CASTIGLIONE Baldassarre

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Ccrittore italiano (Casatico, Mantova, 1478-Toledo 1529).

Nobile di nascita, compì gli studi umanistici a Milano, alla scuola di G. Merula e D. Calcondila e fu iniziato alla vita di corte nel palazzo di Ludovico il Moro. Dal 1499 al 1503 visse presso i Gonzaga; poi, nel 1504, andò a risiedere nella splendida corte di Urbino, presso Guidobaldo da Montefeltro e poi Francesco Maria della Rovere, per i quali svolse vari incarichi diplomatici.

Ambasciatore (1513-16) presso Leone X a Roma, dove si legò d'amicizia con Raffaello, ritornò al servizio dei Gonzaga dopo la caduta del Ducato d'Urbino; a Mantova sposò nel 1516 Ippolita Torelli che, dopo avergli dato tre figli, morì di parto.

Nel 1524 Castiglione, che aveva frattanto abbracciato lo stato ecclesiastico, fu inviato da Clemente VII come nunzio presso Carlo V in Spagna, dove morì circa quattro anni dopo, affranto per il sacco di Roma dei lanzichenecchi (1527): un evento del quale era stato ingiustamente ritenuto responsabile per non aver saputo prevederlo.

La sua cultura di raffinato umanista, la sua fede nella vita cortigiana intesa come la più aristocratica ed equilibrata manifestazione dell'umana socievolezza, l'idealizzazione dell'uomo come assoluto protagonista di una vicenda solo terrena si sublimano nel suo trattato in 4 libri, Il Cortegiano (1528), nel quale l'autore si propose di "formar con parole un perfetto cortegiano", una figura volutamente ideale, che interpreta genuinamente la società rinascimentale, educata sui testi classici e umanistici.

Scritto con stile insieme sorvegliato e cordiale, il trattato di Castiglione ebbe molta fortuna e fu variamente imitato anche fuori d'Italia. Tra le opere minori di Castiglione, oltre alle rime in volgare (canzoni e sonetti di materia amorosa e di ascendenza petrarchesca), si ricordano l'egloga Tirsi, rappresentata a Urbino nel 1506, il prologo alla Calandria del Bibbiena e il copioso epistolario.

Il Cortegiano

Trattato in quattro libri in forma dialogica di B. Castiglione, composto tra il 1508 e il 1518 e pubblicato nel 1528; ha per tema le qualità e le virtù che devono concorrere a formare un perfetto cortigiano, secondo gli ideali pedagogici dell'Umanesimo e lo spirito delle corti rinascimentali. I dialoghi si svolgono in quattro serate alla corte d'Urbino, nel 1507, con l'intervento di famosi letterati e cortigiani, tra cui Ottaviano e Federico Fregoso, P. Bembo, Giuliano de' Medici, C. Gonzaga, B. Bibbiena, B. Accolti, L. Da Canossa.

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DBI

di Claudio Mutini

Nacque il 6 dic. 1478 nella "corte" di Casatico, presso Mantova, da Cristoforo e da Aloisa Gonzaga.

Da parte del padre la famiglia discendeva da quella piccola nobiltà d'origine feudale che la dinastia dominante era riuscita a mantenere fedele concedendo privilegi e accondiscendendo a matrimoni di prestigio. Tagliati fuori dalle decisioni politiche del signore - e più spesso vittime che protagonisti di scelte arbitrarie e avventate - questi nobili di mediocre fortuna continuavano a esercitare le antiche virtù cavalleresche mediante l'uso delle armi, che il signore imponeva loro per finalità d'ordine personale, ovvero per esaltarne il lustro in occasione di solenni manifestazioni che si tenevano in città ove figuravano come poli di attrazione in feste e tornei. La guerra come duro scotto di privazioni e di sangue, o come gioco millantato e fastoso, era il loro appannaggio: la morte e la finzione costituivano i termini di un'alterità in cui si celebrava, in mancanza di una struttura sociale subordinante, l'assoluta devozione al signore, ma potevano anche porsi in alternativa nel caso, sperimentato dal giovane C., del destino tragico toccato al padre, il quale perse la vita nel 1499 dopo una lunga agonia a seguito delle ferite riportate nella battaglia di Fornovo combattendo al fianco di Francesco Gonzaga. I simboli contrastanti del prestigio e della dedizione, dell'autorità e del decoro, sono rappresentati dalle due dimore della famiglia: l'antica villa rustica di Casatico, dove il C. nacque e che un disadorno latino notarile ci descrive "cum pulchris magnis et altis palatiis... cum curte circum circa murata et depicta ad rusticam...", e la casa mantovana che Cristoforo acquistò intorno alla metà del Quattrocento nel quartiere di S. Giacomo, non lontano dal palazzo Gonzaga, dove è presumibile che il C. soggiornasse mentre attendeva alla prima formazione letteraria.

Aloisa, parente di Francesco Gonzaga, e Isabella, sorella di Beatrice d'Este, determinarono il trasferimento del C. a Milano, dove poté seguire le lezioni del Calcondila e di Giorgio Merula sotto la sorveglianza dell'altolocato Giovanni Stefano Castiglioni, giureconsulto e consigliere di Ludovico il Moro. Parallelamente allo studio dei classici il C. cominciò a interessarsi della poesia in volgare stabilendo relazioni con gli scrittori della corte sforzesca e compilando, ad uso personale, una piccola silloge di rime in volgare del Tre e del Quattrocento che fornisce la prima testimonianza della sua milizia letteraria. Ma soprattutto - per lui che confessava: "... io sono in loco ove vedo cose molte e grandi" - il soggiorno milanese servì come banco di prova di attitudini mondane e memorabili, verificate sulla personalità esuberante del cardinale Ippolito d'Este, ricercato animatore delle feste sforzesche, non meno che sui fasti pedagogici di Filippo Beroaldo seniore, sulla fama di uomini d'arme superiori e imparziali rispetto al servizio prestato ai potentati, come sull'ambizione di diplomatici orgogliosi di suggerire una soluzione internazionale ai problemi politici del momento (risale a questo periodo l'amicizia del C. con il francesizzante Alfonso Ariosto, futuro dedicatario dei libri del Cortegiano). "Solo me rincresce ch'io dubito di non potere studiare a mio modo, che molto mi aggrava" - concludeva il C. nella lettera a due condiscepoli "humanistico studio vacantibus": e l'indicazione non potrebbe essere più precisa circa la passività del dovere apprendere, che il giovane giustifica intellettualmente, e le forme più suggestive della pratica umanistica che egli relega alle soglie della sensibilità. È verosimile che quando il C. fu costretto per la morte del padre a ricondursi in famiglia, temperasse il rammarico per una imperfetta preparazione culturale con la volontà di regolare al più presto e direttamente il proprio debito con le autorità letterarie (i piccoli formati di Aldo, di cui risulta cosparsa la sua biblioteca, testimoniano con efficacia questo rapporto non sistematico, ma provocante e vitale con i testi: donde il senso di una vicenda attuale che suscita la lettura, l'invadenza del presente come tempo necessario per una ricezione e una comunicazione significante, quindi come categoria di un'esperienza linguistica generale). Ed è anche possibile che di fronte ai problemi concreti del suo inserimento nella corte dei Gonzaga egli programmasse un'ambigua partecipazione - distaccata e "visiva" - alla realtà, assimilando le forme del comportamento cortigiano alle regole di una trascrizione.

Tali sembrano le intenzioni di una lettera indirizzata nell'ottobre del 1499 a Giacomo Boschetti in cui si descrive l'ingresso di Luigi XII a Milano (l'autore è tornato nella città degli studi per accompagnare Francesco Gonzaga che fa parte del corteo regale). In effetti, ciò che interessa il C. non è tanto la condizione della città invasa e saccheggiata dai Francesi ("il castello sforzesco che era già ricettacolo del fior fiore degli uomini del mondo - dice l'autore con un senso di superiorità - è adesso pieno di bettole e profumato di ledame") quanto lo spettacolo multiforme della parata militare ("Prima si sentì sonare le trombe, poi cominciarono a comparire fanti alemanni con un lor capitano innanzi a cavallo, ed essi a piedi con le lance in spalla secondo il lor consueto, e tutti con un vestitello verde e rosso, e così le calze: erano cento bellissimi uomini quanto dir si possa, e questa si domanda l'antiguardia"), con i cavalieri che si offrono alla curiosità femminile e, sopra tutti, la figura del re, insignito di vesti che attraggono ancora, irresistibilmente, l'attenzione dell'osservatore ("La Maestà del re aveva in dosso un manto ducale di damasco bianco e una berretta ducale foderata di varo, anch'ella di damasco bianco..."). Sappiamo d'altro canto, indipendentemente dai capitoli del Cortegiano dedicati alla moda, del fascino che esercitavano presso il C. gli abiti eleganti. Essi costituiscono il vincolo tangibile che unisce lo scrittore alla madre nei lunghi periodi in cui egli deve soggiornare lontano da casa ("Per diverse vie avvisai la M. V. del nostro essere giunti a salvamento fin a Cesena... Se la M. V. avrà la comodità, la mi farà piacere a farmi far alcune camiscie, scuffiotti d'oro, fazzoletti e tali cose, perch'io son restato nudo"). Ad Aloisa è riservato il compito di preparare il sontuoso ingresso del figlio nei campi dei tornei o nelle sale delle ambasciate; nel caso di un infortunio militare si direbbe che ella ponesse la stessa cura nell'inviare i medicamenti per una ferita e nell'allestire un nuovo abito per le future occorrenze. Dai documenti superstiti relativi a fatture di sartoria apprendiamo che il C. prediligeva mode che non richiamassero troppo esplicitamente costumanze locali (gli abiti "a la francesca" o "alla flamenga" vengono accettati con la medesima disinvoltura con cui vengono accolti nella lingua alcuni termini stranieri e viene bandita l'egemonia del toscano); fra le tonalità amava sopra tutte quelle tendenti allo scuro, tali tuttavia da far risaltare il nitore degli orli e dei revers ("Item per uno zipon de razo negro fato e la spagnola pien de bombaxo fodrato de valexio bianco"): non intendeva insomma escludere la propria persona sotto quegli indumenti funerei di cui sono addobbati tanti personaggi del Pontormo - tipico sotto questo profilo è il ritratto dell'Ardinghelli -, ma voleva che l'aspetto corrispondesse all'artificio dell'abbigliamento, che l'osservatore, di fronte alla realtà, si sorprendesse per la studiata adeguazione di segni omogenei tra l'espressione del volto, il gesto misurato, e i contorni o le nervature di una sostanza evidenziabile dal suo sfondo opaco e indistinto, simile a quello dell'anima.

Ora, accettando con Barthes che il campo, della moda attiene alla semiologia e non alla semantica (il problema è quello di "far significare l'insignificante... raggiungendo in tal modo l'essere stesso della letteratura, che è quello di dare a leggere la significazione delle cose, non il loro senso"), è chiaro che la moda è un discorso sul mondo come apparenza che presuppone per soggetto linguistico una pura attività significante. Sotto questo aspetto non è cronaca il racconto dei fatti milanesi del '99, ma è una descrizione che rintraccia e percorre gli elementi rappresentativi in quanto pure parvenze, e in questa logica riduttiva si cela l'autore, il quale può soltanto autoescludersi nell'atto di adeguare un segno di sé, il discorso, a un'esteriorità attraente e domestica ("Questa mattina io mi sono partito di casa. Le cose dello illustrissimo Signor nostro in che termine sieno non lo scrivo, perché vengono persone che meglio sono informate di me"). Tale identità del discorso con l'"homo significans" individua evidentemente l'alienazione dello scrittore, ma è anche la maschera con cui il cortigiano rinascimentale, scaltro e capace di giocare con profitto le proprie chances culturali, nasconde i connotati, che gli sono imposti, di "homo faber".

Bisognava soltanto sperare che la realtà non richiedesse dei precisi adempimenti. Senonché il debole e velleitario Francesco Gonzaga, presso il quale il C., rientrato a Mantova, assolse l'incarico di commissario marchionale, era ben lontano dal saper esigere garanzie di comportamento dai propri cortigiani. Quando, nel 1503, fu coinvolto nella sconfitta che subì l'esercito francese al Garigliano, egli si ritrasse in tempo dall'impresa per non subirne i prevedibili danni, e il C. fu tra coloro che prevennero la prudenza del Gonzaga bloccandogli i rinforzi che aspettava da Roma. Del resto, nell'autunno di quell'anno, il C. doveva essere più interessato a seguire gli avvenimenti romani che ad assecondare le ambigue sollecitazioni belliche del Gonzaga. Dopo la morte di Alessandro VI e il rapido declino delle fortune borgiane, Giulio II, eletto papa il 1° nov. 1503 dopo il regno di Pio III, non dava segni di volere per il momento incrementare il dissidio franco-spagnolo, mentre si dischiudeva la possibilità che Guidubaldo da Montefeltro rientrasse immediatamente in possesso di Urbino. Il C. aveva già conosciuto Guidubaldo nella primavera del 1503 ed era rimasto affascinato dall'indole del duca così squisitamente diversa da quella del Gonzaga; si incontrò poi con Elisabetta Gonzaga reduce da Venezia dove era vissuta in esilio dal tempo dell'invasione del Valentino. Le circostanze ora gli offrivano la facoltà di trarre l'unico vantaggio dalle forsennate scorribande per l'Italia che Francesco Gonzaga aveva preteso dal cortigiano e il C. si accordò col Montefeltro per essere ammesso al suo servizio con le funzioni, essenzialmente militari, di "primario",cioè di comandante un drappello di cinquanta uomini d'arme. Forse soltanto la mediazione di Elisabetta permise al C. di licenziarsi dalla corte mantovana. Pur concedendo il proprio assenso Francesco Gonzaga non mancò di manifestare astio e risentimento nei confronti di colui che, dopo aver demeritato nell'impresa contro Napoli, riusciva persino a sottrarsi alla sua autorità. V'era di che accelerare i tempi. E, in effetti, dal 1504 il C. risulta al servizio dei duchi di Urbino, avendo come compagno d'armi e di corte il cugino Cesare Gonzaga.

Per quanto possano sembrare allarmanti le cause che consigliarono al C. di trasferirsi a Urbino, è opportuno chiarire che esse non corrisposero al calcolo eseguito, ad esempio, dal Bembo, che nel medesimo giro d'anni si trovò a condividere col mantovano l'ospitalità dei Montefeltro. Per Bembo Urbino costituisce una sosta d'obbligo per la carriera dell'uomo e dello scrittore. Ciò è documentabile al livello delle piccole congetture private di cui è cosparso l'epistolario bembiano di questi anni. Gli amici e i parenti del patrizio veneziano ricevono da lui l'impressione che il ducato urbinate - per la sua esigua incidenza sul terreno politico, per l'ambiente internazionale che lo frequenta ma che rimane estraneo agli interessi dello Stato - costituisca una specie di laboratorio privato in cui il letterato saggia la consistenza di nuove relazioni umane, sperimenta forme di comportamento e modalità di comunicazione. V'è, insomma, alla radice dei documenti biografici del Bembo, una considerazione meramente strumentale del soggiorno urbinate. laddove per il C. esso rappresenta la sezione aurea della propria vita ("...e come nell'animo mio era recente l'odor delle virtù del duca Guido e la satisfazione che io quegli anni aveva sentito della amorevole compagnia di così eccellenti persone, come allora si ritrovarono nella corte d'Urbino, fui stimolato da quella memoria a scrivere questi libri del Cortegiano": proemio, I), una proiezione resa perenne dalla scrittura in virtù, della medesima labilità "effettuale" che consigliava al Bembo di guardare oltre.

Doveva affascinarlo quella condizione suggestivamente letteraria di nave nella tempesta in cui era sospeso il ducato tra l'aggressione del Valentino e le ambizioni di papa Della Rovere, e tale volontà di sopravvivere alla cancellazione si leggeva nello stesso volto, malato e distratto, di Guidubaldo, la cui cordialità malinconica fregiava saltuariamente le riunioni di corte; quelle sale vaste e fastose che si illuminavano discretamente per i trattenimenti mondani ospitando personaggi illustri ma occasionali, giunti a Urbino come a un porto, che tenevano discorsi fatui, anche se irripetibili quando fossero stati riassorbiti nel vortice della vita attiva; infine la delicata esistenza di Elisabetta Gonzaga, che conduceva con sussiego femminile le sorti dello Stato e le riunioni cortesi, estranea e fedele al marito, inaccessibile al resto degli uomini, e quindi oggetto di devozione platonica, cui il C. accondiscese narcisisticamente riconoscendosi nei versi dedicati a lei che rimanevano celati "dietro ad un grande e bellissimo specchio" ("...questo è certo, diran, quel chiaro foco, / ch'acceso da desio più che speranza, / nel cor del Castiglion mai non fu estinto"). Erano figure e luoghi precari, ma vittoriosamente resistenti tra il nulla e la morte, che sono i due grandi margini neri in cui si illumina lo spazio narrativo del Cortegiano. Nella trama dell'opera la sala dei ricevimenti si manifesta come uno sbalzo chiaro nella notte. Lo stesso palazzo ducale è paragonato nel libro ad una unità autosufficiente ("che non un palazzo, ma una città in forma de palazzo esser pareva"), estranea al mondo e splendida al pari di una pietra preziosa incastonata nel magma appenninico, rilevabile - come in un itinerario polifileo - attraverso le coordinate del lusso e dell'arte ("...apparamenti di camere di ricchissimi drappi d'oro, ... statue antiche di marmo e di bronzo, pitture singularissime, istrumenti musici di ogni sorte...": I, 2). La perizia narrativa del C. giunge, all'inizio del IV libro del Cortegiano, a far evadere i protagonisti dall'opera, immettendoli in una prospettiva reale, e questa fuga degli uomini nella realtà, che è un dissolvimento, una sparizione, garantisce la consistenza "eroica" dei loro dialoghi, l'orgoglio di essere personaggi. Il C. si autodeterminò come segno della società in cui viveva - una mediazione labile, ma fittiziamente "virtuosa" del mondo e della propria indole, prima che fosse inventata la nobiltà del Canossa, la dottrina del Medici, la prudenza di Ottaviano Fregoso - animando una faticosa parata militare che si tenne a Roma, al cospetto del pontefice, nell'inverno del 1505; esibendo a Enrico VII, presso cui si era recato nel 1506 in occasione del conferimento dell'Ordine della Giarrettiera al suo signore, la Epistola de vita et gestis Guidubaldi Urbini Ducis, una commemorazione che è sembrata anticipare gli intenti del Cortegiano, rappresentando il duca nel 1507 a Milano, in un'ambasceria a Luigi XII, e allestendo la messa in scena dell'egloga Tirsi (nel carnevale del 1506) in cui interpretava il personaggio di Iola, l'amante inascoltato e fedele di Galatea, insieme con Cesare Gonzaga nella parte di Dameta. Ci si rende conto del perché nell'opera scompaia la subordinazione principe-cortigiano ("...formiamo un cortegiano tale, che quel principe che sarà degno d'esser da lui servito, ancor che poco stato avesse, si possa però chiamar grandissimo signore": I, 1) se si pensa che il C. finse, durante il governo di Guidubaldo, un'autorità assente: era una condizione reale felicissima quella per cui imitatore e modello potevano identificarsi, senza alcuna riserva interiore, rappresentando la gloria militare, il fasto di corte, l'amore per la medesima donna. Ed era tuttavia una condizione legata all'imponderabilità del principe, che la morte di lui e l'invadente attività di Francesco Maria Della Rovere, successo nel 1508 al ducato, doveva irrimediabilmente, infrangere.

Il C. tenterà di scongiurare questo pericolo inserendo il nipote di Giulio II (come uno straniero, come una pausa narrativa) nella trama significante del Cortegiano, ma non v'è dubbio che il periodo corrente tra il 1508 e il '13 abbia costituito per il C. il tempo di più concreti e assillanti impegni politico-militari, svolti adesso nel segno della potenza. Fu così che nel 1509 dové seguire il Della Rovere, nominato generale dell'esercito pontificio, nell'impresa di Romagna contro Venezia: l'anno successivo era in missione diplomatica a Napoli, ove ebbe l'avventura di conoscere personalmente il Sannazaro; nel 1511 partecipò con l'esercito di Giulio II all'assedio di Mirandola e quindi alla guerra contro i Francesi che culminò con l'assedio di Bologna, conquistata dal duca d'Urbino nel 1512. Le difficoltà derivanti dalle imprese militari erano aggravate dall'atteggiamento imprevedibile di Giulio II (talché, nel marzo del 1512, a un mese di distanza dalla battaglia di Ravenna, il C. fu costretto a recarsi a Blois per perorare la causa di Francesco Maria Della Rovere presso Luigi XII), dallo sperpero dei denari ("ch'io sono leggerissimo e viver non si può senza", confessava il C. alla madre), compensato solo in parte dall'acquisto del castello di Novilara concessogli dal duca unitamente al titolo comitale, infine dalle condizioni precarie di salute, onde la città di Elisabetta e i conforti prodigati da lei con l'inseparabile compagna Emilia Pio, dovevano sembrare al C., nelle sempre più rare parentesi di quiete, la garanzia della propria incolumità fisica e psicologica.

Peraltro, la corte era ancora prodiga di attrazioni spettacolari. Il C. vi partecipava con tale impegno che in una giostra del 1511, probabilmente da lui stesso allestita, rimase ferito ad una mano. Nel 1513 mise in scena la Calandra dell'amico Bibbiena dettandone un prologo giacché quello originale, per l'assenza dell'autore, "venne molto tardi né chi l'aveva a recitare si confidava impararlo". Possediamo una lettera del C. indirizzata a Ludovico di Canossa che ci informa esaurientemente sulla perizia tecnica del C. scenografo ("Le nostre commedie sono ite bene, massime il Calandro, ilquale è stato onoratissimo d'un bello apparato... La scena era finta una contrada ultima tra il muro della terra e l'ultime case: dal palco in terra era finto naturalissimo il muro della città con due torrioni: dai capi della sala sull'uno stavano i pifferi, sull'altro i trombetti: nel mezzo era pur un altro fianco di bella foggia: la sala veniva a restare, come il fosso della terra, traversata da due muri, come sostegni d'acqua..."), sullo ideatore di cartelli e didascalie che significano abbastanza esplicitamente il decoro cavalleresco ("lettere grandi bianche nel campo azzurro ... adornavano tutta quella metà della sala e dicevano così: "Bella foris ludosque domi exercebat et ipse Caesar: magni etenim est utraque cura animi""), sulla predilezione che il C. nutriva per gli intermezzi musicali e danzati, i quali non soltanto assolvevano il compito esornativo di raccordare le parti dialogate, ma potevano ricondursi ad una unità discorsiva (e quindi intrecciare una seconda trama) allorché veniva letteraturalizzato da un personaggio recitante dei versi (l'"Amorino") il numero musicale e il gesto dei danzatori. L'espressione trionfale con cui il C. comunicava all'amico la soddisfazione per il proprio lavoro - "certo non credo che mai più si sia finto cosa così simile al vero" - potrebbe essere assunta come emblema dell'intera attività urbinate dello scrittore, o come una speranza che la finzione potesse continuare a realizzarsi in luoghi storici diversi e più ostili.

Morto Giulio II ed eletto papa Giovanni de' Medici (1513), il C., si trasferì a Roma con le mansioni di agente diplomatico del Della Rovere. Fu ospitato in casa del Canossa, allora vescovo di Tricarico, e dové per qualche tempo avere la sensazione che la corte di Leone X fosse quasi un duplicato di quella urbinate. Poteva infatti continuare a frequentare gli amici di un tempo: Giuliano de' Medici, il Bibbiena, creato cardinale e tesoriere della Chiesa, il Bembo, segretario dei Brevi, e Raffaello, la cui amicizia dischiuse al C. l'ambiente dei circoli pittorici (vi conobbe anche Michelangelo) tanto più sollecitanti e vitali di quelli letterari - cui il mantovano dedicò qualche tributo poetico - raccolti intorno ad Angelo Colocci e ad Hans Goritz. L'entusiasmo era quello, riscaldato un po' artificialmente dal fervore archeologico (da una lettera del Bembo dell'aprile 1516 sappiamo di una gita memorabile - a suo dire - compiuta alla villa Adriana di Tivoli in compagnia del Navagero, del Beazzano e del C.); d'altro canto, sul piano dei valori più propriamente letterari, insieme con alcune personalità di spicco, come il Navagero o Iacopo Sadoleto, ricevevano credito nella Roma leonina personaggi di second'ordine come il Tebaldeo, Girolamo Vida, Filippo Beroaldo iuniore con tutta una schiera di epigoni e di mestieranti, mentre nel campo delle arti figurative la maniera raffaellesca veniva gelidamente esibita da Giulio Romano (che il C. ebbe la responsabilità di introdurre nella città di Mantegna) e da Giovanni da Udine, utilizzato dai Gonzaga - ancora tramite il C. - come intenditore e mercante di "anticaglie". Non sarebbero stati comunque questi limiti culturali a far ricredere il C. sulla realtà romana, ma un'azione irrazionale e sconcertante: il colpo di mano compiuto da Leone X contro Urbino (1516), dopo il convegno di Bologna con Francesco I, che avrebbe portato alla destituzione del Della Rovere e all'insediamento di Lorenzo de' Medici. Il C. ne rimase esterrefatto e giudicò perduta la causa del Della Rovere (se ne ricorderà Francesco Maria nel '22, quando, riconquistato il ducato, priverà il C. del feudo pesarese); entrò in crisi la sua fiducia nella famiglia dei Medici, si radicalizzò in lui il sentimento antifrancese, maturato sin dal tempo del suo primo soggiorno a Milano, e non è un caso che proprio in questo periodo di impatto con la realtà prendesse forma il sogno esorcizzante del Cortegiano.

A questa pausa nella carriera diplomatica del C., al desiderio di dare un corso nuovo alla propria vita, è forse riferibile anche il matrimonio, celebrato solennemente a Mantova nel 1516, con Ippolita Torelli, che gli dette tre figli, Camillo, Anna e Ippolita ("Disce puer virtutem ex me verumque laborem. Fortunam ex aliis",scriveva il padre al primogenito, affidando alla lingua degli emblemi un lascito sconfortante ma virtuoso rispetto ai precetti consegnati dal Bembo a Torquato). E anche il rapporto con la compagna, brevissimo e interrotto dalle frequenti assenze del C., fu giocato da lontano con un senso molto vivo dell'autocompiacimento, come appare nell'Elegia qua fingit Hippolyten suam ad se ipsum scribentem, e più da questa lettera, spedita da Roma nel '18, ove la magia dell'incontro viene provocata (e scongiurata) tramite l'imprevedibile reperimento di un oggetto, il regalo, che fa significare un insignificante stato affettivo: "...Voi mi amate. Sarebbe buono ch'io volessi che Voi ancora vi faceste dire al Papa quanto, io amo Voi: che certo tutta Roma lo sa di sorte c'ognuno mi dice ch'io sto disperato e di mala voglia perché non sono con Voi. Ed io non glielo nego: ma vorrebbero ch'io mandassi a Mantova a torvi e condurvi qui a Roma. Pensate Voi se ci volete venire ed avvisatemelo. Avvisatemi senza burla se volete ch'io Vi porti qualche cosa che Vi piaccia che non resterò già io di portarlavi: ma arei a caro di sapere quello che vi piace, perch'io sarò lì una mattina che non ve ne accorgerete e troverovvi in letto e Voi mi vorrete poi dare ad intendere che la notte vi sarete sognata di me, ma non sarà vero niente...".

Appena sposato il C. si era recato con Ippolita a Venezia per aderire all'invito di un piacevole soggiorno che il doge L. Loredan aveva rivolto al signore di Mantova e ad alcuni membri della sua corte. Era un riavvicinarsi ai Gonzaga - senza dimenticare le vicissitudini di Elisabetta, che era in quei giorni ospite clandestina di Isabella d'Este - nel momento in cui il giovane Federico assumeva la direzione dello Stato succedendo a Francesco, che morirà nel 1519. Il periodo in cui il C. svolge l'ufficio di ambasciatore a Roma dei Gonzaga è quello della sua più assidua, se non perspicua, attività diplomatica, mentre si precisano i lineamenti dell'opera (nel 1518, dopo due anni di più intenso lavoro, il Cortegiano poté essere dato in visione al Bembo e al Sadoleto) e la collaborazione con Raffaello, delegato da Leone X alla sovrintendenza delle antichità romane, si concreta con la famosa relazione sullo stato dei monumenti classici. Né è da sottovalutare il senso di sicurezza che invade lo scrittore nel ritrovato rapporto con la città natale, quel sentimento tenace delle relazioni cortesi che si manifesta nel gioco poetico dei "Motti",un genere di intrattenimento che il C. coltivò al pari del Bembo, ma che a lui sembra congeniale come indizio di una poesia volta all'esteriorità dell'omaggio e del plauso.

Quando Ippolita morì, nel 1520, il C. provvide alla sua futura carriera abbracciando lo stato ecclesiastico che gli venne offerto da Leone X (1521). In una lettera del luglio Aloisa appare al tempo stesso come la più segreta confidente delle ambizioni nutrite dal C. ("...io mi ho elletto el star qui in Roma ... atteso ancor che questa stantia molto mi piace, et holli de li amici assai grandi e qualche introductione con questo principe che a qualche tempo potrebbe giovare a me et ad altri") nonché l'esecutrice degli "officii per la bona anima della mia poverina" ("...del modo me rimetto a lei: che siano onorevoli e non passino ancor el termine, acciò che non paia a quelli di là che noi vogliamo esser troppo gran maestri"). E, intanto, il C. esultava per aver ottenuto la nomina di Federico Gonzaga a capitano generale della Chiesa con un senso di partecipazione così vivo che lascia scoprire il progetto, tutto personale, di apparire come uomo indispensabile alla Curia tramite il servizio prestato al Gonzaga: "Io son tanto satisfatto e contento che, se a N. S. Dio piacesse de tormi la vita, credo che non mi doleria la milesima parte di quello che sarebbe doluto prima ch'io mi trovassi aver fatto questo servizio a V. E.".

Più cautamente, di fronte alla realtà della situazione romana, il C. commentò il medesimo avvenimento affermando che "tutta questa città ha fatto dimostrazione di haverne grandissima contentezza e prelati e cardinali, Ursini e Colonna, e d'ogni sorta huomini". Al Gonzaga comunicò le esequie di Leone X con un disincanto polemico verso i fasti medicei ("...oggi sono otto giorni che ritornò dalla Magliana con tanta allegrezza che, diceva S. S., quanta fu quella quando fu eletto Papa, e venergli incontro tutto il mondo a congratularsi e li fanciulli con rami d'oliva in mano; hoggi sarà una altra pompa molto diversa da quella: così fa la fortuna de questi tratti quando gli piace") e rappresentò per contrasto "la meschinità... che si vede in questo collegio e "Oltra lidebiti grandi lassati da Papa Leone s.ae mem. - scriveva a Federico nel dicembre del '21 - sono dopo la morte sua impegnate tutte le gioie, tutti li panni di arazzo, dico quelli bellissimi, e mitre e regni e paci e argenti della credenza e si è dovuto far queste exequie tanto povere che non so qual cosa al mondo sia povera e pagar li fanti della guardia e far le stanze del conclave".

Egli seguì in seguito le vicende che avrebbero portato all'elezione di Adriano VI informando il marchese sulle intimidazioni esercitate dal Lautrec in seno al conclave, sugli accordi tra Giulio de' Medici e il cardinale Sigismondo Gonzaga ("Io ho operato che Medici ha dato la fede a Mantua, che non potendo esser lui, aiuterà Mantua"; ma era un'illusione quella d'avere il papa in famiglia, immediatamente svanita per l'appoggio offerto dal Medici al vescovo di Tortosa: "che può fare un granchio alle balene? pur in magnis voluisse sat est") ed espresse infine un giudizio favorevole sul vecchio precettore di Carlo V, quale rappresentante di quella tendenza ecumenica e riformistica che sembra nutrire da questo momento anche l'ideologia politica del C.: "Qui se hanno lettere da diversi che sono con S. S.tà Italiani li quali confirmano la bontà et il valor suo et il desiderio de la pace universale e de la reformazione della chiesa; confirmano ancor che S. S.tà ha deliberato e stabilito de non volere dare né officii né benefici se non à persone che meritino; dicono che ogni mattina celebra la messa devotissimamente e molte altre cose fa; tra l'altre tutta Spagna gli è intorno..." (26 marzo 1522).

È anche vero, però, che simili giudizi contenevano la possibilità di una privata ritrattazione (alla madre, nel settembre del 1522, il C. scriveva: "Dolmi che questo papa non ha voluto lassarme a Belvedere: io comincio a sentire la differenza di papa Leone"), per cui - tra la fine del '22 e l'inizio dell'anno seguente - il C. preferì lasciare Roma alla peste e all'austerità di papa Adriano per seguire le operazioni militari che il Gonzaga stava conducendo, tra Cremona e Pavia, contro i Francesi. La corrispondenza di questo periodo con la madre è quasi interamente incentrata sulla richiesta di indumenti la cui funzionalità per l'occorrenza della guerra è superata dal gusto per l'eleganza. Una volta il C. è colpito dalla foggia di un mantelletto impermeabile in uso presso gli ufficiali spagnoli e ne fa una minuziosa descrizione ad Aloisa allo scopo di riceverne un esemplare; le proposte poi diventano così assillanti da sembrare che il mittentetemesse la fine della guerra prima di aver allestito uno spettacolo sufficiente di sé ("Però vorrei che V. S. mi mandasse quella mia vesta di damasco negro fodrata de màrtiri, e questo vorrei che fosse subito subito. Il modo di mandarlo saria questo: che V. S. subito facesse trovare una valise non molto grande..."). Rispetto a siffatti diversivi dovette apparire sempre più insopportabile la morigeratezza della corte adrianea, onde il C. si volse con rinnovate speranze verso il neoeletto pontefice Clemente VII, la cui "diligenza","ordine" e "gravità di costumi" costituivano del resto anche agli occhi del Guicciardini delle plausibili garanzie contro le intemperanze del predecessore mediceo. Nell'estate del '24, quando la pressione francese in Lombardia sbigottiva a tal punto il papa da inclinarlo verso un'intesa con l'imperatore, il C. accettò di condividerne la politica quale nunzio in Spagna. Era la grande occasione attesa dal C. per svincolarsi dagli obblighi col Gonzaga ed inserirsi nel gioco diplomatico che si svolgeva tra le maggiori potenze europee sul fondamento ideologico della pacificazione universale e della crociata. Oltre a ciò la nunziatura offriva la possibilità di rimettere in sesto una situazione finanziaria aggravatasi con gli anni e che ora metteva a repentaglio addirittura i possedimenti di Casatico, mentre il C. a Roma continuava a contrarre debiti con la banca dei Sauli. Il 19 luglio 1524 Clemente VII comunicò al C. il suo progetto di inviarlo a Carlo V; il giorno seguente fu redatto il breve papale e il C. indirizzò una lettera a Federico Gonzaga per chiedere licenza di assumere il nuovo incarico; nel settembre furono redatte le credenziali e il 7 ott. 1524 il C. partì da Roma per quella che doveva essere l'ultima e più disagevole missione della sua vita.

A questo punto della congiuntura internazionale - Francesco I a Milano, gli Spagnoli che invadono dalla Provenza l'Italia padana - il giudizio espresso dal Guicciardini nella Storia d'Italia individua, l'unica possibilità per il pontefice di mantenere la pace nella salvaguardia annata della concordia ("trattandola in modo che ciascuna delle parti avesse causa di dubitare che egli pigliasse l'arme in favore di coloro che fussino manco alieni dalla concordia"). Una volta saltata - per la "cupidità di non spendere",cioè di non far pagare anche a Firenze le spese della politica romana - la mossa preventiva di "armarsi potentemente e spignere le genti a Parma e Piacenza",sarebbe venuta a mancare, secondo Guicciardini, ogni "sicurtà per tutti i casi che potessino succedere". E questi avvenimenti ormai incontrollabili da parte del papa furono la vittoria spagnola a Pavia, l'ambiguo trattato di Madrid e il disperato revanchismo di Francesco I cui finì con l'aderire Clemente VII con la lega di Cognac.

Mentre la politica romana precipita sul versante antispagnolo, il C. in Spagna si trova nell'ambigua situazione di rappresentare una potenza sempre più aliena al proprio sentimento politico presso un principe che è oggetto di stima, ma dal quale il nunzio deve essere immancabilmente ingannato, seppure era inganno e non autoinganno, mistificazione ideologica in cui credeva Carlo non meno del C., il professarsi fedele alla Chiesa mentre esortava l'"exaltado" Ugo de Moncada a suscitare i Colonna contro il papa, richiamarsi all'autorità del concilio nel momento in cui consultava un collegio di canonisti per stabilire la liceità di una eventuale scomunica, scatenare la guerra contro colui che revocava l'unità delle forze cattoliche dalla lotta contro gli eretici e gli infedeli e contemporaneamente riaffermare in un documento politico di impronta erasmiana (Pro divo Carolo... apologetici libri duo nuper ex Hispania allati, redatti da Alfonso de Valdés) la fede nella pace universale. Quando questo documento fu consegnato al C. (18 sett. 1526), il nunzio ne fu atterrito e tentò di scongiurare la minaccia presentando all'imperatore un breve pontificio notevolmente più blando di quello, datato 23 giugno, che aveva determinato la reazione di Carlo. Ma oramai la logica della punizione era inarrestabile e tanto più facilmente cadde su Roma il castigo, non di Carlo ma di Dio, in quanto Clemente VII, isolato dalla defezione degli alleati, preferì licenziare le truppe contrastando i mercenari del Borbone con la consueta strategia della difesa disarmata.

Dopo il "sacco" cominciarono da parte della Curia le accuse, non del tutto immotivate, al C., il quale, se non fu responsabile - ovviamente - del disastro, certo non si era rivelato il diplomatico più adatto a giudicare sull'operato dell'imperatore, affascinato come fu dalla personalità di Carlo ("...se alcuno è che abbia pensato quello che non si doveva pensare di me, rimetto a Dio il castigo del mio fallo - si legge in una lettera alla Schönberg del 1° febbr. 1527 - né per questo mi muterò d'opinioni, né crederò che l'Imperatore non sia buon principe e volto al bene"), nonché dalle forme di quella corte spagnola che appariva ai suoi occhi come la manifestazione di una superstite affabilità cavalleresca: "...dicono mal di me - confessava al legato pontificio Salviati il 16 febbraio - ed affermano ch'io sono imperiale, della qual cosa, che causa abbiano io non lo so, senonché sospettano, perché veggono che l'Imperatore, e quant'altri Signori tutti mi fanno carezze e io non le ho mai fuggite, parendomi che, se l'Imperatore mi crede, possa a qualche tempo essere servizio del Papa". Con questo il C. si discolpò ufficialmente il 10 dic. 1527 - sottolineando la propria assiduità, nonostante le scarse informazioni che gli sarebbero pervenute da Roma nei momenti cruciali dell'attività diplomatica - e fu riabilitato, tanto che dopo la morte, avvenuta a Toledo l'8 febbr. 1529, Aloisa poté raccomandare i figli del C. al papa, il quale promise di averne cura in memoria dei servigi prestati dal nunzio in Spagna.

Gli ultimi anni furono dedicati dal C. alla stampa del Cortegiano, che fu edito a Venezia nel 1528 per interessamento del Ramusio e del Bembo (quando già proliferavano le copie manoscritte: si veda la lettera del C. a Vittoria Colonna del marzo 1525), e alla polemica col Valdés, autore del Dialogo de las cosas occurridas en Roma (1527) su cui fu sollecitato provocatoriamente ad esprimersi il nunzio pontificio proprio mentre questi, nel tentativo di riavvicinarsi a Clemente VII, stava prendendo le dovute distanze da quell'erasmismo ecumenico-conciliare che celebrava, post eventum, ilproprio trionfo nello scritto valdesiano. C'era di che escogitare la Controriforma cui si voterà il successore di papa Medici e, seppure con molti pentimenti, Carlo V; ma i doni dell'invenzione erano ormai preclusi al letterato, il quale nella Risposta alla Lettera del Valdés si limitò a fronteggiare l'avversario sul piano degli exempla scritturali e a ritorcere contro di lui, voce aberrante del potere, il fuoco del castigo divino. "Voi adunque avete ardire d'alzar gli occhi? avete ardire di mostrarvi al cospetto degli omini? e non temete che Dio mandi il fuoco dal cielo, che v'arda? e non temete che i più oscuri spiriti che abitano il profondo dell'abisso debbano levarvi dal mondo? Preparatevi pure, perché la giustizia divina non lascia impuniti così abominabili peccati, e crediate che questi vostri malefici occhi vi hanno da essere cavati dalla testa dai corvi prima che veggano quel tanto male che voi desiderate, e la nefanda lingua, che adoperate per istromento di accendere fuoco nel mondo, prima sarà lacerata dai cani, che mai possa indurre l'Imperatore a far cosa che non sia servizio di Dio".

Forse per nessuno scrittore come per il C. è valida la definizione di "auctor unius libri": unico e isolato nell'esperienza del C., essenzialmente un libro giovanile, quando poteva verosimilmente razionalizzarsi quel desiderio di magnanimità che gli riconosceva Carlo V (si tramanda che commentasse così la sua morte: "Yo vos digo que es. muerto uno de los majores caballeros del mundo" (Cian, Un illustre nunzio ... ): e il motto, anche se non autentico, avrebbe fregiato la tomba mantovana del C. più degnamente che non il freddo epitaffio che gli dedicò il Bembo).

Il tentativo di dar forma a una sostanza indistinta, e quindi sfuggente al possesso qualora non venga sapientemente illuminata, si rivela già dal carattere "notturno" dell'opera. Si tratta, infatti, di un dialogo che si svolge in quattro notti con l'intervento di due principali interlocutori per tornata. Queste coppie rappresentano a loro volta ruoli diversi di interdipendenza. Nel I libro Cesare Gonzaga è poco più che un coadiutore di Ludovico di Canossa che svolge il tema della nobiltà del cortigiano affrontando anche il problema della lingua che maggiormente conviene al suo rango e alle sue funzioni; nel II le facezie del Bibbiena costituiscono una manifestazione comica delle modalità descritte da Federico Fregoso con cui il cortigiano estrinseca le proprie doti; nel III assistiamo ad una discussione autentica (sulla donna di palazzo) tra il cortese Giuliano de' Medici e l'antifemminista Gaspare Pallavicino; nel IV la dottrina dell'amore platonico professata dal Bembo appare come la sublimazione di quei rapporti che Ottaviano Fregoso istituzionalizza tra il cortigiano e la società, il cortigiano e il principe.

La percorribilità di una struttura siffatta è aperta a diverse direzioni. Stando alla successione che ci presenta l'opera si direbbe che l'ordine si stabilisca da una idealità della natura (la nobiltà) a un idealismo culturale di origine neoplatonica, attraverso il comportamento sociale e l'amore cortese. Ma non si può escludere la possibilità di altre combinazioni. I libri centrali, ad esempio, contemplano la facoltà di una posizione alternativa (serio-comica nel II, interlocutoria nel III) che viene risolta unitariamente in quelli marginali; inoltre, mentre i libri II-IV determinano il passaggio dall'umile al sublime, i libri I-III individuano la costituzione della forma dialogica dalle rovine della monologia. Le quattro notti del Cortegiano costituiscono in definitiva una matrice discorsiva che l'alba del quinto giorno, così espressamente naturalistica, infrange cercando in qualche modo di imprimere in un ordine reale ("Aperte adunque le finestre da quella banda del palazzo che riguarda l'alta cima del monte di Catri, videro esser già nata in oriente una bella aurora di color di rose e tutte le stelle sparite, fuor che la dolce governatrice del ciel di Venere, che della notte e del giorno tiene i confini"); i personaggi dell'opera non dicono (qualcosa al lettore), ma si dicono, sperimentando richiami e valenze che vengono saldati dagli interlocutori minori (Morello da Ortona, l'Unico aretino, il Frigio) e governati dalla onnipresenza raziocinante di Elisabetta Gonzaga. In altti termini essi compongono uno scenario di corrispondenze reciprocamente attuate. Difatti soltanto in un campo di manifestazioni simultanee è possibile "discorrere" tra percorsi significanti non alternativi quanto alla scelta e alla direzione, mentre sul piano intellettuale l'opzione, in ogni caso facoltativa, che si fa per avere ragione dell'insieme, non può che definirsi come ulteriormente integrabile.

Il sincretismo platonico-aristotelico del Rinascimento favorì il C. nel tracciare alcune discriminazioni di rilievo. In un passo decisivo del Cortegiano (I, 13)si legge: "Però si ritrovano molti, ai quali sarà grato un omo che parli assai, e quello chiameranno piacevole; alcuni si diletteranno più della modestia; alcun'altri d'un omo attivo ed inquieto; altri di chi di ogni cosa mostri riposo e considerazione; e così ciascuno lauda e vitupera secondo il parer suo sempre coprendo il vicio col nome della propinqua virtù, o la virtù col nome del propinquo vicio; come chiamando un prosuntuoso, libero; un modesto, àrrido; un nescio, bono; un scelerato, prudente... Pur io estimo in ogni cosa esser la sua perfezione, avvenga che nascosta; e questa potersi con ragionevoli discorsi giudicar da chi di quella tal cosa ha notizia". Per cui, mentre per un verso si chiude il circuito di una opposizione sostanziale, dall'altro, e all'interno di una mediazione linguistica, si assegna a una maieutica discorsiva la facoltà di distinguere l'essenza delle cose, correttamente subordinata alla "competenza" del parlante e quindi alla possibilità di far significare l'indistinto. "Chi non sa che al mondo non saria la giustizia, se non fossero le ingiurie? la magnanimità, se non fossero li pusillamini? la continenza, se non fosse la incontinenza? la sanità, se non fosse la infirmità? la verità, se non fosse la bugia?",si domanda lo scrittore in altro luogo (II, 2), onde egli può interpretare la virtù come una possibilità epifanica, un'etichetta, che la pratica pedagogica riesce a provocare nella stessa misura in cui l'ammaestramento dell'arte suscita la produzione del significante. Sin qui non si esce da una retta teoria della significazione che trova, del resto, una precisa verifica nel nesso letteratura-moda stabilito dal Castiglione. Il problema tuttavia si complica allorché la dimensione semantica cui partecipano le parole ("il divider le sentenzie dalle parole è un divider l'anima dal corpo": I, 33) sembra rinviare alla struttura semantica dell'insieme, cioè al Cortegiano come letteratura di informazione o di ammaestramento civile - e non risulta che nessuna tra le più accreditate interpretazioni dell'opera abbia del tutto abbandonato una simile prospettiva. In effetti, se si considera attentamente il capitolo I, 33del Cortegiano, si ha la conferma del carattere semiologico dell'insieme in quanto, proprio sul piano dell'esecuzione e dell'interpretazione sintattica, l'enunciato abdica al senso a vantaggio di un'epifania logico-retorica: "Quello adunque che principalmente importa ed è necessario al cortegiano per parlare e scriver bene, estimo io che sia il sapere; perché chi non sa e nell'animo non ha cosa che meriti esser intesa, non po né dirla né scriverla. Appresso bisogna dispor con bell'ordine quello che si ha a dire o scrivere; poi esprimerlo ben con le parole: le quali, s'io non m'inganno, debbono esser proprie, elette, splendide e ben composte, ma sopra tutto usate ancor dal populo; perché quelle medesime fanno la grandezza e pompa dell'orazione, se colui che parla ha bon giudizio e diligenzia e sa pigliar le più significative di ciò che vol dire, ed inalzarle, e come cera formandole ad arbitrio suo collocarle in tal parte e con tal ordine, che al primo aspetto mostrino e faccian conoscere la dignità e splendor suo, come tavole di pittura poste al suo bono e natural lume". Si direbbe che la distinzione tra mente e comportamento si trasformi nell'identità tra lo "splendore" del personaggio e l'aspetto convenientemente architettonico del discorso ("la grandezza e pompa dell'orazione"). Ciò è anche valido per determinare la misura largamente topica in cui si manifesta l'atteggiamento ideologico dello scrittore soprattutto nell'ultima parte dell'opera ove, nonostante le dichiarazioni iniziali (I, 25), l'"insegnamento" sembra prevalere sulla "dimostrazione".

Nell'ultima parte del passo citato è molto importante il riferimento alla pittura. Peraltro tale riferimento è quasi sempre esplicito in quei passi in cui l'autore si imbatte in questioni di natura linguistica; a parte il fatto che l'opera nel suo complesso viene paragonata a un quadro nel proemio dedicato al De Silva: "... mandovi questo libro come un ritratto di pittura della corte d'Urbino, non di mano di Raffaello o Michel Angelo, ma di pittor ignobile e che solamente sappia tirare le linee principali, senza adornar la verità de vaghi colori o far parer per arte di prospettiva quello che non è". L'indicazione è più interessante di quanto non abbia potuto cogliere la critica sulla base di generiche affinità artistiche tra il C. e il mondo dei maggiori pittori contemporanei, ovvero sul realismo implicito nella concezione classica della mimesi ("ut pictura poësis"). Si può tranquillamente estendere il campo di indagine constatando come nel C. la disponibilità verso il reale sia sempre molto ampia, sì da consentirgli di collocare l'opera nell'ambito di una prospettiva pratica (nel proemio il fine del Cortegiano, o meglio, "la forma di cortegiania", letteralmente universale, tende a stabilire i lineamenti di un individuo) e di rovesciare il rapporto umanistico tra letteratura e vita: non è infatti la scrittura a perpetuare la vita, bensì questa rende famosa la scrittura (III, 1). Ma con ciò si incorreva nella vecchia condanna platonica del linguaggio e dell'arte, che il C. era fermamente intenzionato a rimuovere. Viene anzi da supporre che un tentativo siffatto rappresenti la connotazione più profonda dell'opera.

In primo luogo, la realtà che interessa il cortigiano è quella che si definisce, o si disegna, come una linea discriminante tra attitudini contrarie sebbene riducibili alla coerenza della manifestazione comportamentale: "...il tenor della vita sua ordini con tal disposizione, che 'l tutto corrisponda a queste parti, e si vegga il medesimo esser sempre ed in ogni cosa tal che non discordi da se stesso, ma faccia un corpo solo di tutte queste bone condizioni" - afferma lo scrittore nel capitolo II, 7 - e continua: "Però bisogna che sappia valersene, e per lo paragone e quasi contrarietà dell'una talor far che l'altra sia più chiaramente conosciuta, come i boni pittori, i quali con l'ombra fanno apparire e mostrano i lumi de' rilievi, e così col lume profundano l'ombre dei piani e compagnano i colori diversi insieme di modo, che per quella diversità l'uno e l'altro meglio si dimostra, e 'l posar delle figure contrario l'una all'altra le aiuta a far quell'officio che è intenzion del pittore". Qui chiaramente l'immagine che l'uomo si dà come concreta mediazione di sé rispetto all'ambiente circostante, ubbidisce a una pura logica compositiva. Altrove, soprattutto nei capitoli del II libro dedicati ai giochi verbali del Bibbiena il cortigiano è colui che dispone del segno come di una facoltà polisemica, sì che il senso continuamente rinviato potrebbe corrispondere all'ambiguità di una effigie pittorica. Sino a che la "virtù" non si identifica col centro di una figura geometrica (IV, 40) che costituisce altresì il fine dell'attività significante per eccellenza, quella della scrittura, nel paragone tra l'arciere che tenta di colpire il bersaglio e l'opera che si approssima alla perfezione della vita cortigiana, cioè alla sua forma (proemio, III). Ma il C. va oltre questo riconoscimento incondizionato del significante non esitando a investire l'arte della pittura di ragioni cosmiche quando afferma (I, 49): "E veramente chi non estima questa arte parmi che sia dalla ragione alieno; ché la macchina del mondo, che noi veggiamo coll'ampio cielo di chiare stelle tanto splendido e nel mezzo la terra dai mari cinta, di monti, valli e fiumi variata e di sì diversi alberi e vaghi fiori e d'erbe ornata, dir si po che una nobile e gran pittura sia, per man della natura e di Dio composta; la qual chi può imitare parmi esser di gran laude degno". Il passo non è stato considerato con interesse dai commentatori forse per la sua non spiccata originalità rispetto alle fonti classiche e umanistiche. Tuttavia nel contesto del Cortegiano esso si rivela come un passaggio chiarificatore. Ciò che il C. ribadisce rispetto alla cultura umanistica è la leggibilità teologica dell'universo. Senonché l'autore non formula a questo riguardo alcun criterio di conoscenza e si deve quindi ritenere che la mediazione umana capace di rappresentare una struttura significante, l'insieme artistico, da un'altra struttura significante, il sistema della natura, sia una facoltà omologa tanto al modello quanto al prodotto. Ora questa nuova struttura significante è quella che si dà l'individuo quando esce da sé per inserirsi nella sfera dei rapporti sociali e quella che richiede lo scrittore dell'opera intesa come possibilità dichiarativa indipendente da ogni contenuto. Al centro del discorso e del comportamento del Cortegiano c'è il problema di trascendere qualsiasi referente concreto, nella misura in cui la struttura significante si rende autonoma sul piano della coerenza esteriore e per quanto una congettura modale sull'esistenza riesce a immunizzarsi dalla corruzione della storia, rifiutando ogni tempo diverso da quello dell'atto della significazione. L'elogio del presente che il C. fa nel proemio del II libro è retorico poiché sorge dall'abisso di una vanificazione, dall'autoesclusione che l'individuo opera uscendo da sé per manifestarsi nell'istituto del linguaggio. Perciò l'atto espressivo si identifica con la virtù dell'autore e questa - fino al Montaigne e a La Rochefoucauld - viene commisurata a un'etica del comportamento civile.

Il dissidio che comunque si apre è quello tra struttura significante e segno. Sotto questo aspetto forse è opportuno proporre, anziché gli esempi esterni che vengono di solito usufruiti per il C. (del Machiavelli, ad esempio, o di Guicciardini), un'esperienza contraria - e quindi in qualche modo intrinseca - quanto al concetto del cortigiano: l'esperienza di Francesco Berni, che servirà anche per limitare la dimensione estetica dell'opera. Per Berni la struttura significante del mondo si interiorizza e si demistifica al punto della mediazione rappresentativa dell'uomo. Il segno che questo dà di sé per manifestarsi in una data realtà rivela una natura insufficiente (una natura "da poco" o "malata" si legge nella prima lettera superstite dello scrittore), per cui il contributo significante dell'individuo è una finzione e viene perseguito come un inganno da parte di chi giudica il cortigiano. Tuttavia, mentre sul piano del comportamento, dell'altrui imitazione, l'uomo si squalifica e persino la sua parola-segno contribuisce al proprio discredito, d'altro canto il linguaggio dello scrittore crea e corrompe universalmente, nella misura in cui non può razionalizzare la propria natura. Per quanto questa si avvolga in una spirale distruttiva e lo scrittore attualizzi la dissoluzione futura, tanto il linguaggio incide su istituti e ideologie ponendosi esso stesso come una sgrammaticalizzazione della struttura significante. La poesia, dunque, affiora "mentre scompare" l'individuo al quale lo scrittore non presta il mezzo dell'integrazione sociale, della razionalità. Nel Cortegiano l'autore è presente innanzi tutto come facoltà razionale che sollecita la manifestazione di un desiderio. Rimovendo alcune obiezioni che gli erano state rivolte dai lettori del manoscritto, il C. afferma nel proemio: "Alcuni ancor dicono ch'io ho creduto formar me stesso, persuadendomi che le condizioni, ch'io al cortegiano attribuisco, tutte siano in me ... ma io non son tanto privo di giudicio in conoscere me stesso, che mi presuma saper tutto quello che so desiderare". A questo punto però l'uomo "è già scomparso" e lo scenario che si compone entro il reticolo del discorso svaluta a nulla tutto ciò che non può essere significante. La dottrina si identifica con l'eloquenza e questa è, nella scrittura-dipinto, un atteggiamento, un'esibizione che è possibile correggere gestualmente ("Avendo il Bembo insin qui parlato con tanta veemenza, che quasi pareva astratto e fuor di sé, stavasi cheto e immobile, tenendo gli occhi verso il cielo, come stupido; quando la signora Emilia, la quale insieme con gli altri era stata sempre attentissima ascoltando il ragionamento, lo prese per la falda della robba e scuotendolo un poco disse: - Guardate, messer Pietro, che con questi pensieri a voi ancora non si separi l'anima dal corpo": IV, 71). La forma del Cortegiano è il cortigiano nella forma più problematica, ma anche esteriore. Èuna pura raffigurazione gestuale che rivendica la naturalezza (la "sprezzatura") come un'arte che nasconde l'arte, cioè come un gioco sociale che rimette continuamente in discussione il problema del senso. Se è lecito, sotto un certo riguardo, accettare per il Cortegiano ilconcetto di letteratura del comportamento, ciò si rende possibile solo a patto di non privilegiare né l'uno né l'altro termine dell'espressione. In effetti è abbastanza accentuata la distanza tra il libro del C. e l'ingombrante trattatistica quattrocentesca sul vivere civile, che pure dové costituire il precedente culturale più agibile per il Cortegiano, e viceversa, scorgervi i lineamenti di una letteratura come comportamento, significa avvicinarsi con sufficiente approssimazione alla misura dell'opera (nonché alla sua retorica, pregiudizievole ed evasiva nei confronti della realtà come lo spettacolo dell'eleganza che offre il dandy).

È necessario sottolineare che il carattere pertinente a tale forma di esibizione è la più completa autosufficienza, per cui, se è perfettibile, lo è sempre dall'interno della struttura significante (e al di fuori del mondo) mediante la variazione o la diversa praticabilità di quei rapporti che devono comunque dare una risultante logica. Ne deriva una visione (in senso concreto) delle cose che nel Rinascimento è sempre esclusiva e autoritaria e non ha quindi nulla in comune con il discorso della poesia, la cui proprietà è l'impossibilità del possesso, è il riferimento alla natura come scacco, alterità, subordinazione sociale.

Del resto, se una simile contrapposizione appare evidente dal confronto col cortigiano Berni, lo stesso C. tendeva ad aprire per la propria scrittura una strada diversa rispetto alla pratica artistica dell'umanesimo quando affermava, nel cap. 26 del I libro: "Chi adunque vorrà esser bon discipulo, oltre al far le cose bene, sempre ha da metter ogni diligenzia per assimigliarsi al maestro e, se possibil fosse, transformarsi in lui. E quando già si sente aver fatto profitto, giova molto veder diversi omini di tal professione e, governandosi con quel bon giudicio che sempre gli ha da esser guida, andar scegliendo or da un or da un altro varie cose. E come la pecchia ne' verdi prati sempre tra l'erba va carpendo i fiori, così il nostro cortegiano averà da robare questa grazia da que' che a lui parerà che la tenghino e da ciascun quella parte che più sarà laudevole...". La riflessione del C. verte ovviamente sullo scrittore, che la più autorevole tradizione umanistica (quella, ad esempio, rappresentata dal Poliziano) voleva impegnato nella scelta di materiali significanti da opere del passato, in vista di una nuova significazione; ma non v'è dubbio che il passo rivendica una sua originalità per la commistione che l'autore stabilisce tra lo scrittore e il cortigiano e tra il cortigiano e la propria persona. Ora, la trasformazione che il C. auspica tra il discepolo e il modello non è mai realizzabile di fatto, ma è possibile come procedimento, come tentativo di sembrare il modello, e ciò implica una sorta di gioco delle apparenze infinitamente iterata in una società che in fondo bandisce il rispecchiamento della realtà per una tecnica del rispecchiamento. Veniamo così in possesso di un nuovo principio in base al quale la struttura del comportamento si autodefinisce e si impone nel tempo: quello dell'iterazione, cui corrisponde in sede letteraria un concetto dell'opera come trattenimento.

Forse le pagine più suggestive del Cortegiano sono quelle - dedotte dal ciceroniano De Oratore e valide sino al Molière e allo Shakespeare, poniamo, di Much Ado about Nothing - incui lo scrittore traccia una rapida estetica del comico, legittimando l'inganno che proviene dalla sospensione e quindi dal capovolgimento del senso ("Di questa sorte di motti adunque assai si ride, perché portan seco risposte contrarie a quello che l'omo aspetta d'udire, e naturalmente dilettaci in tai cose il nostro errore medesimo; dal quale quando ci trovamo ingannati di quello che aspettiamo, ridemo": II, 64), determinando una zona edonistica per il controsenso che è abbastanza vicina al piacere estetico ("Tutto quello adunque che move il riso esilara l'animo e dà piacere, né lascia che in quel punto l'omo si ricordi delle noiose molestie, delle quali la vita nostra è piena": II, 45), Saremmo tuttavia tentati di valutare questa sezione dell'opera come una fenomenologia dell'humour avente per protagonista il conversatore e per teatro una sala di ritrovi mondani. Invece il gioco dell'arte si esaurisce in un campo limitato dalla realtà che è l'organismo dell'opera, su cui si esercita il giudizio: fuori di questa centralità esaustiva il procedimento rettilineo del discorrere in conversazione determina il senso dello svago, del passatempo.

Peraltro, siffatte attitudini mondane rientrano nel mondo della moda condizionando soprattutto il colore delle vesti: "Piacemi ancor sempre che tendano un poco più al grave e riposato, che al vano; però parmi che maggior grazia abbia nei vestimenti il color nero, che alcun altro; e se pur non è nero, che almeno tenda al scuro; e questo intendo del vestir ordinario, perché non è dubbio che sopra l'arme più si convengan colori aperti ed allegri, ed ancor gli abiti festivi, trinzati, pomposi e superbi. Medesimamente nei spettaculi pubblici di feste, di giochi, di mascare e di tai cose; perché così divisati portan seco una certa vivezza ed alacrità, che in vero ben s'accompagna con l'arme e giochi..." (II, 27). Non è ovviamente un caso che nel libro-pittura abbia un colore anche la morte, come l'abito quotidiano, come il pensiero, "perciò che, alla fine, e noi ed ogni nostra cosa è mortale". Mentre l'eccezionalità dell'esistenza si riflette (e perciò stesso si perpetua) nella convenzione sociale della festa che determina un allestimento spettacolare della persona. Il "notturno" del Cortegiano è un sogno di convivenza civile che il linguaggio del dialogo razionalizza ricorrendo a dei partners chesono figure nella composizione; e nella composizione si rispecchia l'autore che ritrova la propria identità nell'immagine (sublimata) di se stesso, cioè nella propria facoltà rappresentativa. A questo livello egli può identificarsi col Montefeltro non soltanto sostituendosi a lui per rappresentare il segno dell'autorità, il prestigio di corte (ciò che viene risarcito da un alone di virtù che nel Cortegiano, e più nell'Epistola de vita et gestis, circonda il personaggio di Guidubaldo), ma escludendosi con lui dal libro, perché in questo caso l'eliminazione ha un senso unilaterale: non rinvia più alla duplicità di significante e di significato, bensì evoca una struttura autosufficiente in cui lo scrittore si ravvisa in forma immediata. Il problema del cortigiano di "trasformarsi" nel signore (il modello, il suo alter ego) si risolve una volta per tutte - in concreto e in eterno - con un insieme significante che viene allestito come una scenografia metastorica. E la facoltà di coordinare gli elementi scenici è attribuita alla maestria di due geni vedovili che provvedono alla perspicuità del disegno con la medesima sicurezza con cui giudicano sull'eleganza: "Erano dunque tutte l'ore del giorno divise in onorevoli e piacevoli esercizi così del corpo come dell'animo; ma perché il signor Duca continuamente, per la infirmità, dopo cena assai per tempo se n'andava a dormire, ognuno per ordinario dove era la signora duchessa Elisabetta Gonzaga a quell'ora si riduceva; dove ancor sempre si ritrovava la signora Emilia Pia, la qual per esser dotata di così vivo ingegno e giudicio, come sapete, pareva la maestra di tutti, e che ognuno da lei pigliasse senno e valore..." (I, 4). Queste sono le guide che garantiscono la verosimiglianza del discorso, il quale può letteralmente definirsi come la dizione di un ricordo, assediata dalle luci del giorno e favorita da un "lucidus ordo" che rischiara a tutti la scena dando l'impressione dei contrasti e del movimento. Il classicismo ipotizza dal "sogno del cortigiano" il cortigiano nella sua forma rappresentativa, che egli vagheggia come la sembianza più perfetta di sé e di cui può impossessarsi semplicemente manifestandosi. In definitiva il Cortegiano appare come l'atto di una sostituzione: dell'esemplare al modello, del discorso all'immagine, dello scrittore all'uomo.

Per comprendere il Tirsi è necessario riconsiderare le propensioni del C. verso lo spettacolo, nonché il sottile gioco di parvenze e di riconoscimenti con cui il letterato ha la possibilità di autodeterminarsi nel microcosmo della corte. Questa è un'entità in cui sftunano progressivamente i connotati reali, non vi si compie alcunché al di fuori della celebrazione di un cerimoniale: è puro artificio, che la letteratura rappresenta celando sotto panneggi di maniera eroi dediti all'ufficio della devozione, per il signore o per la donna di palazzo. Ricorre in quest'egloga l'esempio del Poliziano. Che costituisce sicuramente un modello vagheggiato dal C.: basterebbe pensare alla frequenza con cui nelle lettere si richiedono le rime volgari del poeta mediceo e alla stessa occasione festosa che accomuna l'Orfeo, composto e rappresentato a Mantova, al Tirsi. E tuttavia il genere letterario esperito nel Tirsi non si collega retrospettivamente all'opera quattrocentesca, ma inaugura la prospettiva che conduce all'Aminta, l'opera dello scambio tragico tra scenario dell'immaginazione e luogo della realtà. Tale è la pressione alienante esercitata sullo scrittore dalle forme di corte, sostitutive della realtà, che il divertimento si trasforma in follia; ovvero si manifesta come gioco di enigmi e di metafore sempre più occulte, per cui lo scrittore viene ad essere il depositario di una nuova scienza ermetica che, racchiusa nell'emblema della corte, può essere usufruita al livello del comportamento individuale e politico (è il caso del Pastor fido).

Quanto alle liriche - migliori le volgari che le latine -, anch'esse vanno considerate in ordine a due caratteristiche insite nel Cortegiano: la spettacolarità degli effetti e la complessa architettura sintattica, che fa prediligere al C. lo schema della canzone petrarchesca (eccezionalmente il componimento "Mentre fu nel mio cor nascosto il foco" corrisponde alla stanza di una canzone), laddove il sonetto tende a saldare le cesure tra quartine e terzine nell'unità di un movimento ritmico-sintattico (di solito iterativo). Rispetto a queste due componenti il calco petrarchesco non costituisce mai il centro di una concrezione espressiva, non è una citazione, ma rappresenta contestualmente il livello indispensabile alla comunicazione del messaggio lirico: è quasi una "langue" da cui è possibile liberare il richiamo attraente dell'omaggio (un motto, composto probabilmente a Mantova, dichiara: "Ben si può dirvi, o rosa senza spina, / l'unica bella, perché in voi si vede / gratie che a poche il ciel largo destina"), o la forza persuasiva del ragionamento (nella canzone, che sembrava al Serassi "gravissima... e tra le più belle che abbia l'italiana poesia", "Amor, poiché 'l pensier per cui sovente"): "E pur più volte in cielo e qui fra noi / mostrato hai quel che puoi; / opra dunque ver lei gli stralì e l'arco / e sì le pungi il cor, che di nimica, / non mia, ma di pietà la facci amica". Talvolta, come nella canzone "Sdegnasi il tristo cor talor, s'avviene", sembra quasi di assistere a un tentativo di restauro stilnovistico tanto sono evidenti i simboli che costellano l'itinerario discorsivo: "Così tradito onde soccorso attende, / con interpetri fidi e scorte nuove / cerca d'acquistar fede a' suoi tormenti; / e per dolersi più forza riprende, / tal che gemendo move / un stuol sì denso di sospiri ardenti, / che impetuosi venti / e faci accese son, per cui sovente / l'aria s'infiamma e 'n crudi accenti insieme / tutto risona e geme; / e movesi a pietà chi 'l vede e sente ...". Sino al punto in cui la scrittura che tende a visualizzare gli effetti si misura con un originale pittorico e ne scaturisce il piccolo capolavoro del sonetto "Ecco la bella fronte e 'l dolce modo",ove l'intenzione madrigalesca sfuma nel ritratto, così tipico nel C., dell'amante lontano e inappagato: "or qui nel duro esiglio, in pianti amari / sostenete chardendo io mi consumi ...". Sono questi i risultati che definiscono nell'ambito del petrarchismo cinquecentesco la posizione del C., al quale va riconosciuto, seppure nei limiti di un'offerta lirica occasionale, un ruolo appartato e di rilievo.

Minore interesse destano i Carmina, dei quali solo alcuni (la prima elegia "Ad puellam in litore ambulantem",l'elegia "De Elisabella Gonzaga canente") raggiungono un equilibrio di sapore alessandring tra la tenuità dell'ispirazione e la riproposta delle fonti, scelte tra le più trasparenti della classicità (gli elegiaci e Ovidio, Calpurnio Siculo, Virgilio, Nemesiano); mentre la stessa tensione all'evidenza rappresentativa vizia le più impegnate liriche latine ("Alcon",per la scomparsa di un amico letterato, "De morte Raphaelli pictoris") nel senso di una dizione ufficiale e declamatoria.

Un intento freddamente celebrativo è anche quello che anima il troppo celebre sonetto "Superbi colli, e voi sacre ruine",con cui ci troviamo al centro di quell'ammirazione retorica per la città dei Cesari che indusse il C. a redigere, come è stato accertato, la relazione a Leone X sullo stato degli antichi edifici. Il documento, che tradizionalmente si riteneva di mano raffaellesca, non aggiunge meriti alla reputazione del C.: ché, privo di valore scientifico, esso si giustifica alla luce di una teoria rinascimentale dell'arte fondata sulla metafisica delle forme ("... un terzo acuto - asserisce l'autore - non ha quella grazia all'occhio nostro, al quale piace la perfezione del circolo; onde vedesi che la natura non cerca altra forma") e a sostegno di un'ideologia volta a reperire nel passato la vocazione universalistica di Roma, e "acciocché più che si può resti vivo un poco dell'immagine e quasi l'ombra di questa, che in vero è patria universale di tutti li cristiani, e pur un tempo è stata tanto nobile e potente...".