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Generale italiano (Cassano d'Adda 1866 - Verona 1944). Durante la prima guerra mondiale promosso (1916) maggiore generale per merito di guerra, si distinse nella presa di Gorizia e più tardi nelle azioni di difesa e di offesa (ott. 1918) sul Grappa. Collocato in posizione ausiliaria nel 1920, ebbe gran parte nell'organizzazione del movimento fascista, nell'ottobre 1922 fu uno dei quadrumviri della "marcia su Roma" e successivamente capo della polizia e primo comandante della MVSN. Nel 1925 governatore della Tripolitania e nel 1929 ministro delle colonie, dal gennaio 1935 in Eritrea, tenne il comando delle operazioni nella prima fase della guerra contro l'Etiopia. Votò l'ordine del giorno Grandi (24 luglio 1943), così che, alla ripresa fascista, fu condannato a morte dal tribunale di Verona e fucilato.
*
DBI
di Elvira Valleri Scaffei
Nacque a Cassano d'Adda, in provincia di Milano,
il 16 marzo 1866 da Giovanni ed Elisa Bazzi. La sua famiglia, di
origine lombarda, aveva "penato sotto il giogo austriaco" e tutti
avevano combattuto nelle guerre d'Indipendenza (E. De Bono,
Laguerra..., p. 302).
Allievo del collegio militare di Milano nel 1878 e successivamente
della Scuola militare, raggiunse il grado di sergente e nel 1883
quello di sottotenente del 12° reggimento bersaglieri; nel 1884
prestò giuramento a Verona e iniziò così il suo
lungo viaggio attraverso l'esercito italiano. Volontario nella
campagna d'Africa nel 1887-88 - in Eritrea -con il grado di tenente,
al suo rientro in Italia il D. si sottopose a un periodo di
addestramento militare alla Scuola di guerra alla fine del quale,
nel 1896, fu tra i prescelti per il corso di abilitazione allo Stato
Maggiore, idoneità che otterrà l'anno successivo.
Per tutto il primo decennio del 1900 il D. prestò servizio in
diverse unità militari e nel 1907 fu decorato con la croce di
cavaliere nell'Ordine della Corona d'Italia e nominato capo di Stato
Maggiore della divisione di Novara. Qualche anno più tardi
(1912) venne inviato in Libia come capo di Stato Maggiore di quella
intendenza con il compito di "impiantare le basi logistiche a
Misurata Marina"; partecipò alla guerra italo-turca e fu
nuovamente decorato "per l'intelligenza e lo zelo" oltre che per
"l'adempimento dei doveri della sua carica" (V. Araldi, p. 16).
Allo scoppio della guerra mondiale, di fronte alla dichiarazione di
neutralità dell'Italia, il D. annotava in un suo libro di
ricordi: "da un lato n'ebbi un primo senso di sgomento, la paura che
dov'essimo (sic) rimanere spettatori; dall'altro ne ebbi un senso di
soddisfazione per non dovere fare la guerra a fianco dell'Austria"
(Laguerra, p. 31). Nonostante queste considerazioni la
"necessità", di entrare nel conflitto e di combattere si
radicava sempre più nell'animo di un "soldato nato", di un
"uoino d'arme", di un "guerriero", come il D. amava definirsi.
Nel 1915 comandò il II corpo d'armata che operava
sull'Isonzo, ma la sua grande "aspirazione" era la direzione di un
reggimento, "meglio se di bersaglieri"; per intercessione di un
amico, "che occupava un posto molto importante al Comando supremo",
non solo la sua richiesta venne esaudita, ma egli ebbe anche
l'incarico di formare tale reggimento con tre battaglioni di milizia
autonoma (ibid., p. 73).Per la sua azione valorosa in trincea fu
decorato con una medaglia d'argento al valor militare e nel 1916,
questa volta per intercessione dei duca d'Aosta, divenne comandante
della brigata Trapani.
Pur essendo stato nominato maggiore generale -per meriti di guerra e
nuovamente decorato nell'agosto del 1916 "per il valore personale" e
"l'intelligente comando", a causa dei contrasti insorti con il
generale della divisione, fu destinato sul fronte albanese.
"Nel mio intimo - scriverà più tardi commentando la
nuova destinazione - vi è sempre stato un certo amore per
l'avventura; ho sempre riscontrato nel fondo di me stesso
qualchecosa del soldato di mestiere. Non me ne vergogno. Cambiare,
andare incontro al nuovo mi è sempre piaciuto". Il fronte
albanese non doveva però offrirgli quelle sperate emozioni e
dopo, una prima ispezione la delusione era cocente: "Quando tornai a
casa ero mortificato. Quell'essere stato sulle prime linee senza
sentire né un colpo di cannone, né una fucilata,
né il canto della mitragliatrice, mi aveva l'aria di qualcosa
di falsificato" (ibid., pp. 225 s.).
Con la ripresa dell'offensiva in Italia, ai primi dell'agosto 1917,
tale sensazione di malcontento si complicava di preoccupazioni
legate alla carriera. "Per conto mio particolare poi sapevo che
generali di me meno anziani avevano già avuto l'incarico del
comando di un corpo d'armata. Dovevo considerarmi saltato, silurato?
Tutto questo non mi teneva i nervi a posto" (ibid., p. 238).
In Albania il D. scrisse due composizioni teatrali: un dialogo
veneziano (Minuetto) e una rivista (Albaneide) per sollevare il
morale della truppa e "per fare opera di distrazione" (ibid., p.
236).
Rientrato in Italia all'inizio del 1918, assunse il comando del IX
corpo d'armata sul monte Grappa e nel giugno ottenne la commenda
dell'Ordine militare di Savoia per aver respinto un violento attacco
austriaco.
Alla fine della guerra venne nuovamente decorato e nel 1919 ebbe il
comando del XXII corpo d'armata con giurisdizione su tutta la Carnia
fino al Tarvisio; da questa postazione militare il D. commentava da
soldato le difficoltà delle trattative di Parigi e
l'effettiva disparità dei vantaggi che le potenze alleate
trassero dalla conclusione vittoriosa del conflitto: "Noi eravamo
mobilitati; sentivamo quindi tutta la nostra responsabilità e
dignità guerresche. Certo a chi era lì alla frontiera
ancora contestata venivano i traversi di bile nel vedere e sentire
così frustrati tutti i nostri sanguinosi sacrifizi" (ibid.,
p. 303).
Èdi fronte a tale situazione che il D. come tanti altri
militari reduci dalla guerra, comincia ad "occuparsi" di politica;
egli ricorda infatti come fino allo scoppio del conflitto non avesse
mai badato alle varie crisì ministeriali e come conoscesse,
per puro caso, il nome del presidente del Consiglio
(Nell'esercito..., p.189); così mentre vietava la diffusione
tra le truppe del "rinunciatario" Corrieredella sera, definito un
"giornale sovversivo", non poteva rimanere indifferente alla larga
ospitalità che Il Popolo d'Italia offriva invece ai problemi
dei militari, soprattutto degli ufficiali.
Il Popolo d'Italia, d'altronde, non senza qualche significativo
incoraggiamento, si era attribuito pubblicamente il ruolo di
portavoce dei problemi dei militari e nel febbraio 1919 Mussolini
rivelava compiaciuto una confidenza del generale Caviglia: "[egli]
... mi ha detto che legge sempre Il Popolo d'Italia per tenersi al
corrente del pensiero e delle necessità dei soldati" (Il
generale Caviglia e il Popolo d'Italia, in Il Popolo d'Italia,
1° febbr. 1919).
Particolarmente sfruttata dalla propaganda nazionalista era la
questione di Fiume che i trattati di pace non avevano assegnato
all'Italia e che divenne presto il simbolo di quella "vittoria
mutilata" e della necessaria reazione "alla politica supina del
nostro povero paese", come scriverà più tardi il D.
ricordando quei momenti; il generale plaudiva istintivamente
all'occupazione della città da parte di D'Annunzio e dei suoi
legionari: "Era un fatto d'importanza storica. Se non ci andava Lui
chissà quando ci avremmo potute mettere il piede! Come
soldato deploravo l'atto impulsivo dei reparti che avevano seguito
il guerriero poeta; ma in cuore lo esaltavo. Ho passato notti poco
tranquille con la coscienza in subbuglio. Vado, o non vado? Il
pensiero della prossima inazione; le incertezze sempre crescenti per
il prossimo avvenire; l'impresa superbamente patriottica, D'Annunzio
stesso con il quale avevo combattuto alla 45 divisione... tutto mi
attraeva; ma vinse l'abito disciplinare e mi adoperai perché
non avvenissero diserzioni" (Laguerra, pp. 310 s.).
Dopo aver assunto nel marzo del 1920 il comando del corpo d'armata
di Verona, il D., nel giugno, chiese ed ottenne di esser collocato
in posizione ausiliaria speciale "per ragioni sue personali e di
carattere politico"; uno dei motivi va probabilmente individuato nel
rifiuto dei governo Nitti di disperdere manu militari gli
scioperanti dei Polesine, come proponeva il De Bono.
Ricostruire i suoi atteggiamenti politici prima dell'avvento del
fascismo, i suoi primi contatti con Mussolini o con altre
personalità del nascente movimento non è facile,
poiché le fonti appaiono in molti casi incerte e
contraddittorie.
L'elemento che maggiormente colpisce, leggendo i suoi ricordi di
quegli anni, è il senso di disorientamento per la
smobilitazione, la separazione dai combattenti, gli scioperi,
l'incertezza del domani; qualcosa rende tristi questi giorni del
gennaio 1920, annoterà nel suo Diario, "... l'opera nostra
svalutata, l'Esercito messo in non cale ancora peggio che prima
della guerra; il disagio ... le incertezze del prossimo e del
lontano avvenire. ... In fondo, in fondo questa guerra per me
è stata una larga messe di affetti, profondi e sinceri,
mietuti e dispensati. Quanta, quanta tenerezza nel cuore è
tutta dovuta alla guerra!... E adesso più niente;
perché è inutile, nulla varrà a potermi
riempire la vita, perché la mia vita era questa"; e ancora,
alla data del 20 genn. 1920 aggiungeva "Viva la guerra, perdio, viva
solo e sempre la guerra". Si trattava di considerazioni dettate dal
momento, scritte sull'onda del sentimento, istintivamente, ma che
certo dovevano rispecchiare il carattere del personaggio, se lo
stesso D. riprendendo, nel gennaio 1924, quegli appunti scriveva:
"Dopo quell'epoca si sono maturati gli eventi che mi hanno portato
dove sono. Riprenderò questi appunti della mia vita,
perché rileggendo oggi... quello che ho scritto fin qui ne
sono rimasto soddisfatto" (La guerra, pp. 313 s.).
Il D. non aveva legami o precedenti politici prima che il fascismo
lo portasse alla ribalta; più tardi, negli anni Trenta,
dichiarò che fin dai primi momenti della guerra, leggendo la
"prosa di fuoco sprizzante volontà da ogni parola" firmata
Mussolini, aveva manifestato tutto il suo entusiasmo per
"quell'uomo"; nel luglio del 1917 avrebbe poi "vaticinato" Mussolini
a un "caro amico generale" e dall'agosto del 1918 avrebbe stabilito
con Mussolini stesso un contatto epistolare.
Secondo alcune fonti il D. avrebbe cercato di mettersi in contatto
anche con socialisti e popolari, almeno fino a pochi mesi prima
della marcia su Roma. L'unico dato certo è che il futuro
quadrurriviro scrisse su Il Mondo, tra il febbraio e il giugno 1922,
articoli fortemente conservatori che reclamavano aumenti di spese e
di organico per l'esercito; una sua lettera del 12 ag. 1922 al
cugino Carlo Bazzi - futuro direttore del Nuovo Paese -,massone, una
delle figure di quel groviglio politico giornalistico sulle quali
l'istruttoria per l'uccisione di Matteotti cercò di far luce,
chiarisce in parte il suo avvicinamento al fascismo.
Il D. si rimproverava di esser rimasto troppo in disparte: "Io non
conoscevo alcuno ed era mio torto ed una mia debolezza. Adesso
qualcuno mi conosce... Hai visto anche in guerra? Avrai letto
raramente il mio nome su perle gazzette; se lo vedevi lo trovavi
storpiato"; avrebbe inoltre voluto che Mussolini lo associasse come
"collaboratore militare" e continuava: "I capoccia fascisti mi
accolgono bene; ma ... ma mi pare che temano di vedere in me un
concorrente e perciò mi tengono volentieri alla larga" (Arch.
centr. d. Stato, Segreteria particolare ...).
Il D. era uscito dal conflitto come comandante di corpo d'armata,
era stato più volte decorato, ma nessuna peculiarità
lo caratterizzava come un militare di sicuro rilievo. Balbo lo
ricordava per il suo "sdegnoso atteggiamento allorché, per
non accettare una transazione coi rossi che il Governo richiedeva",
aveva preferito lasciare i ruoli effettivi dell'esercito e porsi in
posizione ausiliaria speciale (I. Balbo, Diario 1922, p. 142);
comunque, la scelta del suo nome come "terzo camerata" per il
comando della milizia risultò frutto di un complesso di
circostanze fortuite.
Da un lato va tenuta presente la mutata situazione del fascismo
nell'estate 1922, rispetto all'anno precedente; Mussolini puntava
ora sull'elemento militare e si rallegrava che l'organizzazione
fosse militare nei quadri, nel funzionamento e nello spirito, come
un vero e proprio "esercito d'Qccupazione". Il passaggio dalle
squadre in milizia era già stato organizzato con un primo
regolamento del gennaio 1922, ma l'esercito fascista doveva essere
perfezionato e disciplinato, era dunque "necessario" che al comando
ci fosse anche un generale, un militare dello Stato. La coalizione
di interessi che Mussolini andava rafforzando consigliava di avere
dalla propria parte anche un gruppo di alti ufficiali e il D., in
particolare, poteva vantare, attraverso l'amicizia con il duca
d'Aosta, dei contatti con la casa reale.
Nella riunione del comitato centrale del Partito naz. fascista
(P.N.F.) del 13 ag. 1922, vennero scartati i nomi di Teruzzi,
già vicesegretario del partito, e di Gandolfo, che era allora
gravemente ammalato e con una difficile situazione familiare. Balbo
ricorda nel suo Diario come, nel corso di un incontro con alcuni
amici del Fascio milanese, fosse venuto fuori il nome del D., "che
durante il recente concentramento di Milano [aveva] sfilato come un
semplice gregario, confuso nella massa dei fascisti" (ibid., p.
142). Queste notazioni e il modo stesso con il quale emerse il nome
del D., ci confermano nell'ipotesi che fino ad allora i rapporti del
D. con il fascismo non dovevano essere stati né frequenti
né facili.
Il D. si era iscritto al Fascio di Cassano d'Adda nel luglio 1922,
così che, quando il suo nome, insieme con quello di Balbo e
De Vecchi, venne portato alla direzione del partito per la ratifica,
"pochi lo conoscevano personalmente" anche se il suo nome godeva di
un certo prestigio e De Vecchi si era dimostrato entusiasta della
scelta.
Se certo la milizia doveva presentarsi come uno degli "strumenti"
della conquista del potere, Mussolini non voleva né poteva
precludersi l'utilizzo di qualsiasi situazione politica favorevole,
mentre le legioni, inquadrate e disciplinate, dovevano essere pronte
a ogni comando per affermare che l'organizzazione armata alle sue
spalle avrebbe continuato ad imporlo al di là della fiducia
miracolistica nella breve vita dell'esperimento fascista.
In settembre il D. preparò con De Vecchi il nuovo regolamento
della milizia a Torre Pellice, dove pare si trovasse anche il futuro
ministro della guerra, il generale Diaz. Il nuovo ordinamento venne
pubblicato il 3 ott. 1922 sul Popolod'Italia; tale pubblicazione,
come è stato da più parti notato, può
considerarsi l'atto politico più importante nella
preparazione della marcia su Roma, sintomo di intenti e preparativi
che si svolgevano pubblicamente come le dimostrative e imponenti
adunate di Udine e Cremona e prima ancora l'azione su Trento e
Bolzano. Nel regolamento di Torre Pellice si proclamava
ufficialmente non solo la formazione di un esercito di parte, ma si
rivendicava la necessità di usarlo per "costituire" le nuove
gerarchie del futuro d'Italia.
Dalle Memorie di Marcello Soleri emergono tutte le
perplessità e le cautele che lo stesso ministro
dimostrò di fronte all'atteggiamento del D., responsabile di
aver dato un ordinamento "decisamente militare" a un esercito di
parte, pur essendo ancora in attività di servizio.
Soleri sottopose il comportamento del futuro quadrumviro alla
direzione generale, che confermò "l'evidente violazione al
regolamento di disciplina, per il che non rimaneva che di deferire
il generale De Bono ad un Consiglio di disciplina. Prima di farlo -
scriveva ancora Soleri - volli però usare un riguardo a
quell'ufficiale, che aveva un bel passato militare e, mandatolo a
chiamare, lo invitai a rassegnare le sue dimissioni, per evitargli
quella misura. Gli aggiunsi che sarei stato lieto se avessi potuto
tenere nel mio cassetto quelle dimissioni e che me ne sarei valso
solo nel caso che il suo comportamento o le circostanze lo
richiedessero" (Memorie, pp. 156 s.).
Il D. non solo non si dimise, ma gli avvenimenti successivi e le
alte cariche alle quali fu preposto tra il 1922 e il 1924 fecero
sì che fosse reintegrato nei ruoli dei militari in servizio
attivo permanente. Tra l'agosto e l'ottobre del 1922 fu Molto
attivo, ispezionò le legioni e prese contatto con gli uomini
delle squadre, trasformate in milizia. Alla riunione di Milano del
16 ott. 1922, nella quale fu decisa la strategia della marcia su
Roma e alla quale Mussolini, oltre agli uomini del comando della
milizia e a Michele Bianchi segretario del P.N.F., invitò
"senza avvertire nessuno" anche i generali Fara e Ceccherini, il D.
mostrò da un lato tutti i suoi timori per un possibile
allargamento del comando della milizia ad altri due militari,
dall'altro affermò, d'accordo con De Vecchi, che le camicie
nere non erano ancora pronte e che era opportuno aspettare qualche
tempo. Il D. guardava dunque con sospetto a chiunque si facesse
avanti nelle fila del fascismo, temeva una dilatazione del vertice
militare e un'ulteriore suddivisione del comando, ma nello stesso
tempo esitava, preoccupato per la preparazione delle squadre che gli
sembravano ancora male organizzate dal punto di vista militare; il
D. non condivideva inoltre la "spontaneità" delle squadre e
già di fronte all'azione dei fascisti su Bolzano, che si
svolse al di fuori delle direttive dei comando generale della
milizia, e alla quale parteciparono le personalità più
in vista del fascismo, aveva espresso a Balbo tutto il suo
disaccordo: "così non si fa la guerra" e "neppure la
rivoluzione", gli scriveva (Balbo, Diario, p. 164).
Il D. era un moderato, ma in questo caso il suo atteggiamento
attendista doveva scontrarsi con il parere opposto di Balbo e
Bianchi al quale Mussolini dette poi il consenso finale.
Prima della marcia su Roma, il D., massone di piazza del
Gesù, ricevette una forte sovvenzione dalla massoneria di
palazzo Giustiniani, che doveva servire a finanziare il movimento
fascista. Senza pretendere di dare alcuna versione o significato
definitivi all'episodio va rilevato che, nell'ambito del più
ampio legame tra massoneria ed esercito, il D. rappresentò
uno dei possibili anelli, anche se forse non uno dei più
importanti (G. Rossini, Ildelitto..., pp. 53 ss.; G. Vannoni,
Massoneria..., pp. 101 s.).
Al convegno di Napoli il D. fu solo uno spettatore e il 26 ottobre
ripartì per Perugia per esercitare il suo comando. Dal suo
diario di campagna alla data del 29 ottobre è possibile
individùare tutto il nervosismo, il senso di disagio di
fronte alla mancanza di organizzazione, l'incertezza e le
preoccupazioni che il D. aveva sottolineato e che, secondo lui,
puntualmente si presentavano in tutta la loro gravità; ma
alla fine della serata la tensione si attenuava, dopo la revoca
dello stato d'assedio, e il D. scriveva: "Il dramma prende
già la piega di una pièce a lieto fine" (cfr.
Gerarchia, VII [1927], 10, pp. 960 ss.).
Il D. fu uno dei militari di grado più elevato a partecipare
direttamente alla preparazione e alla direzione della marcia su
Roma, anche se non ebbe alcuna influenza diretta sugli avvenimenti
che portarono Mussolini al governo. L'unico gesto di una qualche
importanza, ma scarsamente significativo dal punto di vista
politico, fu di apporre la propria firma in calce a un documento dei
quadrumvirato nel quale si affermava che "l'unica soluzione politica
accettabile" era un ministero Mussolini, nel quale il D. sperava di
avere il dicastero della Guerra, che Mussolini ritenne però
più opportuno affidare al generale Diaz, il "duca della
vittoria", un nome più prestigioso.
Nelle sue incertezze, contraddizionì e timori, nella sua
unica ed autentica vocazione per la vita militare, fu questo il
personaggio che Mussolini scelse come capo della Pubblica Sicurezza
l'11 nov. 1922 e qualche mese più tardi, inserita la Milizia
volontaria per la sicurezza nazionale (M.V.S.N.) nel corpus dello
Stato e ordinato l'immediato scioglimento di "qualsiasi altra
formazione a carattere o inquadramento militare" (r. d., 14 genn.
1923, art. 9), nominò anche comandante dell'esercito
fascista.
Quella "febbre di ordine e di disciplina", come ha definito
Gioacchino Volpe il periodo successivo alla marcia su Roma,
comportava la trasformazione e la modificazione delle squadre armate
in milizia quale "salda organizzazione autonoma... sottratta alle
oscillazioni di partito" e investita delle funzioni di "grande
polizia politica", secondo una direttiva che il D. impartiva al
prefetto di Bologna (Arch. di Stato di Bologna, Prefettura,
Gabinetto cat. 7, 1923).
Per tutto il 1923 il D. inviò ai prefetti e ai comandi di
zona della M.V.S.N. ordini precisi di controllo e centralizzazione
delle squadre, per l'eliminazione dei contrasti e degli abusi,
mentre la "prevenzione" e la "repressione" erano le coordinate entro
le quali le forze di polizia avrebbero dovuto agire.
Si trattava in quest'ultimo caso di un ordine che non doveva
rivolgersi unicamente contro gli individui che potevano tramare a
danno del governo, ma si indirizzava anche contro tutti coloro che
sotto la camicia nera si rendevano colpevoli di "azioni di
prepotenza". "Se fascisti o sedicenti tali - si legge in un
telegramma del luglio 1923 della direzione di Pubblica Sicurezza -
commettono azioni inconsulte o atti di provocazione e prepotenza si
colpiscano senza riguardo gli autori o i ritenuti responsabili.
Quando poi con la bandiera fascista si coprono beghe personali o
camarille si colpiscano senza indugio i responsabili, specialmente
se capi" (Arch. centr. dello Stato, Ministero dell'Interno,
Direzione Generale di P.S., Divisione Affari Generali e Riservati,
1923, busta 47, circolare del 31 genn. 1923, firmata De Bono).
Si trattava di una direttiva che cercava di controllare il fenomeno
del dissidentismo, il persistere delle squadre ai margini della
M.V.S.N. come strumento personale dei vari capi locali nel tentativo
di "normalizzare" la situazione interna. Bisognava esercitare una
violenza "ordinata" che reprimesse e colpisse al momento opportuno,
dunque un'arma "razionale" non "sportiva e caotica". Mussolini
voleva una milizia disciplinata, pronta soltanto al suo comando,
svincolata dai legami politici regionali, nei quali per altro
trovava la sua forza e la sua coesione, unica formazione armata
permessa, mentre tutte le altre venivano messe fuori legge.
Alla riunione del Gran Consiglio del luglio 1923 nella quale il D.
riferì sulla forza e sulla situazione della M.V.S.N.,
l'esercito delle camicie nere veniva definito una forza
indispensabile almeno fino a quando non si fosse realizzata, in
tutte le amministrazioni ed istituti dello Stato, la successione
della classe dirigente fascista. Mussolini, per quanto riguardava la
fisionomia politica della M.V.S.N. e del rapporto che quest'ultima
doveva stabilire con le istituzioni militari, puntava su una
divisione di compiti e di ruoli; come sostenne più volte, fin
dal gennaio 1923, se l'esercito e la marina dovevano prepararsi alla
salda difesa degli interessi della nazione, vi era pur sempre la
necessità di difendere il fascismo dal punto di vista
politico.
In una prospettiva d'integrazione con lo Stato, il fascismo
creò a tal fine una serie di istituzioni parallele: al
Consiglio dei ministri faceva riscontro il Gran Consiglio, al
prefetto il federale, all'esercito la milizia. È in questo
parallelismo, in questo "correre insieme" mantenendo però le
proprie caratteristiche e le proprie finalità, che va
probabilmente ricercato e inserito il rapporto tra esercito e
milizia. In quest'ottica il progetto dei D. del luglio 1923, che
proponeva la trasformazione della M.V.S.N. da forza di polizia
politica in organizzazione preposta all'educazione premilitare delle
giovani generazioni, avrebbe sicuramente peggiorato la diffidenza e
la rivalità fra i due corpi e venne infatti, per il momento,
accantonato. Nel gennaio era stato inoltre approvato il nuovo
ordinamento dell'esercito che sanciva la fine di qualsiasi istanza
innovatrice e dava larga autonomia alle gerarchie militari.
La crisi che iniziò a profilarsi all'indomani del discorso di
Matteotti alla Camera sull'andamento delle elezioni dell'aprile 1924
e che esplose al momento dell'uccisione del deputato socialista, per
l'ampiezza e le responsabilità che poneva, costrinse il D.
alle dimissioni dalla direzione generale della Pubblica Sicurezza.
Il ruolo del D. nell'assassinio di Matteotti non è mai stato
chiarito completamente, certo è che egli non avrebbe mai
preso una tale iniziativa senza una precisa autorizzazione. Il D. fu
comunque responsabile del clima d'intimidazione nel quale si
svolsero le elezioni dell'aprile; egli autorizzò infatti
l'impiego di militi della M.V.S.N., raccomandando però che
fossero scelti "elementi idonei, calmi ed energici" (Arch. centr. d.
Stato, Min. Int., Dir. Gen. P. s., Div. Affari Generali e Riservati,
busta 87, 25 genn. 1924).
Alla fine di giugno le accuse contro il D. si intensificarono e pur
non essendo ancora formalmente indiziato, egli sentì la
necessità di difendersi, in un'accorata lettera agli amici
Balbo e Sacco, dalle accuse di aver organizzato o di esser
semplicemente implicato neglì episodi contro Misuri ed
Amendola o nell'assalto al villino Nitti.
In ottobre il D., amareggiato dalla nuova via crucis alla quale si
sarebbe dovuto sottoporre nei mesi successivi, come scriveva in una
lettera alla moglie, nella quale affermava inoltre che non aveva mai
voluto fare "politica", rassegnava le dimissioni da primo comandante
della M.V.S.N. Consegnava in quell'occasione a Mussolini
centocinquanta legioni alle quali, affermava, aveva cercato di
"istillare il più alto spirito di disciplina". Mussolini,
accettando le dimissioni del quadrumviro, sottolineò il
carattere "spontaneo" di questo gesto e propose il D. per la carica
di governatore della Tripolitania: si trattava di un impegno nel
quale, affermava Mussolini, egli avrebbe potuto impiegare utilmente
le sue "attitudini di vecchio coloniale". Mussolini cercava in tal
modo di isolare il caso De Bono. L'istruttoria sull'uccisione di
Matteotti stava per concludersi ed entro poco tempo il D., che nel
marzo 1923 era stato nominato senatore, avrebbe dovuto presentarsi
al Senato, riunito in Alta Corte di giustizia, per rispondere
dell'accusa di aver organizzato e diretto un nucleo di polizia
politica con compiti speciali, la "Ceka" fascista, che la denuncia
Donati identificava con il comando generale della M.V.S.N.
Il processo si chiuse dopo sei mesi con l'assoluzione dei D.; la
sentenza non poteva essere d'altra parte diversa dopo il discorso
del 3 genn. 1925 nel quale Mussolini, chiudendo il periodo
d'interregno istituzionale, rivendicava l'assunzione piena delle
responsabilità "storiche", "morali" e "politiche" e
dichiarava che la "forza" rimaneva come dato peculiare del fascismo.
Il D. fu nominato governatore della Tripolitania nel luglio 1925 e
fino al 1928 questa carica lo tenne lontano dal centro della
attività politica.
Le pubblicazioni fasciste gli attribuirono il merito di aver
ottenuto "brillanti risultati" nello sviluppo della agricoltura,
nella creazione di scuole, nell'incremento del commercio in quelle
regioni. Guardando da lontano la situazione politica italiana,
confidava al suo Diario tutte le perplessità e le
preoccupazioni sul "marcio" che continuava ad esserci nel partito e
nella milizia, o E lui non ci mette riniedio", scriveva il 22giugno
1928 (Diario, in Realtà illustrata, 19 sett. 1956).
Richiamato in patria alla fine del 1928, il D. fu nominato prima
sottosegretario di Stato al ministero delle Colonie e nel settembre
1929, a seguito del rimpasto del governo voluto da Mussolini,
titolare di quel dicastero. Fu questa la carica più alta che
egli raggiunse nella gerarchia fascista. Per sei anni il D.
esercitò così una grande influenza sulla politica
estera fascista, che doveva culminare con l'attacco all'Etiopia.
A partire dal 1930, il D. prese sempre più apertamente
posizione contro il negus Hailè Selassiè, favorendo i
tentativi di disgregamento dell'Impero etiopico. Probabilmente non
pensava ancora a una guerra contro l'Etiopia, ma la sua
mentalità di militare gli ricordava che la disfatta di Dogali
aspettava ancora una rivincita. Al di là di queste
considerazioni, certo è che quando il D. visitò
l'Eritrea, ai primi del 1932, dovette riconoscere che
l'autorità del negus si era rafforzata tanto da far temere un
ribaltamento dei rapporti di forza in Africa orientale. Pur essendo
convinto che un intervento armato e un successo militare italiano
avrebbero definitivamente stabilizzato la situazione, riteneva che
un tale programma avrebbe avuto bisogno di una lunga preparazione e
avrebbe comportato un'ingente spesa. Il D. mise comunque allo studio
la possibilità di un'aggressione premeditata all'Etiopia, ma
riteneva tuttavia che fosse necessario cercare l'assenso preventivo
della Francia e dell'Inghilterra, secondo la tradizionale linea
deglì ambienti coloniali italiani.
Alla fine del 1932, il ministro delle Colonie annotava nel suo
diario: "Ho portato a Mussolini il progetto per un'eventuale azione
in Abissinia. Gli è piaciuto. Comanderei al caso io. Sarebbe
un bel canto dei cigno ! Dovrebbe essere pel 1935;ma io temo che non
abbia ben calcolato spesa e conseguenze! Vedremo" (Realtà
illustrata, 10 ott. 1956).
Il D. cercava in tal modo di concludere brillantemente la sua lunga
carriera militare al comando di un esercito coloniale e il 16 genn.
1935 fu infatti nominato alto commissario per l'Africa orientale.
Mussolini era disposto ad ascoltare il parere dei militari e
dell'esercito, ma era parimenti convinto che la guerra doveva essere
fascista nel comando e nelle truppe; dette infatti ordini precisi
affinché la maggioranza dei soldati venisse dalle camicie
nere della M.V.S.N. (Arch. dell'Ufficio storico dello Stato Maggiore
dell'esercito, filza 507, M.V. S.N.). "Dovrete sopportare fatiche e
sacrifici e affrontare un nemico agguerrito" affermava il D. nel
proclama del 2 ott. 1935 alle truppe italiane con l'ordine di
avanzare oltre il Mareb. "Merito maggiore avrà la vittoria
alla quale miriamo che sarà pura vittoria della nuova Italia
fascista".
Il 6 ottobre le truppe italiane raggiunsero Adua; si trattava di una
conquista importante dal punto di vista psicologico e
propagandistico, perché cancellava nell'opinione pubblica
italiana tristi ricordi, ma non lo era altrettanto dal punto di
vista militare. Alla metà del mese fu occupata Axum,
città sacra per gli Etiopi che l'Inghilterra non voleva
includere nei territori da cedere all'Italia, ma per i primi di
novembre Mussofini ordinava di spingersi più avanti verso
Macallè e ancora più a Sud verso l'Amba Alagi. La
direzione stategica del D., in quel primo mese di operazioni
militari, era percorsa da continui timori e da insistenti pressioni
perché le truppe italiane si fermassero per consolidare le
posizioni conquistate, stabilire un efficace sistema di
comunicazioni ed approntare una serie di misure nei territori
conquistati.
Il 9 novembre, nonostante tutte le esitazioni e le cautele, il D. si
spinse verso Macallè, ma più oltre non riteneva di
doversi inoltrare. A questo punto intervenne la decisione di
Mussolini di sostituirlo nella carica con Badoglio.
Nella maggior parte della letteratura storica sulla guerra
italo-etiopica e nel quadro delle opinioni correnti questa
sostituzione avrebbe un'unica logica: Mussolini aveva bisogno di
rapidi successi militari che accrescessero il suo prestigio, mentre
il D., con la sua prudenza, non offriva più alcun tipo di
garanzia in tal senso; inoltre non godeva la stima dello Stato
Maggiore dell'esercito e dello stesso Badoglio. Il De Felice ha
invece ipotizzato che la sostituzione del D. con Badoglio potesse
essere dettata anche dalla necessità, conclusa la fase delle
grandi operazioni militari, di contentare l'esercito, la Corona e
gli ambienti tradizionalisti che si riconoscevano più
volentieri in Badoglio, che per altro non faceva mistero di voler
assumere il comando delle operazioni.Mussolini non pensava allora a
un'iniziativa su vasta scala; lo confermerebbe il telegramma del 12
novembre al D., nel quale gli ordinava il rafforzamento della linea
di Macallè, in attesa che si mettessero in moto le trattative
politiche. Noi sappiamo ora che è dello stesso giorno la
comunicazione al D. della sua sostituzione. Con Badoglio la guerra
fascista poteva trasformarsi e concludersi come una guerra
nazionale. La prima reazione dei vecchio quadrumviro fu: "in
sostanza sono contento". Come ricompensa per l'attività in
Etiopia ebbe poi il titolo di maresciallo.
Al suo rientro in Italia non ebbe però alcun tipo di incarico
ufficiale di una certa rilevanza fino al 1939; nella carica di
presidente per la formazione dell'esercito coloniale cercò di
interferire con il lavoro del ministero della Guerra; per tutto il
1936 al nome del D. si accompagnarono voci sempre più
insistenti di errori finanziari e nel 1937 la sua persona fu
coinvolta in uno scandalo che attirò l'attenzione generale.
Il D. era amareggiato dall'atteggiamento distaccato che Mussolini
aveva tenuto nei suoi confronti durante il 1937, ma provava anche
una difficoltà crescente a riconoscersi ancora nel fascismo:
"Non mi ci trovo più per tante cose che vanno a sfascio"
scriveva nel suo Diario "parlarne al Principale. Ma mai! Sarebbe
voce isolata. Tutti o quasi la pensano come me, ma chi ha il
coraggio di parlare? !" (Arch. centr. d. Stato, Diario, quad. 43, 30
ott. 1938). Non si trattava di un atteggiamento isolato; infatti
altre memorie, diari e testimonianze di collaboratori di
Mussolinì sottolineano la difficoltà di stabilire con
il duce un rapporto politico non completamente formale.
Per la votazione delle leggi antisemite l'atteggiamento del D.
rispecchiò, ancora una volta, il suo innato senso della
moderazione: si dichiarava antisemita, ma proponeva un'attenuazione
dei provvedimenti contro gli ebrei.
Col il 1938 il D. assunse sempre più un atteggiamento che, se
è eccessivo definire di "fronda", segnava certamente la fine
della sua incondizionata adesione al fascismo tanto è che ai
primi del 1939 aveva augurato a Mussolini un "Caporettino",
affinché aprisse gli occhi sulla situazione politica
all'estero come in Italia.
Da parte sua Mussolini, di fronte all'atteggiamento "tiepido" del
D., rispondeva con durezza: "De Bono è un vecchio cretino"
avrebbe affermato in occasione delle celebrazioni del ventennale
della fondazione dei Fasci di combattimento. "Non a causa degli
anni, che possono rispettare l'ingegno se c'è stato, ;na
perché è sempre stato cretino ed ora è anche
invecchiato" (G. Ciano, p. 272).
Alla fine del 1939 il D. assunse alcuni incarichi ufficiali:
ispezionò le difese occidentali dell'Italia e presentò
a Mussolini un rapporto molto pessimista sulla situazione morale e
materiale dell'esercito; nonostante l'età avanzata, fu
nominato ispettore delle truppe. d'Oltremare e nel giugno del 1940
assunse il comando delle armate del Sud.
Il D. fu sempre contrario all'entrata in guerra dell'Italia e ai
primi del 1940 confidava al suo diario che Mussolini era ormai
"spacciato". Negli anni successivi continuò a viaggiare in
Europa senza mai avvicinarsi alle linee del fronte e non
partecipando alla guerra, circostanza della quale si lamentava
continuamente.
Il D. fece parte del gruppo che chiese a Mussolini la riunione del
Gran Consiglio e nella seduta del 25 luglio 1943 fu il primo a
parlare dopo il duce. Il suo discorso era centrato principalmente
sulla condizione delle forze armate e sulla difesa dell'operato
dell'Alto Comando, e non avanzò alcuna richiesta diretta alla
destituzione di Mussolini.
Il suo discorso risentiva dei clima fortemente teso che
caratterizzò quella seduta ed egli stesso apparve "confuso" e
privo di concentrazione (C. Scorza, La notte..., p. 38). Prese la
parola una seconda volta e dette poi il primo voto favorevole
all'o.d.g. Grandi, segnando in tal modo il suo destino.
Fino all'arresto, che avvenne il 4 ott. 1943, il D. godé di
larga autonomia e libertà e visitò persino il
ministero della Guerra. Fino al gennaio del 1944 rimase a Cassano
d'Adda; fu poi trasferito a Verona, ma rimase separato dagli altri
prigionieri. La sua difesa si svolse in due tempi:
nell'interrogatorio preliminare, avvenuto in dicembre,
affermò che non si era mai occupato di politica e
rifiutò decisamente la qualifica di traditore, una seconda
volta il vecchio generale, che vestiva l'uniforme e le decorazioni,
si presentò davanti al tribunale straordinario speciale con
gli altri "colpevoli" di aver firmato l'ordine del giorno Grandi. Il
D. ricordò, in quest'occasione, i servizi che aveva prestato
al fascismo e giurò fedeltà a Mussolini. Il processo
si chiuse con la sentenza di morte per tutti i principali imputati.
Nei mesi che precedettero il suo arresto il D. aveva pensato di
fuggire all'estero, di abbandonare la sua casa e la sua patria; come
militare riteneva di dover rimanere a salvaguardare il suo onore,
non riuscì mai a capire la situazione politica e in fondo
pensava che Mussolini non avrebbe permesso che gli facessero alcun
male.
Nella sua ultima lettera alla famiglia riaffermò
l'onestà della sua vita e del suo nome; la mattina
dell'esecuzione, l'11 genn. 1944 a Verona, acconsentì, dopo
una certa insistenza, a farsi bendare e morì gridando "Viva
l'Italia".