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Sommario: 1. Problemi di definizione e prospettive. 2. Impiegati e
funzionari nella struttura sociale. 3. La situazione lavorativa e
professionale di impiegati e funzionari. □ Bibliografia.
1. Problemi di definizione e prospettive
Come dimostra la storia dell'espressione 'colletti bianchi', la
categoria impiegatizia costituisce un oggetto di studio
relativamente recente delle scienze sociali. Secondo J. Kocka (v.,
1977, p. 142) tale espressione, usata per designare un tipo
particolare di 'lavoratore non manuale' - nella fattispecie il
disegnatore industriale -, compare per la prima volta nel 1903.
Solo dopo la seconda guerra mondiale, comunque, l'espressione
entra stabilmente nell'uso linguistico anglosassone per indicare
la categoria degli impiegati, e all'inizio degli anni cinquanta,
con il libro di C.W. Mills intitolato appunto White collar, il
tema riceve la prima, fondamentale trattazione scientifica
nell'area linguistica anglosassone.
Ciò non significa peraltro che di una sociologia degli
impiegati si possa parlare solo a partire dal classico studio
stimolante e impressionistico di Mills. Sin dall'inizio del XX
secolo infatti in Germania - in un primo tempo in rapporto alla
questione sociale e ai mutamenti della struttura sociale (v.
Lederer, 1912; v. Schmoller, 1918; v. Hilferding, 1910),
successivamente nella Repubblica di Weimar in relazione alle
correnti politiche e al nazionalsocialismo emergente - si
sviluppò un dibattito abbastanza ampio sugli impiegati come
nucleo essenziale del nuovo ceto medio. Nel quadro di tale
dibattito vennero posti i fondamenti della sociologia degli
impiegati (v. Lederer e Marschak, 1926; v. Kracauer, 1930; v.
Dreyfuss, 1933; v. Speier, 1977), che influenzarono profondamente
anche la successiva ricerca angloamericana, non da ultimo a
seguito dell'emigrazione degli studiosi tedeschi causata
dall'avvento del nazismo. (L'opera di Mills ad esempio si articola
in base ai concetti fondamentali del precedente dibattito tedesco
sul 'vecchio' e sul 'nuovo' ceto medio). Questi pochi cenni sulla
storia del concetto e della riflessione teorica sono sufficienti a
chiarire che al di là dei confini nazionali non abbiamo a
che fare con un fenomeno omogeneo. Le definizioni,
l'individuazione delle problematiche e le categorie fondamentali
della sociologia degli impiegati si collegano in larga misura alle
specificità della struttura sociale e della storia politica
dei singoli paesi (v. Mangold, 1981).
I collegamenti teorici della sociologia degli impiegati,
perlomeno nei suoi sviluppi più recenti, sono
interdisciplinari e di rilevanza generale; partendo dal 'colletto
bianco' - questo particolare marginale sebbene appariscente
dell'abbigliamento maschile - si può sviluppare un
dibattito di fondamentale importanza nelle scienze sociali
sull'evoluzione della struttura sociale nelle moderne
società borghesi e sul passaggio dalla società
industriale alla 'società dei servizi'. Proprio
sull'avanzata dei gruppi di lavoratori dipendenti che rientrano -
per il momento indistintamente - nella categoria dei 'colletti
bianchi' o degli 'impiegati', J. Fourastié (v., 1949)
fondava la sua "grande speranza del XX secolo", e D. Bell (v.,
1973) la sua prefigurazione di una società postindustriale
in cui l'elemento fondamentale non fosse più costituito
dalla proprietà, bensì dal sapere e dalla cultura.
Nella prima letteratura sull'argomento troviamo la seguente
caratterizzazione dei 'colletti bianchi', che ci consente di fare
un primo passo verso una definizione sociologica e ne pone in
evidenza, nel contempo, gli aspetti problematici: "Spesso hanno
una gran paura di sporcarsi le mani" (v. Kocka, 1977, p. 394). Il
'colletto bianco' è simbolo di lavoro pulito, e distingue
tutti coloro che possono o addirittura debbono indossarlo sul
posto di lavoro da quanti svolgono mansioni 'sporche' e portano di
conseguenza il meno delicato 'colletto blu'. Viene così
tematizzata la contrapposizione tra lavoro manuale e lavoro
intellettuale, e in tutte le teorie sociologiche, qualunque sia la
tradizione cui esse si rifanno, la categoria degli impiegati
è definita in primo luogo in contrasto rispetto a quella
degli operai: i 'colletti bianchi' sono estranei al lavoro alle
macchine delle fabbriche e svolgono funzioni di direzione e di
controllo che non riguardano direttamente l'attività
produttiva. Questa definizione di natura esclusivamente negativa
è però insufficiente, perché la categoria dei
lavoratori non manuali è assai numerosa e molto più
eterogenea di quella dei lavoratori manuali: di conseguenza
è necessario individuare ulteriori caratteristiche positive
al fine di chiarire se i 'colletti bianchi' costituiscano
un'unità sociale, un ceto o una classe.
Poiché il concetto di 'colletti bianchi' o 'impiegati'
riguarda l'ambito del lavoro dipendente, prima di intraprendere
qualunque tentativo di definizione in base allo status sociale
occorre operare una delimitazione rispetto ad altre categorie di
lavoratori sulla base di caratteristiche attinenti alle funzioni
e/o ai contenuti dell'attività lavorativa, oppure sulla
base di criteri che fanno riferimento alla posizione nella
gerarchia aziendale. È questa la direzione seguita dagli
esponenti della sociologia classica degli impiegati, o dai suoi
precursori. Nel Capitale Marx fornisce una definizione degli
impiegati che risulta funzionale sotto due aspetti. Dal punto di
vista economico, la maggior parte dei gruppi di lavoratori che
oggi classifichiamo come impiegati svolge, secondo Marx, un lavoro
improduttivo, ossia un lavoro che non produce plusvalore; egli li
definisce "salariati commerciali del capitale". Dal punto di vista
funzionale, si tratta di lavoratori dipendenti, impiegati nei
settori commerciali-amministrativi delle aziende industriali o
negli istituti bancari e commerciali. Alla categoria dei
lavoratori produttivi appartiene una porzione minima degli
impiegati, che deve la propria nascita ed espansione alla
progressiva differenziazione delle funzioni di direzione e di
controllo determinata dallo sviluppo della divisione del lavoro;
tra essi Marx include gli overlookers, i periti ecc., definendoli
non senza scherno "ufficiali e sottufficiali del capitale" (v.
Marx, 1867-1894, in particolare vol. I, cap. 14, e vol. III, capp.
17 e 23).
Nell'analisi marxiana di questa categoria di lavoratori emergono
già numerosi elementi che avrebbero suscitato accese
controversie nel successivo dibattito delle scienze sociali sulle
caratteristiche particolari e generali del lavoro impiegatizio.
Un'importanza cruciale per la discussione successiva ebbe
soprattutto il fatto che anche per i gruppi impiegatizi Marx
subordinasse la loro funzione e la loro posizione all'interno
dell'azienda allo status di lavoratori salariati, ritenendo di
conseguenza che a lungo termine anche gli impiegati sarebbero
stati soggetti alle stesse leggi della divisione del lavoro e
della razionalizzazione che valevano per i lavoratori produttivi.
Se le cose stanno così, se i vantaggi del lavoro
improduttivo rispetto a quello produttivo, ad esempio una migliore
retribuzione e una maggiore qualificazione, verranno livellati a
seguito della progressiva razionalizzazione, è inutile -
secondo una delle principali correnti della sociologia marxista -
preoccuparsi troppo delle specificità sociologiche e
politico-strategiche della categoria impiegatizia, dato che prima
o poi essa verrà inesorabilmente riassorbita nella classe
operaia (torneremo su questo punto in rapporto al dibattito sulla
struttura sociale).
La definizione funzionale degli impiegati fornita da Weber, al
pari della sua analisi del capitalismo, è agli antipodi di
quella marxiana. Weber considera gli impiegati un gruppo
burocratico e si occupa soprattutto degli impiegati dell'industria
come gruppo particolare della burocrazia, che, in quanto
funzionari privati, non differiscono sostanzialmente da quelli
pubblici. Caratteristica preminente della loro concezione del
lavoro è la rigorosa obiettività, capace di astrarre
da ogni fattore personale, e uno spiccato senso del dovere.
Poiché a seguito dell'ampliarsi dei mercati, della
crescente razionalizzazione dei rapporti sociali e della
tecnologizzazione del lavoro e delle comunicazioni le forme di
organizzazione e gli apparati amministrativi di tipo burocratico
si vanno estendendo a tutti gli ambiti della vita - dalle chiese
ai grandi magazzini, dall'industria ai sindacati e ai partiti -
anche il modello di condotta che definisce questa categoria di
lavoratori è destinato a diffondersi e a influenzare le
forme dei rapporti sociali (v. Weber, 1922).
Esistono senza dubbio dei collegamenti tra le analisi weberiane e
le definizioni degli impiegati elaborate nel quadro di alcune
recenti teorie del potere e dell'organizzazione, ad esempio quelle
di Dahrendorf (v., 1957) e di Croner (v., 1954). In quanto gruppo
burocratico gli impiegati costituiscono un'articolazione
funzionale dell'esercizio del potere e di conseguenza sono anche
investiti di autorità, o dall'imprenditore nel settore
dell'economia privata, o dal 'sovrano' in quello
dell'amministrazione pubblica. Questa cosiddetta 'teoria della
delega' coglie senza dubbio un elemento strutturale decisivo per
la nascita della categoria impiegatizia, già individuato
peraltro da Marx. A essa tuttavia si potrebbe obiettare che, con
l'espansione dell'amministrazione burocratica e la sua progressiva
differenziazione basata sulla divisione del lavoro, la
partecipazione delegata al potere cessa di essere un elemento
determinante dei contenuti e delle modalità di esecuzione
dell'attività lavorativa; per la maggior parte degli
impiegati dei livelli inferiori dell'apparato burocratico,
meramente esecutivi, questo tratto distintivo del loro lavoro
è annullato da regolamenti d'esecuzione spesso restrittivi
e da una divisione gerarchica delle competenze. Lo stesso
Dahrendorf sembra essersi reso conto del problema, senza peraltro
dargli il giusto peso sul piano teorico. Oltre a una
differenziazione orizzontale degli impiegati in base ai settori
economici (industria, commercio, servizi, pubblico impiego),
Dahrendorf propone una differenziazione verticale, basata sullo
status professionale, tra 'burocrati puri', 'tecnici' e 'semplici
impiegati' (v. Dahrendorf, 1957, pp. 52 ss.). Questa
differenziazione non gli impedisce peraltro, sulla base della
teoria della delega, di includere tutti gli impiegati e i
funzionari nella 'classe dominante'.
Se si confrontano queste definizioni tradizionali con la
realtà attuale dei gruppi di lavoratori che rientrano nella
categoria dei 'colletti bianchi', si vedrà ben presto che
esse risultano del tutto inadeguate rispetto alla varietà
delle mansioni e all'eterogeneità delle condizioni
professionali degli impiegati. Questi approcci infatti restano
ancorati a determinate caratteristiche che sono rilevanti per
particolari gruppi di impiegati e funzionari (ad esempio quelli
dell'industria nel caso di Marx e di Weber), ma che con
l'espandersi della categoria e con la progressiva differenziazione
delle sue funzioni non si sono generalizzate.
L'eterogeneità del campo professionale, la
complessità e la diversificazione delle funzioni, del
livello di qualificazione e della posizione aziendale di un top
manager, un'infermiera, o una cassiera del supermercato - che
rientrano tutti tra i 'colletti bianchi' - condannano al
fallimento ogni tentativo di definire una categoria omogenea
rispetto alla funzione, al tipo di attività o allo status.
Per render conto di tale eterogeneità si può far
ricorso a una tipologia altamente astratta, quale quella abbozzata
da Mills (v., 1951) e precisata in seguito da Kohn attraverso le
seguenti categorie: "rapporto con le cose" (che riguarda la
maggior parte delle mansioni operaie), "rapporto con i simboli" e
"rapporto con le persone" (che riguardano le mansioni
impiegatizie: v. Kohn, 1977², pp. 165 ss.). E tuttavia oggi
non è più possibile tracciare una linea di
demarcazione precisa tra le attività lavorative degli
operai (colletti blu) e quelle degli impiegati (colletti bianchi)
servendosi di una tipologia di questo genere, poiché a
seguito della computerizzazione dei processi del lavoro produttivo
alcune mansioni specializzate dei 'colletti blu' si avvicinano
sempre più alla categoria "rapporto con i simboli".
Di fronte all'eterogeneità sociale e professionale degli
impiegati, può sorprendere il fatto che in quasi tutte le
società industriali occidentali venga utilizzato il
medesimo concetto per designare gli stessi gruppi di lavoratori
del settore terziario pubblico e privato, nonostante la
diversità di funzioni e di status che li caratterizza. Sia
che si parli di white collar, di employée salarié,
di Angestellte o di empleado, la gamma delle categorie di
lavoratori comprese sotto questi concetti va sempre dal manager
alla semplice commessa, suscitando una vaga idea di comunanza
sociale. Si potrebbe credere che di fatto l'immagine contrapposta,
l'omogeneità relativamente grande dei lavoratori
dell'industria, sia stata più determinante rispetto ad
altre caratteristiche comuni. Su questo punto il senso comune e la
sociologia con tutta probabilità condividono
sostanzialmente l'idea che molti impiegati hanno della propria
posizione, e che è stata recentemente caratterizzata da
H.P. Bahrdt (v., 1984, p. 154) con la seguente osservazione
giocata sull'ambiguità: "Alcuni impiegati si distinguono
dagli operai solo perché si distinguono dagli operai".
2. Impiegati e funzionari nella struttura sociale
Di fatto la sociologia degli impiegati non si è incentrata
tanto su un'analisi approfondita della situazione lavorativa
professionale della categoria, quanto piuttosto su un annoso
dibattito relativo al significato politico e sociostrutturale
degli impiegati. Il fatto che sinora abbiamo citato tanti autori
tedeschi ha qualcosa a che fare con questa tradizione. Come
sociologia degli impiegati, lo studio dei 'colletti bianchi'
è stato per lungo tempo (sino alla fine della Repubblica di
Weimar) monopolio della sociologia dell'area linguistica tedesca.
Esso si è sviluppato prima e nel modo più durevole
là dove gli impiegati come gruppo sociale sono stati creati
dalla classe politica dominante in contrapposizione a una classe
operaia che si proponeva e si organizzava in senso rivoluzionario:
in Germania e in Austria. In Inghilterra, nonostante la forte
dicotomizzazione della società, l'alleanza politica tra la
borghesia dominante e una categoria impiegatizia che avrebbe
dovuto essere comprata con la concessione di determinati privilegi
appariva meno necessaria, in quanto non esisteva un movimento
operaio rivoluzionario e il suo organo politico, il Partito
Laburista, sin dall'inizio aveva seguito un orientamento
riformistico (v. Hobsbawm, 1964; v. Lockwood, 1966). Gli Stati
Uniti nel XIX secolo erano principalmente una società di
imprenditori e di lavoratori autonomi. Secondo Mills (v., 1951)
all'inizio dell'Ottocento gli imprenditori autonomi costituivano
circa i quattro quinti della popolazione attiva, nel 1879 un terzo
e nel 1940 solo un quinto.
I mutamenti della struttura sociale in Francia, Gran Bretagna,
Italia e Stati Uniti tra il 1880 e il 1980 mostrano (v. tabella)
che quasi dappertutto gli impiegati sono diventati la categoria di
lavoratori quantitativamente più rilevante. In questo caso,
tuttavia, occorre tener presente in modo particolare la riserva
metodologica che vale in generale per tutti gli studi di
comparazione internazionale, ossia il fatto che analoghe categorie
professionali hanno un significato diverso in paesi diversi (v.
Sylos Labini, 1987⁶). Ciò vale in particolare per la
categoria degli impiegati, che assume il carattere di un gruppo
sociale non solo per il tipo di attività lavorativa, ma
anche per l'inquadramento normativo di quest'ultima. Proprio in
relazione al trattamento normativo e previdenziale esistono
differenze determinanti tra i paesi angloamericani e i paesi di
lingua tedesca, nonché tra le varie società europee.
Per quanto riguarda l'origine storica degli impiegati come
categoria sociostrutturale, occorre considerare due fattori: la
loro funzione aziendale, come lavoratori le cui mansioni non
riguardano il processo produttivo immediato ma la direzione e il
controllo di quest'ultimo, e la posizione privilegiata rispetto
agli operai sul piano del trattamento normativo e previdenziale.
La seconda componente ha una diversa incidenza nei diversi paesi:
in Germania è assai più pronunciata che nei paesi
angloamericani, dove per questo aspetto gli impiegati non si
differenziano in alcun modo dagli operai.
In Germania il Regolamento in materia di professioni e di
mestieri del 1891 prevedeva già un trattamento normativo
speciale per gli impiegati, come ad esempio un termine di
preavviso di sei settimane in caso di licenziamento e la
corresponsione dello stipendio anche nei periodi di malattia. La
posizione privilegiata degli impiegati venne definitivamente
consolidata dalla legge sull'assicurazione degli impiegati (AVG)
del 1911, che istituiva un'assicurazione di invalidità e
vecchiaia specifica per la categoria, con condizioni nettamente
più favorevoli di quelle previste per gli operai (limiti di
pensionabilità inferiori, condizioni più generose
per l'invalidità professionale ecc.). Il carattere
esclusivo della previdenza sociale degli impiegati venne, nella
sostanza, motivato sulla base di particolari caratteristiche
sociali e di maggiori spese di riproduzione della categoria:
accesso all'istruzione, condizioni di vita, posizione sociale,
precoce usura delle capacità intellettuali, attività
lavorativa ridotta per le donne sposate, maggiori spese per
l'istruzione e l'educazione dei figli rispetto al ceto operaio;
tali motivazioni, già allora discutibili, dimostrano
l'interesse scopertamente politico del legislatore a costituire un
ceto sociale particolare, tentativo che nel periodo successivo -
perlomeno dal punto di vista politico-ideologico - fu coronato da
un certo successo, e si tradusse, anche sul piano materiale, in
una serie di differenze in termini di sicurezza sociale che solo
in tempi recentissimi vanno scomparendo.
Questo trattamento privilegiato del ceto impiegatizio attuato per
fini politici non solo implicava vantaggi materiali, ma comportava
anche sul piano simbolico una promessa - come sempre soggetta a
tutta una serie di condizioni - di appartenenza a un livello
sociale 'migliore', in quanto, attraverso la maggiore sicurezza
del posto di lavoro e il riconoscimento di un certo livello di
istruzione, implicava inequivocabilmente una maggiore
considerazione rispetto alla precaria esistenza degli operai.
Ciò di fatto poteva rafforzare l'illusione di uno status
sociale privilegiato tra i lavoratori dipendenti proprio negli
impiegati di livello inferiore, che solo con l'emendamento del
1924 vennero inclusi nella legge sull'assicurazione degli
impiegati (v. Kocka, 1969, pp. 463 ss.; v. Mangold, 1981, pp. 16
ss.; per quanto riguarda l'Austria v. Botz, 1981).
In Francia, in Inghilterra, negli Stati Uniti e in Italia non
esiste un'analoga normativa statale per un'assicurazione di
invalidità e vecchiaia specifica degli impiegati. Solo i
cadres in Francia (v. Boltanski, 1982) e i dirigenti in Italia
godono di un trattamento speciale. Ciò non significa
tuttavia che nei sistemi previdenziali delle aziende non sia
previsto un regime di favore per gli impiegati o per determinate
categorie di impiegati. Lo stesso vale per l'Inghilterra e gli
Stati Uniti (v. Dorow, 1970; per gli Stati Uniti in epoca recente
v. Sweeney e Nussbaum, 1989).
Nel 1926 Lederer e Marschak puntualizzarono la tematica
sociostrutturale dei 'colletti bianchi', sia in retrospettiva che
in rapporto alle future tendenze di sviluppo, formulando l'ipotesi
secondo la quale "se è vero che il capitalismo per le sue
immanenti tendenze alla concentrazione delle imprese porta alla
riduzione dei lavoratori autonomi, alla disgregazione e alla
recessione del vecchio ceto medio, dall'altro lato tuttavia
c'è da tener conto della rapida espansione di uno strato di
lavoratori dipendenti che non comprende gli operai, il quale frena
il processo di proletarizzazione, fa da cuscinetto tra il grande
capitale e il proletariato e assume tutte le funzioni sociali per
le quali il 'vecchio ceto medio' non è più
sufficiente, sia dal punto di vista quantitativo sia, in parte,
anche dal punto di vista sociale e culturale" (v. Lederer e
Marschak, 1926, pp. 121 s.). In questa ipotesi è riassunto
il primo dibattito tedesco sugli impiegati menzionato in
precedenza; a essa si possono facilmente ricollegare le tre
questioni fondamentali sulle quali si è incentrato il
dibattito internazionale sul significato sociostrutturale della
categoria impiegatizia.
1. La prima questione - la più antica dal punto di vista
storico - riguarda la collocazione sociale e di classe degli
impiegati, e può essere formulata nei seguenti termini: il
nuovo ceto in rapida espansione degli impiegati del commercio e
dell'amministrazione nel settore privato si considera parte della
classe operaia e scende a patti con il movimento sociale e
politico di quest'ultima, oppure si orienta verso la borghesia o
tenta addirittura di assumere un ruolo autonomo tra la borghesia e
la classe operaia?
2. La seconda questione concerne l'orientamento politico degli
impiegati e dal punto di vista storico si riferisce soprattutto al
periodo tra le due guerre e al ruolo del nuovo ceto medio
nell'ascesa del fascismo. Tale questione si collega alla tesi
secondo la quale la piccola borghesia e i 'nuovi ceti medi' nella
fase del loro declassamento economico e sociale hanno costituito
il terreno propizio per lo sviluppo di movimenti fascisti.
3. La terza questione infine riguarda la mentalità e le
caratteristiche sociali degli impiegati: sono essi i
rappresentanti di una cultura del conformismo, probabilmente di un
conformismo individualistico della carriera, quale per lungo tempo
è stato loro imputato (v. Mills, 1951), e del gusto piccolo
borghese che - per usare le parole di Bourdieu (v., 1979) -
riconosce la grandezza senza conoscerla e non è capace di
sviluppare alcun rapporto con ciò che è 'autentico'?
Queste tre questioni - che, sebbene storicamente siano nate in
contesti diversi, hanno nondimeno una rilevanza generale che
trascende la loro localizzazione storica - riguardano tutte
l'identità politica, sociale e culturale degli impiegati.
Per potervi rispondere si dovrebbe presupporre una situazione
sociale comune che - come abbiamo già accennato - non
esiste e probabilmente non è mai esistita. Se, nondimeno,
nelle scienze sociali queste domande hanno sempre trovato delle
risposte - in parte anche piuttosto categoriche - che hanno
influenzato i termini del dibattito politico, ciò non
è dovuto tanto ad analisi approfondite della cultura e
della coscienza della categoria impiegatizia, quanto piuttosto a
quel privilegiamento della classe operaia tipico di gran parte
della sociologia, che ha attribuito agli operai una sorta di
diritto di primogenitura come protagonisti di un mutamento sociale
radicale e ha discriminato gli impiegati come semplici epigoni i
quali, per la loro maggiore vicinanza sia sociale che funzionale
alla borghesia possidente, comprometterebbero l'unità e la
capacità di lotta del movimento operaio.
1. Nella tradizione di questa sociologia di stampo politico viene
data la preminenza alla prima questione, quella relativa alla
collocazione e all'autocollocazione sociale degli impiegati.
Questo duplice problema venne affrontato dalla prima socioeconomia
tedesca sotto l'aspetto sociopolitico e nella prospettiva della
teoria delle classi, e rimase un tema centrale sino alla fine
della Repubblica di Weimar. Il fatto che anche la tradizione di
pensiero marxista nel movimento operaio tedesco e austriaco
accettasse la tesi degli impiegati come nuovo ceto medio
può essere ricondotto a due ordini di motivi: in primo
luogo i primi impiegati provenivano dal 'vecchio ceto medio' degli
artigiani e commercianti autonomi, e ciò fece sì che
la loro coscienza sociale restasse per lungo tempo ancorata ai
modi di pensare tradizionali di questi ultimi. In secondo luogo la
maggior parte delle mansioni tipiche dei primi impiegati
(contabili, periti, capireparto) li collocava effettivamente tra i
due fronti all'interno dell'azienda: agli occhi dei lavoratori
manuali gli impiegati costituivano un personale meglio retribuito
dal datore di lavoro, il quale valutava con diverso metro le
prestazioni lavorative degli operai e poteva ridurre
arbitrariamente i loro salari (v. Kadritzke, 1982). Scarsa
considerazione trovavano per contro altre analisi, come ad esempio
quella di G. Adler (v., 1891 e 1892), le quali indicavano come
all'interno della categoria impiegatizia andasse aumentando il
divario tra il numero esiguo di impiegati commerciali,
privilegiati per estrazione sociale, grado di istruzione,
condizioni di lavoro e opportunità professionali, e lo
strato numericamente assai più consistente e in rapida
espansione di semplici impiegati e commessi, la cui situazione
sociale era analoga a quella degli operai (v. anche Mangold, 1981,
pp. 13 ss.). Con la legge sull'assicurazione speciale per gli
impiegati del 1911 la politica sociale dello Stato compì
l'ultimo passo per sostenere l'ottica del 'nuovo ceto medio' e per
accentuare la funzione politica di cuscinetto degli impiegati.
Va da sé che la questione dell'appartenenza sociale degli
impiegati ha una grande rilevanza soprattutto nella sociologia del
sindacato o nella sociologia dei rapporti di lavoro
nell'industria. In questo importante ramo delle scienze sociali la
pesante eredità della tesi del 'ceto medio' si è
tradotta in un totale disinteresse, protrattosi sino ai nostri
giorni, nei confronti del problema dell'organizzazione degli
impiegati (v. Baethge e Oberbeck, 1986). A tale carenza, che non
riguarda solo la sociologia tedesca, fa riscontro una analoga
mancanza di considerazione per il problema della situazione
lavorativa e professionale degli impiegati in seno ai sindacati
stessi. Sebbene non siano mancati ammonimenti precoci contro
questa tendenza a ignorare sul piano politico-organizzativo la
categoria impiegatizia (v. Bauer, 1927; v. Bernstein, 1912; v.
Lange, 1911), gli operai sono rimasti sino a oggi, in misura
maggiore o minore, il riferimento privilegiato di gran parte delle
organizzazioni sindacali. Ne consegue che quasi ovunque il grado
di organizzazione dei 'colletti bianchi' è nettamente
inferiore a quello dei 'colletti blu' (v. Appelbaum e Gregory,
1988; v. Christopherson e Noyelle, 1988; v. Baethge e altri,
1991), e che, nel momento in cui il numero degli operai delle
industrie va sempre più riducendosi e gli impiegati sono
diventati la maggioranza della popolazione attiva, i sindacati
cercano di recuperare, senza molto successo, il loro potenziale
organizzativo trascurato per decenni.
2. A prima vista la questione del rapporto tra ceto medio e
fascismo appare un problema specifico, e come tale è stato
affrontato in una serie di studi risalenti agli anni trenta e
quaranta sul ruolo avuto dai gruppi costitutivi del nuovo ceto
medio - declassati o timorosi di un declassamento - nell'ascesa
del nazionalsocialismo (v. l'estesa bibliografia in Geiger, 1932,
e in Kocka, 1977). In epoca recente la questione è stata
riproposta dalla storia sociale, che l'ha riformulata in termini
più generali, chiedendosi se esistano esperienze e forme di
coscienza specifiche degli impiegati che li rendano
particolarmente predisposti alle ideologie fasciste, e se nelle
società democratico-borghesi esista un potenziale di
minaccia collegato ai gruppi impiegatizi, immanente in quanto
dipendente da fattori sociostrutturali (v. Kocka, 1977, p. 21).
Kocka ha cercato di fornire una risposta a tale questione con uno
studio comparato a livello internazionale incentrato sulla storia
sociale degli impiegati americani tra il 1890 e il 1940. Il
risultato di tale studio, documentatissimo e assai accurato, non
desta sorpresa, ma toglie alla tesi tradizionale del nuovo ceto
medio il suo valore politico universale e atemporale: non furono
né un modello ideologico né un carattere sociale di
gruppo professionale specifico propri della categoria impiegatizia
che durante la crisi del '29 spinsero a destra gli impiegati
tedeschi e contribuirono a rafforzare il nazionalsocialismo. Il
confronto con analoghi gruppi impiegatizi negli Stati Uniti, in
Francia e in Gran Bretagna dimostra, secondo Kocka, che in
Germania il perdurare di tradizioni feudali-corporative e
burocratiche ostacolò il sorgere nella categoria
impiegatizia di orientamenti individualistici e di una concezione
del lavoro e del rischio conforme al mercato. La scarsa incidenza
dell'elemento borghese nella struttura sociale e nella cultura
politica avrebbe quindi impedito che gli impiegati tedeschi
sviluppassero quelle caratteristiche sociopsicologiche che nel
caso dei loro colleghi americani hanno rafforzato le aspirazioni
all'ascesa sociale individuale, una relativa disponibilità
al rischio e la fede nel successo individuale, rendendoli meno
esposti alla suggestione di ideologie radicalmente illiberali (v.
Kocka, 1977, pp. 31 ss.). Lo studio di Kocka mette in chiaro in
modo inequivocabile un'altra circostanza, che dovrebbe liberare la
futura sociologia dei 'colletti bianchi' dal suo ancoraggio alla
prospettiva dei 'colletti blu': "La differenza tra operai e
impiegati ha una rilevanza assai diversa nei vari paesi, e tali
diversità hanno un notevole peso sia sociale che politico"
(v. Kocka, 1977, pp. 334 s.).
Senza voler mettere in discussione l'impostazione di fondo
dell'argomentazione di Kocka, secondo la quale le differenze di
origine storica nella cultura politica e nella struttura sociale
influenzano gli orientamenti politici più di quanto non
faccia lo status professionale immediato, alla luce di studi
più recenti o della riscoperta di studi anteriori, la
premessa su cui si basa questa tesi, ossia che gli impiegati
avrebbero costituito la vera e propria 'fanteria' del fascismo,
appare eccessivamente generica e va anch'essa riveduta. I
successivi studi empirici di Speier (v., 1977) e di Fromm (v.,
1980), nonché le approfondite analisi elettorali di
Hamilton (v. i contributi del 1981) inducono in effetti a operare
una maggiore differenziazione. La ricerca di Speier dimostra in
modo convincente che non è più lecito parlare di una
compatta coscienza di categoria degli impiegati durante la crisi
della Repubblica di Weimar; si osserva piuttosto un chiaro
avvicinamento alla coscienza operaia nelle grandi aziende e tra
gli impiegati meno qualificati dei grandi magazzini e delle
industrie, che si riflette anche in un'attività politica
organizzata di sinistra. L'immagine di una coscienza sociale
compatta degli operai da un lato e degli impiegati dall'altro
è messa in discussione anche dallo studio condotto da Fromm
presso lo Institut für Sozialforschung di Francoforte. Egli
dimostra che in entrambi i gruppi alla fine della Repubblica di
Weimar esisteva solo una percentuale minima di persone che per
sentimenti e modo di pensare poteva essere definita di sinistra
(v. Fromm, 1980, pp. 251 s.). Si ha l'impressione che sarebbe
più importante spiegare perché la tesi tradizionale
delle tendenze fasciste del nuovo ceto medio si sia potuta
associare per un tempo relativamente lungo alla categoria degli
impiegati nella sua globalità, tanto da far postulare una
particolare sindrome di tipo fascista. Secondo Hamilton alla base
di questo mito vi sarebbe un errore metodologico, in quanto i
sostenitori della tesi secondo cui il nazionalsocialismo sarebbe
stato "una reazione disperata dei ceti medi meno abbienti" non
hanno mai dato una chiara definizione sociostrutturale della
categoria dei ceti medi, ma vi hanno incluso indistintamente gli
impiegati e i funzionari di livello inferiore del commercio, i
piccoli commercianti e i piccoli proprietari urbani nonché
i contadini. Dall'analisi sui dati elettorali condotta da Hamilton
risulta che tra i gruppi dei piccoli impiegati non vi fu affatto
una preponderanza schiacciante di voti per Hitler (v. Hamilton, i
contributi del 1981; v. Kadritzke, 1982). Mettere in discussione
la tesi della particolare propensione al fascismo degli impiegati
non significa volerli riabilitare o scagionare tardivamente: senza
dubbio il nazionalsocialismo aveva un seguito anche tra gli
impiegati, così come tra gli operai, i contadini, gli
accademici e altri gruppi ancora, e forse nel complesso un seguito
maggiore che non tra gli operai. Si tratta piuttosto di scalzare
il mito dell'omogeneità e di una specificità sociale
degli impiegati come categoria sociostrutturale; è un mito
che si ripresenta anche in rapporto al terzo problema, quello
relativo a un carattere sociale e a una cultura specifici degli
impiegati.
3. Sia che si veda nell'espansione del terziario l'avvento di una
nuova cultura postindustriale in cui i valori
dell'autodeterminazione, della cultura e dell'individualità
aboliranno le costrizioni materiali, o che invece, con l'ottica
pessimistica della Kulturkritik, si consideri l'impiegato come un
gourmet delle muse volgari, della cultura banale della
paccottiglia, come un conformista privo di individualità:
in tutti i casi i giudizi che si celano dietro queste posizioni
valgono per determinati gruppi di impiegati, non per la categoria
nel suo complesso. L'ipotesi di un 'mondo degli impiegati'
è altrettanto fittizia quanto lo era quella di un 'mondo
degli operai'. È del tutto plausibile invece che con la
trasformazione della struttura sociale a lungo termine cambino
anche i modelli di comportamento culturale e acquistino maggior
peso gli orientamenti relativi al consumo, al tempo libero e alla
politica dei gruppi predominanti nella struttura sociale. In che
misura, con la progressiva riduzione del tempo di lavoro, gli
orientamenti culturali siano ancora strettamente legati (e in che
misura lo siano stati) a categorie di lavoratori quali operai e
impiegati, è una questione ancora aperta. In ogni caso non
esiste un modello dominante di comportamento culturale,
bensì una disseminazione pluralistica di modelli, tra i
quali rientrano anche quelli degli impiegati. Le ipotesi di una
cultura della 'società dei servizi', sinora collegate alla
categoria impiegatizia, possono fissare delle coordinate per
misurare tale pluralismo, coordinate che hanno più un
carattere ipotetico che non lo statuto di fatti accertati.
La prima delle due posizioni relative al carattere sociale degli
impiegati cui abbiamo accennato risale ad autori che J. Gershuny
(v., 1978) ha etichettato come 'teorici del miglioramento',
considerandone D. Bell uno dei principali esponenti - forse non
del tutto a ragione. Per la cultura della società
postindustriale, secondo Bell, sono strutturalmente determinanti
quelle frazioni dei 'colletti bianchi' che in qualità di
accademici, scienziati e tecnici occupano posizioni professionali
strategiche per il progresso economico e tecnologico, e che sulla
base del loro sapere e delle loro cognizioni specialistiche sono
in grado di condizionare anche le decisioni politiche. Da un lato
essi incarnano i valori della cultura, del sapere, della
libertà individuale, dell'autodeterminazione nel lavoro,
della mentalità liberale e della partecipazione. Dall'altro
lato sono la punta avanzata sul piano intellettuale di quell'etica
sociale 'edonistica' basata sulla liberazione individualistica dal
bisogno, che la fa finita una volta per tutte con l''etica
protestante' e con i valori tradizionali della società
borghese, e causerà alla fine la distruzione della
comunità (qui emerge l'accento pessimistico, nient'affatto
'miglioristico' dell'analisi di Bell: v., 1973, ultimo capitolo, e
1976).
L'immagine opposta, quasi classica e sino a oggi non ancora del
tutto superata del modello di comportamento culturale proprio
della categoria impiegatizia, era già stata delineata da
Mills: ingabbiato in una organizzazione gerarchica del lavoro, il
piccolo e medio impiegato sviluppa come carattere dominante un
desiderio di far carriera che impronta integralmente il suo
comportamento politico, sociale e culturale. Ciò lo rende
conformista e disposto a piegarsi di fronte a ogni forma di
autorità, politicamente qualunquista e particolarmente
sensibile agli idoli creati dai mass media, che gli propongono un
esempio di successo economico e sociale col quale egli si
identifica, restando prigioniero di sogni illusori, lontano da
ogni sensibilità per la 'vera' cultura (v. Mills, 1951, in
particolare cap. 15). A partire dal primo brillante studio di
Kracauer (v., 1930) sino all'analisi altrettanto penetrante di
Bourdieu (v., 1979), il 'piccolo impiegato' come tipo sociale
è stato al centro di numerosi lavori sia sociologici che
letterari.
È sorprendente che nelle analisi sociostrutturali
menzionate sinora gli impiegati vengano trattati come esseri
pressoché asessuati, o esclusivamente di sesso maschile. Il
fatto che quasi la metà degli addetti, in alcuni settori
del terziario addirittura i due terzi, siano donne non ha avuto
pressoché alcuna eco.
3. La situazione lavorativa e professionale di impiegati e
funzionari
Nel corso degli ultimi decenni nella sociologia degli impiegati le
analisi sociostrutturali hanno lasciato il posto a studi empirici
sulla situazione lavorativa e professionale della categoria.
Sebbene non esista una linea di demarcazione precisa tra i due
approcci al tema, e i problemi di definizione nonché i
riferimenti teorici generali tendano a sovrapporsi, sussiste
tuttavia una differenza significativa: nel primo caso (analisi
sociostrutturale) si tratta di un approccio macroanalitico, nel
secondo caso (situazione lavorativa e professionale) di un
approccio microanalitico incentrato sui rapporti di lavoro
aziendali. La vicinanza e la sovrapposizione dei due tipi
d'analisi scaturiscono da una duplice intersezione: in misura
maggiore di quanto non avvenga nel settore produttivo, nel settore
terziario i rapporti di lavoro dipendono direttamente da alcune
tendenze generali di mutamento sociale nella struttura dei bisogni
e nelle forme di comunicazione; le trasformazioni al macrolivello
si ripercuotono sulle attività terziarie, in quanto queste
per la maggior parte sono dirette alla soddisfazione di bisogni
personali, comunicativi e culturali (v. Baethge e Oberbeck, 1986,
pp. 385 ss.). Viceversa, proprio a causa di questo nesso
funzionale l'organizzazione del lavoro di tipo aziendale influenza
anche il macrolivello, improntando la cultura sociale attraverso i
servizi e le forme comunicative che essa crea, nonché
attraverso i modelli comportamentali della categoria
impiegatizia.Il dibattito delle scienze sociali sulle tendenze di
sviluppo delle attività terziarie è caratterizzato
dalla polarizzazione tra due posizioni teoriche.
La prima è rappresentata da quelle teorie che si rifanno
all'interpretazione 'miglioristica' - derivata da Fourastié
- della trasformazione strutturale nella società dei
servizi. Eminente esponente di questo orientamento è A.
Schaff (v., 1985), secondo il quale con l'avvento della
'società postindustriale' tenderanno a scomparire le
gravose condizioni del lavoro salariato e il valore di scambio non
eserciterà più il suo dominio impietoso; un nuovo
orientamento verso il valore d'uso - determinato dal peso
crescente del settore terziario - creerà dei rapporti di
lavoro umani, i quali, inoltre, sul piano quantitativo occuperanno
solo uno spazio marginale nella vita dell'uomo, mentre sul piano
qualitativo saranno caratterizzati dalla trasformazione del lavoro
manuale (che di regola diverrà maggiormente qualificato) in
lavoro intellettuale. Sulla base del carattere eminentemente
comunicativo e 'personale' delle attività terziarie, altri
autori concludono che queste saranno meno soggette alla
razionalizzazione e alle leggi dell'efficienza economica, e
renderanno necessarie forme di lavoro più umane,
contraddistinte da un livello minimo di divisione del lavoro e da
una cooperazione assai più equilibrata (v. Gartner e
Riessmann, 1978; v. Offe, 1983).
Al polo opposto si collocano i teorici della razionalizzazione di
tradizione marxista. L'esponente più influente di questo
indirizzo in epoca recente può essere considerato H.
Braverman, che con l'opera Labor and monopoly capital ha suscitato
(o meglio resuscitato) un dibattito a tutt'oggi non ancora
esaurito. Secondo Braverman, a seguito della sua espansione
quantitativa, anche il lavoro impiegatizio - sia negli uffici che
nel settore delle vendite - è destinato a soggiacere alla
legge della razionalizzazione e del controllo capitalistici. La
meccanizzazione e la taylorizzazione - che consiste
sostanzialmente in una separazione sistematica tra lavoro
esecutivo e lavoro direttivo - caratterizzano anche lo sviluppo
del lavoro d'ufficio, rendendolo alla fine altrettanto monotono,
eteronomo e dequalificato quanto il lavoro in fabbrica: 'Per
quanto riguarda le condizioni lavorative gli impiegati hanno
perduto tutti i precedenti vantaggi rispetto al lavoro in
fabbrica, e per quanto riguarda il trattamento retributivo sono
scesi quasi al livello minimo' (v. Braverman, 1974, cap. 15).
Sono queste le due posizioni sulle quali si è orientata, e
si è esaurita, la sociologia empirica del lavoro e
dell'industria, quando si è occupata degli impiegati. Anche
per quanto riguarda la ricerca empirica, infatti, c'è da
rilevare che l'attenzione per la situazione lavorativa degli
impiegati è del tutto inadeguata alla crescente importanza
che questi hanno assunto. Nelle società economicamente
avanzate sono state bensì condotte nel frattempo alcune
ricerche empiriche sulle attività impiegatizie e, a seguito
della computerizzazione negli uffici dell'amministrazione pubblica
e privata, negli esercizi commerciali e negli istituti finanziari,
si è notevolmente accresciuto l'interesse per questo tema,
soprattutto per quel che riguarda il rapporto tra le nuove
tecnologie e le trasformazioni nella qualificazione del lavoro;
tuttavia non si può ignorare il fatto che mancano analisi
approfondite su aspetti importanti della situazione professionale
degli impiegati, ad esempio sull'intera problematica relativa alla
definizione e alla valutazione delle mansioni nonché degli
oneri che comportano.
Un'ulteriore carenza che caratterizza il campo della ricerca nel
suo complesso è legata al fatto che l'eterogeneità
funzionale delle attività terziarie, sia in senso
orizzontale che in senso verticale, è assai maggiore di
quella che sussiste nelle attività produttive: la gamma
delle mansioni va dalla semplice contabilità ed
elaborazione dati ad attività di ricerca o decisioni di
investimento altamente complesse nelle imprese industriali; dalle
mansioni di cassiere nel commercio all'assistenza ai malati, o
alla consulenza ai clienti nelle banche, nelle assicurazioni o
negli uffici tributari. Ne consegue che - a parte alcune
eccezioni, come ad esempio il nostro studio sulla Repubblica
Federale Tedesca (v. Baethge e Oberbeck, 1986) - nei singoli paesi
mancano per lo più ricerche empiriche di ordine generale,
che non siano circoscritte a branche o settori professionali
specifici. I risultati di questi studi settoriali però non
possono essere estesi alle attività impiegatizie nel loro
complesso, e sono inoltre difficilmente comparabili, date le
specificità dei singoli settori del terziario (come si
può istituire un raffronto tra il lavoro in una banca e il
lavoro in un ospedale o in un laboratorio di ricerca?). Le
conclusioni empiriche generalizzanti vanno quindi prese con
cautela, ed è sempre opportuno accertare l'ambito di
ricerca in rapporto al quale sono state elaborate.
Dai singoli risultati della ricerca empirica svolta negli ultimi
decenni, nonostante l'eterogeneità del campo d'indagine,
è comunque possibile trarre una conclusione generale:
l'ipotesi secondo la quale il lavoro nel settore dei servizi
sarebbe anche solo relativamente refrattario alla
razionalizzazione si è dimostrata del tutto infondata, e
non solo a seguito del trionfo del computer negli uffici e nelle
amministrazioni. Su questo punto Braverman aveva ragione: anche il
lavoro d'ufficio ha subito precocemente processi di
razionalizzazione sia sul piano tecnico che sul piano
dell'organizzazione del lavoro, a partire dall'introduzione della
macchina da scrivere sino alla progressiva standardizzazione del
sistema dei formulari, all'introduzione del self-service, dei
grandi uffici e del sistema del 'timbro del cartellino' per
controllare l'orario di lavoro. Il fatto che la tesi della
refrattarietà alla razionalizzazione, formulata per la
prima volta da Fourastié, sia rimasta accreditata per tanto
tempo si può spiegare con la tendenza a identificare le
attività terziarie con i servizi alle persone - ad esempio
l'assistenza pediatrica e ospedaliera - che in effetti hanno un
potenziale di razionalizzazione assai limitato. Un'altra ragione
potrebbe essere individuata nel fatto che gli effetti della
razionalizzazione nelle attività commerciali e
amministrative non sono misurabili attraverso indici di
produttività precisi; inoltre sino all'introduzione del
computer la tecnologizzazione negli uffici ha avuto effetti
relativamente poco vistosi e fino a oggi si è accompagnata
quasi sempre a un aumento quantitativo del lavoro da svolgere
nonché a una trasformazione qualitativa delle prestazioni.
L'errore di Braverman non sta quindi nell'aver affermato la
razionalizzabilità del lavoro impiegatizio. Il punto debole
della sua tesi sta piuttosto nel fatto che egli considera
dequalificanti sia le forme che le conseguenze della
razionalizzazione nel settore terziario, equiparandole a quelle
della razionalizzazione del lavoro produttivo. Sembra che qui
Braverman generalizzi un determinato stadio, peraltro molto
primitivo, della razionalizzazione degli uffici, allorché
negli Stati Uniti si cercò di applicare al lavoro d'ufficio
i principî della gestione aziendale scientifica. Riassumendo
i risultati della ricerca sociologica dell'ultimo decennio, si
può affermare che a seguito della computerizzazione e delle
trasformazioni nella politica commerciale si va delineando un
nuovo tipo di razionalizzazione nelle organizzazioni
amministrative e commerciali del settore terziario (commercio,
amministrazione nell'industria, banche, assicurazioni,
amministrazione pubblica, servizi legati alle imprese).
Questo nuovo tipo di razionalizzazione può essere definito
'razionalizzazione sistemica'. Nel passato la razionalizzazione
del lavoro d'ufficio riguardava singoli settori o determinate
funzioni, in quanto si trattava di tecnologizzare o di
perfezionare tecnicamente singoli processi di lavoro, come ad
esempio la scrittura di testi, e/o di ottimizzare sul piano
organizzativo le prestazioni lavorative del personale (ad esempio
con l'allestimento di copisterie); ciò comportava per lo
più una maggiore parcellizzazione del lavoro. La
razionalizzazione sistemica viceversa integra o - più
precisamente - congloba i singoli processi di razionalizzazione in
un piano aziendale complessivo che stabilisce il tipo e l'ordine
di importanza di ogni specifico intervento di razionalizzazione.
La razionalizzazione sistemica nel settore terziario significa che
le aziende perseguono un'organizzazione integrata sul piano
tecnico-sociale ed economico tra le strutture del lavoro,
dell'azienda e del mercato. In base al programma di
razionalizzazione ciò accade uno actu, ed è reso
possibile dall'introduzione di tecnologie elettroniche di
informazione e comunicazione che offrono alle aziende nuove
possibilità per quanto riguarda l'elaborazione delle
informazioni, il collegamento in rete di diversi processi
funzionali e la trasmissione dei dati. L'aumento di efficienza
viene quindi perseguito a vari livelli contemporaneamente: al
livello del mercato attraverso una maggiore trasparenza e una
migliore previsione delle tendenze del mercato stesso e delle
esigenze dei clienti; al livello aziendale attraverso
l'ottimizzazione della comunicazione e della cooperazione tra i
diversi settori collegati attraverso un centro di elaborazione
dati; al livello dei reparti o dei gruppi di lavoro con una
migliore pianificazione delle mansioni e un'organizzazione
più rigorosa dei tempi di lavoro per il personale.
L'esempio forse più evidente di questo tipo di
razionalizzazione sistemica è rappresentato dai sistemi
elettronici di gestione delle merci, con i quali si cerca di
collegare attraverso un centro di elaborazione dati tutte le
funzioni del commercio per poter reagire in tempo reale, con una
certa flessibilità e riducendo i costi, all'andamento del
mercato nella compravendita e nello stoccaggio delle merci (v.
Baethge e Oberbeck, 1986).
Non v'è dubbio che programmi di razionalizzazione
così complessi e ambiziosi, che del resto sinora si sono
potuti realizzare raramente nell'estensione prevista,
presuppongono una precisa corrispondenza tra impiego della
tecnologia e forza lavoro qualificata. Il principio guida della
razionalizzazione negli uffici non è la computerizzazione e
la riduzione quasi a ogni costo della manodopera; domina piuttosto
una selezione delle tecnologie in base alla manodopera, la quale
non ha la funzione di una mera appendice della tecnologia che
domina il processo lavorativo, ma è in condizione di
organizzare attivamente i rapporti con la clientela e il mercato
con l'aiuto di programmi tecnologici di appoggio e di guida.
Esiste quindi una correlazione tra le risorse tecnologiche e il
livello di qualificazione degli impiegati - quello esistente e
quello raggiungibile attraverso l'istruzione e la
specializzazione. Tale correlazione è messa in luce anche
da alcuni studi comparativi su scala internazionale, i quali
dimostrano che i programmi operativi per computer variano
notevolmente a seconda della qualificazione del personale a
disposizione (v. Bertrand e Noyelle, 1988).
Molti elementi indicano che il futuro del lavoro degli impiegati
nei principali settori del terziario dipenderà dallo
sviluppo e dal perfezionamento dei programmi di razionalizzazione
sistemica (v. Baethge e altri, 1991; v. Bertrand e Noyelle, 1988),
e ciò comporterà una trasformazione della situazione
lavorativa e delle prospettive professionali di gran parte degli
impiegati. Le tendenze di fondo di questi mutamenti e il loro
significato per le interpretazioni tradizionali della posizione
professionale degli impiegati sono già individuabili; in
ogni caso occorre tener presente che le specificità dei
singoli paesi possono determinare una notevole variabilità,
e che la strada della razionalizzazione delineata in precedenza
riguarda più la situazione europea che non quella
statunitense.
È evidente che tutto ciò non porterà a
quella diffusa dequalificazione delle attività impiegatizie
temuta da molti. Al contrario, potrebbe verificarsi piuttosto un
innalzamento del livello medio di qualificazione degli impiegati
nei settori commerciali e amministrativi, determinato dalle
tendenze a una progressiva razionalizzazione. In primo luogo le
mansioni scarsamente qualificate (scrittura di testi,
contabilità e mansioni di controllo) vengono ulteriormente
sostituite dalla tecnologia e quantitativamente ridotte. In
secondo luogo le altre mansioni di medio livello (consulenza,
analisi e programmazione) richiedono una maggiore qualificazione,
data la crescente complessità delle funzioni. In terzo
luogo, infine, aumenta nettamente la richiesta di personale dotato
di preparazione scientifica e di capacità strategiche per
le attività di pianificazione e di sviluppo nei reparti
direttivi delle organizzazioni terziarie. Per gli impiegati le
conseguenze di questa evoluzione nella struttura della
qualificazione non sono solo positive. Per tenere il passo con la
velocità delle innovazioni tecnologiche e delle
trasformazioni del mercato tutti gli impiegati sono sottoposti, in
misura maggiore o minore, a una notevole pressione per acquisire
ulteriori qualificazioni. D'altra parte la crescente
specializzazione e professionalizzazione del lavoro determina un
progressivo isolamento tra i vari livelli di qualificazione
nell'azienda nonché tra il mercato del lavoro interno e
quello esterno. Diventa sempre più difficile passare da una
posizione di livello inferiore a una di livello medio, così
come passare da questa a una posizione di livello superiore o
direttiva senza aver acquisito ulteriori qualificazioni attraverso
processi di specializzazione talora lunghi e complessi (v.
Noyelle, 1987; v. Baran e Gold, 1988). Aumenta la segmentazione
tra le professioni impiegatizie, e a subirne le conseguenze sono
principalmente le donne (v. Appelbaum e Albin, 1990), che a causa
degli obblighi familiari spesso non riescono a tenere il passo
nella competizione per la maggiore qualificazione. Poiché
il desiderio di carriera tradizionalmente attribuito agli
impiegati presumibilmente continua a sussistere ora come prima (v.
Baethge e Oberbeck, 1986, pp. 312 ss.), si creano crescenti
discrepanze tra le aspettative e le opportunità effettive
di carriera. Se ciò comporti un consolidamento o una
erosione dell'ideologia della carriera, che persiste ostinatamente
soprattutto tra gli impiegati di medio livello, è una
questione ancora aperta.
Per il numero ancora considerevole di impiegati semplici, che si
concentrano soprattutto nel settore commerciale e in quello
turistico-alberghiero, la crescente segmentazione dei mercati del
lavoro e l'isolamento del mercato del lavoro interno da quello
esterno sbarrano l'accesso - prima sempre possibile - a impieghi
più interessanti, meglio retribuiti e più ricchi di
prospettive in altri settori del terziario, inchiodandoli - e
ancora una volta ciò riguarda soprattutto le donne - ai
loro bad jobs.
Un altro elemento che determinava in passato una certa
esclusività e una posizione di privilegio degli impiegati
di livello medio-alto è stato spazzato via dalla
razionalizzazione: la controllabilità del lavoro. In quanto
lavoro intellettuale, le attività impiegatizie erano
agevolmente controllabili nei risultati, ma non nel processo di
svolgimento della prestazione lavorativa. Ridurre la latenza del
lavoro era uno degli scopi preminenti dei dirigenti, che per
raggiungerlo erano disposti a pagare discreti premi di
produttività. Oggi il controllo delle prestazioni
lavorative è ottenuto quasi automaticamente dai dirigenti
come sottoprodotto della computerizzazione. La memorizzazione
elettronica dei dati e la tendenziale estensione a tutta l'azienda
dell'accesso a tali dati spingono a una maggiore efficienza in
termini di velocità e accuratezza delle prestazioni
lavorative a tutti i livelli, consentendo una trasparenza
inimmaginabile in passato. Il lavoro intellettuale diventa in
questo modo sempre più misurabile e controllabile. Anche
sotto questo aspetto gli impiegati di livello medio-alto perdono
in esclusività e finiscono con l'essere equiparati ad altre
categorie di prestatori d'opera.