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Ccrittore italiano (Casatico, Mantova, 1478-Toledo 1529).
Nobile di nascita, compì gli studi umanistici a Milano, alla scuola di G. Merula e D. Calcondila e fu iniziato alla vita di corte nel palazzo di Ludovico il Moro. Dal 1499 al 1503 visse presso i Gonzaga; poi, nel 1504, andò a risiedere nella splendida corte di Urbino, presso Guidobaldo da Montefeltro e poi Francesco Maria della Rovere, per i quali svolse vari incarichi diplomatici.
Ambasciatore (1513-16) presso Leone X a Roma, dove si legò d'amicizia con Raffaello, ritornò al servizio dei Gonzaga dopo la caduta del Ducato d'Urbino; a Mantova sposò nel 1516 Ippolita Torelli che, dopo avergli dato tre figli, morì di parto.
Nel 1524 Castiglione, che aveva frattanto abbracciato lo stato ecclesiastico, fu inviato da Clemente VII come nunzio presso Carlo V in Spagna, dove morì circa quattro anni dopo, affranto per il sacco di Roma dei lanzichenecchi (1527): un evento del quale era stato ingiustamente ritenuto responsabile per non aver saputo prevederlo.
La sua cultura di raffinato umanista, la sua fede nella vita cortigiana intesa come la più aristocratica ed equilibrata manifestazione dell'umana socievolezza, l'idealizzazione dell'uomo come assoluto protagonista di una vicenda solo terrena si sublimano nel suo trattato in 4 libri, Il Cortegiano (1528), nel quale l'autore si propose di "formar con parole un perfetto cortegiano", una figura volutamente ideale, che interpreta genuinamente la società rinascimentale, educata sui testi classici e umanistici.
Scritto con stile insieme sorvegliato e cordiale, il trattato di Castiglione ebbe molta fortuna e fu variamente imitato anche fuori d'Italia. Tra le opere minori di Castiglione, oltre alle rime in volgare (canzoni e sonetti di materia amorosa e di ascendenza petrarchesca), si ricordano l'egloga Tirsi, rappresentata a Urbino nel 1506, il prologo alla Calandria del Bibbiena e il copioso epistolario.
Il Cortegiano
Trattato in quattro libri in forma dialogica di B. Castiglione, composto tra il 1508 e il 1518 e pubblicato nel 1528; ha per tema le qualità e le virtù che devono concorrere a formare un perfetto cortigiano, secondo gli ideali pedagogici dell'Umanesimo e lo spirito delle corti rinascimentali. I dialoghi si svolgono in quattro serate alla corte d'Urbino, nel 1507, con l'intervento di famosi letterati e cortigiani, tra cui Ottaviano e Federico Fregoso, P. Bembo, Giuliano de' Medici, C. Gonzaga, B. Bibbiena, B. Accolti, L. Da Canossa.
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DBI
di Claudio Mutini
Nacque il 6 dic. 1478 nella "corte" di Casatico, presso Mantova, da
Cristoforo e da Aloisa Gonzaga.
Da parte del padre la famiglia discendeva da quella piccola
nobiltà d'origine feudale che la dinastia dominante era
riuscita a mantenere fedele concedendo privilegi e accondiscendendo
a matrimoni di prestigio. Tagliati fuori dalle decisioni politiche
del signore - e più spesso vittime che protagonisti di scelte
arbitrarie e avventate - questi nobili di mediocre fortuna
continuavano a esercitare le antiche virtù cavalleresche
mediante l'uso delle armi, che il signore imponeva loro per
finalità d'ordine personale, ovvero per esaltarne il lustro
in occasione di solenni manifestazioni che si tenevano in
città ove figuravano come poli di attrazione in feste e
tornei. La guerra come duro scotto di privazioni e di sangue, o come
gioco millantato e fastoso, era il loro appannaggio: la morte e la
finzione costituivano i termini di un'alterità in cui si
celebrava, in mancanza di una struttura sociale subordinante,
l'assoluta devozione al signore, ma potevano anche porsi in
alternativa nel caso, sperimentato dal giovane C., del destino
tragico toccato al padre, il quale perse la vita nel 1499 dopo una
lunga agonia a seguito delle ferite riportate nella battaglia di
Fornovo combattendo al fianco di Francesco Gonzaga. I simboli
contrastanti del prestigio e della dedizione, dell'autorità e
del decoro, sono rappresentati dalle due dimore della famiglia:
l'antica villa rustica di Casatico, dove il C. nacque e che un
disadorno latino notarile ci descrive "cum pulchris magnis et altis
palatiis... cum curte circum circa murata et depicta ad
rusticam...", e la casa mantovana che Cristoforo acquistò
intorno alla metà del Quattrocento nel quartiere di S.
Giacomo, non lontano dal palazzo Gonzaga, dove è presumibile
che il C. soggiornasse mentre attendeva alla prima formazione
letteraria.
Aloisa, parente di Francesco Gonzaga, e Isabella, sorella di
Beatrice d'Este, determinarono il trasferimento del C. a Milano,
dove poté seguire le lezioni del Calcondila e di Giorgio
Merula sotto la sorveglianza dell'altolocato Giovanni Stefano
Castiglioni, giureconsulto e consigliere di Ludovico il Moro.
Parallelamente allo studio dei classici il C. cominciò a
interessarsi della poesia in volgare stabilendo relazioni con gli
scrittori della corte sforzesca e compilando, ad uso personale, una
piccola silloge di rime in volgare del Tre e del Quattrocento che
fornisce la prima testimonianza della sua milizia letteraria. Ma
soprattutto - per lui che confessava: "... io sono in loco ove vedo
cose molte e grandi" - il soggiorno milanese servì come banco
di prova di attitudini mondane e memorabili, verificate sulla
personalità esuberante del cardinale Ippolito d'Este,
ricercato animatore delle feste sforzesche, non meno che sui fasti
pedagogici di Filippo Beroaldo seniore, sulla fama di uomini d'arme
superiori e imparziali rispetto al servizio prestato ai potentati,
come sull'ambizione di diplomatici orgogliosi di suggerire una
soluzione internazionale ai problemi politici del momento (risale a
questo periodo l'amicizia del C. con il francesizzante Alfonso
Ariosto, futuro dedicatario dei libri del Cortegiano). "Solo me
rincresce ch'io dubito di non potere studiare a mio modo, che molto
mi aggrava" - concludeva il C. nella lettera a due condiscepoli
"humanistico studio vacantibus": e l'indicazione non potrebbe essere
più precisa circa la passività del dovere apprendere,
che il giovane giustifica intellettualmente, e le forme più
suggestive della pratica umanistica che egli relega alle soglie
della sensibilità. È verosimile che quando il C. fu
costretto per la morte del padre a ricondursi in famiglia,
temperasse il rammarico per una imperfetta preparazione culturale
con la volontà di regolare al più presto e
direttamente il proprio debito con le autorità letterarie (i
piccoli formati di Aldo, di cui risulta cosparsa la sua biblioteca,
testimoniano con efficacia questo rapporto non sistematico, ma
provocante e vitale con i testi: donde il senso di una vicenda
attuale che suscita la lettura, l'invadenza del presente come tempo
necessario per una ricezione e una comunicazione significante,
quindi come categoria di un'esperienza linguistica generale). Ed
è anche possibile che di fronte ai problemi concreti del suo
inserimento nella corte dei Gonzaga egli programmasse un'ambigua
partecipazione - distaccata e "visiva" - alla realtà,
assimilando le forme del comportamento cortigiano alle regole di una
trascrizione.
Tali sembrano le intenzioni di una lettera indirizzata nell'ottobre
del 1499 a Giacomo Boschetti in cui si descrive l'ingresso di Luigi
XII a Milano (l'autore è tornato nella città degli
studi per accompagnare Francesco Gonzaga che fa parte del corteo
regale). In effetti, ciò che interessa il C. non è
tanto la condizione della città invasa e saccheggiata dai
Francesi ("il castello sforzesco che era già ricettacolo del
fior fiore degli uomini del mondo - dice l'autore con un senso di
superiorità - è adesso pieno di bettole e profumato di
ledame") quanto lo spettacolo multiforme della parata militare
("Prima si sentì sonare le trombe, poi cominciarono a
comparire fanti alemanni con un lor capitano innanzi a cavallo, ed
essi a piedi con le lance in spalla secondo il lor consueto, e tutti
con un vestitello verde e rosso, e così le calze: erano cento
bellissimi uomini quanto dir si possa, e questa si domanda
l'antiguardia"), con i cavalieri che si offrono alla
curiosità femminile e, sopra tutti, la figura del re,
insignito di vesti che attraggono ancora, irresistibilmente,
l'attenzione dell'osservatore ("La Maestà del re aveva in
dosso un manto ducale di damasco bianco e una berretta ducale
foderata di varo, anch'ella di damasco bianco..."). Sappiamo d'altro
canto, indipendentemente dai capitoli del Cortegiano dedicati alla
moda, del fascino che esercitavano presso il C. gli abiti eleganti.
Essi costituiscono il vincolo tangibile che unisce lo scrittore alla
madre nei lunghi periodi in cui egli deve soggiornare lontano da
casa ("Per diverse vie avvisai la M. V. del nostro essere giunti a
salvamento fin a Cesena... Se la M. V. avrà la
comodità, la mi farà piacere a farmi far alcune
camiscie, scuffiotti d'oro, fazzoletti e tali cose, perch'io son
restato nudo"). Ad Aloisa è riservato il compito di preparare
il sontuoso ingresso del figlio nei campi dei tornei o nelle sale
delle ambasciate; nel caso di un infortunio militare si direbbe che
ella ponesse la stessa cura nell'inviare i medicamenti per una
ferita e nell'allestire un nuovo abito per le future occorrenze. Dai
documenti superstiti relativi a fatture di sartoria apprendiamo che
il C. prediligeva mode che non richiamassero troppo esplicitamente
costumanze locali (gli abiti "a la francesca" o "alla flamenga"
vengono accettati con la medesima disinvoltura con cui vengono
accolti nella lingua alcuni termini stranieri e viene bandita
l'egemonia del toscano); fra le tonalità amava sopra tutte
quelle tendenti allo scuro, tali tuttavia da far risaltare il nitore
degli orli e dei revers ("Item per uno zipon de razo negro fato e la
spagnola pien de bombaxo fodrato de valexio bianco"): non intendeva
insomma escludere la propria persona sotto quegli indumenti funerei
di cui sono addobbati tanti personaggi del Pontormo - tipico sotto
questo profilo è il ritratto dell'Ardinghelli -, ma voleva
che l'aspetto corrispondesse all'artificio dell'abbigliamento, che
l'osservatore, di fronte alla realtà, si sorprendesse per la
studiata adeguazione di segni omogenei tra l'espressione del volto,
il gesto misurato, e i contorni o le nervature di una sostanza
evidenziabile dal suo sfondo opaco e indistinto, simile a quello
dell'anima.
Ora, accettando con Barthes che il campo, della moda attiene alla
semiologia e non alla semantica (il problema è quello di "far
significare l'insignificante... raggiungendo in tal modo l'essere
stesso della letteratura, che è quello di dare a leggere la
significazione delle cose, non il loro senso"), è chiaro che
la moda è un discorso sul mondo come apparenza che presuppone
per soggetto linguistico una pura attività significante.
Sotto questo aspetto non è cronaca il racconto dei fatti
milanesi del '99, ma è una descrizione che rintraccia e
percorre gli elementi rappresentativi in quanto pure parvenze, e in
questa logica riduttiva si cela l'autore, il quale può
soltanto autoescludersi nell'atto di adeguare un segno di sé,
il discorso, a un'esteriorità attraente e domestica ("Questa
mattina io mi sono partito di casa. Le cose dello illustrissimo
Signor nostro in che termine sieno non lo scrivo, perché
vengono persone che meglio sono informate di me"). Tale
identità del discorso con l'"homo significans" individua
evidentemente l'alienazione dello scrittore, ma è anche la
maschera con cui il cortigiano rinascimentale, scaltro e capace di
giocare con profitto le proprie chances culturali, nasconde i
connotati, che gli sono imposti, di "homo faber".
Bisognava soltanto sperare che la realtà non richiedesse dei
precisi adempimenti. Senonché il debole e velleitario
Francesco Gonzaga, presso il quale il C., rientrato a Mantova,
assolse l'incarico di commissario marchionale, era ben lontano dal
saper esigere garanzie di comportamento dai propri cortigiani.
Quando, nel 1503, fu coinvolto nella sconfitta che subì
l'esercito francese al Garigliano, egli si ritrasse in tempo
dall'impresa per non subirne i prevedibili danni, e il C. fu tra
coloro che prevennero la prudenza del Gonzaga bloccandogli i
rinforzi che aspettava da Roma. Del resto, nell'autunno di
quell'anno, il C. doveva essere più interessato a seguire gli
avvenimenti romani che ad assecondare le ambigue sollecitazioni
belliche del Gonzaga. Dopo la morte di Alessandro VI e il rapido
declino delle fortune borgiane, Giulio II, eletto papa il 1°
nov. 1503 dopo il regno di Pio III, non dava segni di volere per il
momento incrementare il dissidio franco-spagnolo, mentre si
dischiudeva la possibilità che Guidubaldo da Montefeltro
rientrasse immediatamente in possesso di Urbino. Il C. aveva
già conosciuto Guidubaldo nella primavera del 1503 ed era
rimasto affascinato dall'indole del duca così squisitamente
diversa da quella del Gonzaga; si incontrò poi con Elisabetta
Gonzaga reduce da Venezia dove era vissuta in esilio dal tempo
dell'invasione del Valentino. Le circostanze ora gli offrivano la
facoltà di trarre l'unico vantaggio dalle forsennate
scorribande per l'Italia che Francesco Gonzaga aveva preteso dal
cortigiano e il C. si accordò col Montefeltro per essere
ammesso al suo servizio con le funzioni, essenzialmente militari, di
"primario",cioè di comandante un drappello di cinquanta
uomini d'arme. Forse soltanto la mediazione di Elisabetta permise al
C. di licenziarsi dalla corte mantovana. Pur concedendo il proprio
assenso Francesco Gonzaga non mancò di manifestare astio e
risentimento nei confronti di colui che, dopo aver demeritato
nell'impresa contro Napoli, riusciva persino a sottrarsi alla sua
autorità. V'era di che accelerare i tempi. E, in effetti, dal
1504 il C. risulta al servizio dei duchi di Urbino, avendo come
compagno d'armi e di corte il cugino Cesare Gonzaga.
Per quanto possano sembrare allarmanti le cause che consigliarono al
C. di trasferirsi a Urbino, è opportuno chiarire che esse non
corrisposero al calcolo eseguito, ad esempio, dal Bembo, che nel
medesimo giro d'anni si trovò a condividere col mantovano
l'ospitalità dei Montefeltro. Per Bembo Urbino costituisce
una sosta d'obbligo per la carriera dell'uomo e dello scrittore.
Ciò è documentabile al livello delle piccole
congetture private di cui è cosparso l'epistolario bembiano
di questi anni. Gli amici e i parenti del patrizio veneziano
ricevono da lui l'impressione che il ducato urbinate - per la sua
esigua incidenza sul terreno politico, per l'ambiente internazionale
che lo frequenta ma che rimane estraneo agli interessi dello Stato -
costituisca una specie di laboratorio privato in cui il letterato
saggia la consistenza di nuove relazioni umane, sperimenta forme di
comportamento e modalità di comunicazione. V'è,
insomma, alla radice dei documenti biografici del Bembo, una
considerazione meramente strumentale del soggiorno urbinate. laddove
per il C. esso rappresenta la sezione aurea della propria vita
("...e come nell'animo mio era recente l'odor delle virtù del
duca Guido e la satisfazione che io quegli anni aveva sentito della
amorevole compagnia di così eccellenti persone, come allora
si ritrovarono nella corte d'Urbino, fui stimolato da quella memoria
a scrivere questi libri del Cortegiano": proemio, I), una proiezione
resa perenne dalla scrittura in virtù, della medesima
labilità "effettuale" che consigliava al Bembo di guardare
oltre.
Doveva affascinarlo quella condizione suggestivamente letteraria di
nave nella tempesta in cui era sospeso il ducato tra l'aggressione
del Valentino e le ambizioni di papa Della Rovere, e tale
volontà di sopravvivere alla cancellazione si leggeva nello
stesso volto, malato e distratto, di Guidubaldo, la cui
cordialità malinconica fregiava saltuariamente le riunioni di
corte; quelle sale vaste e fastose che si illuminavano discretamente
per i trattenimenti mondani ospitando personaggi illustri ma
occasionali, giunti a Urbino come a un porto, che tenevano discorsi
fatui, anche se irripetibili quando fossero stati riassorbiti nel
vortice della vita attiva; infine la delicata esistenza di
Elisabetta Gonzaga, che conduceva con sussiego femminile le sorti
dello Stato e le riunioni cortesi, estranea e fedele al marito,
inaccessibile al resto degli uomini, e quindi oggetto di devozione
platonica, cui il C. accondiscese narcisisticamente riconoscendosi
nei versi dedicati a lei che rimanevano celati "dietro ad un grande
e bellissimo specchio" ("...questo è certo, diran, quel
chiaro foco, / ch'acceso da desio più che speranza, / nel cor
del Castiglion mai non fu estinto"). Erano figure e luoghi precari,
ma vittoriosamente resistenti tra il nulla e la morte, che sono i
due grandi margini neri in cui si illumina lo spazio narrativo del
Cortegiano. Nella trama dell'opera la sala dei ricevimenti si
manifesta come uno sbalzo chiaro nella notte. Lo stesso palazzo
ducale è paragonato nel libro ad una unità
autosufficiente ("che non un palazzo, ma una città in forma
de palazzo esser pareva"), estranea al mondo e splendida al pari di
una pietra preziosa incastonata nel magma appenninico, rilevabile -
come in un itinerario polifileo - attraverso le coordinate del lusso
e dell'arte ("...apparamenti di camere di ricchissimi drappi d'oro,
... statue antiche di marmo e di bronzo, pitture singularissime,
istrumenti musici di ogni sorte...": I, 2). La perizia narrativa del
C. giunge, all'inizio del IV libro del Cortegiano, a far evadere i
protagonisti dall'opera, immettendoli in una prospettiva reale, e
questa fuga degli uomini nella realtà, che è un
dissolvimento, una sparizione, garantisce la consistenza "eroica"
dei loro dialoghi, l'orgoglio di essere personaggi. Il C. si
autodeterminò come segno della società in cui viveva -
una mediazione labile, ma fittiziamente "virtuosa" del mondo e della
propria indole, prima che fosse inventata la nobiltà del
Canossa, la dottrina del Medici, la prudenza di Ottaviano Fregoso -
animando una faticosa parata militare che si tenne a Roma, al
cospetto del pontefice, nell'inverno del 1505; esibendo a Enrico
VII, presso cui si era recato nel 1506 in occasione del conferimento
dell'Ordine della Giarrettiera al suo signore, la Epistola de vita
et gestis Guidubaldi Urbini Ducis, una commemorazione che è
sembrata anticipare gli intenti del Cortegiano, rappresentando il
duca nel 1507 a Milano, in un'ambasceria a Luigi XII, e allestendo
la messa in scena dell'egloga Tirsi (nel carnevale del 1506) in cui
interpretava il personaggio di Iola, l'amante inascoltato e fedele
di Galatea, insieme con Cesare Gonzaga nella parte di Dameta. Ci si
rende conto del perché nell'opera scompaia la subordinazione
principe-cortigiano ("...formiamo un cortegiano tale, che quel
principe che sarà degno d'esser da lui servito, ancor che
poco stato avesse, si possa però chiamar grandissimo
signore": I, 1) se si pensa che il C. finse, durante il governo di
Guidubaldo, un'autorità assente: era una condizione reale
felicissima quella per cui imitatore e modello potevano
identificarsi, senza alcuna riserva interiore, rappresentando la
gloria militare, il fasto di corte, l'amore per la medesima donna.
Ed era tuttavia una condizione legata all'imponderabilità del
principe, che la morte di lui e l'invadente attività di
Francesco Maria Della Rovere, successo nel 1508 al ducato, doveva
irrimediabilmente, infrangere.
Il C. tenterà di scongiurare questo pericolo inserendo il
nipote di Giulio II (come uno straniero, come una pausa narrativa)
nella trama significante del Cortegiano, ma non v'è dubbio
che il periodo corrente tra il 1508 e il '13 abbia costituito per il
C. il tempo di più concreti e assillanti impegni
politico-militari, svolti adesso nel segno della potenza. Fu
così che nel 1509 dové seguire il Della Rovere,
nominato generale dell'esercito pontificio, nell'impresa di Romagna
contro Venezia: l'anno successivo era in missione diplomatica a
Napoli, ove ebbe l'avventura di conoscere personalmente il
Sannazaro; nel 1511 partecipò con l'esercito di Giulio II
all'assedio di Mirandola e quindi alla guerra contro i Francesi che
culminò con l'assedio di Bologna, conquistata dal duca
d'Urbino nel 1512. Le difficoltà derivanti dalle imprese
militari erano aggravate dall'atteggiamento imprevedibile di Giulio
II (talché, nel marzo del 1512, a un mese di distanza dalla
battaglia di Ravenna, il C. fu costretto a recarsi a Blois per
perorare la causa di Francesco Maria Della Rovere presso Luigi XII),
dallo sperpero dei denari ("ch'io sono leggerissimo e viver non si
può senza", confessava il C. alla madre), compensato solo in
parte dall'acquisto del castello di Novilara concessogli dal duca
unitamente al titolo comitale, infine dalle condizioni precarie di
salute, onde la città di Elisabetta e i conforti prodigati da
lei con l'inseparabile compagna Emilia Pio, dovevano sembrare al C.,
nelle sempre più rare parentesi di quiete, la garanzia della
propria incolumità fisica e psicologica.
Peraltro, la corte era ancora prodiga di attrazioni spettacolari. Il
C. vi partecipava con tale impegno che in una giostra del 1511,
probabilmente da lui stesso allestita, rimase ferito ad una mano.
Nel 1513 mise in scena la Calandra dell'amico Bibbiena dettandone un
prologo giacché quello originale, per l'assenza dell'autore,
"venne molto tardi né chi l'aveva a recitare si confidava
impararlo". Possediamo una lettera del C. indirizzata a Ludovico di
Canossa che ci informa esaurientemente sulla perizia tecnica del C.
scenografo ("Le nostre commedie sono ite bene, massime il Calandro,
ilquale è stato onoratissimo d'un bello apparato... La scena
era finta una contrada ultima tra il muro della terra e l'ultime
case: dal palco in terra era finto naturalissimo il muro della
città con due torrioni: dai capi della sala sull'uno stavano
i pifferi, sull'altro i trombetti: nel mezzo era pur un altro fianco
di bella foggia: la sala veniva a restare, come il fosso della
terra, traversata da due muri, come sostegni d'acqua..."), sullo
ideatore di cartelli e didascalie che significano abbastanza
esplicitamente il decoro cavalleresco ("lettere grandi bianche nel
campo azzurro ... adornavano tutta quella metà della sala e
dicevano così: "Bella foris ludosque domi exercebat et ipse
Caesar: magni etenim est utraque cura animi""), sulla predilezione
che il C. nutriva per gli intermezzi musicali e danzati, i quali non
soltanto assolvevano il compito esornativo di raccordare le parti
dialogate, ma potevano ricondursi ad una unità discorsiva (e
quindi intrecciare una seconda trama) allorché veniva
letteraturalizzato da un personaggio recitante dei versi
(l'"Amorino") il numero musicale e il gesto dei danzatori.
L'espressione trionfale con cui il C. comunicava all'amico la
soddisfazione per il proprio lavoro - "certo non credo che mai
più si sia finto cosa così simile al vero" - potrebbe
essere assunta come emblema dell'intera attività urbinate
dello scrittore, o come una speranza che la finzione potesse
continuare a realizzarsi in luoghi storici diversi e più
ostili.
Morto Giulio II ed eletto papa Giovanni de' Medici (1513), il C., si
trasferì a Roma con le mansioni di agente diplomatico del
Della Rovere. Fu ospitato in casa del Canossa, allora vescovo di
Tricarico, e dové per qualche tempo avere la sensazione che
la corte di Leone X fosse quasi un duplicato di quella urbinate.
Poteva infatti continuare a frequentare gli amici di un tempo:
Giuliano de' Medici, il Bibbiena, creato cardinale e tesoriere della
Chiesa, il Bembo, segretario dei Brevi, e Raffaello, la cui amicizia
dischiuse al C. l'ambiente dei circoli pittorici (vi conobbe anche
Michelangelo) tanto più sollecitanti e vitali di quelli
letterari - cui il mantovano dedicò qualche tributo poetico -
raccolti intorno ad Angelo Colocci e ad Hans Goritz. L'entusiasmo
era quello, riscaldato un po' artificialmente dal fervore
archeologico (da una lettera del Bembo dell'aprile 1516 sappiamo di
una gita memorabile - a suo dire - compiuta alla villa Adriana di
Tivoli in compagnia del Navagero, del Beazzano e del C.); d'altro
canto, sul piano dei valori più propriamente letterari,
insieme con alcune personalità di spicco, come il Navagero o
Iacopo Sadoleto, ricevevano credito nella Roma leonina personaggi di
second'ordine come il Tebaldeo, Girolamo Vida, Filippo Beroaldo
iuniore con tutta una schiera di epigoni e di mestieranti, mentre
nel campo delle arti figurative la maniera raffaellesca veniva
gelidamente esibita da Giulio Romano (che il C. ebbe la
responsabilità di introdurre nella città di Mantegna)
e da Giovanni da Udine, utilizzato dai Gonzaga - ancora tramite il
C. - come intenditore e mercante di "anticaglie". Non sarebbero
stati comunque questi limiti culturali a far ricredere il C. sulla
realtà romana, ma un'azione irrazionale e sconcertante: il
colpo di mano compiuto da Leone X contro Urbino (1516), dopo il
convegno di Bologna con Francesco I, che avrebbe portato alla
destituzione del Della Rovere e all'insediamento di Lorenzo de'
Medici. Il C. ne rimase esterrefatto e giudicò perduta la
causa del Della Rovere (se ne ricorderà Francesco Maria nel
'22, quando, riconquistato il ducato, priverà il C. del feudo
pesarese); entrò in crisi la sua fiducia nella famiglia dei
Medici, si radicalizzò in lui il sentimento antifrancese,
maturato sin dal tempo del suo primo soggiorno a Milano, e non
è un caso che proprio in questo periodo di impatto con la
realtà prendesse forma il sogno esorcizzante del Cortegiano.
A questa pausa nella carriera diplomatica del C., al desiderio di
dare un corso nuovo alla propria vita, è forse riferibile
anche il matrimonio, celebrato solennemente a Mantova nel 1516, con
Ippolita Torelli, che gli dette tre figli, Camillo, Anna e Ippolita
("Disce puer virtutem ex me verumque laborem. Fortunam ex
aliis",scriveva il padre al primogenito, affidando alla lingua degli
emblemi un lascito sconfortante ma virtuoso rispetto ai precetti
consegnati dal Bembo a Torquato). E anche il rapporto con la
compagna, brevissimo e interrotto dalle frequenti assenze del C., fu
giocato da lontano con un senso molto vivo dell'autocompiacimento,
come appare nell'Elegia qua fingit Hippolyten suam ad se ipsum
scribentem, e più da questa lettera, spedita da Roma nel '18,
ove la magia dell'incontro viene provocata (e scongiurata) tramite
l'imprevedibile reperimento di un oggetto, il regalo, che fa
significare un insignificante stato affettivo: "...Voi mi amate.
Sarebbe buono ch'io volessi che Voi ancora vi faceste dire al Papa
quanto, io amo Voi: che certo tutta Roma lo sa di sorte c'ognuno mi
dice ch'io sto disperato e di mala voglia perché non sono con
Voi. Ed io non glielo nego: ma vorrebbero ch'io mandassi a Mantova a
torvi e condurvi qui a Roma. Pensate Voi se ci volete venire ed
avvisatemelo. Avvisatemi senza burla se volete ch'io Vi porti
qualche cosa che Vi piaccia che non resterò già io di
portarlavi: ma arei a caro di sapere quello che vi piace, perch'io
sarò lì una mattina che non ve ne accorgerete e
troverovvi in letto e Voi mi vorrete poi dare ad intendere che la
notte vi sarete sognata di me, ma non sarà vero niente...".
Appena sposato il C. si era recato con Ippolita a Venezia per
aderire all'invito di un piacevole soggiorno che il doge L. Loredan
aveva rivolto al signore di Mantova e ad alcuni membri della sua
corte. Era un riavvicinarsi ai Gonzaga - senza dimenticare le
vicissitudini di Elisabetta, che era in quei giorni ospite
clandestina di Isabella d'Este - nel momento in cui il giovane
Federico assumeva la direzione dello Stato succedendo a Francesco,
che morirà nel 1519. Il periodo in cui il C. svolge l'ufficio
di ambasciatore a Roma dei Gonzaga è quello della sua
più assidua, se non perspicua, attività diplomatica,
mentre si precisano i lineamenti dell'opera (nel 1518, dopo due anni
di più intenso lavoro, il Cortegiano poté essere dato
in visione al Bembo e al Sadoleto) e la collaborazione con
Raffaello, delegato da Leone X alla sovrintendenza delle
antichità romane, si concreta con la famosa relazione sullo
stato dei monumenti classici. Né è da sottovalutare il
senso di sicurezza che invade lo scrittore nel ritrovato rapporto
con la città natale, quel sentimento tenace delle relazioni
cortesi che si manifesta nel gioco poetico dei "Motti",un genere di
intrattenimento che il C. coltivò al pari del Bembo, ma che a
lui sembra congeniale come indizio di una poesia volta
all'esteriorità dell'omaggio e del plauso.
Quando Ippolita morì, nel 1520, il C. provvide alla sua
futura carriera abbracciando lo stato ecclesiastico che gli venne
offerto da Leone X (1521). In una lettera del luglio Aloisa appare
al tempo stesso come la più segreta confidente delle
ambizioni nutrite dal C. ("...io mi ho elletto el star qui in Roma
... atteso ancor che questa stantia molto mi piace, et holli de li
amici assai grandi e qualche introductione con questo principe che a
qualche tempo potrebbe giovare a me et ad altri") nonché
l'esecutrice degli "officii per la bona anima della mia poverina"
("...del modo me rimetto a lei: che siano onorevoli e non passino
ancor el termine, acciò che non paia a quelli di là
che noi vogliamo esser troppo gran maestri"). E, intanto, il C.
esultava per aver ottenuto la nomina di Federico Gonzaga a capitano
generale della Chiesa con un senso di partecipazione così
vivo che lascia scoprire il progetto, tutto personale, di apparire
come uomo indispensabile alla Curia tramite il servizio prestato al
Gonzaga: "Io son tanto satisfatto e contento che, se a N. S. Dio
piacesse de tormi la vita, credo che non mi doleria la milesima
parte di quello che sarebbe doluto prima ch'io mi trovassi aver
fatto questo servizio a V. E.".
Più cautamente, di fronte alla realtà della situazione
romana, il C. commentò il medesimo avvenimento affermando che
"tutta questa città ha fatto dimostrazione di haverne
grandissima contentezza e prelati e cardinali, Ursini e Colonna, e
d'ogni sorta huomini". Al Gonzaga comunicò le esequie di
Leone X con un disincanto polemico verso i fasti medicei ("...oggi
sono otto giorni che ritornò dalla Magliana con tanta
allegrezza che, diceva S. S., quanta fu quella quando fu eletto
Papa, e venergli incontro tutto il mondo a congratularsi e li
fanciulli con rami d'oliva in mano; hoggi sarà una altra
pompa molto diversa da quella: così fa la fortuna de questi
tratti quando gli piace") e rappresentò per contrasto "la
meschinità... che si vede in questo collegio e "Oltra
lidebiti grandi lassati da Papa Leone s.ae mem. - scriveva a
Federico nel dicembre del '21 - sono dopo la morte sua impegnate
tutte le gioie, tutti li panni di arazzo, dico quelli bellissimi, e
mitre e regni e paci e argenti della credenza e si è dovuto
far queste exequie tanto povere che non so qual cosa al mondo sia
povera e pagar li fanti della guardia e far le stanze del conclave".
Egli seguì in seguito le vicende che avrebbero portato
all'elezione di Adriano VI informando il marchese sulle
intimidazioni esercitate dal Lautrec in seno al conclave, sugli
accordi tra Giulio de' Medici e il cardinale Sigismondo Gonzaga ("Io
ho operato che Medici ha dato la fede a Mantua, che non potendo
esser lui, aiuterà Mantua"; ma era un'illusione quella
d'avere il papa in famiglia, immediatamente svanita per l'appoggio
offerto dal Medici al vescovo di Tortosa: "che può fare un
granchio alle balene? pur in magnis voluisse sat est") ed espresse
infine un giudizio favorevole sul vecchio precettore di Carlo V,
quale rappresentante di quella tendenza ecumenica e riformistica che
sembra nutrire da questo momento anche l'ideologia politica del C.:
"Qui se hanno lettere da diversi che sono con S. S.tà
Italiani li quali confirmano la bontà et il valor suo et il
desiderio de la pace universale e de la reformazione della chiesa;
confirmano ancor che S. S.tà ha deliberato e stabilito de non
volere dare né officii né benefici se non à
persone che meritino; dicono che ogni mattina celebra la messa
devotissimamente e molte altre cose fa; tra l'altre tutta Spagna gli
è intorno..." (26 marzo 1522).
È anche vero, però, che simili giudizi contenevano la
possibilità di una privata ritrattazione (alla madre, nel
settembre del 1522, il C. scriveva: "Dolmi che questo papa non ha
voluto lassarme a Belvedere: io comincio a sentire la differenza di
papa Leone"), per cui - tra la fine del '22 e l'inizio dell'anno
seguente - il C. preferì lasciare Roma alla peste e
all'austerità di papa Adriano per seguire le operazioni
militari che il Gonzaga stava conducendo, tra Cremona e Pavia,
contro i Francesi. La corrispondenza di questo periodo con la madre
è quasi interamente incentrata sulla richiesta di indumenti
la cui funzionalità per l'occorrenza della guerra è
superata dal gusto per l'eleganza. Una volta il C. è colpito
dalla foggia di un mantelletto impermeabile in uso presso gli
ufficiali spagnoli e ne fa una minuziosa descrizione ad Aloisa allo
scopo di riceverne un esemplare; le proposte poi diventano
così assillanti da sembrare che il mittentetemesse la fine
della guerra prima di aver allestito uno spettacolo sufficiente di
sé ("Però vorrei che V. S. mi mandasse quella mia
vesta di damasco negro fodrata de màrtiri, e questo vorrei
che fosse subito subito. Il modo di mandarlo saria questo: che V. S.
subito facesse trovare una valise non molto grande..."). Rispetto a
siffatti diversivi dovette apparire sempre più insopportabile
la morigeratezza della corte adrianea, onde il C. si volse con
rinnovate speranze verso il neoeletto pontefice Clemente VII, la cui
"diligenza","ordine" e "gravità di costumi" costituivano del
resto anche agli occhi del Guicciardini delle plausibili garanzie
contro le intemperanze del predecessore mediceo. Nell'estate del
'24, quando la pressione francese in Lombardia sbigottiva a tal
punto il papa da inclinarlo verso un'intesa con l'imperatore, il C.
accettò di condividerne la politica quale nunzio in Spagna.
Era la grande occasione attesa dal C. per svincolarsi dagli obblighi
col Gonzaga ed inserirsi nel gioco diplomatico che si svolgeva tra
le maggiori potenze europee sul fondamento ideologico della
pacificazione universale e della crociata. Oltre a ciò la
nunziatura offriva la possibilità di rimettere in sesto una
situazione finanziaria aggravatasi con gli anni e che ora metteva a
repentaglio addirittura i possedimenti di Casatico, mentre il C. a
Roma continuava a contrarre debiti con la banca dei Sauli. Il 19
luglio 1524 Clemente VII comunicò al C. il suo progetto di
inviarlo a Carlo V; il giorno seguente fu redatto il breve papale e
il C. indirizzò una lettera a Federico Gonzaga per chiedere
licenza di assumere il nuovo incarico; nel settembre furono redatte
le credenziali e il 7 ott. 1524 il C. partì da Roma per
quella che doveva essere l'ultima e più disagevole missione
della sua vita.
A questo punto della congiuntura internazionale - Francesco I a
Milano, gli Spagnoli che invadono dalla Provenza l'Italia padana -
il giudizio espresso dal Guicciardini nella Storia d'Italia
individua, l'unica possibilità per il pontefice di mantenere
la pace nella salvaguardia annata della concordia ("trattandola in
modo che ciascuna delle parti avesse causa di dubitare che egli
pigliasse l'arme in favore di coloro che fussino manco alieni dalla
concordia"). Una volta saltata - per la "cupidità di non
spendere",cioè di non far pagare anche a Firenze le spese
della politica romana - la mossa preventiva di "armarsi potentemente
e spignere le genti a Parma e Piacenza",sarebbe venuta a mancare,
secondo Guicciardini, ogni "sicurtà per tutti i casi che
potessino succedere". E questi avvenimenti ormai incontrollabili da
parte del papa furono la vittoria spagnola a Pavia, l'ambiguo
trattato di Madrid e il disperato revanchismo di Francesco I cui
finì con l'aderire Clemente VII con la lega di Cognac.
Mentre la politica romana precipita sul versante antispagnolo, il C.
in Spagna si trova nell'ambigua situazione di rappresentare una
potenza sempre più aliena al proprio sentimento politico
presso un principe che è oggetto di stima, ma dal quale il
nunzio deve essere immancabilmente ingannato, seppure era inganno e
non autoinganno, mistificazione ideologica in cui credeva Carlo non
meno del C., il professarsi fedele alla Chiesa mentre esortava
l'"exaltado" Ugo de Moncada a suscitare i Colonna contro il papa,
richiamarsi all'autorità del concilio nel momento in cui
consultava un collegio di canonisti per stabilire la liceità
di una eventuale scomunica, scatenare la guerra contro colui che
revocava l'unità delle forze cattoliche dalla lotta contro
gli eretici e gli infedeli e contemporaneamente riaffermare in un
documento politico di impronta erasmiana (Pro divo Carolo...
apologetici libri duo nuper ex Hispania allati, redatti da Alfonso
de Valdés) la fede nella pace universale. Quando questo
documento fu consegnato al C. (18 sett. 1526), il nunzio ne fu
atterrito e tentò di scongiurare la minaccia presentando
all'imperatore un breve pontificio notevolmente più blando di
quello, datato 23 giugno, che aveva determinato la reazione di
Carlo. Ma oramai la logica della punizione era inarrestabile e tanto
più facilmente cadde su Roma il castigo, non di Carlo ma di
Dio, in quanto Clemente VII, isolato dalla defezione degli alleati,
preferì licenziare le truppe contrastando i mercenari del
Borbone con la consueta strategia della difesa disarmata.
Dopo il "sacco" cominciarono da parte della Curia le accuse, non del
tutto immotivate, al C., il quale, se non fu responsabile -
ovviamente - del disastro, certo non si era rivelato il diplomatico
più adatto a giudicare sull'operato dell'imperatore,
affascinato come fu dalla personalità di Carlo ("...se alcuno
è che abbia pensato quello che non si doveva pensare di me,
rimetto a Dio il castigo del mio fallo - si legge in una lettera
alla Schönberg del 1° febbr. 1527 - né per questo mi
muterò d'opinioni, né crederò che l'Imperatore
non sia buon principe e volto al bene"), nonché dalle forme
di quella corte spagnola che appariva ai suoi occhi come la
manifestazione di una superstite affabilità cavalleresca:
"...dicono mal di me - confessava al legato pontificio Salviati il
16 febbraio - ed affermano ch'io sono imperiale, della qual cosa,
che causa abbiano io non lo so, senonché sospettano,
perché veggono che l'Imperatore, e quant'altri Signori tutti
mi fanno carezze e io non le ho mai fuggite, parendomi che, se
l'Imperatore mi crede, possa a qualche tempo essere servizio del
Papa". Con questo il C. si discolpò ufficialmente il 10 dic.
1527 - sottolineando la propria assiduità, nonostante le
scarse informazioni che gli sarebbero pervenute da Roma nei momenti
cruciali dell'attività diplomatica - e fu riabilitato, tanto
che dopo la morte, avvenuta a Toledo l'8 febbr. 1529, Aloisa
poté raccomandare i figli del C. al papa, il quale promise di
averne cura in memoria dei servigi prestati dal nunzio in Spagna.
Gli ultimi anni furono dedicati dal C. alla stampa del Cortegiano,
che fu edito a Venezia nel 1528 per interessamento del Ramusio e del
Bembo (quando già proliferavano le copie manoscritte: si veda
la lettera del C. a Vittoria Colonna del marzo 1525), e alla
polemica col Valdés, autore del Dialogo de las cosas
occurridas en Roma (1527) su cui fu sollecitato provocatoriamente ad
esprimersi il nunzio pontificio proprio mentre questi, nel tentativo
di riavvicinarsi a Clemente VII, stava prendendo le dovute distanze
da quell'erasmismo ecumenico-conciliare che celebrava, post eventum,
ilproprio trionfo nello scritto valdesiano. C'era di che escogitare
la Controriforma cui si voterà il successore di papa Medici
e, seppure con molti pentimenti, Carlo V; ma i doni dell'invenzione
erano ormai preclusi al letterato, il quale nella Risposta alla
Lettera del Valdés si limitò a fronteggiare
l'avversario sul piano degli exempla scritturali e a ritorcere
contro di lui, voce aberrante del potere, il fuoco del castigo
divino. "Voi adunque avete ardire d'alzar gli occhi? avete ardire di
mostrarvi al cospetto degli omini? e non temete che Dio mandi il
fuoco dal cielo, che v'arda? e non temete che i più oscuri
spiriti che abitano il profondo dell'abisso debbano levarvi dal
mondo? Preparatevi pure, perché la giustizia divina non
lascia impuniti così abominabili peccati, e crediate che
questi vostri malefici occhi vi hanno da essere cavati dalla testa
dai corvi prima che veggano quel tanto male che voi desiderate, e la
nefanda lingua, che adoperate per istromento di accendere fuoco nel
mondo, prima sarà lacerata dai cani, che mai possa indurre
l'Imperatore a far cosa che non sia servizio di Dio".
Forse per nessuno scrittore come per il C. è valida la
definizione di "auctor unius libri": unico e isolato nell'esperienza
del C., essenzialmente un libro giovanile, quando poteva
verosimilmente razionalizzarsi quel desiderio di magnanimità
che gli riconosceva Carlo V (si tramanda che commentasse così
la sua morte: "Yo vos digo que es. muerto uno de los majores
caballeros del mundo" (Cian, Un illustre nunzio ... ): e il motto,
anche se non autentico, avrebbe fregiato la tomba mantovana del C.
più degnamente che non il freddo epitaffio che gli
dedicò il Bembo).
Il tentativo di dar forma a una sostanza indistinta, e quindi
sfuggente al possesso qualora non venga sapientemente illuminata, si
rivela già dal carattere "notturno" dell'opera. Si tratta,
infatti, di un dialogo che si svolge in quattro notti con
l'intervento di due principali interlocutori per tornata. Queste
coppie rappresentano a loro volta ruoli diversi di interdipendenza.
Nel I libro Cesare Gonzaga è poco più che un
coadiutore di Ludovico di Canossa che svolge il tema della
nobiltà del cortigiano affrontando anche il problema della
lingua che maggiormente conviene al suo rango e alle sue funzioni;
nel II le facezie del Bibbiena costituiscono una manifestazione
comica delle modalità descritte da Federico Fregoso con cui
il cortigiano estrinseca le proprie doti; nel III assistiamo ad una
discussione autentica (sulla donna di palazzo) tra il cortese
Giuliano de' Medici e l'antifemminista Gaspare Pallavicino; nel IV
la dottrina dell'amore platonico professata dal Bembo appare come la
sublimazione di quei rapporti che Ottaviano Fregoso istituzionalizza
tra il cortigiano e la società, il cortigiano e il principe.
La percorribilità di una struttura siffatta è aperta a
diverse direzioni. Stando alla successione che ci presenta l'opera
si direbbe che l'ordine si stabilisca da una idealità della
natura (la nobiltà) a un idealismo culturale di origine
neoplatonica, attraverso il comportamento sociale e l'amore cortese.
Ma non si può escludere la possibilità di altre
combinazioni. I libri centrali, ad esempio, contemplano la
facoltà di una posizione alternativa (serio-comica nel II,
interlocutoria nel III) che viene risolta unitariamente in quelli
marginali; inoltre, mentre i libri II-IV determinano il passaggio
dall'umile al sublime, i libri I-III individuano la costituzione
della forma dialogica dalle rovine della monologia. Le quattro notti
del Cortegiano costituiscono in definitiva una matrice discorsiva
che l'alba del quinto giorno, così espressamente
naturalistica, infrange cercando in qualche modo di imprimere in un
ordine reale ("Aperte adunque le finestre da quella banda del
palazzo che riguarda l'alta cima del monte di Catri, videro esser
già nata in oriente una bella aurora di color di rose e tutte
le stelle sparite, fuor che la dolce governatrice del ciel di
Venere, che della notte e del giorno tiene i confini"); i personaggi
dell'opera non dicono (qualcosa al lettore), ma si dicono,
sperimentando richiami e valenze che vengono saldati dagli
interlocutori minori (Morello da Ortona, l'Unico aretino, il Frigio)
e governati dalla onnipresenza raziocinante di Elisabetta Gonzaga.
In altti termini essi compongono uno scenario di corrispondenze
reciprocamente attuate. Difatti soltanto in un campo di
manifestazioni simultanee è possibile "discorrere" tra
percorsi significanti non alternativi quanto alla scelta e alla
direzione, mentre sul piano intellettuale l'opzione, in ogni caso
facoltativa, che si fa per avere ragione dell'insieme, non
può che definirsi come ulteriormente integrabile.
Il sincretismo platonico-aristotelico del Rinascimento favorì
il C. nel tracciare alcune discriminazioni di rilievo. In un passo
decisivo del Cortegiano (I, 13)si legge: "Però si ritrovano
molti, ai quali sarà grato un omo che parli assai, e quello
chiameranno piacevole; alcuni si diletteranno più della
modestia; alcun'altri d'un omo attivo ed inquieto; altri di chi di
ogni cosa mostri riposo e considerazione; e così ciascuno
lauda e vitupera secondo il parer suo sempre coprendo il vicio col
nome della propinqua virtù, o la virtù col nome del
propinquo vicio; come chiamando un prosuntuoso, libero; un modesto,
àrrido; un nescio, bono; un scelerato, prudente... Pur io
estimo in ogni cosa esser la sua perfezione, avvenga che nascosta; e
questa potersi con ragionevoli discorsi giudicar da chi di quella
tal cosa ha notizia". Per cui, mentre per un verso si chiude il
circuito di una opposizione sostanziale, dall'altro, e all'interno
di una mediazione linguistica, si assegna a una maieutica discorsiva
la facoltà di distinguere l'essenza delle cose, correttamente
subordinata alla "competenza" del parlante e quindi alla
possibilità di far significare l'indistinto. "Chi non sa che
al mondo non saria la giustizia, se non fossero le ingiurie? la
magnanimità, se non fossero li pusillamini? la continenza, se
non fosse la incontinenza? la sanità, se non fosse la
infirmità? la verità, se non fosse la bugia?",si
domanda lo scrittore in altro luogo (II, 2), onde egli può
interpretare la virtù come una possibilità epifanica,
un'etichetta, che la pratica pedagogica riesce a provocare nella
stessa misura in cui l'ammaestramento dell'arte suscita la
produzione del significante. Sin qui non si esce da una retta teoria
della significazione che trova, del resto, una precisa verifica nel
nesso letteratura-moda stabilito dal Castiglione. Il problema
tuttavia si complica allorché la dimensione semantica cui
partecipano le parole ("il divider le sentenzie dalle parole
è un divider l'anima dal corpo": I, 33) sembra rinviare alla
struttura semantica dell'insieme, cioè al Cortegiano come
letteratura di informazione o di ammaestramento civile - e non
risulta che nessuna tra le più accreditate interpretazioni
dell'opera abbia del tutto abbandonato una simile prospettiva. In
effetti, se si considera attentamente il capitolo I, 33del
Cortegiano, si ha la conferma del carattere semiologico dell'insieme
in quanto, proprio sul piano dell'esecuzione e dell'interpretazione
sintattica, l'enunciato abdica al senso a vantaggio di un'epifania
logico-retorica: "Quello adunque che principalmente importa ed
è necessario al cortegiano per parlare e scriver bene, estimo
io che sia il sapere; perché chi non sa e nell'animo non ha
cosa che meriti esser intesa, non po né dirla né
scriverla. Appresso bisogna dispor con bell'ordine quello che si ha
a dire o scrivere; poi esprimerlo ben con le parole: le quali, s'io
non m'inganno, debbono esser proprie, elette, splendide e ben
composte, ma sopra tutto usate ancor dal populo; perché
quelle medesime fanno la grandezza e pompa dell'orazione, se colui
che parla ha bon giudizio e diligenzia e sa pigliar le più
significative di ciò che vol dire, ed inalzarle, e come cera
formandole ad arbitrio suo collocarle in tal parte e con tal ordine,
che al primo aspetto mostrino e faccian conoscere la dignità
e splendor suo, come tavole di pittura poste al suo bono e natural
lume". Si direbbe che la distinzione tra mente e comportamento si
trasformi nell'identità tra lo "splendore" del personaggio e
l'aspetto convenientemente architettonico del discorso ("la
grandezza e pompa dell'orazione"). Ciò è anche valido
per determinare la misura largamente topica in cui si manifesta
l'atteggiamento ideologico dello scrittore soprattutto nell'ultima
parte dell'opera ove, nonostante le dichiarazioni iniziali (I, 25),
l'"insegnamento" sembra prevalere sulla "dimostrazione".
Nell'ultima parte del passo citato è molto importante il
riferimento alla pittura. Peraltro tale riferimento è quasi
sempre esplicito in quei passi in cui l'autore si imbatte in
questioni di natura linguistica; a parte il fatto che l'opera nel
suo complesso viene paragonata a un quadro nel proemio dedicato al
De Silva: "... mandovi questo libro come un ritratto di pittura
della corte d'Urbino, non di mano di Raffaello o Michel Angelo, ma
di pittor ignobile e che solamente sappia tirare le linee
principali, senza adornar la verità de vaghi colori o far
parer per arte di prospettiva quello che non è".
L'indicazione è più interessante di quanto non abbia
potuto cogliere la critica sulla base di generiche affinità
artistiche tra il C. e il mondo dei maggiori pittori contemporanei,
ovvero sul realismo implicito nella concezione classica della mimesi
("ut pictura poësis"). Si può tranquillamente estendere
il campo di indagine constatando come nel C. la disponibilità
verso il reale sia sempre molto ampia, sì da consentirgli di
collocare l'opera nell'ambito di una prospettiva pratica (nel
proemio il fine del Cortegiano, o meglio, "la forma di cortegiania",
letteralmente universale, tende a stabilire i lineamenti di un
individuo) e di rovesciare il rapporto umanistico tra letteratura e
vita: non è infatti la scrittura a perpetuare la vita,
bensì questa rende famosa la scrittura (III, 1). Ma con
ciò si incorreva nella vecchia condanna platonica del
linguaggio e dell'arte, che il C. era fermamente intenzionato a
rimuovere. Viene anzi da supporre che un tentativo siffatto
rappresenti la connotazione più profonda dell'opera.
In primo luogo, la realtà che interessa il cortigiano
è quella che si definisce, o si disegna, come una linea
discriminante tra attitudini contrarie sebbene riducibili alla
coerenza della manifestazione comportamentale: "...il tenor della
vita sua ordini con tal disposizione, che 'l tutto corrisponda a
queste parti, e si vegga il medesimo esser sempre ed in ogni cosa
tal che non discordi da se stesso, ma faccia un corpo solo di tutte
queste bone condizioni" - afferma lo scrittore nel capitolo II, 7 -
e continua: "Però bisogna che sappia valersene, e per lo
paragone e quasi contrarietà dell'una talor far che l'altra
sia più chiaramente conosciuta, come i boni pittori, i quali
con l'ombra fanno apparire e mostrano i lumi de' rilievi, e
così col lume profundano l'ombre dei piani e compagnano i
colori diversi insieme di modo, che per quella diversità
l'uno e l'altro meglio si dimostra, e 'l posar delle figure
contrario l'una all'altra le aiuta a far quell'officio che è
intenzion del pittore". Qui chiaramente l'immagine che l'uomo si
dà come concreta mediazione di sé rispetto
all'ambiente circostante, ubbidisce a una pura logica compositiva.
Altrove, soprattutto nei capitoli del II libro dedicati ai giochi
verbali del Bibbiena il cortigiano è colui che dispone del
segno come di una facoltà polisemica, sì che il senso
continuamente rinviato potrebbe corrispondere all'ambiguità
di una effigie pittorica. Sino a che la "virtù" non si
identifica col centro di una figura geometrica (IV, 40) che
costituisce altresì il fine dell'attività significante
per eccellenza, quella della scrittura, nel paragone tra l'arciere
che tenta di colpire il bersaglio e l'opera che si approssima alla
perfezione della vita cortigiana, cioè alla sua forma
(proemio, III). Ma il C. va oltre questo riconoscimento
incondizionato del significante non esitando a investire l'arte
della pittura di ragioni cosmiche quando afferma (I, 49): "E
veramente chi non estima questa arte parmi che sia dalla ragione
alieno; ché la macchina del mondo, che noi veggiamo
coll'ampio cielo di chiare stelle tanto splendido e nel mezzo la
terra dai mari cinta, di monti, valli e fiumi variata e di sì
diversi alberi e vaghi fiori e d'erbe ornata, dir si po che una
nobile e gran pittura sia, per man della natura e di Dio composta;
la qual chi può imitare parmi esser di gran laude degno". Il
passo non è stato considerato con interesse dai commentatori
forse per la sua non spiccata originalità rispetto alle fonti
classiche e umanistiche. Tuttavia nel contesto del Cortegiano esso
si rivela come un passaggio chiarificatore. Ciò che il C.
ribadisce rispetto alla cultura umanistica è la
leggibilità teologica dell'universo. Senonché l'autore
non formula a questo riguardo alcun criterio di conoscenza e si deve
quindi ritenere che la mediazione umana capace di rappresentare una
struttura significante, l'insieme artistico, da un'altra struttura
significante, il sistema della natura, sia una facoltà
omologa tanto al modello quanto al prodotto. Ora questa nuova
struttura significante è quella che si dà l'individuo
quando esce da sé per inserirsi nella sfera dei rapporti
sociali e quella che richiede lo scrittore dell'opera intesa come
possibilità dichiarativa indipendente da ogni contenuto. Al
centro del discorso e del comportamento del Cortegiano c'è il
problema di trascendere qualsiasi referente concreto, nella misura
in cui la struttura significante si rende autonoma sul piano della
coerenza esteriore e per quanto una congettura modale sull'esistenza
riesce a immunizzarsi dalla corruzione della storia, rifiutando ogni
tempo diverso da quello dell'atto della significazione. L'elogio del
presente che il C. fa nel proemio del II libro è retorico
poiché sorge dall'abisso di una vanificazione,
dall'autoesclusione che l'individuo opera uscendo da sé per
manifestarsi nell'istituto del linguaggio. Perciò l'atto
espressivo si identifica con la virtù dell'autore e questa -
fino al Montaigne e a La Rochefoucauld - viene commisurata a
un'etica del comportamento civile.
Il dissidio che comunque si apre è quello tra struttura
significante e segno. Sotto questo aspetto forse è opportuno
proporre, anziché gli esempi esterni che vengono di solito
usufruiti per il C. (del Machiavelli, ad esempio, o di
Guicciardini), un'esperienza contraria - e quindi in qualche modo
intrinseca - quanto al concetto del cortigiano: l'esperienza di
Francesco Berni, che servirà anche per limitare la dimensione
estetica dell'opera. Per Berni la struttura significante del mondo
si interiorizza e si demistifica al punto della mediazione
rappresentativa dell'uomo. Il segno che questo dà di
sé per manifestarsi in una data realtà rivela una
natura insufficiente (una natura "da poco" o "malata" si legge nella
prima lettera superstite dello scrittore), per cui il contributo
significante dell'individuo è una finzione e viene perseguito
come un inganno da parte di chi giudica il cortigiano. Tuttavia,
mentre sul piano del comportamento, dell'altrui imitazione, l'uomo
si squalifica e persino la sua parola-segno contribuisce al proprio
discredito, d'altro canto il linguaggio dello scrittore crea e
corrompe universalmente, nella misura in cui non può
razionalizzare la propria natura. Per quanto questa si avvolga in
una spirale distruttiva e lo scrittore attualizzi la dissoluzione
futura, tanto il linguaggio incide su istituti e ideologie ponendosi
esso stesso come una sgrammaticalizzazione della struttura
significante. La poesia, dunque, affiora "mentre scompare"
l'individuo al quale lo scrittore non presta il mezzo
dell'integrazione sociale, della razionalità. Nel Cortegiano
l'autore è presente innanzi tutto come facoltà
razionale che sollecita la manifestazione di un desiderio. Rimovendo
alcune obiezioni che gli erano state rivolte dai lettori del
manoscritto, il C. afferma nel proemio: "Alcuni ancor dicono ch'io
ho creduto formar me stesso, persuadendomi che le condizioni, ch'io
al cortegiano attribuisco, tutte siano in me ... ma io non son tanto
privo di giudicio in conoscere me stesso, che mi presuma saper tutto
quello che so desiderare". A questo punto però l'uomo
"è già scomparso" e lo scenario che si compone entro
il reticolo del discorso svaluta a nulla tutto ciò che non
può essere significante. La dottrina si identifica con
l'eloquenza e questa è, nella scrittura-dipinto, un
atteggiamento, un'esibizione che è possibile correggere
gestualmente ("Avendo il Bembo insin qui parlato con tanta veemenza,
che quasi pareva astratto e fuor di sé, stavasi cheto e
immobile, tenendo gli occhi verso il cielo, come stupido; quando la
signora Emilia, la quale insieme con gli altri era stata sempre
attentissima ascoltando il ragionamento, lo prese per la falda della
robba e scuotendolo un poco disse: - Guardate, messer Pietro, che
con questi pensieri a voi ancora non si separi l'anima dal corpo":
IV, 71). La forma del Cortegiano è il cortigiano nella forma
più problematica, ma anche esteriore. Èuna pura
raffigurazione gestuale che rivendica la naturalezza (la
"sprezzatura") come un'arte che nasconde l'arte, cioè come un
gioco sociale che rimette continuamente in discussione il problema
del senso. Se è lecito, sotto un certo riguardo, accettare
per il Cortegiano ilconcetto di letteratura del comportamento,
ciò si rende possibile solo a patto di non privilegiare
né l'uno né l'altro termine dell'espressione. In
effetti è abbastanza accentuata la distanza tra il libro del
C. e l'ingombrante trattatistica quattrocentesca sul vivere civile,
che pure dové costituire il precedente culturale più
agibile per il Cortegiano, e viceversa, scorgervi i lineamenti di
una letteratura come comportamento, significa avvicinarsi con
sufficiente approssimazione alla misura dell'opera (nonché
alla sua retorica, pregiudizievole ed evasiva nei confronti della
realtà come lo spettacolo dell'eleganza che offre il dandy).
È necessario sottolineare che il carattere pertinente a tale
forma di esibizione è la più completa autosufficienza,
per cui, se è perfettibile, lo è sempre dall'interno
della struttura significante (e al di fuori del mondo) mediante la
variazione o la diversa praticabilità di quei rapporti che
devono comunque dare una risultante logica. Ne deriva una visione
(in senso concreto) delle cose che nel Rinascimento è sempre
esclusiva e autoritaria e non ha quindi nulla in comune con il
discorso della poesia, la cui proprietà è
l'impossibilità del possesso, è il riferimento alla
natura come scacco, alterità, subordinazione sociale.
Del resto, se una simile contrapposizione appare evidente dal
confronto col cortigiano Berni, lo stesso C. tendeva ad aprire per
la propria scrittura una strada diversa rispetto alla pratica
artistica dell'umanesimo quando affermava, nel cap. 26 del I libro:
"Chi adunque vorrà esser bon discipulo, oltre al far le cose
bene, sempre ha da metter ogni diligenzia per assimigliarsi al
maestro e, se possibil fosse, transformarsi in lui. E quando
già si sente aver fatto profitto, giova molto veder diversi
omini di tal professione e, governandosi con quel bon giudicio che
sempre gli ha da esser guida, andar scegliendo or da un or da un
altro varie cose. E come la pecchia ne' verdi prati sempre tra
l'erba va carpendo i fiori, così il nostro cortegiano
averà da robare questa grazia da que' che a lui parerà
che la tenghino e da ciascun quella parte che più sarà
laudevole...". La riflessione del C. verte ovviamente sullo
scrittore, che la più autorevole tradizione umanistica
(quella, ad esempio, rappresentata dal Poliziano) voleva impegnato
nella scelta di materiali significanti da opere del passato, in
vista di una nuova significazione; ma non v'è dubbio che il
passo rivendica una sua originalità per la commistione che
l'autore stabilisce tra lo scrittore e il cortigiano e tra il
cortigiano e la propria persona. Ora, la trasformazione che il C.
auspica tra il discepolo e il modello non è mai realizzabile
di fatto, ma è possibile come procedimento, come tentativo di
sembrare il modello, e ciò implica una sorta di gioco delle
apparenze infinitamente iterata in una società che in fondo
bandisce il rispecchiamento della realtà per una tecnica del
rispecchiamento. Veniamo così in possesso di un nuovo
principio in base al quale la struttura del comportamento si
autodefinisce e si impone nel tempo: quello dell'iterazione, cui
corrisponde in sede letteraria un concetto dell'opera come
trattenimento.
Forse le pagine più suggestive del Cortegiano sono quelle -
dedotte dal ciceroniano De Oratore e valide sino al Molière e
allo Shakespeare, poniamo, di Much Ado about Nothing - incui lo
scrittore traccia una rapida estetica del comico, legittimando
l'inganno che proviene dalla sospensione e quindi dal capovolgimento
del senso ("Di questa sorte di motti adunque assai si ride,
perché portan seco risposte contrarie a quello che l'omo
aspetta d'udire, e naturalmente dilettaci in tai cose il nostro
errore medesimo; dal quale quando ci trovamo ingannati di quello che
aspettiamo, ridemo": II, 64), determinando una zona edonistica per
il controsenso che è abbastanza vicina al piacere estetico
("Tutto quello adunque che move il riso esilara l'animo e dà
piacere, né lascia che in quel punto l'omo si ricordi delle
noiose molestie, delle quali la vita nostra è piena": II,
45), Saremmo tuttavia tentati di valutare questa sezione dell'opera
come una fenomenologia dell'humour avente per protagonista il
conversatore e per teatro una sala di ritrovi mondani. Invece il
gioco dell'arte si esaurisce in un campo limitato dalla
realtà che è l'organismo dell'opera, su cui si
esercita il giudizio: fuori di questa centralità esaustiva il
procedimento rettilineo del discorrere in conversazione determina il
senso dello svago, del passatempo.
Peraltro, siffatte attitudini mondane rientrano nel mondo della moda
condizionando soprattutto il colore delle vesti: "Piacemi ancor
sempre che tendano un poco più al grave e riposato, che al
vano; però parmi che maggior grazia abbia nei vestimenti il
color nero, che alcun altro; e se pur non è nero, che almeno
tenda al scuro; e questo intendo del vestir ordinario, perché
non è dubbio che sopra l'arme più si convengan colori
aperti ed allegri, ed ancor gli abiti festivi, trinzati, pomposi e
superbi. Medesimamente nei spettaculi pubblici di feste, di giochi,
di mascare e di tai cose; perché così divisati portan
seco una certa vivezza ed alacrità, che in vero ben
s'accompagna con l'arme e giochi..." (II, 27). Non è
ovviamente un caso che nel libro-pittura abbia un colore anche la
morte, come l'abito quotidiano, come il pensiero, "perciò
che, alla fine, e noi ed ogni nostra cosa è mortale". Mentre
l'eccezionalità dell'esistenza si riflette (e perciò
stesso si perpetua) nella convenzione sociale della festa che
determina un allestimento spettacolare della persona. Il "notturno"
del Cortegiano è un sogno di convivenza civile che il
linguaggio del dialogo razionalizza ricorrendo a dei partners
chesono figure nella composizione; e nella composizione si
rispecchia l'autore che ritrova la propria identità
nell'immagine (sublimata) di se stesso, cioè nella propria
facoltà rappresentativa. A questo livello egli può
identificarsi col Montefeltro non soltanto sostituendosi a lui per
rappresentare il segno dell'autorità, il prestigio di corte
(ciò che viene risarcito da un alone di virtù che nel
Cortegiano, e più nell'Epistola de vita et gestis, circonda
il personaggio di Guidubaldo), ma escludendosi con lui dal libro,
perché in questo caso l'eliminazione ha un senso unilaterale:
non rinvia più alla duplicità di significante e di
significato, bensì evoca una struttura autosufficiente in cui
lo scrittore si ravvisa in forma immediata. Il problema del
cortigiano di "trasformarsi" nel signore (il modello, il suo alter
ego) si risolve una volta per tutte - in concreto e in eterno - con
un insieme significante che viene allestito come una scenografia
metastorica. E la facoltà di coordinare gli elementi scenici
è attribuita alla maestria di due geni vedovili che
provvedono alla perspicuità del disegno con la medesima
sicurezza con cui giudicano sull'eleganza: "Erano dunque tutte l'ore
del giorno divise in onorevoli e piacevoli esercizi così del
corpo come dell'animo; ma perché il signor Duca
continuamente, per la infirmità, dopo cena assai per tempo se
n'andava a dormire, ognuno per ordinario dove era la signora
duchessa Elisabetta Gonzaga a quell'ora si riduceva; dove ancor
sempre si ritrovava la signora Emilia Pia, la qual per esser dotata
di così vivo ingegno e giudicio, come sapete, pareva la
maestra di tutti, e che ognuno da lei pigliasse senno e valore..."
(I, 4). Queste sono le guide che garantiscono la verosimiglianza del
discorso, il quale può letteralmente definirsi come la
dizione di un ricordo, assediata dalle luci del giorno e favorita da
un "lucidus ordo" che rischiara a tutti la scena dando l'impressione
dei contrasti e del movimento. Il classicismo ipotizza dal "sogno
del cortigiano" il cortigiano nella sua forma rappresentativa, che
egli vagheggia come la sembianza più perfetta di sé e
di cui può impossessarsi semplicemente manifestandosi. In
definitiva il Cortegiano appare come l'atto di una sostituzione:
dell'esemplare al modello, del discorso all'immagine, dello
scrittore all'uomo.
Per comprendere il Tirsi è necessario riconsiderare le
propensioni del C. verso lo spettacolo, nonché il sottile
gioco di parvenze e di riconoscimenti con cui il letterato ha la
possibilità di autodeterminarsi nel microcosmo della corte.
Questa è un'entità in cui sftunano progressivamente i
connotati reali, non vi si compie alcunché al di fuori della
celebrazione di un cerimoniale: è puro artificio, che la
letteratura rappresenta celando sotto panneggi di maniera eroi
dediti all'ufficio della devozione, per il signore o per la donna di
palazzo. Ricorre in quest'egloga l'esempio del Poliziano. Che
costituisce sicuramente un modello vagheggiato dal C.: basterebbe
pensare alla frequenza con cui nelle lettere si richiedono le rime
volgari del poeta mediceo e alla stessa occasione festosa che
accomuna l'Orfeo, composto e rappresentato a Mantova, al Tirsi. E
tuttavia il genere letterario esperito nel Tirsi non si collega
retrospettivamente all'opera quattrocentesca, ma inaugura la
prospettiva che conduce all'Aminta, l'opera dello scambio tragico
tra scenario dell'immaginazione e luogo della realtà. Tale
è la pressione alienante esercitata sullo scrittore dalle
forme di corte, sostitutive della realtà, che il divertimento
si trasforma in follia; ovvero si manifesta come gioco di enigmi e
di metafore sempre più occulte, per cui lo scrittore viene ad
essere il depositario di una nuova scienza ermetica che, racchiusa
nell'emblema della corte, può essere usufruita al livello del
comportamento individuale e politico (è il caso del Pastor
fido).
Quanto alle liriche - migliori le volgari che le latine -, anch'esse
vanno considerate in ordine a due caratteristiche insite nel
Cortegiano: la spettacolarità degli effetti e la complessa
architettura sintattica, che fa prediligere al C. lo schema della
canzone petrarchesca (eccezionalmente il componimento "Mentre fu nel
mio cor nascosto il foco" corrisponde alla stanza di una canzone),
laddove il sonetto tende a saldare le cesure tra quartine e terzine
nell'unità di un movimento ritmico-sintattico (di solito
iterativo). Rispetto a queste due componenti il calco petrarchesco
non costituisce mai il centro di una concrezione espressiva, non
è una citazione, ma rappresenta contestualmente il livello
indispensabile alla comunicazione del messaggio lirico: è
quasi una "langue" da cui è possibile liberare il richiamo
attraente dell'omaggio (un motto, composto probabilmente a Mantova,
dichiara: "Ben si può dirvi, o rosa senza spina, / l'unica
bella, perché in voi si vede / gratie che a poche il ciel
largo destina"), o la forza persuasiva del ragionamento (nella
canzone, che sembrava al Serassi "gravissima... e tra le più
belle che abbia l'italiana poesia", "Amor, poiché 'l pensier
per cui sovente"): "E pur più volte in cielo e qui fra noi /
mostrato hai quel che puoi; / opra dunque ver lei gli stralì
e l'arco / e sì le pungi il cor, che di nimica, / non mia, ma
di pietà la facci amica". Talvolta, come nella canzone
"Sdegnasi il tristo cor talor, s'avviene", sembra quasi di assistere
a un tentativo di restauro stilnovistico tanto sono evidenti i
simboli che costellano l'itinerario discorsivo: "Così tradito
onde soccorso attende, / con interpetri fidi e scorte nuove / cerca
d'acquistar fede a' suoi tormenti; / e per dolersi più forza
riprende, / tal che gemendo move / un stuol sì denso di
sospiri ardenti, / che impetuosi venti / e faci accese son, per cui
sovente / l'aria s'infiamma e 'n crudi accenti insieme / tutto
risona e geme; / e movesi a pietà chi 'l vede e sente ...".
Sino al punto in cui la scrittura che tende a visualizzare gli
effetti si misura con un originale pittorico e ne scaturisce il
piccolo capolavoro del sonetto "Ecco la bella fronte e 'l dolce
modo",ove l'intenzione madrigalesca sfuma nel ritratto, così
tipico nel C., dell'amante lontano e inappagato: "or qui nel duro
esiglio, in pianti amari / sostenete chardendo io mi consumi ...".
Sono questi i risultati che definiscono nell'ambito del petrarchismo
cinquecentesco la posizione del C., al quale va riconosciuto,
seppure nei limiti di un'offerta lirica occasionale, un ruolo
appartato e di rilievo.
Minore interesse destano i Carmina, dei quali solo alcuni (la prima
elegia "Ad puellam in litore ambulantem",l'elegia "De Elisabella
Gonzaga canente") raggiungono un equilibrio di sapore alessandring
tra la tenuità dell'ispirazione e la riproposta delle fonti,
scelte tra le più trasparenti della classicità (gli
elegiaci e Ovidio, Calpurnio Siculo, Virgilio, Nemesiano); mentre la
stessa tensione all'evidenza rappresentativa vizia le più
impegnate liriche latine ("Alcon",per la scomparsa di un amico
letterato, "De morte Raphaelli pictoris") nel senso di una dizione
ufficiale e declamatoria.
Un intento freddamente celebrativo è anche quello che anima
il troppo celebre sonetto "Superbi colli, e voi sacre ruine",con cui
ci troviamo al centro di quell'ammirazione retorica per la
città dei Cesari che indusse il C. a redigere, come è
stato accertato, la relazione a Leone X sullo stato degli antichi
edifici. Il documento, che tradizionalmente si riteneva di mano
raffaellesca, non aggiunge meriti alla reputazione del C.:
ché, privo di valore scientifico, esso si giustifica alla
luce di una teoria rinascimentale dell'arte fondata sulla metafisica
delle forme ("... un terzo acuto - asserisce l'autore - non ha
quella grazia all'occhio nostro, al quale piace la perfezione del
circolo; onde vedesi che la natura non cerca altra forma") e a
sostegno di un'ideologia volta a reperire nel passato la vocazione
universalistica di Roma, e "acciocché più che si
può resti vivo un poco dell'immagine e quasi l'ombra di
questa, che in vero è patria universale di tutti li
cristiani, e pur un tempo è stata tanto nobile e potente...".