Ferdinando Martini

 

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Ferdinando Martini (Firenze, 30 luglio 1841 – Monsummano Terme, 24 aprile 1928) è stato uno scrittore e politico italiano. Fu senatore del Regno d'Italia nella XXVI legislatura.

Biografia

Figlio dell'autore di teatro Vincenzo Martini. Giornalista e scrittore. Collaborò dal 1872 al quotidiano Il Fanfulla firmandosi con il nome di battaglia «Fantasio». Nel luglio 1879 fondò il settimanale Fanfulla della domenica, che diresse fino al dicembre del 1880. Il 15 febbraio 1882 fondò La Domenica letteraria, che diresse fino all'agosto 1883.[2] Fu professore alla Normale di Pisa.

Fu eletto deputato al Parlamento italiano nel 1876 e conservò questa carica per quarantatré anni e tredici legislature.
Fu Ministro delle Colonie del Regno d'Italia nei Governi Salandra I e Salandra II nonché Ministro dell'Istruzione Pubblica nel Governo Giolitti I.

Fu Governatore dell'Eritrea dal 1897 al 1907, lasciando un segno indelebile nella Colonia primogenita.

Il 1º marzo 1923 fu nominato Senatore del Regno. Nel 1925 fu tra i firmatari del Manifesto degli intellettuali fascisti, redatto da Giovanni Gentile.

Intorno al 1887, su progetto dell'architetto Cesare Spighi, fece edificare alla periferia di Monsummano Terme, in località "Renatico", una splendida villa in stile rinascimentale con imponenti scalinate d'accesso. La villa che oggi è passata in proprietà del Comune di Monsummano, porta il nome di villa Renatico-Martini ed è sede del Museo di Arte Contemporanea e del Novecento.

Nel 1925 fu tra i fondatori dell'Istituto dell'Enciclopedia Italiana. La biblioteca privata di Martini, la collezione degli autografi e la raccolta delle carte private, per volontà degli eredi, sono conservate dal 1931 presso la Biblioteca Comunale Forteguerriana di Pistoia. Il suo carteggio è conservato invece alla Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze (Fondo Martini).

Onorificenze

Cavaliere dell'Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro - nastrino per uniforme ordinaria    
Cavaliere dell'Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro
Commendatore dell'Ordine della Corona d'Italia - nastrino per uniforme ordinaria    
Commendatore dell'Ordine della Corona d'Italia
Cavaliere dell'Ordine Civile di Savoia - nastrino per uniforme ordinaria    
Cavaliere dell'Ordine Civile di Savoia
   
Scritti

    Chi sa il gioco non l'insegni. Proverbio in un atto in versi, Pisa, 1871;
    Ad una donna. Versi, Venezia, Visentini, 1872;
    Il primo passo, Firenze, 1882;
    Fra un sigaro e l'altro: chiacchiere di Fantasio, Milano, G. Brigola, 1876, e successive edizioni tra le quali: Milano, Treves, 1930;
    Cose africane, da Saati ad Abba Carima, discorsi e scritti, Milano, F.lli Treves, 1896 ;
    Confessioni e ricordi, Firenze, Bemporad, 1922 (e successive edizioni);
    Lettere (1860-1928), Milano, Mondadori, 1934;
    Nell'Affrica italiana, Milano, Treves, 1891;

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DBI

di Raffaele Romanelli

Ferdinando Martini

Nacque a Firenze il 30 luglio 1841, da Vincenzo, possidente nobile di Monsummano e allora segretario generale alle Finanze del Granducato di Toscana, e da Marianna dei marchesi Gerini.

Il M. frequentò un istituto privato che gli dette un’istruzione alquanto approssimativa; apprese il latino e la scrittura in versi, che praticò però da giovanissimo con disinvoltura («strascichi dell’Arcadia», avrebbe ricordato il M.: Confessioni e ricordi, I, Firenze granducale, Milano 1929, p. 135). Scrisse allora e mise in scena le prime commediole, e pubblicò in giornaletti fiorentini che si occupavano di teatro, come La Lente e Lo Scaramuccia. Non andò oltre negli studi: faticò a prendere il baccellierato e non frequentò l’Università.

Quattordicenne, perse la madre in un’epidemia di colera. Nel 1862, la morte del padre palesò il dissesto del patrimonio familiare: venduti tra gli altri beni i poderi di Monsummano, la proprietà si ridusse al palazzo di Firenze e alla villa Renatico-Martini, e il M., «non sapendo far altro», si dette alle lettere per guadagnarsi da vivere. Nei circoli intellettuali fiorentini frequentò tra gli altri R. Fucini, D. Comparetti, A. D’Ancona e conobbe G. Carducci, di cui rimase sempre devoto ammiratore. Nel 1863, con la commedia I nuovi ricchi (edita in Teatro di F. Martini, II, Milano 1873) vinse un premio istituito da B. Ricasoli per il teatro e con il ricavato si recò a Parigi. Intanto collaborava alla Nazione con recensioni e corrispondenze di viaggio che gli fecero conoscere un poco l’Europa. Nei ricordi della nipote Giuliana Benzoni il M. fu, in quegli anni, «moderatamente incanaglito in bagordi giovanili e definitivamente rinsavito sulle rive della Senna» (G. Benzoni, La vita ribelle, Bologna 1985, p. 24). Scrisse di teatro (Del teatro drammatico in Italia, Firenze 1862; Al teatro, ibid. 1895, che contiene anche una rassegna critica dell’opera teatrale del padre scritta nel 1876 come premessa alle sue opere) e varie commedie leggere, più tardi ripudiate.

Nei primi anni Settanta il M. si cimentò con successo anche con un genere teatrale allora in voga, i «proverbi drammatici», commedie a tesi in versi alessandrini, o «martelliani» (Chi sa il gioco non l’insegni; La strada più corta; Il peggior passo è quello dell’uscio, poi raccolti in volume, Milano 1895).

Nel 1866, sposata Giacinta Marescotti, figlia del conte Augusto, si dette all’insegnamento, dedicandosi nel contempo alla scrittura di racconti (Peccato e penitenza, del 1870, ma pubblicato a Firenze nel 1873, e La marchesa, Livorno 1877, già apparsa a puntate ne La Provincia). Il M. insegnò dapprima in un istituto superiore di Vercelli, poi alla Scuola normale superiore di Pisa, dove, venuto a conoscenza della morte di G. Mazzini – che apprezzava soprattutto come letterato e autore degli Scritti d’un italiano vivente – inviò al Fanfulla una cronaca dell’evento. Avendo subito commemorato Mazzini di fronte agli studenti, contravvenne alle disposizioni delle autorità e fu costretto a lasciare l’insegnamento.

Il M. collaborava a quel tempo con gli pseudonimi Fox e Fantasio al Fanfulla, quotidiano nato nel 1870 a Firenze e trasferito nell’ottobre dell’anno seguente a Roma.

Gli scritti di questo periodo, insieme con i precedenti racconti di viaggio, sono riuniti in varie raccolte: Tra un sigaro e l’altro. Chiacchiere di Fantasio, Milano 1876; A zonzo, Catania 1899; Racconti, Milano 1888; Di palo in frasca, Modena 1891; Simpatie. Studi e ricordi, Firenze 1900; Pagine raccolte, ibid. 1912.

Nel luglio 1879 fondò, e poi diresse fino al febbraio 1882, un supplemento letterario, Il Fanfulla della domenica, primo settimanale del genere di respiro nazionale (nel gennaio 1880 tirava già 23.000 copie), che lasciò polemicamente per fondare nello stesso mese di febbraio, la Domenica letteraria, pubblicato da Angelo Sommaruga fino al 22 marzo 1885 (interrotta, riprese le pubblicazioni dal 3 marzo al 7 nov. 1885 con l’intestazione Domenica letteraria - Cronaca bizantina). Il M. rivelò grandi capacità di organizzatore culturale assicurandosi le migliori firme del tempo, da Carducci a G. Verga a L. Capuana, G. Giacosa, E. De Marchi, Matilde Serao, con molti dei quali mantenne strette relazioni. Il 7 luglio 1881 diede anche vita al Giornale per i bambini, in cui, dal primo numero fino al 25 genn. 1883, apparve a puntate La storia di un burattino (ossia il Pinocchio) di Collodi (Carlo Lorenzini).

Erano gli anni delle polemiche sulla lingua, e il M., che pure aveva peccato di quel linguaggio retoricamente ornato, infarcito di locuzioni elaborate tipico dei toscani colti, seppe poi raffinare lo stile fino a guadagnarsi più tardi l’apprezzamento di B. Croce (La letteratura della Nuova Italia. Saggi critici, III, Bari 1929, p. 330). La chiarezza e la leggerezza dello stile, apparentemente innate e in realtà coltivate con grande attenzione, ne fecero il «più schietto rappresentante della “toscanità”, di quell’equilibrio, di quella temperanza, di quel gusto discreto, di quell’amore per la proprietà e la precisione del linguaggio, che è comunemente riconosciuto alla Toscana odierna» (ibid., p. 333). Pulizia e semplicità della scrittura coincidevano con la figura arguta e conversevole, positiva, del grande signore che sorride di tutto e di se stesso per primo, che non manifesta grandi passioni e s’affida piuttosto all’ironia, allo scender di tono, al riportare le cose al livello comune, al buon senso (ma, avvertiva Croce, non sempre la gradevolezza accresceva la sostanza, e molte volte i giudizi critici del M. «girano intorno al problema, non lo risolvono»: ibid., p. 320).

Un simile atteggiamento stilistico governò anche l’attività politica e amministrativa che assorbì il M. negli anni seguenti. Nelle elezioni dell’8 nov. 1874 gli fu proposto di candidarsi alla Camera (XII legislatura) per il collegio di Pescia, che era stato fino ad allora dominato da L. Galeotti, elevato quell’anno al laticlavio. Il M. era dunque un notabile del luogo, ma il profilo tradizionale del possidente nobile si era dissolto in quello moderno del pubblicista e giornalista privo di esperienza alcuna di amministratore, come gli fu subito rimproverato. Contrapposto a E. Brunetti per la Destra e al giurista F. Carrara per la Sinistra, fu sconfitto al ballottaggio da Brunetti; ma l’elezione di questo fu annullata per irregolarità il 9 giugno 1875.

Al M. non furono risparmiate insinuazioni d’ogni tipo sulla sua vita privata e la sua condotta patrimoniale, tanto che dovette intervenire in sua difesa anche il suocero, il conte Marescotti.

Alle elezioni suppletive del 27 giugno 1875, contrapposto al solo Brunetti, il M. vinse con uno scarto di 20 voti, ma l’elezione fu nuovamente annullata per un vizio formale e i comizi riconvocati per il 30 genn. 1876. Con soli 16 voti di scarto, questa volta il M. entrò alla Camera. Nelle elezioni generali del 9 novembre (XIII legislatura), privo di solidi avversari, ricevette quasi il 90% dei suffragi.

Il M. si inserì subito nel nuovo clima politico tenendosi assai sul vago quanto a programmi. Dopo Porta Pia, in un opuscolo intitolato Roma, la libertà ed i partiti (Milano 1870) aveva dichiarato di non vedere alternativa all’ordine monarchico, di essere contrario a una eccessiva ingerenza dello Stato e favorevole alle autonomie («il sistema d’accentramento praticato in Francia è il pessimo de’ sistemi»), nonché convinto che in Italia fortunatamente non vi fosse una questione sociale («È un paese principalmente agricolo, e le popolazioni rurali intendono poco in questa questione», ibid., pp. 8 s.), mentre auspicava che sorgesse un bipartitismo all’inglese, basato sul confronto tra progressisti e conservatori, collocandosi lui tra i primi. Indirizzandosi agli elettori di Pescia nel 1874 si dichiarò strenuo paladino degli interessi locali ed estraneo a schieramenti di partito; avrebbe votato le leggi ritenute buone, respinte le altre, senza volersi legare a partiti di sorta. Nel 1876 ribadì di non credere affatto alla distinzione tra Destra e Sinistra ritenendo indiscutibile «la necessità della trasformazione dei partiti, la necessità della costituzione di un partito forte, potente, compatto, logico nei suoi intendimenti, sicuro nelle sue aspirazioni» (discorso, cit. in Conti, p. 340).

Coerentemente con le sue dichiarazioni, alla Camera il M. mantenne una certa indipendenza di giudizio, votando a volte contro la maggioranza. Per esempio votò contro l’abolizione della legge sul macinato e nel 1878 contribuì a far cadere il ministero Cairoli. L’apoliticità, il moderatismo sociale, il radicamento notabilare in un collegio d’orientamento liberalconservatore ben disposto verso la Chiesa, una inclinazione governativa a base laica e democratico-risorgimentale di stampo massonico: questi gli stabili ingredienti del profilo politico del M., che nel corso degli anni non gli risparmiarono critiche e contrasti. Benché alle elezioni del 1880 (XIV legislatura) prevalesse sugli avversari per soli tre voti, egli aveva ormai conquistato definitivamente il collegio, che da allora lo riconfermò con indiscusso sostegno in tutte le elezioni seguenti fino alla XXIV legislatura (1913-19), comprese quelle svoltesi fra il 1882 e il 1890, quando il collegio di Pescia, in seguito all’introduzione dello scrutinio di lista, venne incluso nella più ampia circoscrizione elettorale di Lucca (legislature XV-XVII).

Con la risistemazione dei gruppi politici seguita alla morte di A. Depretis il 29 luglio 1887, il M. fu tra quei deputati del Centrosinistra che non si legarono a F. Crispi e videro in G. Zanardelli un nuovo leader. Fu infatti tra i sottoscrittori delle quote di 500 lire «per la difesa ed incremento del partito liberale» proposte da Zanardelli nel 1890-92. In quegli anni il M. si dedicava ai problemi dell’istruzione e degli ordinamenti scolastici. Relatore alla Camera del bilancio del ministero della Pubblica Istruzione nel 1883, dal 27 apr. 1884 al 31 genn. 1885 fu segretario generale del medesimo ministero (retto da M. Coppino); nel 1892-93 fu poi chiamato a ricoprire la carica di ministro della Pubblica Istruzione nel primo governo Giolitti.

Come altri in quel ministero, egli non poteva dirsi «giolittiano». Ha scritto G. Manacorda che il M. «aveva verso il presidente subalpino la sufficienza del brillante letterato toscano, e quando se ne presentava l’occasione non era da meno di Brin nel fargli la fronda» (Dalla crisi alla crescita. Crisi economica e lotta politica in Italia 1892-1896, Roma 1993, p. 23). Adottò o mise allo studio provvedimenti significativi. Preparò con C.F. Ferraris un progetto di complessiva riforma delle università, l’ennesimo dei tanti progetti intesi a razionalizzare la distribuzione degli atenei ed eliminare le università minori, da tempo criticate per la loro scarsa vitalità. Rovesciando l’impostazione del suo predecessore G. Baccelli, che contava sull’autonomia finanziaria degli atenei e sul sostegno degli enti locali, il M. si proponeva di abolire la distinzione tra università complete – dotate delle quattro facoltà e di almeno alcune delle scuole universitarie annesse – e incomplete, o minori, con la soppressione di quelle di Messina, Modena, Parma, Siena, Sassari e Macerata e il completamento delle restanti. Le resistenze fortissime dei centri minori e la breve vita del ministero non consentirono di presentare il progetto, che fu poi pubblicato in un volume denso di dati statistici (F. Martini - C.F. Ferraris, Ordinamento generale dell’istruzione superiore. Studi e proposte, Milano 1895). Il M. ebbe invece successo nel porre fine all’infelice esperimento che aveva militarizzato cinque convitti nazionali, affermando che «non c’è un’educazione civile ed un’educazione militare; c’è un’educazione nazionale; il resto è nulla» (Camera dei deputati, 15 giugno 1893). Nel campo dell’istruzione elementare presentò un disegno di legge – che non fu approvato – volto ad abolire la distinzione, sancita dalla legge Casati e ormai superata, delle patenti magistrali tra inferiori, che abilitavano a insegnare nelle prime due classi elementari e nelle scuole rurali, e superiori, valide per l’intero ciclo. Inoltre rafforzò il ruolo degli ispettori scolastici e riformò l’amministrazione centrale del ministero portando a nove il numero delle divisioni, una delle quali competente per le scuole normali e magistrali, delle quali modificò i programmi, ritenendoli carenti di contenuti specificamente pedagogici e troppo carichi di materie umanistiche.

Lo guidava un coerente disegno di pedagogia nazionale più volte manifestato negli interventi parlamentari. Convinto che fosse necessario instillare nei fanciulli fin dai primi anni l’amor di patria e la religione del dovere, il M. vedeva nella scuola il fondamento di una religione civile che solo con grande convinzione e impegno di risorse avrebbe potuto affrontare la questione sociale e così soppiantare la funzione svolta tradizionalmente dalla Chiesa.

Il M. era iscritto alla loggia Propaganda massonica di Roma, rivestendo il grado di maestro dal 23 nov. 1883. Più volte manifestata, la sua visione si fece ancor più convinta e polemica di fronte al crescendo delle tensioni sociali, che accentuavano la sua sfiducia nelle «moltitudini» e nella loro emancipazione politica e finivano con l’incrinare la sua stessa fiducia nelle virtù dell’insegnamento laico.

Nel 1894 scriveva a Carducci in toni da «convertito», giacché «le rivoluzioni politiche, le quali non accompagnino un rinnovamento religioso, perdono di vista l’origine loro e i primi intenti e finiscono a scatenare ogni cattivo istinto delle plebi»; «noi, borghesia volteriana, siam noi che abbiamo fatto i miscredenti, intanto che il Papa custodiva i male credenti», e ora «ritorneremo fuori a parlare di Dio, che ieri abbian negato?» (cfr. Lettere 1860-1928, Milano 1934, pp. 291 s.). Lo ripeté nel 1897, quando venne in discussione la proposta di reintrodurre l’insegnamento religioso nelle scuole come antidoto al conflitto sociale: la borghesia, abbandonato il volterrianismo per timore delle plebi che ella stessa aveva sollevato, spera che «un Pater noster recitato nella scuola elementare possa ostacolare il progresso incessante dello spirito umano» (Camera dei deputati, 4 luglio 1897).

Nelle tormentate vicende di fine secolo il M. si fece mediatore fra i vari gruppi politici. Interlocutore del governo e dello schieramento radicale all’epoca delle leggi «antianarchiche» di Crispi, presentò insieme con L. Lucchini un controprogetto che ebbe l’effetto di temperare le disposizioni governative. Fu quindi l’uomo del collegamento tra A. Starrabba di Rudinì e Zanardelli, posizione che il 21 nov. 1897 gli valse la nomina a governatore dell’Eritrea (ma, formalmente, «Commissario civile straordinario»). Com’egli ebbe a ricordare, la nomina dipese «dal caso, dalla fortuna, dalle circostanze» (ibid., 29 dic. 1903, p. 397) e l’accettò sapendola temporanea e non tale da impedirgli i rapporti con il collegio e con Montecitorio, e per di più ben retribuita (secondo D. Farini si diceva che egli avesse allora «bisogni pecuniari urgentissimi»: Diario di fine secolo, II, p. 1181). Un tempo molto scettico sulle imprese coloniali, il 30 giugno 1887 il M. era stato tra i pochi che avevano votato contro gli stanziamenti per l’Africa. Ma nel 1891, costituita una commissione d’inchiesta per la Colonia Eritrea, ne era stato nominato vicepresidente; nacquero così, in seguito a un suo viaggio di due mesi, Nell’Affrica italiana. Impressioni e ricordi (Milano 1891), letterariamente apprezzato da Croce, e successivamente, dagli studi preparatori e dai discorsi parlamentari, Cose affricane: da Saati ad Abba Carima (discorsi e scritti), ibid. 1896.

A un anno da Adua, dopo che il 26 ott. 1896 la pace di Addis Abeba aveva salvato la colonia lasciando impregiudicata la sua natura e la sua estensione, e mentre si alternavano idee di abbandono, progetti di riscosse militari e piani intermedi di «raccoglimento», la nomina del M. esprimeva il passaggio dall’amministrazione militare a quella civile e la scelta di un moderato che sul futuro della colonia si era espresso cautamente, comunque a favore del «fatto compiuto» e contrario alla liquidazione. Sarebbe stato suo compito fissare tra Eritrea e Etiopia confini «giusti e ben determinati», dare alla colonia uno «stabile assetto», assicurare «una gestione strettamente regolare e corretta» e ridurre le spese (la lettera di istruzioni è in Aquarone, pp. 157-160). In altre parole, barcamenarsi, e soprattutto allontanare la colonia dall’agenda politica romana, far sì che non si tornasse più a parlarne per il suo costo, per le imprese militari o per la corruzione che già aveva originato l’inchiesta del 1891.

Egli aveva l’ampia autonomia operativa garantitagli dalla peculiare natura del governo coloniale italiano, che era sottratto sia al controllo parlamentare sia alle regole degli ordinamenti metropolitani e all’ombra del quale erano fioriti arbitrii, facili carriere e peculati d’ogni sorta. Arrivato sul posto, il M. si propose dunque di «fare qualcosa di molto serio, ma nulla di brillante» (Lettere…, 3 dic. 1897, p. 320). E così fece nel suo governo coloniale, che si prolungò fino al 1907.

Sul posto, il M. si mosse con personale correttezza, con «buon senso» e intuito. Si inventò divise, pennacchi e insegne dorate per dare il senso della superiore autorità con cui amministrava e dirimeva controversie locali e conflitti. Alla sua amministrazione vanno peraltro ascritti più solidi esperimenti di coltivazioni coloniali e di messa a coltura di nuove aree, la creazione di un Istituto agronomico coloniale e, nell’autunno del 1905, la convocazione all’Asmara di un congresso coloniale che ebbe indubbia rilevanza. Non mancarono sforzi per la conoscenza della società locale, anche a fine di controllo sociale e di contrasto del cosiddetto «brigantaggio» nelle forme repressive già familiari in patria e che una cultura profondamente razzista rendeva ancor più crude.

Del suo governatorato rimase un buon ricordo, e nonostante la sua politica di «raccoglimento» il M. fu gradito anche all’opinione colonialista. Benché il suo operato fosse caratterizzato da un costante conflitto con le autorità militari, sia nella colonia – dove faticò ad affermare la supremazia del potere civile, sancita, ma con scarsi effetti pratici, dall’approvazione dell’ordinamento organico nel 1900 e poi dalla legge sull’ordinamento della Colonia Eritrea del 24 maggio 1903 – sia in patria, dove si premeva per una politica di rinforzo dei contingenti militari, egli evitò che si arrivasse a un pronto accordo sulle frontiere che abbandonasse l’altipiano eritreo, com’era nei disegni iniziali. E dunque lasciò impregiudicate le possibilità di espansione nella regione, secondo i desideri del re e dei circoli coloniali e nel 1906 a Londra si giunse a un accordo tripartito sull’Etiopia fra Gran Bretagna, Francia e Italia.

Deluso dell’inanità di molti suoi sforzi, e lamentando lo scarso sostegno della metropoli, la mancanza di interesse e di risorse, la difficoltà dei rapporti con l’amministrazione italiana – anche dopo che fu costituito un Ufficio coloniale presso il ministero degli Affari esteri –, dichiarandosi nauseato, amareggiato e scoraggiato, prospettò più volte le dimissioni e si assentò dalla colonia per periodi sempre più lunghi. Le sue vacanze in patria, usualmente estese da giugno a settembre, finirono con il prolungarsi oltre misura – una durò dal marzo 1904 all’aprile 1905 – e gli furono più volte anche autorevolmente rimproverate.

Gli anni africani non lo tennero dunque lontano dalla vita sociale e politica italiana. La sua residenza romana di palazzo Simonetti a via della Pilotta era centro di relazioni letterarie, politiche e mondane in cui rifulgevano, oltre che la sua cultura e affabilità, le doti della moglie Giacinta Marescotti, donna di notevole levatura intellettuale, militante femminista, una delle prime tessere romane del Partito socialista italiano (PSI), che insieme con la sorella Teresa, moglie di Ignazio Boncompagni-Ludovisi principe di Venosa, animava un salotto frequentato da un mélange politico-artistico di respiro nazionale e cosmopolita, tipico della Roma «bizantina», che andava da G. Fortunato a G. Primoli, da S. Sonnino a Matilde Serao a G. D’Annunzio. Ad arricchire il reticolo delle conoscenze e delle frequentazioni contribuì poi la figlia Teresa, detta Tita, andata in sposa a Gaetano Benzoni, di illustre famiglia lombarda.

Al suo ritorno dall’Eritrea il M. riprese il suo seggio alla Camera riconoscendosi nel «partito democratico parlamentare» che alla morte di Zanardelli ne raccolse i seguaci e che si costituì in Sinistra democratica, gruppo parlamentare al quale il M. aderì formalmente nel 1909 e di cui fu tra gli esponenti maggiori. In quella fase la formazione di «blocchi popolari» nelle elezioni amministrative e la clamorosa vittoria di E. Nathan a Roma suscitarono una ventata di anticlericalismo e aspre contrapposizioni con i cattolici. Nel febbraio 1908 una mozione presentata alla Camera da L. Bissolati a favore dell’abolizione dell’insegnamento religioso nelle scuole elementari impegnò tutti i maggiori leader in un dibattito, l’ultimo del genere, sui rapporti tra Stato e Chiesa, fra società civile e società religiosa. Il M., che già in varie occasioni si era pronunciato sull’argomento – per esempio con una serie di articoli apparsi ne Il Risveglio educativo di Milano – intervenne a sostegno della mozione pronunciando forti parole a difesa della laicità dello Stato, insistendo sulla distinzione tra una naturale religiosità popolare e gli interessi conservatori della Chiesa e ribadendo la sua critica a quanti confidavano nella Chiesa per il mantenimento dell’ordine sociale. Il dibattito ebbe larga eco e parve fare del M. l’esponente di un’alleanza tra Rudinì e l’Estrema. In quest’occasione la Sinistra mosse contro di lui, per screditarlo, una campagna di stampa per alcune speculazioni finanziarie e borsistiche di diversi anni prima.

Alle elezioni politiche del 1909 la candidatura del M. si trovò insidiata dalla mobilitazione dei socialisti da un lato e dalla presentazione di un candidato cattolico dall’altro. Ma il suo radicamento nel collegio di Lucca e il disciplinato sostegno della massoneria gli permisero di prevalere sugli avversari.

Nell’aprile del 1910, si recò in missione in Argentina in qualità di ambasciatore straordinario.

In Parlamento assunse posizioni sempre più critiche sia verso Giolitti (1906-09), sia verso il successivo governo Sonnino (1909-10), che non riuscì ad averlo ministro e a ottenere così l’appoggio della Sinistra democratica. Il M. rimase da allora critico verso Giolitti e il giolittismo, alle cui aperture sociali e alle cui alleanze ondivaghe opponeva un liberalismo democratico di stampo risorgimentale, fermo a una chiara distinzione tra conservatori e progressisti, tra «quelli che hanno paura dell’avvenire e quelli che non l’hanno» (Camera dei deputati, 7 apr. 1911).

Condivise l’entusiasmo per l’impresa libica, sentita come il riscatto di Adua, come «rinascimento morale e politico», come avverarsi delle «leggi della storia» e garanzia dell’avvenire italiano (Lettere…, 14 nov. 1911, pp. 456 s.). Membro della commissione parlamentare per l’esame del disegno di legge sull’estensione del suffragio, dichiarò di esser stato favorevole fin dal 1881 al suffragio universale (non al semplice allargamento) e di sostenere il voto alle donne (di cui la moglie era fervente paladina), benché poi si astenesse sulla proposta presentata da R. Mirabelli in tal senso. Non contrario al suffragio universale, favorevole all’impresa libica e di sentimenti filofrancesi, il M. aveva motivo di avvicinarsi a Giolitti. Ma quando alcuni esponenti della Sinistra democratica entrarono nel IV gabinetto Giolitti, il M. se ne dissociò, pur non aderendo alla nuova sinistra dei «giovani turchi». Aderì invece al Partito democratico costituzionale italiano, sotto la cui bandiera conobbe un nuovo successo elettorale nel 1913 (XXIV legislatura), quando nel collegio di Pescia i cattolici non si presentarono e la candidatura socialista era più debole. Poiché in quell’occasione furono denunciati casi di corruzione elettorale in vari collegi della provincia, il M., pur sottolineando che essi non riguardavano il suo, dette le dimissioni da presidente del Consiglio provinciale di Lucca.

Anche per il M. la prima guerra mondiale rappresentò un tornante decisivo che gli fece trovare una determinazione inconsueta e un’enfasi patriottica fino ad allora sconosciuta. Si fece subito sostenitore dell’intervento a fianco dell’amata Francia e contro l’odiatissimo Impero asburgico, la cui sopravvivenza riteneva esiziale per l’Italia. Proruppe allora tutto il suo antigiolittismo e si legò strettamente ad A. Salandra, che, alla morte di A. Paternò Castello di San Giuliano (ottobre 1914), non ritenne opportuno affidargli il dicastero degli Esteri per non dare al suo ministero una impronta troppo interventista e gli affidò invece quello delle Colonie in entrambi i suoi governi (marzo - novembre 1914 e novembre 1914 - giugno 1916). Il M. profuse tutte le sue energie nella causa della guerra. Finita l’esperienza ministeriale, nel 1917 partecipò al tentativo di unire sinistra democratica e destra liberale in un «fascio interventista». Dopo Caporetto aderì al Fascio parlamentare di difesa nazionale, costruito al fine di scongiurare l’ipotesi di una pace separata, e sostenne poi la politica delle nazionalità nell’ex Impero asburgico.

Dal luglio del 1914 e fino al febbraio del 1919 tenne un diario non destinato alle stampe e pubblicato mezzo secolo più tardi (Diario 1914-1918, a cura di G. De Rosa, Milano 1966). Oltre che una messe di notizie sull’andamento della politica di quegli anni, vi si trovano la commozione con cui il M. seguì le vicende belliche e l’amarezza per la scarsa partecipazione popolare alla guerra, segno – secondo lui – di quella carenza di educazione patriottica e civile su cui tante volte aveva insistito.

Finita la guerra, il M. tornò attivissimo nel campo dell’organizzazione culturale: nel 1919 figura tra i fondatori di un’associazione dedicata alla distribuzione libraria, la Società anonima librerie italiane riunite, presieduta da E. Bemporad e sostenuta dalla Banca commerciale italiana. Presiedette l’Associazione Leonardo, ente morale dedicato alla diffusione della cultura italiana, ed elaborò il progetto di una Enciclopedia nazionale in 24 volumi; progetto poi ripreso da G. Gentile e realizzato con il sostegno di G. Treccani.

I profondi cambiamenti politici del dopoguerra e le difficoltà dei liberali di adattarsi al nuovo sistema elettorale di tipo proporzionale colpirono anche il M., che alle elezioni del 1919 si presentò in una lista di democratici e fu sconfitto.

Dopo l’ascesa al potere di B. Mussolini, quando nell’agosto 1923 venne in discussione al Senato la legge Acerbo, il M., che il 1° marzo aveva ottenuto la nomina a senatore, dopo avere criticato aspramente la riforma elettorale del 1919, pur senza esprimere un parere sulla riforma, dichiarò di votarla «perché Mussolini la vuole: e questa vi parrà una politica troppo semplice, ma io la credo la politica del senso comune […]. Io la voterò in segno di riconoscenza per quanto egli fece, in segno di fiducia in ciò ch’egli farà» (discorso, 5 ag. 1923: cit. in Conti, p. 350). Come Salandra, anche il M. era «affascinato e preoccupato» dal fascismo. Già nel 1922, commentando privatamente il discorso mussoliniano del bivacco, che lo aveva «irritato», scriveva il 4 dic. 1922 a Salandra che nella sostanza Mussolini gli pareva «uomo di buon senso, di vigore e di fermezza» (Gifuni). Così tramontava nell’ultraottantenne M. l’elogio del buon senso.

I suoi ultimi anni furono connotati dall’adesione acritica verso il fascismo. Nel 1925 aderì al «Manifesto degli intellettuali del fascismo» steso da Gentile e il 29 luglio 1927 fu nominato ministro di Stato.

Negli ultimi decenni, pur occupato nell’attività politica, il M. non aveva tralasciato la produzione letteraria. Dopo che nel 1894 si era cimentato anche in un dramma teatrale, La vipera (Milano 1895), si era dedicato soprattutto a studi di recupero risorgimentale e a pubblicazioni memorialistiche. L’edizione delle lettere di F.D. Guerrazzi, da lui già avviata con un primo volume apparso a Torino nel 1890, fu ripresa in Due dell’Estrema: il Guerrazzi e il Brofferio. Carteggi inediti, 1859-1866 (Firenze 1920). Dedicò grande attenzione alla figura di G. Giusti. Dopo aver pubblicato quattro saggi su di lui (in Simpatie. Studi e ricordi, ibid. 1900; 2ª ed. molto accresciuta, ibid. 1909), il M. ne curò l’Epistolario in tre volumi (ibid. 1904; poi divenuti quattro e, dopo la morte del M., completato con un quinto), nonché le Memorie inedite, 1845-49 (Milano 1890), poi confluite in Tutti gli scritti editi e inediti (Firenze 1924).

Il M. pubblicò inoltre capitoli di memorie e bozzetti storici apparsi prevalentemente ne L’Illustrazione italiana tra il 1909 e il 1921 e raccolti nei due volumi destinati a larga fortuna di Confessioni e ricordi, I, Firenze granducale (ibid. 1922), e II, 1859-1892 (Milano 1928; ora, da ultimo, a cura di M. Vannini, Firenze 1990). Oltre a vari interventi, prefazioni e traduzioni dal francese (La certosa di Parma di Stendhal, Milano-Verona 1930; Il paradiso delle signore di É. Zola, Roma 1883), curò alcune apprezzate antologie destinate alla scuola, tra cui: Prose italiane moderne… (Firenze 1894), e Prosa viva di ogni secolo della letteratura italiana… (ibid. 1896).

Il M. morì a Monsummano il 24 apr. 1928.

Il figlio Alessandro Martini Marescotti, che era stato a lungo accanto al padre nell’attività politica, ne curò la successione. Commemorandolo in Senato, L. Federzoni disse: «il Fascismo china reverente tutti i neri gagliardetti dinanzi alla tomba di uno dei suoi più preclari e fervidi militanti» (Atti parlamentari, Senato del Regno, Discussioni, seduta del 3 maggio 1928). L’appropriazione del M. da parte del fascismo e l’individuazione in lui di uno dei tanti «precursori» riguardò anche il periodo africano e culminò nella pubblicazione a Firenze, nel 1942-43, dei 4 volumi dell’opera Il diario eritreo, con una Nota introduttiva di R. Astuto di Lucchesi, governatore d’Etiopia.

Fonti e Bibl.: Alla morte del M., per disposizione delle autorità archivistiche, le carte di argomento politico furono versate all’Arch. di Stato del Regno, oggi Arch. centr. dello Stato, dove sono conservate, per una consistenza di 22 buste, riguardanti in prevalenza la politica coloniale. Per disposizione testamentaria del M. stesso il suo carteggio fu invece destinato alla Biblioteca nazionale di Firenze, dove costituisce il Fondo Ferdinando Martini, con circa 11.000 lettere scritte al M. fra il 1861 e il 1926. Importanti nuclei di lettere del M. sono in altri fondi della medesima Biblioteca. La sua biblioteca, ricca di oltre 15.000 volumi e 12.000 opuscoli di argomento artistico-letterario e teatrale, fu acquistata già nel 1928 dalla Cassa di Risparmio di Pistoia ed è andata ad arricchire la Biblioteca Forteguerriana di quella città, insieme con altri nuclei minori del suo archivio. I principali scritti del M. sono citati nel testo generalmente nella prima delle numerose edizioni. Per una loro sistemazione si veda: M. Vannini, Storia e fortuna delle edizioni martiniane, in Farestoria. Riv. semestrale dell’Ist. stor. provinciale della Resistenza di Pistoia, X (1991), 17, numero monografico (comprende anche saggi di S. Romagnoli, M. Martelli, M.A. Balducci, N. Labanca, G. Del Bono, F. Tempesti, A. Greco, F. Savi, S. Lucarelli, A. Triulzi). Con l’eccezione di F. Conti, F. M.: un notabile e il suo collegio, in L’Italia dei democratici. Sinistra risorgimentale, massoneria e associazionismo fra Otto e Novecento, Milano 2000, pp. 326-350, non esistono studi critici sulla figura politica del Martini. Atti parlamentari, Camera dei deputati, legislature XII-XXIV, ad indices; Senato del Regno, legislature XXV-XVI, ad indices; D. Farini, Diario di fine secolo, I-II, a cura di E. Morelli, Roma 1961-62, ad indices; G. Gifuni, Salandra inedito, Milano 1973, pp. 169s.; M. Belardinelli, Un esperimento liberal-conservatore: i governi Di Rudinì (1896-1898), Roma 1976, ad ind.; H. Ullrich, La classe politica nella crisi di partecipazione dell’Italia giolittiana, 1909-1913, Roma 1979, ad ind.; A. Scornajenghi, La Sinistra mancata. Dal gruppo zanardelliano al Partito democratico costituzionale italiano (1904-1913), Roma 2004, ad indicem. Cenni sulla questione scolastica in F. Chabod, Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896, Bari 1962, pp. 280-282; F. Cordova, Massoneria e politica in Italia. 1892-1908, Roma-Bari 1985, ad ind.; E. De Fort, La scuola elementare dall’Unità alla caduta del fascismo, Bologna 1996, ad indicem. Sulla questione universitaria: M. Moretti, La questione delle piccole università dai dibattiti di fine secolo al 1914, in Le università minori in Italia nel XIX secolo, a cura di M. Da Passano, Sassari 1993, ad indicem. Della vasta letteratura coloniale si vedano almeno: A. Aquarone, Dopo Adua: politica e amministrazione coloniale, Roma 1989, ad ind.; I. Rosoni, La Colonia Eritrea. La prima amministrazione coloniale italiana (1880-1912), Macerata 2006, ad indicem. R. Romanelli.