo
d'innalzamento economico. Le modalità dei suoi studi sono
mal note. Secondo Viviani non seguì i corsi di matematica,
ma quelli filosofici di G. Borri, F. Buonamico, F. Verino, G.
Libri (criticherà poi i primi due, e Libri
contesterà le sue osservazioni telescopiche), e
inizialmente quelli medici (con scarso impegno, nonostante la
presenza di un A. Cesalpino). La tradizione lo dice già
critico verso l'aristotelismo accademico, attribuendo la sua
maturazione a vie non istituzionali: studio personale di testi
aristotelici e platonici; loro confronto spregiudicato con dati
osservativo-sperimentali; attitudine a porre in termini meccanici
fenomeni dell'esperienza comune. Ancora secondo Viviani le
oscillazioni d'un lampadario del duomo di Pisa gli suggerirono
l'isocronismo dei pendoli; non v'è ragione di negarlo,
anche se le prove sperimentali vennero dopo e se Viviani eccedette
affermando che costruì allora un congegno (pulsilogio) per
misurare tempi col conto delle oscillazioni. Per alcuni storici il
periodo universitario spiega solo la conoscenza di dottrine che
poi criticò, mentre altri lo considerano fonte di parte del
suo bagaglio concettuale. Alla matematica il G. si avvicinò
nel 1583 per influsso di O. Ricci, lettore della disciplina
nell'accademia del disegno di Firenze e nella paggeria medicea.
Secondo certe fonti Vincenzio, cultore di matematica, non l'aveva
insegnata al figlio per non distoglierlo dalla medicina, e il G.
dapprima gli nascose la svolta nei propri studi; il padre
l'avrebbe poi lasciato libero nelle scelte, purché si
rendesse presto indipendente. Il disinteresse per la medicina
è un dato notevole; il G. lesse Galeno e poco altro, e le
sue idee in biomeccanica non dipesero dalla tradizione
medico-naturalistica. Nonostante l'assenza di prospettive e lo
stato precario della famiglia, nel 1585 tornò a Firenze
senza laurearsi.
Le modalità degli studi matematici influirono sulla sua
attività scientifica. Tra 1583 e 1585 studiò gli
Elementi euclidei (forse nell'edizione di N. Tartaglia) e
Archimede (resta un esemplare annotato della princeps basileense
del 1544). Poi lavorò a un commento all'Almagesto,
approfondì Archimede e matematici recenti: la statica di F.
Commandino e Guidobaldo Dal Monte, i commenti a Euclide e alla
Sfera di J. de Sacrobosco del gesuita C. Clavio (C. Schlüsse;
forse sua prima fonte su Copernico), la Sfera di A. Piccolomini.
Studiò Apollonio e Pappo meno di Archimede, e forse non
approfondì Diofanto e l'algebra da F. Viète in poi;
l'approccio geometrico sarà in lui prevalente.
Trascurò gnomonica e teoria del calendario ma non
l'astrologia - pur antitetica alla sua idea di scienza - in parte
per convenzione, in parte per richieste o per guadagno (restano le
natività delle figlie e oroscopi per amici e
autorità; nel 1604 una denuncia all'Inquisizione di Padova,
che non ebbe corso, l'indicò come astrologo). In lui
l'ottica, pur essenziale per il lavoro sul telescopio e per certe
sue concezioni fisiche, fu soprattutto pratica (dirà oscura
la Dioptrice di G. Keplero), e hanno scarso ruolo la trigonometria
recente, certi metodi di calcolo (fu astronomo più "fisico"
che "matematico"), i logaritmi. Resta da chiarire quanto
ciò dipese da casualità, scelte o aspetti della
cultura matematica a Firenze. Il G. dirà di aver dedicato
più anni alla fisica che mesi alla matematica, ma
insegnò la seconda e a essa dedicò i primi lavori
(rimasti gli unici, a parte l'abbozzo di una riformulazione della
teoria delle proporzioni). Si trattava di lemmi e teoremi sui
centri di gravità di solidi (conoide parabolico, cono,
piramide); di uno si conserva una copia del dicembre 1587,
sottoscritta da amici e approvata da G. Moleto, matematico
dell'Università di Padova. Nel 1586 costruì una
"bilancia idrostatica", impiegata con modifiche fino a metà
'600, corredata da uno scritto esplicativo (La bilancetta),
pubblicato solo nel 1644, e da una Tavola delle proporzioni delle
gravità in specie de i metalli e delle gioie pesate in aria
ed in acqua. Il suo sperimentalismo matematico fu forse ispirato
anche dal padre, che studiò la divisibilità dei
semitoni con corde vibranti aventi pesi alle estremità. Se
partecipò a queste ricerche la tesi della natura
quantitativa delle qualità percettive, perno della sua
epistemologia, poté derivare da suggestioni altrettanto
tecniche che teoriche. Il lavoro non matematico più
importante di quegli anni è un gruppo di testi denominato
De motu antiquiora, raramente datati e talora stesi in più
versioni; li si colloca attorno al 1590, durante l'insegnamento a
Pisa, ma per alcuni si è pensato al 1586 o 1587. La loro
data è rilevante per la genesi delle concezioni galileiane
e per fissare il loro rapporto con altri scritti pure a lungo
inediti, gli Iuvenilia dei mss. galileiani 27 e 46 della
Biblioteca nazionale di Firenze.
Si tratta di parti trascritte dal G. di un corso di logica e di
uno su De caelo e Physica di Aristotele, tenuti nel Collegio
Romano dei gesuiti. La parte logica proviene dal corso di P. Valla
nel 1587-88 o da un testo derivato; quella fisica ha forti
corrispondenze in corsi degli anni 1580-1590. Gli Iuvenilia sono
quindi datati prevalentemente nel 1589-90; secondo alcuni
interpreti il G. vi inserì idee proprie, che sono
però ancora aristoteliche; ne verrebbe che l'aristotelismo
non fu solo oggetto delle sue critiche, ma origine delle sue
concezioni, e che il De motu, più originale, non
precederebbe il 1591. Tuttavia certamente galileiano è solo
il De motu, che confuta tesi aristoteliche e analizza i moti
"naturali" con concetti archimedei, non giungendo ancora a
risultati validi e restando in parte tradizionale, ma prefigurando
sviluppi successivi; non v'è prova che il G. conoscesse il
tentativo analogo di G.B. Benedetti.
Ebbe anche interessi letterari. Tra 1587 e 1588 tenne due lezioni
sul luogo dell'inferno dantesco nell'Accademia Fiorentina; ne fu
membro prima del 1599, e nel 1605 fu ascritto alla Crusca. Scrisse
versi berneschi Contro il portar la toga (da parte dei docenti),
una traccia di commedia, uno scherzo in dialetto veneziano, sei
sonetti. Le "Considerazioni al Tasso" e postille all'Orlando
furioso mostrano una netta preferenza per Ariosto (lo conobbe
quasi a memoria). Amò la letteratura dialettale veneta e
Ruzante, e iniziò a tradurre la Batracomiomachia. Un
capitolo in terzine Contro gli aristotelici, attribuitogli,
è dell'allievo Jacopo Soldani; sue aggiunte alla canzone
Per le stelle Medicee temerariamente impugnate di A. Salvadori
passarono nella stampa.
Dal 1585 cercò l'indipendenza economica. Un documento del
1587 afferma che aveva insegnato nello Studio di Siena, e
privatamente a Siena e Firenze. Dell'insegnamento pubblico non
v'è traccia; del privato lo sono forse rapporti successivi
con nobili senesi, e sue deposizioni circa il testamento di G.B.
Ricasoli Baroni (1590-92) indicano in quest'ultimo un allievo
fiorentino. Il G. visse a tratti in casa del Ricasoli - quasi suo
coetaneo -anche come compagno di studi poetici e filosofici.
Quando l'amico, preso da disturbi psichici, fuggì da
Firenze, su richiesta dei familiari lo seguì (maggio 1589)
fino a Lucca e Genova. Nacque per l'insegnamento privato un breve
Trattato della sfera, edito postumo. Dal 1587 concorse a letture
di matematica in varie sedi. Inviò i propri teoremi a
diversi e li presentò al Clavio a Roma per averne
l'appoggio per una lettura a Bologna; il gesuita sostenne G.A.
Magini, ma la conoscenza ebbe un ruolo in seguito. Infine nel 1589
fu chiamato nell'Università di Pisa, dove iniziò le
lezioni nel novembre e proseguì studi e ricerche sui
baricentri dei solidi. Attorno al 1590 tracciò - forse per
primo - la cicloide, e ne misurò l'area meccanicamente e
con approssimazione; lavorò al De motu; dialogò con
J. Mazzoni, filosofo non originale ma non dogmaticamente
aristotelico e capace di informarlo su altre tradizioni, come la
platonica. G. Mercuriale, docente di medicina autore di un
trattato innovativo di ginnastica, destò forse il suo
interesse per il moto animale, documentato in seguito. Viviani
attesta un esperimento per controllare la tesi aristotelica della
proporzionalità dei tempi di caduta dei gravi ai loro
volumi; esso è parso dubbio, ma il De motu ne sconta
implicitamente l'esito.
Il G. non considerò la lettura a Pisa come approdo
definitivo, anche per l'esiguità del compenso; nel 1590 Dal
Monte lo propose come successore di Moleto a Padova, al momento
senza buon esito. L'insoddisfazione crebbe con la morte del padre
nel 1591, che gli impose a lungo di sostentare la famiglia (una
vertenza per la dote della sorella Virginia andò oltre il
1600). Ebbe screzi accademici, forse non solo dottrinali: nei
versi sull'uso della toga mostrò insofferenza per i
formalismi e gusto per i piaceri della vita. Ma fu forse decisivo
il risentimento di Giovanni de' Medici per il parere negativo del
G. su un suo congegno per dragare la darsena di Livorno (il Medici
gli sarà poi contrario nella disputa sul galleggiamento).
Nel 1592 Dal Monte gli suggerì d'andare a Padova per
richiedere una cattedra; vi andò nell'estate e a fine
settembre, malgrado la candidatura del Magini, padovano, ebbe la
lettura di matematica per quattro anni rinnovabili per altri due,
con provvigione annua (180 fiorini) modesta, ma maggiore di quella
pisana. Al rinnovo nel 1599 ebbe provvigione doppia, e nel 1606
una di 520 fiorini, inconsueta per i matematici; nel 1609, dopo
l'offerta del telescopio al governo veneto, verrà la
conferma a vita con lo stipendio di 1000 fiorini. Iniziò i
corsi nel dicembre 1592, seguendo una rotazione biennale: sfera e
Elementi di Euclide; teoria dei pianeti (astronomia avanzata).
Almeno un anno, però, trattò le Questioni meccaniche
pseudoaristoteliche. Si è creduto che insegnasse anche
fortificazione in base alle Brevi instruzioni all'arte militare
(forse del 1593; scrisse pure un Trattato di fortificazione), ma
poté trattarsi di un corso privato. Le testimonianze e gli
aumenti retributivi provano che il suo insegnamento ebbe successo,
ma esso fu quasi irrelato ai suoi studi e ricerche: in astronomia
si attenne al geocentrismo (privatamente usò ancora il
Trattato della sfera, fedele a Sacrobosco). Il trattatello Le
mecaniche, forse scritto pure per corsi privati tra 1593 e 1599
(il testo conservato reca forse modifiche successive), riguarda la
parte matematica della meccanica - statica e teoria delle macchine
semplici - sulla scorta di Dal Monte.
Pur con tratti originali (dimostra la legge della leva
diversamente da Archimede, considera situazioni statiche come
limiti di quelle cinetiche, usa il concetto di "momento"),
l'operetta non configura ancora una meccanica integrata. Gli
scritti di fortificazione, che accennano appena ai temi balistici
della meccanica galileiana evoluta, si sarebbero forse sviluppati
col concretarsi (mancato) di due iniziative: tra 1603 e 1604 il G.
trattò per divenire matematico del duca di Mantova Vincenzo
Gonzaga (ruolo che avrebbe incluso l'ingegneria militare), e nel
marzo 1610 concorse per la lettura di matematica nell'Accademia
Delia di Padova, riservata ad aspiranti alla carriera delle armi
(rimane il programma che presentò; gli fu preferito il
nobile padovano Ingolfo Conti).
Fino al 1604 si occupò di astronomia in modo didattico e
ristretto all'analisi classica dei moti orbitali: non v'è
traccia di osservazioni pianificate o lavori avanzati. Un
mutamento fu prodotto dalla supernova di quell'anno, cui
dedicò tre lezioni, ponendola con misure parallattiche tra
le stelle, che l'aristotelismo diceva immutabili. Il metodo, non
nuovo, fu respinto dai filosofi universitari, ligi alla cosmologia
aristotelica; nel Discorso intorno alla nuova stella (Padova 1605)
un discepolo di C. Cremonini, primario di filosofia,
collocò la nova nel mondo sublunare e la disse composta da
esalazioni terrestri. Per non infrangere la partizione delle
competenze accademiche il G. ispirò a un amico, il
benedettino G. Spinelli, una replica in dialetto rustico padovano
attribuito a un Cecco di Ronchitti (Dialogo in perpuosito de la
stella nuova, Padova e Verona 1605). Pubblicò per
interposta persona anche in seguito, quando volle dibattere con
toni forti, ma è dubbio che siano sue le Considerazioni di
un fittizio Alimberto Mauri (Firenze 1606) contro il Discorso nel
quale si dimostra, che la nuova stella non è cometa,
né stella generata (Firenze 1606) del fiorentino L. Delle
Colombe. Costui però dovette crederlo, e ciò
preparò urti successivi. I rapporti del G. con Cremonini e
altri filosofi dello Studio furono ambivalenti; la
cordialità esterna celò forse tensioni, mentre fu
buono il rapporto con docenti di medicina, pur ancora parzialmente
legati alla fisiologia galenica. Quello con S. Santorio, pioniere
dell'analisi quantitativa di fatti metabolici, è difficile
da circostanziare. Ebbe per medico G. Fabrici d'Acquapendente, e
nel 1606 lo propose per protomedico al granduca di Toscana; i
lavori di Fabrici sulla meccanica articolare e i movimenti animali
furono base di certe sue idee in biomeccanica (è
però possibile che in parte li ispirasse).
Dal 1601, anche per altri oneri imposti dal matrimonio della
sorella Livia, sembra che incrementasse l'insegnamento privato.
Restano note sui corsi (fortificazione, compasso di proporzione,
cosmografia, geometria, aritmetica e ottica elementare, meccanica,
topografia) e sui frequentanti, talora a pensione presso di lui,
che usavano testi che forniva a pagamento. Anche
un'attività tipica, la produzione di strumenti e congegni,
fu dovuta sia a interessi tecnici sia alla ricerca di introiti
aggiuntivi. Nel dicembre 1593 richiese un privilegio per una pompa
ad acqua, che non commercializzò (il progetto è
perduto, e le ricostruzioni ipotetiche). A circa il 1597 risale il
"compasso geometrico e militare", che univa alle funzioni di
squadra per artiglieri usi distanziometrici, altimetrici e di
calcolo preludenti a quelli dei successivi regoli. Il debito verso
strumenti precedenti non è del tutto chiaro; esibì
il compasso nelle lezioni private e ne vendette esemplari con un
manuale d'uso poi dedicato al principe Cosimo de' Medici (Le
operazioni del compasso geometrico et militare, Padova 1606). Dal
luglio 1599 tenne in casa un artigiano per fabbricarli con altri
strumenti di misura. Quando un dilettante di matematica, B. Capra,
negò che l'inventore fosse il G. e pubblicò un
manuale scritto forse con il maestro, il tedesco S. Mayr (Usus et
fabrica circini cuiusdam proportionis, Padova 1607), che plagiava
il suo, il G. ne ottenne la confisca dai riformatori dello Studio
di Padova, e pubblicò un'aspra Difesa contro alle calunnie
e imposture di Baldessar Capra milanese (Venezia 1607).
La costruzione di strumenti ha scarso nesso con le ricerche di
allora. Anche l'interesse iniziale per il telescopio fu tecnico;
appresane l'esistenza nel giugno-luglio del 1609, senza vederlo e
ricorrendo quasi solo all'intuito ne costruì uno di tre
ingrandimenti e un secondo di otto, che donò alla
Serenissima per usi militari e nautici. La prima osservazione
astronomica certa è del novembre, con uno di venti
ingrandimenti. Non sembra che gli fossero chieste consulenze
militari o civili (spettanti a uffici appositi), ma fu sentito
privatamente: in una lettera del 1593 a G. Contarini, provveditore
all'Arsenale, indicò nel remo una leva che sposta insieme
resistenza e fulcro. In Veneto il G. fu noto soprattutto per
l'attività didattica e tecnica. Le sue ricerche, esposte
per lo più in opere successive, sono quasi sempre
posteriori al 1600; nessuna nota di meccanica o astronomia
è datata prima, sebbene leggesse Copernico prima del 1590.
In lettere del 1597 a Keplero e Mazzoni si disse copernicano,
aggiungendo di aver trattato il tema in uno scritto; il nucleo
della teoria delle maree, che poi addusse a prova
dell'eliocentrismo, risale forse al 1595. Ma il suo interesse
iniziale per il dibattito cosmologico dovette avere forma fisica
più che osservativa (nel 1600 non rispose a una lettera di
T. Brahe, e la corrispondenza anteriore non tocca problemi
propriamente astronomici). Anche ammesse lacune documentali, tra
1592 e 1600 il G. appare volto in prevalenza ad applicazioni e a
far valere economicamente le proprie competenze. Per spiegare il
mutamento occorrerebbe chiarire se e quando collegò i moti
planetari a questioni cinematiche. Dato che la scelta copernicana
precedette le ricerche sulle seconde, non si può escludere
che queste mirassero anche a dare all'eliocentrismo la base
meccanica che in Copernico non aveva e che l'aristotelismo gli
negava. Le note cinematiche padovane non toccano l'astronomia, ma
il primo cenno del G. al principio di composizione dei moti (fatto
al gesuita A. Eudaemon Joannes entro il 1603) riguarda un grave
cadente dall'albero di una nave, caso proposto dal Clavio per
smentire il moto della terra e da G. Bruno con scopo opposto.
Le note (quasi mai datate, spesso sommarie o criptiche), si
pongono in gran parte tra 1602 e 1608. Dato che la cinematica del
G. è un momento fondante della scienza moderna, la
cronologia ha rilievo per la storia della meccanica come per
questioni di fondo (dinamica delle "rivoluzioni" scientifiche;
logica e psicologia dell'ideazione; interrelazione tra elementi
pregiudiziali e fattuali; differenze tra mondo fisico premoderno e
moderno). Come quella dei De motu antiquiora, essa è
perciò sondata attraverso le fasi della grafia, analisi di
inchiostri e filigrane, ripetizione degli esperimenti; e per suo
tramite si tenta di dare risposte non astratte o pregiudiziali a
quesiti quale la misura in cui la scienza galileiana fu
matematico-astrattiva o sperimentale ("platonica" o
"positivistica"). Tra 1602 e 1604, concentrata la ricerca sul moto
uniformemente accelerato, sostituita alla caduta verticale quella
su piani inclinati (espediente anche concettualmente illuminante),
abbandonate o ridefinite posizioni precedenti, il G. pervenne a
formulazioni solo in parte soddisfacenti, esprimendo in modi
diversi le relazioni rinvenute. Tra 1604 e 1608-09 ottenne i
risultati sulla caduta e sul moto dei proiettili confluiti poi nei
Discorsi.
Da circa il 1602 precisò anche le intuizioni giovanili sui
pendoli; non pare che realizzasse un apparato quale il
"pulsilogio" di Viviani (costruito dal Santorio verso il 1603),
che seguiva ovviamente dalle proprietà dei pendoli, forse
comunicate al collega. Ancora dal 1602, spinto da G.F. Sagredo e
dal De magnete di W. Gilbert, sperimentò calamite e metodi
per armarle (ne propose a Ferdinando de' Medici una che attraeva
una massa di ferro più che doppia). La dilatazione termica
gli suggerì un termoscopio (circa 1606-07), utilizzato in
medicina da Santorio; osservazioni sulla resistenza di materiali
alla frattura originarono le giornate I e II dei Discorsi, e
riflessioni sull'idrostatica archimedea, idee poi sviluppate a
Firenze, e un affinamento della bilancia idrostatica.
Ricordò poi gli anni veneti come i suoi più belli.
Frequentò persone di cultura aperta, con interessi
scientifici, filosofici e, in senso lato, politici. Paolo Sarpi
è solo il nome più rilevante; la corrispondenza con
lui e le testimonianze - pur significative - documentano
insufficientemente la valenza scientifica, e meno quella
"ideologica", del loro rapporto. Il G. evitò pronunciamenti
sulle tesi del servita, e ogni tentativo di attribuirgli
convincimenti molto definiti è rischioso; i suoi amici
furono per lo più filosarpiani e antigesuiti, ma alcuni,
come P. Gualdo, furono vicini alla Compagnia. Soggiornò
spesso a Venezia e vi frequentò salotti colti come il
cosiddetto ridotto Morosini, ma anche occasioni mondane. Con
giovani nobili, e particolarmente con G.F. Sagredo, allievo e poi
compagno di discussioni e ricerche, il rapporto fu molto stretto.
A Padova fu ammesso nel 1599 nell'Accademia dei Ricovrati, e ne fu
censore alle stampe. Forse dallo stesso anno stabilì una
relazione con la veneziana Marina Gamba dalla quale, nell'agosto
del 1600, ebbe una figlia, Virginia. Tuttavia non la sposò
e non convisse con lei, nonostante la sua abitazione, quasi una
azienda (pensionato, sede di corsi privati, laboratorio per la
costruzione di strumenti e la copiatura di testi) richiedesse
diverse persone di servizio e potesse giovarsi di una guida
femminile. Gli atti di battesimo di Virginia e dei figli
successivi (Livia e Vincenzio, nati nel 1601 e 1606) indicano solo
il nome della madre, dicendoli nati "di fornicatione" o da "padre
incerto"; legittimò il figlio solo nel 1619, e mai le
figlie, e quando lasciò il Veneto ruppe il rapporto con la
Gamba. Nell'aprile 1604 un Silvestro Pagnoni, vissuto presso di
lui (probabilmente come copista), lo denunciò
all'Inquisizione padovana per pratiche astrologiche e scarso zelo
religioso (il G. non avrebbe frequentato le chiese, né
praticato i sacramenti), ma anche per la relazione. L'assenza di
un legame formale non ne spiega la lunghezza, né spiega
perché non ne avviò una più solida. Forse
incise il peso della famiglia d'origine, che gl'impose un cumulo
d'attività per sottrarsi al quale, fallito il tentativo col
duca di Mantova, ne avviò uno con i Medici. Dal 1605, in
soggiorni estivi in Toscana, insegnò matematica al principe
Cosimo; gli dedicò la descrizione del compasso e nel 1608
gli regalò la calamita già offerta al padre,
paragonandone la virtù attrattiva a quella del principe.
Ma, forse per l'ostilità di Giovanni de' Medici, il
tentativo si fece più convinto dal 1609-10, quando Cosimo
divenne granduca (secondo di questo nome) e lo zio lasciò
Firenze; dato che la candidatura per l'Accademia Delia mostra che
nel marzo 1610 le prospettive del G. non erano ancora definite, la
svolta fu simultanea alle ricerche col telescopio, con le quali in
parte interagì. Le osservazioni tra dicembre 1609 e
febbraio 1610 (irregolarità dell'illuminazione lunare a
seguito di quella della superficie, satelliti di Giove, aumento
del numero di stelle visibili, risoluzione in stelle della Via
Lattea e di corpi nebulari) resero centrale il suo interesse per
l'astronomia di osservazione. La pubblicazione nel marzo (Sidereus
Nuncius magna, longeque admirabilia spectacula pandens, Venezia
1610) mutò, con la sua fisionomia di ricercatore, la sua
immagine pubblica e la sua vita professionale e privata: la dedica
a Cosimo II, il nome di stelle o pianeti Medicei dato ai satelliti
di Giove e un viaggio a Firenze nell'aprile, per presentare
l'opera al granduca e fargli omaggio di un telescopio, prepararono
il rimpatrio e l'abbandono dell'insegnamento.
Il Nuncius ebbe ampia risonanza, anche per un'immediata ristampa a
Francoforte. Esponeva fenomeni di evidenza diversa: dati
percettivi come le nuove stelle, la composizione della Via Lattea,
i corpi attorno a Giove o le irregolarità
dell'illuminazione lunare furono accettati entro il 1611 da molti
specialisti; altri erano invece solo inferiti dai primi. Questo
spiega alcune delle resistenze, anche di competenti. Cremonini si
sarebbe rifiutato di usare il telescopio, mentre in una lettera al
G. (Dissertatio cum Nuncio sidereo nuper ad mortales misso a
Galilaeo Galilaeo mathematico Patavino, Praga 1610) stampata sei
volte in due anni G. Keplero, pur non disponendo di un telescopio,
accettò buona parte delle osservazioni, e poco dopo
confermò l'esistenza dei Medicei (Narratio de observatis a
se quatuor Iovis satellitibus, Francoforte 1610). A una Brevissima
peregrinatio contra Nuncium sidereum (Modena 1610) di Martin
Horky, collaboratore di Magini, replicarono un allievo del G.,
John Wodderborn (Quatuor problematum contra Nuntium sidereum
confutatio, Padova 1610) e G.A. Roffeni (Epistola apologetica
contra caecam peregrinationem cuiusdam furiosi Martini, cognomine
Horkii, Bologna 1611). Con il G. si schierò anche T.
Campanella.
Il 10 luglio 1610 il G. fu nominato, a vita, matematico primario
dello Studio di Pisa (senza obbligo d'insegnamento) e matematico e
filosofo granducale, con provvigione annua di 1000 scudi. Nello
stesso mese a Padova osservò Saturno "tricorporeo" (con
rigonfiamenti sul piano equatoriale), descritto in un anagramma
latino che nessuno sciolse. Il 7 settembre lasciò Padova,
dove non tornò più; assunto il nuovo incarico
proseguì le osservazioni, anche con amici e curiosi. A fine
anno osservò in Venere fasi che ne provavano l'orbita
eliocentrica, lasciando sussistere i soli sistemi di Copernico e
Brahe. Egli però le considerò una prova del primo,
che iniziò a sostenere pubblicamente; la Dianoia
astronomica, optica, physica (Venezia 1611) di F. Sizzi lo
presentò come copernicano, e un saggio manoscritto del
Delle Colombe contro il moto della Terra (fine 1610 - inizio 1611)
riprese antiche obiezioni fisiche e gli asserti geocentrici della
Scrittura. Alla fine del marzo 1611 il G. visitò a Roma
Clavio, e presentò le proprie scoperte (incluse le macchie
solari) a studiosi e personalità, inclusi i cardinali
Maffeo Barberini (futuro Urbano VIII) e Roberto Bellarmino, al
quale i matematici del Collegio romano confermarono le
osservazioni, se non sempre le interpretazioni. Insieme, tuttavia,
il S. Uffizio chiese all'inquisitore di Padova se il G. era stato
coinvolto nel processo contro Cremonini (già indagato per
tesi averroiste); la risposta dovette essere negativa, ma
l'episodio mostra il senso che critiche alla cosmologia
tradizionale potevano assumere. F. Cesi, fondatore dell'Accademia
dei Lincei, divenne suo sostenitore e lo ammise nell'Accademia (25
aprile); i Lincei lo sostennero sempre, tanto da sospendere un
matematico del livello di L. Valerio perché si era
dissociato dalla scelta eliocentrica. In maggio una conferenza nel
Collegio romano (il Nuncius sidereus Collegii Romani) sancì
l'affidabilità del telescopio, e in giugno il G.
lasciò Roma certo d'aver radicato la nuova astronomia: era
stato ascoltato e nell'ultima edizione del commento a Sacrobosco
Clavio aveva ammesso che i nuovi fenomeni smentivano il sistema
planetario tradizionale. Ma il G. sottovalutò la
profondità delle resistenze; la natura "terrestre" della
Luna e quella planetaria della Terra non solo contrastavano con la
vulgata aristotelica e scritturale, ma richiamavano l'idea
bruniana della molteplicità dei mondi e delle
umanità. Nel De phoenomenis in orbe Lunae (Venezia 1612)
G.C. Lagalla, professore di filosofia presente a dimostrazioni
romane del G., evidenziò il nesso pur escludendo che il G.
lo proponesse.
Tornato a Firenze lavorò sui periodi dei Medicei, per
trarne efemeridi da cui derivare misure di longitudine
approssimate a 1/2 minuto di grado. Presentò il metodo ai
Medici, che lo trasmisero a Madrid; seguirono trattative durate
fino al 1632, e cessate per l'imprecisione delle misure su
vascelli in movimento. Nell'estate del 1612 dibatté con un
professore a Pisa, V. di Grazia, sui pesi relativi di acqua e
ghiaccio e sul galleggiamento, che Grazia spiegava
aristotelicamente con la forma del corpo galleggiante, ed egli in
modo archimedeo. Grazia fu poi sostenuto dal Delle Colombe; su
richiesta di Cosimo II entro la primavera del 1612 il G.
terminò un Discorso intorno alle cose che stanno in su
l'acqua, o che in quella si muovono (Firenze 1612).
L'opera ebbe repliche: un Discorso apologetico del Delle Colombe e
l'Operetta intorno al galleggiare dei corpi solidi di G. Coresio
(apparsi a Firenze nel 1612); le Considerazioni sopra il discorso
del sig. G. G. (Pisa 1612) di un "accademico incognito" (A.
d'Elci); uno scritto dello stesso titolo del Grazia (Firenze
1613). Una Risposta alle opposizioni di L. Delle Colombe e V. di
Grazia contro al trattato delle cose che stanno su l'acqua o che
in quella si muovono (ibid. 1615) apparve anonima con dedica del
benedettino B. Castelli (allievo del G. a Padova, lettore di
matematica a Pisa e suo collaboratore fino al 1623, quando
passò a Roma). Castelli aveva scritto la parte iniziale, il
G. il resto. Discorso e Risposta estendono l'idrostatica
archimedea, incompatibile con la fisica aristotelica. Il primo
considera soprattutto il galleggiamento; la seconda difende
ipotesi di struttura dei liquidi sottese alla trattazione. Insieme
iniziano l'idrostatica moderna; anche se l'analisi corpuscolare
dello stato liquido talora semplifica (negando tensione
superficiale e coesione; il calore è ritenuto materia), gli
specialisti accettarono presto i risultati.
La corrispondenza con G.B. Baliani (in rapporto con il G. dal
1613) e altri documenta ricerche sperimentali (peso dell'aria e
altro). Ma proseguì le osservazioni astronomiche (nel
novembre 1612 osservò quasi certamente Nettuno, senza
riconoscerlo come pianeta), pubblicate solo nel caso delle macchie
solari, osservate dal 1610 da Th. Harriot, J. Fabricius, il
gesuita C. Scheiner e dallo stesso G. (forse nell'estate). Quando
Scheiner, in un opuscolo (Tres epistolae de maculis solaribus,
Augusta 1612) pubblicato con lo pseudonimo "Apelles post tabulam
latens", presentò il fenomeno come nuovo, il G.
rivendicò una priorità (ma le osservazioni di
Harriot e Fabricius erano indipendenti e forse anteriori alle
sue), e dissentì sull'interpretazione. Il gesuita (del
quale poi irriderà la Rosa Ursina, sintesi ventennale di
dati accurati sul fenomeno), limitava il significato
rivoluzionario delle macchie considerandole ammassi di materiali
ruotanti attorno al Sole, non prove di un dinamismo interno e
della rotazione dell'astro. In lettere pubblicate dai Lincei
(Istoria e dimostrazioni intorno alle Macchie Solari e loro
accidenti, comprese in tre lettere scritte all'illustrissimo
signor Marco Velseri, Roma 1613) il G. si espresse in termini che
crearono in Scheiner un risentimento durevole, approfondì
la critica alla fisica celeste aristotelica ed espresse un
copernicanesimo deciso. Poco dopo polemizzò con S. Mayr
(maestro del Capra), che sostenne di aver osservato i satelliti di
Giove dal dicembre 1609 (Mundus Iovialis anno MDCIX detectus ope
perspicilli belgici, Norimberga 1614). Nessuna osservazione di
Mayr è anteriore con certezza al 1610, ma le prime furono
forse indipendenti, e sono in parte originali.
Nel contempo il G. riorganizzò la propria vita privata.
Tenne con sé Vincenzio e monacò le figlie, aggirando
la prescrizione di quindici anni di età per l'ammissione al
noviziato: nel 1614 le collocò a titolo provvisorio nel
monastero di S. Matteo in Arcetri (sui colli fiorentini, dove poi
fitterà "il Gioiello", sua residenza dal 1633); Virginia
divenne novizia nel 1616, col nome di Maria Celeste, e Livia nel
1617, con quello di Arcangela. L'affetto reciproco che emerge
dalle lettere di Maria Celeste al padre non rende meno
problematico questo comportamento, che gli usi del tempo non
spiegano del tutto e che probabilmente influì su Livia,
indole aspra forse per reazione al proprio destino, e meno vicina
a lui. Anche Vincenzio, avviato agli studi (si laureò in
utroque a Pisa), pur non privo di doti fu personalità
irrisolta, e il suo rapporto col padre fu alterno.
Il tentativo di penetrare la psicologia intima del G. urta contro
il suo riserbo e la genericità delle testimonianze. Non si
astenne dal matrimonio per misoginia, ma non sembra aver posto la
vita sentimentale e domestica sul piano della professione e della
ricerca. La denuncia del Pagnoni parla di tensioni con la madre,
che avrebbe spesso ingiuriato, e nella Difesa contro il Capra si
legge che la perdita di un figlio, pur dolorosa, toglie qualcosa
che ognuno può "produrre e rigenerare", mentre la
sottrazione di un merito intellettuale è più acerba
perché tocca ciò che non viene dalla sorte. Ma non
si può parlare di cinismo: ebbe un senso robusto del vivere
e il suo zelo religioso fu probabilmente tenue (le accuse del
Pagnoni appaiono credibili), ma non fu epicureo conseguente o
libertino dissimulato, e le sue critiche all'aristotelismo
scolastico non toccarono la fede religiosa di base. Le aperture
alla mondanità e alla corte esigono distinzioni: uomo del
suo tempo, usò i rapporti personali e il proprio ruolo;
rispettò (talora incensò) le gerarchie; curò
le valenze economiche della propria attività e fu diverso
dal quasi isolato eroe del pensiero cui talora è stato
assimilato. Ma sviluppò forse un giudizio disincantato
sulla situazione storica e sui rapporti umani: già prima
del 1633 amò risiedere ad Arcetri, in rapporto solo con
amici selezionati.
A Firenze le obiezioni scritturali del Delle Colombe al
copernicanesimo (già proposte nel sec. XVI) mobilitarono i
tradizionalisti. Alcuni, forse ispirati dall'arcivescovo,
pensarono di far condannare l'eliocentrismo in prediche pubbliche;
i domenicani N. Lorini e T. Caccini lo dissero inconciliabile con
la Bibbia. A Castelli fu chiesto di non trattare nelle lezioni
delle idee di Copernico; nel dicembre 1613, interrogato sulla
questione dalla granduchessa madre Cristina di Lorena, ne scrisse
al maestro, che rispose con una lettera subito divenuta testo di
riferimento.
Il G. vi affrontò due nodi: il rapporto
scienza-Rivelazione; i passi biblici usati contro Copernico.
Natura e Scrittura, procedenti da Dio, devono concordare; ma in
punti religiosamente marginali la Scrittura ha usato metafore o si
è adattata "all'intendimento dell'universale", e
l'univocità della tradizione interpretativa su un passo non
è decisiva. Queste tesi, cui l'esegesi cattolica si
accosterà molto dopo, contrastavano con quella
tradizionale, che dava senso letterale a ogni passo di senso non
palesemente figurato. La distinzione galileiana tra asserti
biblici di contenuto religioso, necessariamente veri, e altri non
tali contrastava con la tesi (sorretta dall'autorità di
Bellarmino) che la loro verità non è funzione del
contenuto ma della fonte, cioè Dio. Nel 1615 il G.
ampliò la lettera a Castelli in una a Cristina di Lorena;
nessuna delle due fu pubblicata allora (quella a Cristina lo
sarà solo nel 1636), ma entrambe circolarono ampiamente.
Sebbene egli avesse voluto evitare che la Scrittura fosse arma dei
tradizionalisti e sottrarre il dibattito a ipoteche di principio,
il suo intervento in questioni esegetiche fu per molti
un'ingerenza e una minaccia alla tradizione. Maturò
così la possibilità che la tesi copernicana, pur
divulgata da settanta anni, divenisse oggetto di un pronunciamento
della Chiesa.
Nel dicembre 1614, predicando a Firenze, il Caccini accusò
galileiani e "matematici" di magia e irreligiosità. I suoi
superiori si scusarono con il G., ma nel febbraio 1615 il Lorini
inviò all'Inquisizione romana copia della lettera a
Castelli e denunciò la diffusione delle idee galileiane a
Firenze. Per cautela anche il G. mandò a Roma una copia
della lettera, leggermente diversa. Si è creduto che
questa, sfumata in certe espressioni, corrispondesse all'originale
(che egli, richiestone, non presentò), e la prima fosse un
artefatto del Lorini o sommasse le modifiche prodotte da
trascrizioni; di recente è stato invece sostenuto il
contrario. Se la seconda evenienza fosse reale, il testo esibito
dal G. fu un costrutto difensivo.
Il S. Uffizio ravvisò nella lettera solo locuzioni
improprie, e le accuse di Caccini e altri su temi filosofici e
teologici nonché sui rapporti del G. con Sarpi caddero. In
marzo il carmelitano P.A. Foscarini pubblicò a Napoli una
Lettera sopra l'opinione de' pittagorici e del Copernico della
mobilità della Terra e stabilità del Sole, che
diceva conciliabili Scrittura e eliocentrismo. Dato anche che P.
Dini, un amico prelato di Curia, non vedeva pericoli e recepiva
alcune sue proposte esegetiche, il G. mutò strategia:
impostò una risposta a una lettera del Bellarmino a
Foscarini; stese la lettera a Cristina di Lorena e una a Dini su
aspetti della cosmogonia della Genesi. Andò poi a Roma,
dove tra dicembre 1615 e febbraio 1616 incontrò esponenti
curiali e diffuse note (restano le cosiddette Considerazioni circa
l'opinione copernicana, un discorso Del flusso e reflusso del mare
al card. A. Orsini, indicante nelle maree il prodotto di rotazione
e rivoluzione terrestri, e una lettera del 20 febbraio che nega
che la natura "terrestre" della Luna implichi che essa e i pianeti
siano abitati). Dibatté col Caccini e F. Ingoli, autore di
un De situ et quiete terrae circolato manoscritto (che ebbe una
risposta da Keplero, e poi dal Galilei). Gli amici ritennero
vincente la sua dialettica; ma, radicalizzando il dibattito, egli
forse contribuì a provocare un pronunciamento. Dal novembre
il S. Uffizio esaminava l'eliocentrismo, sintetizzato in due
proposizioni: "che il sole sii centro del mondo, et per
consequenza immobile di moto locale"; "che la terra non è
centro del mondo, né immobile, ma si move secondo sé
tutta, etiam di moto diurno". Nel febbraio 1616 la prima fu
giudicata "stulta et absurda in philosophia, et formaliter
haeretica", e la seconda pure "stulta et absurda", e "in Fide
erronea". Furono quindi proibite, e Paolo V (25 febbraio)
ordinò a Bellarmino di informarne il G. al quale, se avesse
rifiutato di conformarsi, il commissario del S. Uffizio doveva
intimare un precetto, la cui trasgressione l'avrebbe incriminato.
L'incontro con Bellarmino (26 febbraio) è un evento
dibattuto. In una dichiarazione volta a smentire voci su una
condanna e abiura del G. il cardinale asserì d'averlo solo
informato della decisione del S. Uffizio, e nel 1633 il matematico
ripeté questa versione. Ma, secondo un documento allegato
agli atti e una nota a un verbale del S. Uffizio, il commissario,
forzando il proprio mandato (il G. non aveva obiettato), davanti a
notaio e testimoni gli intimò di non "tenere, docere aut
defendere, verbo aut scriptis" l'eliocentrismo. La registrazione
di questo precetto, base giuridica del processo del 1633, è
anonima, e ha originato contestazioni e sospetti di
falsificazione. Seguì una svolta, decisa forse da Paolo V
per riguardo a Cosimo II: il S. Uffizio trasferì il caso
alla congregazione dell'Indice, che il 1° marzo definì
l'eliocentrismo "pernicies catholicae veritatis" (non eresia). Il
decreto, promulgato il 5 marzo, non menziona il G. e - come nella
natura della congregazione - riguarda scritti e non persone: il De
revolutionibus orbium coelestium di Copernico, il commento al
Libro di Giobbe di D. de Zuñiga (che dava una lettura
eliocentrica di luoghi biblici) e la Lettera del Foscarini.
Quest'ultima fu proibita in via definitiva. Per Copernico fu
adottato un canone epistemologico di origine classica e ripreso
dalla scolastica, modificando in senso "ipotetico" i passi che
presentavano il moto della Terra come realtà naturale e
consentendo l'uso del libro a scopi predittivi o di calcolo. La
correzione fu affidata all'Ingoli, la cui bozza (1618) fu
approvata dai matematici del Collegio romano e pubblicata nel
1620. Forse questa soluzione mediò tra un orientamento
rigorista e uno più duttile (Urbano VIII, che da cardinale
era stato coinvolto, disse poi a Campanella di essersi opposto).
Favorevoli a una condanna decisa furono Paolo V, alcuni cardinali
e i domenicani del S. Uffizio; la tesi mediana fu forse del
gesuita Bellarmino che, morto Clavio, consultò il
successore C. Grienberger. Forse il procedimento fu anche un
episodio delle relazioni difficili tra i due Ordini dottrinali, e
più che esserne gli artefici i matematici gesuiti
potrebbero esservi stati coinvolti, mediando tra lo scolasticismo
e la spinta dello sviluppo scientifico. La vicenda, eretta a
simbolo delle tensioni tra fede (o dogma) e scienza (o "libero
pensiero"), è stata ricostruita soprattutto in tre aspetti:
ragioni d'una decisione che poi danneggiò la Chiesa;
modalità della sentenza; motivi che mutarono sede e
destinatari del procedimento. Per circostanze complesse diversi
documenti (come per il processo del 1632-33) sono perduti, e ogni
spiegazione deve riferirsi alle categorie intellettuali dei
protagonisti, senza attribuire alla teoria respinta l'evidenza poi
raggiunta. Il ricorso ai matematici del Collegio romano esclude
che la condanna nascesse da mera incompetenza. Un geocentrismo
puro era ormai insostenibile, ma il sistema di Brahe era di un
ordine di esattezza analogo a quello di Copernico; le prime due
leggi di Keplero non erano ancora considerate, neanche dal
Galilei. Questi o altri fatti, però, spiegano la mancata
adozione del sistema copernicano, non la sua condanna; questa fu
dovuta all'incapacità di discostarsi dal senso comune
prescientifico e dal senso letterale dei luoghi biblici, e alle
aporie connesse al moto della terra nella meccanica non inerziale
ancora accettata. La supposta impossibilità fisica di un
sistema che, astronomicamente, non sembrava dimostrato vero ma non
era dimostrato falso, spiega perché la condanna non
sembrò compromettente per il futuro.
Il G. fu a Roma fino a giugno; Paolo V lo tranquillizzò,
ebbe solidarietà dai Lincei e da Bellarmino la
dichiarazione anzidetta. Campanella fece circolare una Apologia
pro Galilaeo (pubblicata poi a Francoforte). Le reazioni a Firenze
non sono note; gli avversari, forse paghi d'una condanna
impersonale, sospesero gli attacchi. Ebbe vicini Castelli, allievi
e amici (non il più stretto, F. Salviati, morto nel 1614,
ma N. e A. Arrighetti, F. Pandolfini, M. Guiducci). Dopo il 1610
non ebbe veri allievi, perché a Pisa fu solo docente
onorario e non sembra tenesse corsi privati; ma contribuì a
formare molti (N. Aggiunti, B. Cavalieri, F. Rinuccini, F.
Michelini, D. Peri, C. Noferi, C. Settimi, O. Ricasoli Rucellai,
A. Nardi, V. Renieri, V. Viviani). Tacendo sulla teoria riprese le
osservazioni, le ricerche fisiche e il progetto sulla longitudine;
sviluppò il microscopio, costruito nel 1614. Ma nel 1618
l'apparizione successiva di più comete portò
un'altra polemica. Dopo l'analisi di Brahe su quella del 1577 la
teoria di questi oggetti era cruciale; quando O. Grassi, docente
nel Collegio romano, sostenne con considerazioni parallattiche che
le comete non erano corpi "sublunari", secondo la tesi
aristotelica, ma astrali (De tribus cometis anni MDCXVIII, Roma
1619) il G. ispirò una critica di M. Guiducci (Discorso
delle comete, Firenze 1619). Le ragioni non sono chiare: Grassi
non aveva parlato di lui; l'uso della parallasse - valido
basilarmente anche per le comete - demarcava la nuova astronomia
dalla cosmologia aristotelica, e mostrava che i matematici
gesuiti, malgrado il decreto su Copernico e le resistenze interne,
intendevano sostenerla. Guiducci-Galileo, facendo leva su alcuni
errori, contestò l'applicazione del metodo alle comete
(spingendo Keplero a replicare), e ne ripropose in nuova versione
l'origine terrestre. Dato che su altri punti le posizioni del G.
furono più avanzate di quelle di Grassi, gli studi hanno
sminuito la statura del gesuita, non indagando i motivi
dell'attacco. Forse il G. imputò ai matematici del Collegio
romano il mancato sostegno nel 1616, mentre essi ritenevano di
avere svolto un ruolo di moderazione. Inoltre il metodo della
parallasse era legato a Brahe, verso il quale era tendenzialmente
critico. Alcuni hanno ipotizzato che la tesi neoaristotelica sulle
comete fu solo un espediente per evidenziare errori
dell'avversario; ma l'ipotesi - dubbia - rafforza
l'estraneità del G. al processo formativo della teoria
corretta. Secondo altri egli mutò poi posizione, ma gli
indizi in tal senso sono tenui.
Grassi imitò il G. facendo rispondere un allievo fittizio,
Lotario Sarsi Sigensano, anagramma di Oratio Grassi savonese
(Libra astronomica ac philosophica qua Galilaei Galilaei opiniones
de Cometis a Mario Guiduccio expositae examinantur, Perugia 1619);
il G., edotto dell'identità tra allievo e maestro,
poté colpire il secondo dileggiando il primo. Dopo scritti
del Guiducci (Lettera al m. r. p. Tarquinio Galluzzi nella quale
si giustifica dalle imputazioni dategli da Lotario Sarsi, Firenze
1620) e G.B. Stelluti (Scandaglio sopra la Libra astronomica e
filosofica di Lotario Sarsi, Terni 1622), il G. fu forse
incoraggiato a rispondere da un poemetto elogiativo (Laudatio
perniciosa) indirizzatogli da M. Barberini, ormai cardinale di
primo piano. Inviò la replica ai Lincei nell'ottobre 1622;
l'elezione a papa del Barberini, divenuto Urbano VIII, fu un
viatico per la stampa, con un titolo ispirato a quello di Grassi
(Il Saggiatore, nel quale con bilancia esquisita e giusta si
ponderano le cose contenute nella Libra astronomica e filosofica
di Lotario Sarsi, Roma 1623). Il Discorso di Guiducci criticava le
misure parallattiche sulle comete con ragioni ottiche, e la Libra
era scesa su questo terreno. Il Saggiatore vi rimase, con
considerazioni gnoseologiche (distinzione tra qualità reali
e apparenti dei corpi, le une puramente meccaniche, le altre
effetto delle prime sull'apparato percettivo), epistemologiche
(matematica come lingua della natura), di teoria della materia
(natura corpuscolare di luce e calore). Queste idee risalivano in
parte all'atomismo classico, e alcune erano già nella
Risposta al Delle Colombe e al Grazia. Ma la brillantezza di stile
e la fusione tra specialismo e tesi generali dettero al Saggiatore
un grande potenziale critico, e l'abilità dialettica,
l'ironia e alcuni errori dell'avversario permisero al G. di
eroderne la credibilità, pur se gli argomenti di Grassi non
erano banali quanto apparvero (una sua Ratio ponderum librae et
simbellae, pubblicata a Parigi nel 1626, non mutò la
situazione; il G. la postillò per una replica, alla quale
poi rinunciò). Il Saggiatore è un testo chiave per
la "filosofia" galileiana. Alcuni aspetti di questa evolvettero
(come, tra 1612 e 1638, la teoria della materia); e la
frammentarietà delle formulazioni, la loro lontananza
temporale, talora la vaghezza o apparente contraddittorietà
hanno portato a interpretazioni anche incompatibili. Ha prevalso a
lungo un G. "antifilosofo", distruttore di lessico e dottrine
verbalistici col rigore dell'analisi e la franca aderenza ai dati
naturali, il cui humus sarebbero state le matematiche applicate
ellenistiche (soprattutto la statica archimedea). Il nesso di
alcune sue idee con filosofie naturali, come quella atomistica,
non parve una prova in contrario perché in esse potevano
esservi incidentalmente concezioni valide. In seguito
l'approfondimento dei contesti e della storia precedente di temi e
discipline, e altre concezioni storiografiche e epistemologiche,
hanno portato a tesi "continuiste" che individuano l'humus in
correnti e dottrine della tradizione, indicate però
variamente (occamismo franco-inglese; "platonismo matematico";
epistemologia dell'averroismo padovano; filoni dell'epistemologia
tomista). Non esiste dunque un'interpretazione comune, anche se
molti nessi sono stabiliti.
L'estensione del tema scientifico ad altri di filosofia generale,
motivo di fortuna del Saggiatore, ravvivò i sospetti
sull'autore. Una segnalazione anonima al S. Uffizio rilevò
che teoria corpuscolare e interpretazione meccanica delle
qualità distruggevano la metafisica della sostanza, base
dell'interpretazione usuale della transustanziazione eucaristica
(quest'accusa alle concezioni corpuscolari, dopo quelle consuete
di epicureismo e ateismo, investì poi anche quelle
dichiaratamente cristiane di Descartes e Gassendi). La
segnalazione fu lasciata cadere (Urbano VIII aveva molto
apprezzato il Saggiatore), ma l'episodio conferma un clima.
Nell'aprile del 1624 il G. andò a Roma, per omaggiare
l'amico asceso al vertice della Cattolicità ma anche per
tornare sul decreto del 1616. Urbano VIII lo ricevette più
volte e gli prodigò favori (spontanei o richiesti):
concesse al figlio una pensione ecclesiastica (avendo Vincenzio -
cui si attribuiscono idee anticlericali - rifiutato la tonsura
necessaria per ottenerla, il padre la fece poi assegnare a un
nipote), e due al G. (per le quali ricevette la tonsura nel 1631).
Sull'eliocentrismo, però, ribadì che era ammesso
solo come schema ipotetico, osservando (ma l'episodio potrebbe
risalire al 1616) che Dio poteva produrre il moto apparente degli
astri con un numero indefinito di loro disposizioni,
cosicché il fatto che una teoria gli si accorda non prova
che descriva la realtà fisica. Ma il G. lavorò a che
la situazione mutasse; dopo aver presentato ai Lincei un
microscopio composto (ne inviò altri in Italia e
all'estero), usato da F. Stelluti per osservazioni pubblicate nel
1630, nel giugno a Firenze stese una risposta al saggio di Ingoli
del 1616, e riprese lo scritto al cardinale Orsini sulle maree per
farne un'analisi generale del moto terrestre. L'idea risaliva a
prima del 1597, e nel 1610 aveva accennato a un De systemate
universi. Vi lavorò a lungo, con pause in cui riprese
ricerche precedenti (longitudine, armatura delle calamite, idee
sulla struttura del continuo emerse a Padova ed esposte poi nei
Discorsi), studiò il regime del fiume Bisenzio,
partecipò a magistrature cittadine (nel 1628 entrò
nel Consiglio dei duecento), affrontò problemi di salute e
privati (seguì la carriera del figlio, e nel 1629 difese lo
stipendio percepito come docente onorario a Pisa che gli era stato
contestato). Curò inoltre la successione di N. Aggiunti al
Castelli, chiamato a insegnare a Roma, e s'interessò alle
Dimostrazioni geometriche della misura dell'acque correnti (Roma
1628) del benedettino, testo fondante dell'idraulica fluviale. Nel
1630, terminato il proprio lavoro, pensò di chiedere
l'imprimatur a Roma, forse fidando su Cesi. Dopo contatti di
Castelli col maestro del Sacro Palazzo, il domenicano N. Riccardi,
e col cardinale Francesco Barberini, andò a Roma
(maggio-giugno 1630), contando sull'appoggio del granduca
Ferdinando II. Ma il permesso di stampa tardò; il
manoscritto fu letto da un confratello di Riccardi, R. Visconti,
che chiese ritocchi che furono accolti. In agosto, morto Cesi, il
G. pensò di stampare a Genova (ne trattò col
Baliani), poi a Firenze. Quando chiese l'imprimatur definitivo
Riccardi prima disse di voler rivedere il testo, poi che inizio e
fine dovevano essere rivisti a Roma, mentre il resto poteva
esserlo a Firenze, dove un domenicano scelto dal G., G. Stefani,
l'approvò. Ma Riccardi controllò ancora il tutto e
poi, sentito il papa, pose condizioni: che il titolo non alludesse
alle maree; che l'opera si astenesse da questioni scritturali; che
presentasse le idee copernicane nel modo "ipotetico" prescritto
nel 1616. Inoltre il proemio doveva dichiarare l'intento di
mostrare che il decreto del 1616 non era imputabile a ignoranza
scientifica, e la chiusa doveva presentare l'argomento di Urbano
VIII sulla ipoteticità di ogni schema astronomico. La
stampa dal Dialogo di Galileo Galilei… Dove ne i congressi di
quattro giornate si discorre sopra i due massimi sistemi del mondo
tolemaico e copernicano; proponendo indeterminatamente le ragioni
filosofiche e naturali tanto per l'una, quanto per l'altra parte
(in Fiorenza, per G.B. Landini) iniziò nel giugno 1631, col
solo permesso dell'Inquisizione di Firenze, e terminò nel
febbraio 1632.
Il Dialogo è estraneo ai generi allora usuali della
letteratura scientifica. Non rientra in una disciplina, impiegando
considerazioni astronomiche, meccaniche, matematiche,
cosmologiche, epistemologiche, logico-semantiche. Non è un
trattato; non ha ordine deduttivo, perché ha digressioni e
circonvoluzioni del discorso comune; avvia la fisica matematica
moderna, ma il formalismo - pur nei modi del tempo - vi ha poca
parte. I temi hanno spesso matrici remote; l'originalità -
a parte singole tesi o risultati - è soprattutto di scopo e
modi. Forma dialogica e uso del volgare erano già nella
letteratura matematica del Cinquecento; l'identificazione dei
parlanti con posizioni dottrinali era consueta (anche negli
scritti di Vincenzio Galilei, che anticipano moduli usati dal
figlio). Ma nessuno aveva unito in pari grado stile, forza
dialettica e livello di analisi, o era riuscito a far apparire
persone reali delle figure con ruoli prefissati. Salviati e
Sagredo (morto anch'egli, nel 1620) sono più che il
portavoce dell'autore e un arbitro: la mordacità brillante
del primo e la finezza spassionata del secondo sono tratti
autentici. Il nome del terzo interlocutore, Simplicio, evoca un
commentatore di Aristotele e lo stereotipo dell'accademico
libresco; non si può escludere che il G. pensasse a una
persona, ma l'identificazione con Cremonini o altri non trova
supporto. La conversazione, nel palazzo veneziano dei Sagredo,
tocca quattro aspetti in altrettante "giornate": critica della
cosmologia aristotelica; fenomeni del moto terrestre; questioni
astronomiche e correlati meccanici e ottici; la spiegazione delle
maree già proposta all'Orsini. Alla caratterizzazione della
fisica tradizionale (intreccio di causalità e
finalità, circolarità esplicativa, reificazione di
qualità percettive, distinzioni linguistiche e dati
psicologici), segue l'enunciazione di ciò che sarà
detto relatività galileiana e di risultati cinematici degli
anni padovani, dimostrati poi nei Discorsi. Il tutto apre la
strada alla teoria delle maree, per il G. decisiva perché
implicante la realtà dei moti della Terra. Originata dal
rifiuto dell'attrazione lunare, che come per le "virtù" e
le "qualità" aristoteliche egli riteneva una reificazione,
essa fu un brillante errore indotto da purismo epistemologico. Il
G. non si valse dei lavori di Keplero, che possedeva e che
mostravano la netta superiorità dell'eliocentrismo. In
questo influirono le loro forti differenze di "stile" scientifico;
ma va aggiunto che non fu raro in lui il silenzio su proposte
nuove di altri, inclusa la Geometria di B. Cavalieri, allievo di
Castelli e in parte suo, che invano gli chiese un parere sul
proprio metodo. Così i conservatori poterono ritenere che
il decreto del 1616 fosse ancora in linea con lo stato delle
conoscenze, e concentrarono l'esame sulla congruenza dell'opera
con esso. Nel proemio v'era la dichiarazione chiesta dal Riccardi,
ma il seguito accreditava palesemente l'eliocentrismo: Salviati
prevaleva sempre su Simplicio, difensore del geocentrismo puro,
non del più sofisticato sistema di Brahe. Presentare le
maree come prova dei moti della Terra contraddiceva l'argomento di
Urbano VIII, per giunta fatto esporre da Simplicio (il che parve
derisorio) e commentato da Salviati in termini tanto compunti da
suonare ironici.
Nell'estate del 1632 Urbano VIII affidò il Dialogo a una
commissione, come reagendo a una scorrettezza (al modo in cui era
stato formulato il suo argomento, o al fatto che il G. aveva
chiesto l'imprimatur senza accennare al precetto). La commissione
concluse che l'opera infrangeva il decreto del 1616, e il papa
attivò il S. Uffizio e convocò a Roma l'autore; il
G. chiese di essere interrogato a Firenze per motivi di salute ma
dovette obbedire. A Roma, dal febbraio 1633, poté abitare
nell'ambasciata medicea purché evitasse rapporti esterni;
interrogato il 12 aprile disse di non ricordare se il 26 febbr.
1616 gli era stato intimato un precetto, ma non l'escluse.
Detenuto nel palazzo del S. Uffizio, il 30 aprile ammise di aver
rappresentato l'eliocentrismo come superiore (per "vana ambizione
e compiacimento di apparire arguto"), ma ripeté di non aver
memoria del precetto; il 21 giugno, sotto minaccia di tortura, lo
ribadì. Il giorno seguente, in S. Maria sopra Minerva,
abiurò e ascoltò la sentenza di carcerazione "ad
arbitrio nostro" e proibizione assoluta del Dialogo. Abiura e
sentenza furono inviate in diverse città italiane per
esservi pubblicate e lette a filosofi e matematici; a Firenze
questo avvenne il 12 luglio, presenti amici e allievi del Galilei.
L'inquisitore locale fu ammonito per aver approvato l'opera.
Tra il processo del 1633 e la vicenda del 1615-16 vi sono
differenze importanti. Fu personale e non dottrinale, e non
riguardò tesi ma questioni di fatto: se l'opera infrangeva
un decreto; se l'autore aveva contravvenuto a una diffida
legalmente impegnativa. Pur negando l'intenzione il G. rispose
affermativamente alla prima (nel probabile convincimento che un
diniego avrebbe aggravato la situazione); quanto alla seconda, la
sua scelta di non negare l'imposizione del precetto - quando
nessun testimone sopravviveva - significa almeno quanto le
irregolarità di registrazione. Una volta escluso che la
concessione dell'imprimatur rendesse illegittimo un successivo
accertamento di congruità tra intenti e precetto, lo spazio
di difesa era ristretto, e l'esito quasi inevitabile. La sentenza
fu firmata da sette dei dieci cardinali del S. Uffizio, ma non
v'è prova che questo non fosse casuale. Concernendo la mera
conformità al pronunciamento di un'autorità essa
ebbe destino diverso da quello del decreto del 1616, divenuto
quasi inoperante nel 1757, quando Benedetto XIV lo escluse dalle
edizioni venture dell'Indice; il Dialogo vi figurò fino a
Ottocento inoltrato.
L'applicazione della condanna fu mite, forse anche per riguardo ai
Medici (si è parlato di inesperienza e pavidità del
giovane Ferdinando II, ma è dubbio che un atteggiamento
più energico sarebbe stato efficace). Il 23 giugno la sede
di detenzione fu spostata nell'ambasciata toscana, e il 30 nel
palazzo senese di un amico del G., l'arcivescovo Ascanio
Piccolomini. L'ambiente favorevole di Siena lo restituì al
lavoro. Da idee precedenti sviluppò risultati sulla
resistenza dei materiali che espose in seguito nei Discorsi, prima
della parte cinematica, sulla quale pure lavorò. Nel
contempo postillò un libro dell'aristotelico A. Rocco
(Esercitationi filosofiche… le quali versano in considerare le
posizioni et obietioni che si contengono nel dialogo del sig. G.
G. linceo, contro la dottrina d'Aristotile, Venezia 1633). F.
Micanzio, il biografo di Sarpi rimasto referente veneto del G.,
comunicò le postille al Rocco, avviando un dialogo
indiretto e incoraggiando l'amico a farne uno scritto organico,
che non stese mai; esse costituiscono comunque un'integrazione al
Dialogo. Il G. postillò anche un libro di J.B. Morin
(Famosi et antiqui problematis de Telluris motu, vel quiete,
hactenus optata solutio, Parigi 1631), e giudicò oralmente
con l'usuale mordacia uno di S. Chiaramonti (Difesa… al suo
Antiticone, e libro delle tre nuove stelle, dall'oppositioni
dell'autore de' due massimi sistemi tolemaico e copernicano,
Firenze 1633). Nel dicembre 1633 ottenne di risiedere ad Arcetri,
dove poté ricevere visite autorizzate, incluse quelle di
Morin, Hobbes (nel tardo 1635) e Milton (forse nel settembre del
1638). Nell'ottobre 1635 incontrò un antico allievo di
Padova, F. de Noailles, che come ambasciatore francese a Roma
aveva cercato di far attenuare la sua condanna; a lui
dedicherà i Discorsi. Castelli poté visitarlo solo
nel 1638. Una sua richiesta di andare saltuariamente a Firenze per
cure, respinta nel 1634, fu accolta solo nel 1638, dopo che aveva
perduto la vista. Prima e dopo il 1633 la sua vita privata a
Arcetri fu semplice; curava personalmente i propri vigneti, e le
attività quotidiane hanno un'eco nelle lettere della
figlia.
Già nei mesi di Siena la notizia che lavorava all'opera sul
moto destò aspettative; tra 1634 e 1636 furono pubblicate
la traduzione francese di M. Mersenne delle Mecaniche (circolate
fuori d'Italia da circa il 1615) e traduzioni latine di M.
Bernegger del Dialogo e della lettera a Cristina di Lorena. Il
primo fu molto letto (nel 1634 da P. de Carcavy, I. Beeckman,
Descartes). Tornando alla meccanica, principale campo d'indagine
fino al 1609, il G. non volle solo evitare la perdita di risultati
fondamentali e evidenziare, nella sconfitta, meriti e
priorità. La nuova cinematica poteva rimuovere le
pregiudiziali sul moto terrestre, ma la giornata II del Dialogo
non la presentava così analiticamente da istituire un nesso
con l'astronomia. Quindi egli perseguì una strategia
indiretta, astenendosi dalla meccanica celeste. La stesura
progredì nonostante crescenti disturbi fisici e una grave
crisi per la morte di Maria Celeste (aprile 1634). Dal 1630 aveva
ripreso le note sul moto uniformemente accelerato, delineando la
futura giornata terza dell'opera, sviluppata a Siena. Nel 1634
decise di premetterne una sulla struttura della materia e del
continuo e una sulla resistenza dei solidi alla frattura
(anch'essa sviluppo di riflessioni precedenti). Vi lavorò
nella prima metà del 1635; entro febbraio inviò al
Micanzio una bozza della futura giornata I dei Discorsi, ma
l'amico lo avvisò che per lui c'era un divieto "de omnibus
editis ed edendis". Perciò, completata in maggio la
giornata II, inviò entrambe a G. Pieroni, un ingegnere
offertosi di far stampare l'opera in Germania. Nella seconda
metà del 1635 perfezionò la giornata III, e nel 1636
la IV sulla traiettoria dei proiettili. Poiché Pieroni
incontrava difficoltà il G. si abboccò a Arcetri con
L. Elzevier, esponente dei noti editori-stampatori; gli
affidò la stampa, convenendo che l'opera avrebbe incluso
anche una quinta giornata sulla teoria delle proporzioni.
Pensò poi a una sesta sulla forza della percossa (altro
tema avviato a Padova) e a un'appendice con i teoremi giovanili
sui centri di gravità. Ma, anche per il peggiorare della
salute e della vista, entro il maggio 1637 poté fornire
solo il testo delle giornate I-IV e dell'appendice, e l'opera fu
stampata con queste parti. Non avendo avuto un titolo, gli
Elzevier ne scelsero uno che al G. parve dimesso: Discorsi e
dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze attenenti
alla mecanica et i movementi locali… Con una appendice del centro
di gravità d'alcuni solidi (in Leida, appresso gli
Elsevirii, 1638). Il libro entrò in commercio nell'estate e
l'autore, per la cecità sopravvenuta, non poté
più esaminarlo.
I Discorsi conservano struttura, interlocutori e andamento
digressivo del Dialogo. La maggiore tecnicità li rende meno
brillanti e agevoli, anche perché le giornate III e IV
consistono quasi solo di estratti di uno scritto latino degli anni
di Padova, in tre parti: De motu aequabili, De motu naturaliter
accelerato, De motu proiectorum. Se influirono meno sulle idee
moderne circa natura e scopi del sapere, sono però
scientificamente il lavoro maggiore del Galilei. La dizione "nuove
scienze" li qualifica non come aggiunta a qualcosa già
esistente, ma come fondazione di due discipline. Entro certi
limiti questo è corretto, ma per ragioni diverse nelle due
parti dell'opera. Le prime due giornate, oltre a digressioni sul
continuo matematico, struttura della materia, pendoli e acustica,
danno la prima trattazione generale della resistenza dei corpi
alla frattura, con un salto teorico che (come il Della misura
delle acque correnti di Castelli in idraulica) mutò anche
figure professionali. Ma la novità in cinematica (giornate
III e IV) investì la partizione stessa dell'oggetto di
studio. Fino ad allora la sola parte matematizzata della meccanica
era la statica; il moto era studiato dai filosofi naturali in
forme e con lessico non quantitativi. L'estensione dei metodi
della prima area alla seconda, solo avviata nei De motu
antiquiora, configurò i fatti statici come limiti di quelli
cinetici. Una nuova meccanica, fisica e matematica,
concretò la visione della realtà naturale della
quale il Dialogo aveva fornito le coordinate. Sviluppi di tale
portata non sono opera di singoli, ma il ruolo del G. fu decisivo,
e se certi suoi fondamenti non vanno modernizzati (pensò a
una inerzia circolare) essi non compromisero i suoi risultati in
cinematica. Questi non sono solo un piccolo numero di "scoperte"
(nel moto uniformemente accelerato gli spazi percorsi in porzioni
uguali e successive di tempo stanno tra loro come la successione
1, 3, 5, 7, 9, …; gli spazi percorsi in 1, 2, 3, 4, … porzioni
corrispondono alla prima potenza del loro numero; un proiettile
descrive sempre una parabola, determinata dalla velocità e
dall'angolo di lancio) e in risultati derivati. Vi ebbero infatti
un ruolo essenziale anche principî e postulati intermedi,
che permisero poi a Torricelli di generalizzare l'impianto della
disciplina.
In un'ultima esplosione di energie il G. avviò o riprese
progetti e osservazioni (nel 1637 descrisse la titubazione lunare)
finché disturbi alla vista iniziati nel 1632 lo portarono
alla cecità totale (1638). Nel 1636 propose il metodo per
la longitudine agli Stati generali d'Olanda. Lavorò alla
giornata VI sulla percossa e alle Operazioni astronomiche, su
strumenti e metodi per migliorare le osservazioni; cercò di
provare il principio di uguaglianza dei momenti di sfere
discendenti lungo piani inclinati di uguale altezza. Scrisse note
sui movimenti degli animali (densità media degli organismi
in rapporto al mezzo ambiente; resistenza delle strutture ossee;
nessi tra forme delle specie, loro dimensioni, tipo di locomozione
che impiegano e densità del mezzo). Nell'isolamento della
cecità la corrispondenza lo distrasse e stimolò. Nel
giugno 1637 replicò a P. de Fermat sulla caduta dei gravi;
dal tardo 1638 discusse il De motu naturali gravium solidorum
(Genova 1638) del Baliani, che per vie diverse giungeva a parte
dei suoi risultati; nel 1640, in un saggio al principe Leopoldo
de' Medici sul Litheosphorus (Udine 1640) di F. Liceti, relativo
alla "pietra di Bologna" (una barite luminescente cui s'era
interessato almeno dal 1611), precisò idee sulla natura
della luce manifestate fin dal 1615 al Dini e altre sulla luce
cinerea della luna (fu incluso nel De Lunae subobscura luce di
Liceti, ibid. 1642). Nel tardo 1641 dettò a Evangelista
Torricelli parte della giornata V dei Discorsi, sulla teoria delle
proporzioni.
Per il suo stato gli occorsero collaboratori. Dopo il sacerdote
fiorentino Marco Ambrogetti dal 1639 il G. si valse del
diciassettenne Vincenzio Viviani, già promettente
matematico, che con Vincenzio Galilei testimonierà su un
tentativo del 1641 di applicare il pendolo agli orologi (che,
sviluppato a Firenze negli anni successivi, fonderà una
rivendicazione di priorità nei confronti di C. Huygens).
Nell'ottobre del 1641 chiamò presso di sé
Torricelli, del quale Castelli gli aveva inviato risultati. La
collaborazione fu però brevissima, perché dal
novembre 1641 le sue condizioni si aggravarono.
Il G. morì ad Arcetri l'8 genn. 1642.
La modesta cerimonia funebre avvenne il giorno seguente nella
chiesa fiorentina di S. Croce. L'intento dei Medici e di Viviani
di erigergli un monumento sepolcrale nella stessa chiesa
restò irrealizzabile per quasi un secolo. Nel 1674 lo
scolopio G. Pierozzi ornò la sepoltura provvisoria nella
cappella dei Ss. Cosma e Damiano, attigua alla chiesa, con una
commossa epigrafe latina; solo nel 1734 il S. Uffizio
autorizzò la costruzione di una tomba monumentale in S.
Croce, dov'erano quelle del padre e di Michelangelo Buonarroti; le
spoglie vi furono traslate nel 1737.