DELLA CASA, Giovanni

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Letterato (n. nel Mugello, o forse a Firenze, 1503 - m. Roma 1556), noto soprattutto per il Galateo (1558), piccolo trattato di regole universali che valgono ad assicurare il successo nella vita.

VITA

Fu a Padova nel 1528 e di lì si trasferì a Firenze, indi a Bologna e infine a Roma dove si stabilì dal 1532 al 1540. Nel 1544 fu nominato arcivescovo di Benevento, benché non fosse ancora prete (ebbe il presbiterato nel 1547), ma non raggiunse mai la sua diocesi perché fu mandato nunzio a Venezia, città che abbandonò nel 1549. Si deve a lui l'introduzione in Veneto dei processi dell'Inquisizione (celebre quello intentato a P. P. Vergerio) e largamente si adoperò per la repressione dell'eresia in quelle regioni. Tornato a Roma, vi rimase fin verso gli ultimi mesi del 1551 quando, caduto in disgrazia Alessandro Farnese, anch'egli si trovò in difficoltà presso Giulio III. Al ritiro seguito all'allontanamento da Roma si deve la sosta nel Veneto e la tranquilla meditazione dalla quale nacque il Galateo. Eletto pontefice Paolo IV, fu richiamato a Roma ma non fu mai creato cardinale com'egli ardentemente sperava.

OPERE

La sua opera letteraria è assai varia, dai giovanili licenziosi capitoli Sopra il forno, Del bacio, Sopra il nome suo, Del martello, Della stizza, passò alla lirica petrarcheggiante, alla quale riuscì, con innovazioni metriche, a conferire una certa originalità conquistandosi l'ammirazione dei contemporanei: le Rime (1558) restano fra la migliore produzione lirica cinquecentesca. Come oratore politico è noto specialmente per l'orazione scritta per indurre i Veneziani ad aderire alla lega pontificia contro Carlo V. Tradusse da Demostene e Tucidide, scrisse la Vita del Bembo e di F. Contarini, ma la sua fama è legata soprattutto al Galateo, trattatello che si propone d'insegnare a "essere costumato, piacevole e di bella maniera": un insieme di norme di "civil conversazione" che sono alla base della morale sociale e che esprimono quell'ideale di signorile elevatezza, di dominio di sé, di serena armonia dello spirito, che ha la sua origine nelle pagine del Boccaccio e informa la vita tutta del Rinascimento, in Italia e fuori.

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DBI

di Claudio Mutini

Nacque il 28 giugno 1503 da Pandolfo e Lisabetta di Giovanfrancesco Tornabuoni, probabilmente in Mugello, dove la famiglia possedeva beni ("Monsignor Della Casa - asseriva G. M. Brocchi - dicono che nascesse in Mugello, nel Popolo di S. Agata a Mucciano... chiamandosi tuttavia quel luogo la Casa"), anche se l'autore amò dichiararsi quasi sempre "fiorentino", come per un diritto di autodeterminazione nei confronti della patria medicea. Era il fratello maggiore di Francesco che nacque a Roma nel 1505 e vi morì nel '41senza lasciare eredi, e di ben quattro sorelle: Agnoletta, Marietta, Elisabetta, Dianora: quest'ultima, moglie di Luigi Rucellai, ebbe tre figli, Pandolfo, Annibale e Orazio, per i quali il Della Casa nutrì sensibile affezione come dimostra in vari tratti la sua biografia.

Il padre esercitava la mercatura e nel 1504 si recò a Roma affittando un locale presso ponte S. Angelo dove è probabile che si trasferisse tutta la famiglia. Nel 1510muore Lisabetta Tornabuoni. In data imprecisabile, ma sicuramente anteriore al 1524, Pandolfo fa ritorno in Toscana, e a Firenze, compiuti i primi studi di umanità, il D. frequenta le lezioni di Ubaldino Baldinelli, del quale conserverà un ricordo lusinghiero, definendolo, in una lettera del '32a Ludovico Beccadelli, "persona di molto discorso e di ottimo giudicio, e pratico".

Tra la fine del '24e l'inizio dell'anno successivo il giovane D. viene mandato dal padre a Bologna per intraprendervi gli studi di legge. Qui stringe amicizia con Ludovico Beccadelli, Carlo Gualteruzzi, Giovan Agostino Fanti e forse conosce personalmente il Molza, la cui familiarità verrà definitivamente saldata durante il periodo romano. Al pari del Molza compone versi d'amore per Camilla Gonzaga, platonicamente vagheggiata anche dal Bembo, e viene forse introdotto, tramite il Beccadelli e il Gualteruzzi nel circolo letterario che comprendeva Girolamo Casio de' Medici, Alfonso e Galasso Ariosto. Come studente, maggiormente incline agli studi letterari che non a quelli giuridici, frequenta presso l'università bolognese le lezioni di Romolo Amaseo, che insegnava retorica e poesia in vesperis, con notevole prestigio e seguito di studenti. Ed è forse da riferirsi proprio agli entusiasmi letterari suscitati dall'Amaseo, nonché ai primi assaggi degli auctores, la decisione, attuata nel '26, di fuggire da Bologna, sottraendosi all'obbligo dei corsi di diritto, per ritirarsi in Mugello, insieme con l'amico Beccadelli, onde approfondire - in un clima di appartato e diretto colloquio con i classici, soprattutto con i testi ciceroniani - la preparazione umanistica. Si tratta di una svolta decisiva nella vita del D., sia perché in questo momento si decide il suo futuro di letterato, sia perché questa fuga da Bologna e dagli studi di legge significa per l'uomo un affrancamento dalle norme di vita imposte dal padre, per il quale il D. non nutrì mai né affetto né stima, e anticipa - seppure condizionata da un ardimento tutto giovanile - quella volontà di sregolatezza che si manifesterà durante il soggiorno romano dello scrittore.

Dopo una breve sosta a Bologna, nel '27 il D. è a Padova, altra sosta obbligata al fine di una adeguata preparazione umanistica, per apprendervi, appunto, il greco. È questo il periodo in cui la cultura ellenica fiorisce nella città veneta soprattutto per opera del Carteromaco, del Musuro, di Girolamo Aleandro che continuano ad un livello di alta divulgazione l'iniziativa intrapresa nell'officina di Aldo. Il feudo padovano ha il suo nume tutelare nel Bembo, ed a lui guarda evidentemente il giovane D., anche se per il momento i suoi rapporti con l'autore degli Asolani sono mediati, e forse favoriti, dai più modesti Trifone Gabriele e Benedetto Lampridio. Quest'ultimo maestro fu l'insegnante di greco anche del Berni con risultati - per quel che sappiamo dalle attestazioni berniane - quanto meno insoddisfacenti. Sembra che maggiori successi didattici ottenesse il Lampridio col D.: sta di fatto, comunque, che questi si lamenterà spesso della sommarietà della propria preparazione umanistica, considerandosi, per quel che riguarda la conoscenza del greco e l'esercitazione nel campo della poesia latina, quasi un autodidatta, favorito nel suo desiderio di apprendere dal commercio letterario con un maestro di ben altra statura, Pier Vettori.

A Padova il D. si trattenne fino al 1529, allorché (verso la fine dell'anno) venne chiamato dal padre a Roma. Sullo scadere del 1530 è a Firenze, dove, l'anno successivo, si fece squittinare insieme col fratello Francesco per il quartiere di San Giovanni. È stata avanzata l'ipotesi che egli in questi anni pensasse di intraprendere una carriera politica o amministrativa a Firenze, ma ciò è poco probabile data l'avversione del D. per i Medici; inoltre una lettera inviata al Beccadelli il 10 maggio 1531 ci fa intendere chiaramente che egli pensava alla Curia pontificia come al luogo più idoneo per la propria carriera: "Non sarebbe gran fatto che io venissi, e potrebbe anche essere ch'io mutassi abito, e fermassimi ogni cosa in disegno ed in aria, sed haec dii viderint".Nel 1531, in effetti, il D. è a Roma, da dove raccomandava ad un altro amico, il vescovo di Fano Cosimo Gheri, lo studio del latino come strumento indispensabile per una buona preparazione retorica in quanto "è più stimato qui uno eloquente, che un dotto".

Al desiderio di stabilirsi a Roma rinuncia comunque temporaneamente per un altro breve soggiorno a Padova (tra la fine del 1531 e la primavera del '32), ove frequenta le lezioni di greco e di latino di un altro celebre maestro, Lazzaro Buonamici. Conservatore dello Studio padovano era in questo periodo Gaspare Contarini, al quale forse il D. venne presentato dal Beccadelli e dal Gheri. Non è improbabile che le notizie destinate poi a confluire nella Gaspari Contareni Vita risalgano alla frequentazione diretta che il D. ebbe in questo periodo con il massimo rappresentante della riforma cattolica. E Padova rappresentava poi l'ambiente intriso della fervida spiritualità del Priuli e del Pole, il quale, proveniente da Londra, da Parigi e da Avignone, faceva ritorno proprio nel '32 nel territorio veneto.

A siffatto ambiente la reazione del D. - ed è sicuramente un'altra svolta decisiva nella biografia dello scrittore - è di nuovo la fuga (a Roma) e l'amicizia stretta con Francesco Maria Molza. In compagnia del letterato modenese il D. si dà ad una vita di "ozio" nutrita di curiosità archeologiche e di letture disimpegnate (soprattutto vertenti sulla più recente produzione in volgare), sperimenta nuovi ambienti, tasta il polso a personaggi di qualche influenza nel cerchio della Curia, mentre cerca di ottenervi un incarico per l'amico Gheri, desideroso di trasferirsi anche lui a Roma. È una vita che costa, e il D. non ha di che far fronte alle spese. Donde il ricorso al padre, con quale spirito si vede bene in una lettera indirizzata al Beccadelli il 6 giugno 1532: "Dovete sapere che mio padre non mi può sentir ricordare, non che vedermi... Vo pur cercando di umiliar questo animale silvestre, né veggio però ancora profitto: credo alla fine che bisognerà fare la pace col mostro, cioè con denari; e perché non me ne può avanzar molti stando qui, fia forza venirmene al bosco, per non esser più altro che animale di selva". Quanto alla propria attività a Roma, allo stesso destinatario il D. confidava: "io studio pochissimo sì per la molestia de' miei, sì per la stagione, sì perché io ho pur per soddisfare alli miei ed accomodarmi al mondo più ch'io non voglio, presso alcune amicizie, sì che insomma non fo studio che rilievi, ed i versi ch'io vi mando possono molto ben farne fede".

Nelle "amicizie" cui fa riferimento la lettera al Beccadelli sono sicuramente da ravvisare i letterati che si riunivano a Roma nell'Accademia dei Vignaioli, i personaggi screditati da Berni con l'epiteto inequivocabile dei "morti di Roma" (Giovanni Mauro, Lelio Capilupi, Gian Francesco Bini, Giovan Battista Strozzi, Gandolfa Porrino), ma la cui importanza non può essere sottovalutata né da parte del critico che indaghi la progressiva immunizzazione della corrosiva letteratura berniana, né da parte dello storico che segua il passaggio ideologico dalla corte medicea a quella farnesiana. Si tratta di una produzione la cui licenziosità verbale corrisponde alla assoluta mancanza dei contenuti: è la forma oscena che si presenta senza resistenze alla cancellazione controriformistica e che riaffiorerà, condizionata ad una elaborazione accademica, all'insorgere dell'Arcadia. Al pari di Annibal Caro aderisce a questa forma apparentemente corrosiva, di fatto innocua e trasandata di poesia, anche il D., che aveva nel frattempo già preso gli ordini minori e aveva iniziato a brigare in Curia per qualche incarico. Si direbbe però che mentre fu superficiale, anche se duratura, tale esperienza per il Caro, per il D. fosse più radicata, quanto almeno al suo desiderio di distinguersi in questo momento nella schiera degli "accademici", anche se circoscritta al periodo romano e poi ovviamente ripudiata e odiata per le conseguenze che essa avrà sul negativo epilogo della carriera ecclesiastica. Ben cinque capitoli berneschi il D. compose per l'Accademia dei Vignaioli: il capitolo del Forno, dedicato a Marcantonio Soranzo e ricordato in termini lusinghieri dal Caro nel commento alla Ficheide del Molza, il capitolo del Bacio, ilcapitolo Sopra il suo nome e il capitolo del Martello, dedicati a Gandolfo Porrino, che era cortigiano di Ippolito de' Medici (l'ultimo e fatale "padrone" del Berni), e infine il capitolo della Stizza, che fornirà insieme con quello del Forno, gli strali polemici più acuminati alla polemica di Pier Paolo Vergerio. Vanno inoltre riferite a questo periodo altre minori composizioni tra cui, in volgare, un poemetto in ottave di trecentoventotto versi in cui si descrive Il Tempio della Pedesteria e, in latino, il celebre epigramma della formica (non compreso nelle Opere e dato come Epigramma anonimi nel ms. Palat. 264, XI della Biblioteca nazionale di Firenze, ma assegnato al D. già dai contemporanei) che per l'oscenità ludica escogitata da Priapo nel liberare Venere dal fastidioso insetto, si ricollega a certa tradizione umanistica fortemente radicata in ambiente mediceo e costituisce perciò forse la più significativa testimonianza dei vincoli culturali che condizionano ancora il giovane letterato.

Quanto alle date di composizione di siffatti componimenti, viene a mancare un criterio di assoluta certezza, stante la volontà del D., non potendosi sottrarre all'attribuzione, di anticiparne i tempi relegandoli ad un periodo di spregiudicatezza e di innocenza tutta giovanile. Sembra comunque ragionevole ascriverli al quinquennio che va dal '32 al '37, anno in cui il D. ottiene da Paolo III l'ufficio di chierico della Camera apostolica, che costituisce il primo gradino della carriera ecclesiastica già contrastante con gli intenti delle esercitazioni letterarie sopramenzionate. Non mancano, del resto, testimonianze di pentimento per la vita "scapigliata" condotta a Roma in questo periodo: lettere come questa, indirizzata al Gheri nel '32, sono tipiche del giovane D., che affida alla corrispondenza privata la correzione di un'immagine pubblica di sé che intende suscitare attenzione e scandalo: "Non voglio che V. S. mi ami più sì di core, come ha fatto sin qui, perché non lo merito più come ch'io nol meritava ancora prima. Ma ora ch'io ho messo in non cale ogni pensiero e che una donna dulcibus illa quidem illecebris, mi ha tanto mutato, sono indegno che V. S. mi abbia sì caro, com'io conosco che mi ha. Se io tornerò mai ad sanitatem, allora mi amerete: in questo mezzo vota faciemus, optabimusque nobis mentem meliorem dari, quando per consiglio e per aiuto umano sono disperato e perduto".

Nel 1533 il D. è a Firenze da dove scrive al Gualteruzzi per sapere notizie della corte pontificia che si era trasferita a Marsiglia per la celebrazione (27 ottobre) del matrimonio del duca d'Orléans con Caterina de' Medici. In Toscana si dové trattenere ancora qualche mese per seguire la malattia del padre che doveva di lì a poco provocarne la morte. Nell'aprile del '34, il D. è di nuovo a Roma in intimità col Molza e col Porrino; poi, dopo un breve viaggio a Firenze, dovuto probabilmente alla volontà di sistemare alcune pratiche commerciali rimaste in sospeso dopo la morte del padre, fa nuovamente ritorno a Roma, dove lo sorprende la scomparsa di Clemente VII. Si infittiscono tra l'ultimo periodo del pontificato mediceo e i primi anni del pontificato di Paolo III le attestazioni di contrizione nell'epistolario dellacasiano. Nel '34 scrivendo al Beccadelli a Bologna e sollecitandolo, unitamente al Gheri, per recarsi a Roma, aggiungeva: "Ma io v'attendo amendui per ogni conto con desiderio; e massimamente per drizzare la vita mia con la vostra regola, la qual mia vita troverete torta dietro alle sirene del mondo sopra quello che voi non avreste per avventura stimato poter essere, guardando al viaggio suo passato". "Io sono, come sa V. S., poco divoto - confessava al Gheri nel '36 - e vivo alla libera, né posso così al primo lasciar questa lunga usanza mia", e continuava, accennando con qualche ironia alle virtù riabilitanti del Priuli e del Florimonte: "come che, per quanto intendo, esso e M. Galeazzo non sono però disperati dell'anima mia, studiando io l'Etica; la qual nondimeno ha fatto poco frutto in me, tanto che io ne ho letto alcuna volta di buoni pezzi in un certo loco, che io dirò a V. S. quando saremo a Predalbino; basta che avreste riso a vedermi su per un tetto con l'Etica sfortunata sotto il braccio". C'è il tentativo, in queste affermazioni, di sfumare nei termini di una bonaria condiscendenza verso se stesso un comportamento e una ostentazione letteraria che dovevano assolutamente essere liquidate; ma quel che sembra più rilevabile in questo momento nell'epistolario del D. è la volontà, comunque, di non sottrarsi alla reminiscenza dell'errore, anzi di fissarlo in una scrittura che si colloca entro la vicenda petrarchistica e che sarà di fatto rappresentata, anche se non esclusivamente, nel corpus delle Rime (rispondendo nel '36 al Gheri, che lo invitava ad accogliere benevolmente il Priuli in viaggio a Roma, il D. replicava: "non ardisco invitarlo, ché mi pare tanto dato allo spirito, e io sono, come sa V. S., poco divoto"). Che poi tale insistenza sulla scarsa devozione celasse un calcolato distacco dall'astratta spiritualità riformistica e la preparazione ad una più spregiudicata azione politica sarà la prossima avventura del funzionario pontificio a dimostrarlo. Per ora è evidente nelle intenzioni del D. il desiderio di giocare personalmente le proprie carte per entrare nel favore dei Farnese, non nascondendo l'errore, ma neanche la spregiudicatezza di un'autocritica che da diceria pubblica, da discredito, viene ad essere gestita in prima persona.

Ottenuto da Paolo III l'ufficio di chierico della Camera apostolica, il D. chiese al Molza di essere raccomandato al cardinale Alessandro Farnese. Gli scriveva: "Io ho tanto obbligo all'Ill.mo et Rev.mo Farnese, che io non credo si possa obligar tanto. Prego V. S. che, con quella eccellente sua maniera, faccia fede a S. S. che non ha fra tanti servidori a chi io ceda in desiderar di honorarla et riverirla et servirla, cedendo però a tutti di poter et saper farlo".

Frutto di questa nuova abilità cortigiana, mentre si va quasi del tutto estinguendo la vena epigrammatica e la scollacciata produzione in volgare, sono un'epistola in esametri di stile oraziano e, più importante, la Quaestio lepidissima an uxor sit ducenda, farcita di citazioni classiche (da Platone ad Aristotele, da Aristofane a Senofonte a Plutarco), misogina, anche se l'intenzione viene letterariamente autorizzata da una folta serie di scritti umanistici (l'autore, che si finge veneziano, immagina di essere stato sposato per alcuni anni e di avere avuto un figlio, ormai in età da esigere un maestro per essere educato insieme con i nipoti di questo; sollecitato dall'educatore a tenere un discorso sul matrimonio, egli cerca di convincere i giovani, che interferiscono direttamente nella discussione, sugli inconvenienti della vita coniugale), e capace anche di raffigurare un autoritratto improntato, secondo i canoni dellacasiani del momento, al tema della ritrattazione ("Fui ego in adolescentia natura quidem mulierum amator... neque ulli omnino cupiditatis generi difficilius restiti, quam huic; vere tamen dicam, numquam memini, me tam cupidum atque alacrem ad eam, quam amarem, accessisse, quin multo cupidius, multoque libentius discesserim"). Si intende che il pubblico contemporaneo doveva essere portato ad apprezzare più che siffatte attestazioni di principio, lo stile sapientemente variegato dell'opera, l'alternanza dei toni ora gravi ora lievi dell'eloquenza, la caratteristica di trattenimento mondano che informa e pervade interamente la Quaestio. Ed è senza dubbio questa la prova più significativa della giovinezza del D., quella ove la dottrina e la socievolezza anticipano quelle virtù che saranno fra poco richieste al diplomatico pontificio.Salvo sporadici viaggi in Toscana il D. si trattiene a Roma fino al 1540, anno in cui ottiene da Paolo III l'ufficio di commissario per le decime svolgendo gli affari amministrativi in Romagna. Si tratta di un incarico che egli non ambisce e per il quale non si sente portato anche se si impegnerà in tale ufficio con notevole successo. A testimoniare il disincanto, se non il malumore, del D. in questo periodo interviene il Dialogus in nuptiis Octavii Farnesii et Margheritae Austriacae, poco più di una pasquinata di dubbia attribuzione, ma quasi sicuramente di paternità dellacasiana, in cui l'autore ironizza sull'infausto matrimonio celebrato per volontà del papa fra Margherita d'Austria, figlia naturale di Carlo V già vedova di Alessandro de' Medici e Ottavio Farnese, nipote del papa.

Il D. mira più in alto e pensa all'arcivescovato di Benevento, ma il tirocinio presso i Farnese è più lungo del previsto ed egli viene impiegato dalla Curia in varie missioni di carattere fiscale nell'Italia centrale. Nell'ottobre del '40 è ad Ancona, l'anno successivo è a Firenze come commissario pontificio sopra l'esazione delle decime e in questo incarico riesce a comporre un dissidio piuttosto grave che si stava profilando tra Paolo III e Cosimo de' Medici. A proposito del quale bisogna avvertire che l'azione del D. presenta sempre un risvolto personale. A Roma egli non cela i propri sentimenti antimedicei, ma in Toscana deve salvaguardare i beni della propria famiglia e gli affari commerciali dei Rucellai; egli per un verso si sente attualmente sradicato dalla realtà fiorentina, per l'altro sembra che non voglia del tutto precludersi la possibilità di un futuro, seppure ipotetico, reinserimento (ne sono testimonianza la rinvigorita amicizia col Vettori, l'iscrizione all'Accademia fiorentina): ne risultano dei rapporti ambigui con Cosimo I, misti di ragioni pubbliche e private, formalmente corrette anche se inquinate da personali risentimenti.
Nel marzo del '41 egli è di nuovo a Roma col titolo di monsignore, dichiarato esplicitamente in numerose lettere di corrispondenti, mentre si incarica di procurare libri a Pier Vettori e a Francesco de' Medici e indirizza rime di scherno - ma si tratta oramai di un'invettiva a sfondo puramente letterario - a un certo Antonio della Mirandola che si dava arie di filosofo ("E perché tutti voi Mirandolani / gentiluomini siete e non plebei, / come son, dite voi, tutti i Toscani? / E perché gatti e cani / e donne e scimie han senza peli il tondo? / E ci son più coglion ch'uomini al mondo?"). Di rincalzo, nel '42 brigava presso il Beccadelli a Bologna perché procurasse un buon maestro di letteratura per il nipote Annibale Rucellai che egli intendeva far ospitare, appunto a Bologna, in casa dell'amico Lorenzo Bianchetti. E nel corso dello stesso anno spediva l'altro nipote Pandolfo, che sembra stesse conducendo a Roma una vita non del tutto irreprensibile, a Reggio, presso lo stesso Beccadelli, vicario del vescovo Marcello Cervini. Tra il 1543 e il '44 il D. ottenne la cura della riscossione del sussidio feudale e dei censi di Roma, nonché l'ufficio più impegnativo di tesoriere pontificio. Il 2 apr. 1544 gli venne affidata la sede arcivescovile di Benevento in virtù delle garanzie che per lui avevano offerto i cardinali Bembo, Cervini, Del Monte e Farnese, ma soprattutto in premio allo scrupolo, e anche alla durezza, con cui aveva precedentemente esercitato, specie in Romagna, gli ingrati compiti di esattore fiscale. A compenso dell'ostinatezza e di un senso intransigente del dovere con cui aveva assolto i compiti più oscuri e piùgravosi per uno spirito insofferente alle cavillose minuzie amministrative, il D. usciva finalmente dal limbo degli uffici minori e si incamminava sulla strada maestra degli onori, delle gratificazioni pubbliche. Ma si trattava pur sempre di una tappa e non della meta per l'ambizioso uomo di corte, e prova ne sia il fatto che egli non resse mai personalmente la Chiesa beneventana, facendosi rappresentare dal vicario generale Tommaso Conturberio e riuscendo a sfuggire all'obbligo della residenza anche dopo il decreto del concilio di Trento, che pure lo vide tra i più zelanti preparatori. Intanto, a sancire la legittimità delle aspirazioni del D., arrivò nell'agosto del 1544 la nomina a nunzio apostolico a Venezia. In questo senso aveva influito in maniera decisiva la protezione dell'onnipotente Alessandro Farnese nonché la congiuntura internazionale particolarmente favorevole all'inserimento dell'arcivescovo di Benevento nella politica attiva tra le maggiori potenze.

È necessario distinguere vari livelli per comprendere la destinazione a Venezia del Della Casa. Venezia costituisce, innanzi tutto, personalisticamente, un grande centro di cultura che il D. giudica adeguato alle proprie ambizioni. Donde la prodigalità con cui cerca di conciliarsi la stima di coloro che in quell'ambiente erano i riconosciuti protagonisti. Prima di tutti il Bembo, di cui si vuol citare questa lettera inviata da Roma al Quirini all'indomani della partenza del D. per Venezia (3 ag. 1544): "Nostro Sig. manda a Venezia per Nunzio suo Mons. della Casa, il quale è tanto amico mio, quanto niuno altro uomo che io in Roma abbia, dal nostro M. Carlo in fuori. E che egli mio amico sia, ve ne potete avveder voi costì assai tosto, ma incominciate ora da questo, che avendo egli una bellissima casa qui per sua stanzia, della quale paga intorno a scudi trecento l'anno d'affitto, a me la lascia cortesemente senza volere che io ne paghi un picciolo, acciò io l'abiti fino al suo ritorno, e lascialami con molti fornimenti, e con un bellissimo camerino acconcio de' suoi panni molto ricchi e molto belli, e con un letto di velluto, e d'alquante statue antiche, ed altre belle pitture, tra le quali il ritratto della nostra Madonna Lisabetta, che sua Signoria ha tolto a Messer Carlo. Della quale stanzia penso dovere avere una gran comodità. Questa casa è la più bella e meglio fatta che sia in Roma". Quanto all'uomo pubblico le incombenze che gravavano sul nunzio a Venezia consistevano essenzialmente nel difendere la giurisdizione ecclesiastica, nel sollecitare la politica veneta a vantaggio di Roma, nel combattere l'eresia, e nel sorvegliare da vicino il buon andamento dei preparativi del concilio di Trento. In merito ai primi due punti l'ambasciatore veneziano a Roma, Francesco Venier, esprimendo la soddisfazione della Repubblica per la scelta del D., metteva subito in chiaro che questi sarebbe stato tanto più accetto alla Serenissima purché si comportasse come "semplice nunzio, come fu il Bibiena ai tempi di Leone X, maritato e vestito da laico". Esprimeva poi al Consiglio dei dieci un giudizio favorevole sul nuovo nunzio, giudicato "persona colta ed assai pratica delle cose di stato", ma non poteva esimersi dal riferire il contenuto di un colloquio avuto col papa, che non poteva certo suonare di buon auspicio per i responsabili della politica veneta: "Mi disse Soa Santità, stando un poco sopra di sé: ne quid nimis. Noi avemmo ben piacere che gli Ordinarii habbino le giurisdizioni sue, ma li tempi sono de così mala natura, per le operationi lutherane et depravate, che non bastando gli Ordinarii, bisogna etiam che siano quelli che immediatamente habbino carico da noi, oltra le altre cause, quando li diamo le commissioni... Vedete queste materie lutherane quanto premono! Bisogna, et perché multiplicano et perché si fanno maggiori, adhibire rimedi et più efficaci esecutori".

Il nunzio ottempera a siffatte intenzioni del pontefice con una dedizione assoluta e l'uomo, semmai, eccede nello zelo per non alienarsi la stima dei Farnese. Appena giunto a Venezia scoppia il caso del canonico e protonotario apostolico Ottaviano Cevena che si era reso colpevole di un delitto comune. Il D. cerca di sottrarlo alla giurisdizione civile e va tanto oltre nella difesa del Cevena che la causa rischia di degenerare in una prova di forza tra il nunzio e gli avogadori; sino a quando il Cevena viene bandito dallo Stato veneto e al D. non rimane altro che la magra soddisfazione di sfogare la sua acredine con il Gualteruzzi: "Intanto M. Ottaviano Cevena è stato bandito et la mia magra rethorica è ita in malhora: et mi advedrò se N. S. dice da senno che si difende la iurisditione. Pensate che a me è montato il moscherino: ma non è mio offitio metter legne ma acqua: et così ho fatto nelle lettere pubbliche; ma certo era meglio non contendere che perdere". Era questa tuttavia una massima che il nunzio sapeva raramente mettere in pratica. Patrocinando al cospetto degli avogadori la causa di Luca dalla Borsa, un altro ecclesiastico reo di delitto comune ("né difendendo il prete, ma la iurisditione"), il D. si sentì replicare da Sebastiano Foscarini "che i Canoni erano contro il Vangelo et che la scrittura non disponeva così", onde irrompe la vena polemica del nunzio "perch'io - riferiva al cardinale di S. Croce nel '45 - sono alquanto collerico... et quando si parla in su quel primo momento si esce alle volte di squadra, dubitando de' casi miei, bellum est enim sua vitia nosse, per dar un poco di spatio a l'animo, venni a parlare de' meriti della causa, et replicai quello ch'io havea detto; et poi mi volsi a quello che haveano detto quei due Signori, et mi dolsi ben severamente che si disputassi delle leggi Christiane et Catholiche et della lor validità, le quali io non volevo difendere né loro SS. Ill.me doveano oppugnarle, ma l'un et l'altro di noi presupporle... Né mi lasciai uscir di bocca altra parola colerica che questa, che io dissi che non credeva che mi potessero dir peggio gli heretici...". Confessava infine: "In verità per una che io ne spunti, me ne bisogna ingozzar diece, et con tutto ciò paio un poco aspro". Non gli mancavano certo, pur nelle sconfitte giurisdizionali, le attestazioni di eloquenza ("Sono stato tenuto eloquente, che non suol essere mio difetto, come sapete" - comunicava al Gualteruzzi il 31 dic. 1545 - "Ma alcuni cardinali hanno qui i loro agenti, i quali fanno di suo capo alle volte nelle, cause fin che essi le rovinano, et come hanno il piè nella fossa, ricorrono a me ch'io gli guarisca"). Ma anche l'eloquenza e l'impetuosità del carattere possono essere armi a doppio taglio se adibite in forma contrastante agli indirizzi di Roma; bisogna quindi diffidarne o usarle con molta cautela, evitando il rischio di esporsi troppo manifestamente ("... come ho detto - si legge nella medesima lettera al Gualteruzzi - sono molti che o si credono o si infingon di creder ch'io possi mettere le mani ne' capelli alla Signoria et farle fare a modo mio; et perciò vorrebboro che, senza dignità della persona di N. Sig. ch'io rappresento, io corressi a dire et fare di molte pazzie, ch'io non voglio fare").

Maggiori successi il D. ottenne nel campo della giurisdizione civile. Nel 1546 il cardinale Marin Grimani, vescovo di Ceneda, aveva emanato un proclama in forza del quale nessuno avrebbe più potuto ricorrere in appello a Venezia, arrogandosi con ciò la piena giurisdizione sulla città. Il problema presentava delle difficoltà sia sul piano psicologico, essendo il nobile Grimani non completamente restio, dopo l'impennata iniziale, alle pressioni del governo veneziano, sia su quello economico, perché - come riferiva il D. il 14 ag. 1546 - "quel podestà che è ito a Ceneda, per quanto intendo, ha fatto proclama che chi ha da convalidar o rinovar feudi o investiture vadino da lui come da padrone di quella iurisditione, la qual cosa toccarà forse anche alle entrate del Vescovado". Alla morte del Grimani sembra attutirsi il contrasto, che insorge invece di nuovo, e violentemente, in ordine al problema della successione. Il papa tenta di arrogarsi la giurisidizione di Ceneda e il D. sottolinea ancora una volta la difficoltà di risolvere il problema con un colpo di mano. Si giunge infine, anche per l'opera del nunzio, ad una soluzione soddisfacente per entrambe le parti attraverso l'elezione a vescovo di Ceneda di Michele Della Torre, ben visto a Roma e garante, agli occhi dei Veneziani, delle primitive libertà giurisdizionali. Un ulteriore successo fu ottenuto nel 1549 dal D. allorché propose e ottenne che la Curia rinunciasse alle decime in favore di Venezia in vista di un'impresa militare che il governo della Serenissima stava preparando contro il corsaro Dragut (perché - si legge nella relazione che il 16 marzo il D. inviò al cardinal Farnese - "così come se si ottiene gratia da persona poco amica nasce maraviglia, così quando è negata la gratia da coloro ne' quali si ha molta speranza nasce dolore et dispiacere").

Simili sottigliezze scompaiono nei documenti riguardanti l'azione inquisitoriale del D., che costituisce un'attività improntata alla più rigida intransigenza. Paolo III aveva mandato il D. a Venezia anche come rappresentante dell'Inquisizione romana universale istituita nel 1542 e retta dal S. Uffizio. Come commissario del S. Uffizio per le province venete, nel '44 il D. compie indagini nei confronti del milanese frate Ambrogio, eremitano, che viene inquisito a Venezia, di ritorno da Cipro, ove sembra che avesse svolto un'attività ereticale, ed è poi inviato sotto scorta e sorveglianza a Roma. L'anno successivo il cardinale Farnese delega il D. a investigare su Ludovica Torelli, contessa di Guastalla e fondatrice nel 1536 del monastero di S. Paolo, che in numerosi viaggi compiuti nell'Italia settentrionale, era sospetta di predicare in forma non ortodossa; si voleva perciò costringerla a rientrare a Milano. Sempre nel '45 il D. viene incaricato di fornire materiale a carico di frate Girolamo Sciotto. Nel 1546 il D. agisce energicamente contro Francesco Maria Strozzi, presunto autore del Pasquino in estasi (traduzione del Pasquillus extaticus di Celio Secondo Curione). A Venezia lo Strozzi viene arrestato e il nunzio si adopera per ottenere dal governo veneziano l'estradizione. Si rammaricava - in una relazione del 22 maggio al Farnese - di non aver strumenti sufficienti per assicurarlo alla Inquisizione e renderlo confesso ("Ché, come io ho scritto altre volte, noi non abbiamo né sbirri né carcere, se non quelle che questi S.ri ci prestano, nelle quali poi i guardiani et ogniuno fa quello che gli pare; et noi non possiamo tenere che a i nostri carcerati non sia parlato et scritto... Et il mio auditor non può mostrargli la corda, che non la ha in quel carcere, né lo può mettere in altra prigione sanza licenza degli avogadori, con i quali ho sempre inimicizia o almeno controversia... Et se io sarò necessitato di assolver costui per iustitia, mi parrà aver fatto gran preiuditio in genere a questa materia della oppugnatione de la heresia, perché io non harò autorità nelle altre cause appresso il Ser.mo Collegio"). Tre giorni dopo, comunque, il C. tranquillizzava il Farnese in questi termini: "Non di meno V. S. R.ma stia sicura che tutto '1 rigor che la iustitia comporta si porrà in opera: dico di farlo menar in carcere più comodo, non per comodità della persona, ma di quella de lo examine rigoroso". Contemporaneamente il nunzio riceveva da Roma istruzioni per investigare nei confronti di Guido da Fano che brigava con Luigi Gonzaga "tentandolo di essere con loro nella guerra contro l'imperatore e il papa". I contrasti in materia giurisdizionale e la lotta contro gli eretici si intrecciavano a motivi più specificatamente politici sui quali il D. doveva impegnarsi ancora più a fondo per vincere le resistenze del governo veneziano.

Ma prima di entrare nei dettagli dell'azione politica del D. svolta in qualità di nunzio apostolico, sarà bene completare il quadro della sua attività inquisitoriale, soprattutto in ordine alla vicenda veneziana di Pier Paolo Vergerio, che vide naturalmente il D. tra i protagonisti. Nel dicembre del 1544 cominciano a giungere a Venezia le prime accuse contro il Vergerio, il quale, ricercato con l'intenzione di farlo comparire a Roma, fugge a Mantova, nel convento di S. Benedetto, sotto la protezione di Ercole Gonzaga. Il cardinale Farnese commissiona al D. l'incarico delle indagini; vuole inoltre che si perquisisca la sua casa in Capodistria e se ne sequestrino i libri, "però - notificava al nunzio nel febbraio del '46 - venendoli alle mani in questo mezzo altre cose contra di lui per qualunche via, la ne tenga conto, aspettando l'ordine che accaderà darli". Il 3 apr. 1546 arriva da Roma il mandato per procedere contro il Vergerio; senonché a questo punto sorgono delle complicazioni, perché mentre, da un lato, si rende necessario notificare al Vergerio i capi d'accusa, dall'altro si tenta di tener celati i nomi dei testimoni onde evitare le possibili ritrattazioni, come avviene per il patriarca di Aquileia. Si tenta inoltre di impedire al Vergerio il ritorno a Capodistria, ove egli troverebbe con tutta probabilità dei testimoni a discarico. Il D. si dimostra molto scettico circa il buon fine dell'istruttoria ("Io credo che il Vescovo non sia senza qualche macula in questa causa, ma non credo già che sia provato a gran prezzo quello che i suoi nemici hanno apposto, né anco credo che si possa provare facilmente"), per cui cerca di sbarazzarsi dell'incarico inducendo il Vergerio a recarsi a Roma. Questi, in linea di principio, non rifiuta l'invito, ma esige che, prima di intraprendere il viaggio, venga esaminata l'istruttoria a Venezia. Per cui, invece dell'imputato, arriva a Roma l'istruttoria, che viene giudicata per il momento insufficiente all'imputazione, e il processo contro Vergerio subisce un arresto fino al luglio del '48, allorché il nome del vescovo di Capodistria riaffiora in occasione di un bruciamento di libri eretici eseguito a Venezia. Il cardinal Farnese torna alla carica cercando di farlo comparire a Venezia e spera di costringerlo a recarsi a Roma, proprio mentre il Vergerio, a Padova, noncurante delle imputazioni, legge pubblicamente le epistole di s. Paolo col commento di Melantone suscitando con ciò le preoccupazioni del governo veneziano che non si sente più disposto a coprime le iniziative nei confronti di Roma. Nel giro di pochi giorni arrivano al D. due brevi: nel primo si dà commissione al nunzio di ingiungere al Vergerio di presentarsi a Roma, nel secondo gli si impone di imprigionarlo e di mandarlo in Romagna. Quand'ecco un tentativo di mediazione da parte dell'ambasciatore francese, il quale - riferisce il D. in data 13 aprile - "mi ha molto pregato ch'io vegga di acquietar la causa del vescovo di Capodistria con minor suo danno che si può... Io ho risposto allo amb.or dolcemente, per mantenere una certa famigliarità ch'io ho con S. S. mostrando però quanto la causa è difficile, et quanto io posso poco sperare a favor del Vescovo". L'intervento del diplomatico francese si rivelerà tuttavia decisivo per la sorte del Vergerio. Sebbene privato della Chiesa di Capodistria, si ritarda la sua sostituzione e il D. teme che si pensi che il Vergerio possa essere reintegrato. Alle preoccupazioni del nunzio il cardinale Farnese risponde che la "privatione" deve essere solennemente sancita "con l'autorità di tutto il collegio": ciò avviene il 27 luglio 1548 con la nomina a vescovo di Capodistria di monsignor Todeschini, ma il Vergerio, grazie alla mediazione francese e alla sotterranea protezione di Venezia, è salvo dagli attentati di Roma e non mancherà di vendicarsi del nunzio, ritenuto il maggior responsabile delle proprie disgrazie.

Un ulteriore aspetto dell'attività inquisitoriale del D. riguarda i rapporti con i "deputati dell'eresia", i magistrati attraverso i quali Venezia voleva sorvegliare l'operato delle autorità ecclesiastiche nei confronti degli eretici, con l'intenzione evidente di limitarne il potere. In questi termini si esprimeva il nunzio in una lettera al cardinal Farnese del 7 maggio 1547: "Et perché lor S. S. si sono dichiarati di voler essere meri assistenti alli processi, et poi meri esegutori delle sententie, sarebbe necessario che N. S.re concedessi facultà a me et a Ms. Gherardo Busdraghi, mio auditore, et a fra Marino di Venetia dell'ordine dei fra' minori di S. Francesco, inquisitore et similmente a Gio. Maria Buccello fiscale, che noi potessimo proceder ad ogni pena di sangue et mutilation di membri et di ultimo supplicio, etiam di foco, perché, essendo ciascun di noi di Chiesa, non possiamo farlo ordinariamente senza incorrere in irregularità...". Evidentemente non si trattava di un assunto rigoristico in ottemperanza alle istruzioni farnesiane. Nel caso di frate Angelico da Crema, agostiniano (1547), il D. non si contentava del carcere perpetuo, nell'eventualità che il frate avesse abiurato, ma esigeva pene corporali e auspicava dal foro secolare la pena di morte ("Se sarà pertinace - scriveva il 23 apr. 1547 - lo degraderemo et consegneremlo al foro seculare, che lo arderà, insieme con un altro heretico seculare, che fin qui persevera nella sua pertinacia molto ostinatamente. Il che facendosi, io tengo per certo che si spaventeranno tanto gli altri, vedendo che la mente dello Ill.mo Dominio è unita con la Chiesa catholica senza rispetto, che si potrà dir acquetato il tumulto"). Senonché le autorità veneziane cominciarono a dimostrare qualche perplessità ("perché io non gli sento più così caldi") e il D. non esita a gettare il sospetto di eresia persino su uno dei tre "deputati", finendo con l'esprimere la propria disistima sul sistema pluralistico che regola le magistrature veneziane "... perché, senza dubbio, se al frate si tagliava la lingua, si può dir che si tagliava la parola a tutta la setta... ma perché questo stato è multorum capitum, io ho sempre giudicato che sia necessario usar più tosto la destrezza che l'asprezza. Perché non si può sperar di haver di diversi cervelli sempre una medesima volontà, massimamente che, uno solo può più impedire, che molti non possono in aiutare". Ma non v'è altro di più proficuo, da parte del nunzio, che osteggiate gli scrupoli e le lungaggini delle magistrature venete. "Di che V. S. R.ma stia sicurissima, perché questa è delle opere che io farò sempre volentieri" (lettera del 28 maggio 1547). Sempre nel '47 il Consiglio dei dieci condannò alla detenzione, finché abiurasse, il francescano Baldo Lupetino di Abona, ma l'Inquisizione volle fare giustizia sommaria ("Non di meno - scriveva il D. il 14 genn. 1548 - io non son fuori di speranza di poter far exeguire la sopraddetta sentenza in qualche occasione, ancorché sarà difficil cosa"), e in realtà di lì a qualche anno il francescano venne ucciso (1556).

Ripetutamente, nelle relazioni a Roma, il nunzio denunzia la diversità di valutazione e di atteggiamento tra il governo veneto e l'autorità ecclesiastica in materia di lotta contro i protestanti, perché, in generale, "parea a lor Subl.tà che io magnificassi più il pericolo et la multitudine di questa perfida setta, che essi non credevano che fussi in effetto". Alcune volte il D. si vanta di aver introdotto l'Inquisizione di soppiatto, quasi col beneplacito delle autorità veneziane, "havendomi conceduto - riconosceva - di introdurre in questo Dominio la inquisitione tacitamente et senza alcun strepito", ma più spesso è alla pratica repressiva che si volge l'indole irascibile del nunzio, nonostante, ovviamente, le cautele che esige una azione allo scoperto, non di rado boicottata dalle autorità civili: "... talvolta il troppo desiderio nuoce: non che in sé si possa desiderar troppo di ben fare, ma perché sempre la pratica ha molte più particulari considerationi che la teorica, come V. S. Ill.ma sa meglio di me" (lettera del 25 maggio 1549). Il luteranesimo, cioè la Cristianità scissa e in nessun caso componibile, anzi da differenziare attraverso un'opera di vigilanza e di emarginazione, impone dei problemi pratici, di comportamento, che provocano la crisi del concetto ecumenico (e riformista in senso cattolico) dell'imitazione. Culturalmente il proselitismo è peccato (contro un francescano che diffondeva idee eterodosse a Vicenza, il cardinale Farnese prescriveva al nunzio "che si faccia ritener prigione et castigar severamente, per torre l'animo alli altri che fussero del medesimo animo": lettera del 9 apr. 1547), per cui solo l'opera, l'azione che deterge o smaschera la finzione, indica la strada da percorrere con pervicacia e spregiudicatezza. Fu in forza di queste attitudini "morali" che il D. riesce a estendere le competenze dell'ufficio inquisitoriale di Venezia in molti territori del Dominio (da Brescia a Vicenza, a Padova) nonostante le resistenze della Repubblica, ma sulla base di precise istruzioni, che, in ottemperanza ai decreti tridentini, giungono al nunzio da Roma.

Resta da far menzione, per quel che riguarda l'attività inquisitoriale del D. a Venezia, dell'attività repressiva contro le pubblicazioni eretiche, attività che ebbe i momenti salienti nel bruciamento dei libri (fra cui alcune opere di Antonio Brucioli) trovati nella casa di Febo Cappello, segretario della Repubblica alla corte di Ferrante Gonzaga; nell'attento vaglio delle opere in ebraico che uscivano dalla tipografia del Bomberg e, infine, nel Catalogo dei libri proibiti redatto per mandato e commissione del nunzio nel maggio del 1549. Di fronte a quest'ultima iniziativa non mancarono le reazioni del governo veneziano e il D. ne dava ragguaglio in questi termini al Farnese (lettera dell'8 giugno): "I Sig.ri deputati qui sopra l'inquisitione erano d'accordo che il catalogo de' libri si publicasse: et sentendo aver contrarietà, andarono unitamente a disputar sopra le difficultà: et finalmente hanno per hora perduta la causa. Ma aspetteranno che si muti il collegio, acciocché i contradittori non vi siano, e torneranno a far nuova prova. Così son fatte le repubbliche, et bisogna andarsi accomodando! Perché fra le ragioni che si allegano contro il catalogo è la notissima che uno di quei Sig.ri, il quale è stato ambasciatore poco fa et è di molta autorità in questi consigli, dice che a Roma non si è fatto catalogo alcuno, anzi si vendono ogni sorte di libri publicamente etc. et che non si tiene tanto conto delle heresie, come vogliono questi SS.ri deputati tener di qua". Prontamente il cardinal Farnese rassicurava il nunzio circa le iniziative antiereticali che erano state già da tempo prese a Roma, come la costituzione di un collegio di quattro cardinali delegati all'esame delle opere sospette, le funzioni speciali attribuite a un tribunale di giustizia, le frequenti perquisizioni operate nelle botteghe dei librai, l'intimazione ai fedeli di denunciare lo spaccio di testi giudicati eretici. E sembra che rispetto a simili garanzie il D. si considerasse abbastanza coperto di fronte ad eventuali rimostranze del governo veneto, ma voleva sapere qualcosa di più circa le pene comminate agli eretici con l'evidente proposito di adeguarsi anche in questo alla prassi romana: "Desidero di più haver qualche particulare sopra le esecutioni fatte, massime se ve ne sono alcune capitali, et siano scritte specificando i nomi et i tempi" (lettera del 22 giugno 1549). Il cardinale non mancava di soccorrere il nunzio in ordine a tale richiesta: "Quanto a quello che dicono non essersi mai proceduto a pene corporali, è falso; perché mi hanno dati esempi di esecutioni fatte, non ha molti mesi, etiam col foco contra due preti degni di tal pena, per la eresia, che erano relapsi et indurati", e soggiungeva di lì a poco (lettera del 29 giugno): "... la certifico che d'alcuni mesi in qua, di questa diligentia usata da li R.mi deputati si vede un frutto mirabile, perché molti vengono a penitentia da per loro et accusano degli altri; talché si può sperare ogni bene per il rimedio di questa peste".

La delazione, la persecuzione sino alla pena capitale richiesta dal nunzio come legittimazione del proprio comportamento; ma si ricordino anche le licenze che il prelato dovizioso e gaudente si concedeva, ad esempio, nei confronti del Bembo, alla vigilia di intraprendere la nunziatura a Venezia: storicamente tutto l'uomo è in questo dissidio. Se si accetta, cioè, l'ipotesi di una Controriforma come elemento passivo disposto a concedere all'interno di una recuperabile ortodossia quanto proscrive a danno delle forze centrifughe, si ottiene per un verso la dimensione conservativa e poliziesca in cui agiscono i suoi delegati, dall'altro l'impoliticità della loro azione, condizionata dalla salvaguardia dell'utile personale e improntata a un prestigio che rimane machiavellicamente ancorato all'ideale di potenza. Perciò tanto squallida è moralmente l'azione dell'inquisitore, tanto incolore è l'attività del diplomatico che rappresenta la Curia nel contesto dei dissidi internazionali, in cui, semmai, è proprio la controparte veneziana, restia al nunzio e ad ogni alleanza politica che possa compromettere l'autonomia dello Stato, che svolge un ruolo attivo di resistenza al capovolgimento degli equilibri esistenti.

I prodromi dell'azione diplomatica svolta dal D. a Venezia sono da ravvisarsi nella mutata direzione politica di Paolo III a seguito della pace di Crépy (18 sett. 1544). Dopo la riconciliazione tra Francia e Spagna il problema più importante per la Chiesa era costituito dal diffondersi del protestantesimo in Germania: onde il riavvicinamento del pontefice a Carlo V e il pronto adeguarsi del nunzio, che non aveva mai celato i propri sentimenti filofrancesi, alle nuove direttive della politica romana (parlando dell'ambasciatore spagnolo don Diego Mendoza, dichiarava ad Alessandro Farnese, il 25 dic. 1546: "ha detto qui in molti lochi che si è chiarito che io sono senza passione alcuna, et che, poi che N. S. si è colligato con S. M. C., gli sono parso più spagnolo di lui"). Rifiuta quindi la proposta della nunziatura in Francia, e, rimasto a Venezia, si congratula con il cardinale Farnese per l'infeudazione di Parma e Piacenza nella persona di Pier Luigi; contemporaneamente briga perché venga espulso dalla Repubblica uno degli emissari dello scomunicato Enrico VIII d'Inghilterra (Baldassarre Altieri) svelandone sollecitamente (il 5 giugno 1546) gli obiettivi filoprotestanti: "La Ill.ma S.ria, oltre che può ricusare per convenienti rispetti la residentia di un agente per la lega smalcaldica et protestanti unitamente, può fondar la risposta della esclusione sopra la qualità della persona, per altro vile et poco grata ch'ei deve esser ad una Republica tanto seria et relligiosa".

Nel 1546 il papa e l'imperatore preparano una spedizione armata contro i protestanti. Nell'attività del nunzio si registrano una serie di iniziative politiche atte a convincere il governo veneziano ad aderire all'impresa; constatata poi la vanità di simili tentativi, nel luglio il D. presenta alla Signoria un breve pontificio, che, col pretesto di distogliere la Repubblica da un preteso progetto di lega con i protestanti, tende in effetti a ottenere il passaggio dell'esercito che, attraverso i territori veneziani, deve raggiungere la Germania agli ordini di Ottavio e di Alessandro Farnese. L'impasse ha successo e nell'occasione il D. è incaricato di riscuotere dai mercanti residenti a Venezia i denari occorrenti per l'impresa militare.

Scatta tuttavia, a questo punto, il consueto accordo antimperiale tra la Francia e i Turchi; il governo veneziano se ne compiace e il D. informa puntualmente il Farnese dell'opinione francesizzante che circola in quei giorni (10 ott. 1546) fra i responsabili veneziani della politica estera ("Perché in questa città sono infiniti che desiderano la ruina di questa impresa"), come pure avverte ("benché sia mio amico") delle trame che Piero Strozzi stava imbastendo in favore del re di Francia.
Il fatto che il cardinal Farnese si incontri a Venezia con lo Strozzi è il primo sintomo di un riavvicinamento della politica pontificia alla Francia. Naturalmente le maggiori incombenze che si rendono necessarie per accogliere con decoro il Farnese a Venezia spettano al nunzio; egli ne dà notizia al Gualteruzzi in questa lettera dell'11 novembre in cui si mescolano nullanteria e un senso di rivalsa verso chi, forse più qualificato ad accogliere degnamente il cardinale (il Cornaro, il Lippomani), si è in realtà mostrato inferiore alle aspettative: "Io ho fatto quant'io ho potuto di honorar il Card. Farnese, et credo che la S. S. R.a lo abbia veduto. So bene che il Card. di Trento ha divulgato là che io mi son portato bene; et alcuni che hanno fregato la spada al muro et fatto gran romori, in sul far poi questione et in sul menar le mani hanno fatta mala prova. Et vedete se egli era honesto che io forestiero et sanza amici o parenti trovassi una casa a Chioggia et la fornissi, acciocché S. S. R.a non smontasse a l'hostaria, o se toccava a chi è quà in casa sua, poiché si gloriano così". D'altro canto, la fortuna militare dell'imperatore in Germania insospettisce un po' tutti i potentati italiani e il D. (siamo agli inizi del '47) pensa addirittura ad un riavvicinamento all'Inghilterra tramite Venezia. Il papa frattanto ritira le proprie truppe dal campo imperiale e i Veneziani son ben lieti di offrire il loro territorio per far rifluire le truppe, mentre Pietro Strozzi, dopo il colloquio col cardinal Farnese, ottiene un'udienza dal papa, "et vi stette più d'un hora et mezza - come scriveva il Bianchetti al D. il 29 febbr. 1547 - et glie lo lasciai: ché forse debbe stare più di tre".
A
 Roma gli Spagnoli festeggiano, con intemperanze anche non del tutto fortuite, la vittoria di Mühlberg; a Venezia si allestiscono difese in funzione antimperiale, nonostante che Carlo V ostenti una politica benevola nei confronti dei Veneziani non celando invece la propria ostilità contro Roma. È in questo quadro politico che comincia a farsi strada il programma di una lega difensiva tra la Francia e Roma, che per ragioni strategiche deve tuttavia comprendere anche Venezia, lo Stato tradizionalmente restio ad impegnarsi in alleanze destinate a turbare l'equilibrio internazionale. Il D., che ha già acquisito esperienza sufficiente delle direttive che informano la politica della Repubblica, esprime al Farnese una serie di giudizi negativi circa la speranza, nutrita da Roma, che Venezia possa entrare a far parte della lega: "Io credo che questi S.ri Ill.i si staranno volentieri da parte, et che le Rep.e naturalmente piglino mal volentieri le guerre non necessarie espressamente et mal volentieri abbandonino la quiete presente... et nessuno o pochi non accettano volentieri il suo danno particulare etiam per causa universale... Et a loro, per quel che io posso giudicar, basta l'animo di non si lassar superare in pochi anni, et credono che S. M.tà lo conosca, et così sperano che la impresa contro di loro si habbia a riservar a l'ultimo; et che intanto il tempo, loro antico protettore, gli habbia a liberare di questo sospetto ... Et oltre a ciò... io dubbito che a questi S.ri sia per parere che S. M. C. abbia troppi mezzi et troppe vie di raffreddare la mente di S. B. contra di lui, il che potrebbe poi esser causa della dissolution de la lega, et a loro restarebbe la guerra alle spalle. Et benché S. B. habbi dato tal segno del suo vigore et della sua integerrima fede, pur a i sospetti delli stati non si trova arme che vaglia per assicurarli, come V. S. Ill.ma per sua prudenza sa molto meglio di me".

La situazione precipita allorché viene assassinato Pier Luigi Farnese e sembra al momento che la sorte di Piacenza possa indurre Venezia ad aderire alla lega tra i Francesi e il papa "vedendo quella città - scriveva il D. al Farnese - in periculo manifesto di andar in mano dello Imperatore et accrescer quella forza che essi temono". A Venezia i fuorusciti fiorentini offrono apertamente la loro collaborazione al papa, ma la Repubblica perde tempo e il D. professa ancora il proprio scetticismo circa l'eventualità di un'adesione veneziana alla lega. D'altro canto, il papa, più che alla vendetta, pensa di riottenere Piacenza per Ottavio mediante vie diplomatiche che dovrebbero passare proprio attraverso la mediazione dei Veneziani, e anche questo progetto sembra utopico al D., essendosi persuaso "che la cosa a molti non piace, parendo loro che questo sia modo di metter questo stato in diffidenza con lo Imp.re. Ché, se fanno offizio caldo et non faccino effetto, par loro di dichiarar la mala contentezza loro" (lettera del 5 nov. 1547). Ancora: "Per quanto raccolgo da diverse persone, questi Signori desiderano di opporsi alla potenza dello Imp.re, ma non par loro sicuro di far lega": si legge in una relazione spedita a Roma il 5 nov. 1547 dal D., il quale riassumeva con indubbia sagacia le ragioni che avrebbero consigliato al governo veneziano di astenersi dall'alleanza, fra cui la giovane età del re di Francia ("Per il che par loro pericoloso di sperimentare la prudenza di S. M.tà Chr.ma con tanto rischio della salute loro"), la difficoltà dei raccordi tra i cobelligeranti "massime hora che Piacenza è in mano degli imperiali", la possibilità che ha in ogni momento Carlo V di "placar N. S. per molte vie", donde il pericolo per Venezia di rimanere isolata nella lotta, la scarsa disponibilità finanziaria del pontefice, l'accerchiamento dello Stato della Chiesa da parte delle forze imperiali, e infine "che questo stato sarebbe il primo percosso, havendo lo Imp.re et il Re dei Romani per vicino in tanti luoghi, et massime nel Friuli, ove non è fortezza alcuna".

Ma è da rilevare che per quanto esatta fosse la diagnosi del nunzio circa la volontà politica di Venezia e per quanto vani risultassero i suoi tentativi, congiuntamente a quelli dell'ambasciatore francese Morvilliers, di sollecitare una decisione da parte della Repubblica, l'impegno personale che il D. profondeva nell'impresa era tale da sembrare allo stesso Farnese che potesse compromettere ogni buon fine a più lunga scadenza, onde gli veniva intimato da Roma di placare la veemente e quotidiana eloquenza cui venivano assoggettati i politici veneziani e di procedere "in essa pratica temperatamente". Per stringere i tempi di una missione che oramai l'oratore si è assunto come una personale crociata, il D. pensa di insinuare nei Veneziani il sospetto che il papa possa stringere un accordo con l'imperatore; gioca evidentemente a suo favore l'occupazione di Piombino da parte delle truppe imperiali: nessun altro spunto più convincente avrebbe potuto offrire la cronaca dei primi mesi del '48 per dimostrare l'accerchiamento in cui si sarebbe trovata la Repubblica se non si fosse decisa a rompere gli indugi aderendo alla lega. Vero è altresì che l'oratoria dellacasiana non ha ormai altro fine che un ostentato autocompiacimento, dato "che io particularmente ho fatto quel frutto maggior che possa fare ambasciator... Oltre a questo ... un nobile di qualche reputatione, che pratica assai in palazzo, si è rallegrato col mio secretario, dicendo della molta satisfattione che ha hauta il collegio del mio ultimo ragionamento, et alcuni altri hanno riferito le ragioni dette da me" (lettera al Farnese del 26 maggio 1548).

Procedendo su questa linea l'oratoria del nunzio non aspira più all'interlocuzione, ma al soliloquio ("Poi tornai a dir che io sapeva che S. Ser.tà non mi poteva rispondere, ma solo havea voluto discorrere tutto questo, et supplicavola che non le fosse molesto che io tornassi a parlarle assai spesso di questa materia..."), non tende al convincimento quanto all'effetto della dizione ("Dico che, così come io parlai con maggior efficacia, così conobbi che io faceva maggior effetto; ma io non so in qual parte, né se io persuadeva o era sentito mal volentieri"). È la dimensione in cui si colloca l'Orazione per la lega, composta, anche se probabilmente non letta dinanzi al Senato veneziano, tra il settembre del '47 e i primi mesi dell'anno successivo, in cui vengono ritorti contro Carlo V i principî ecumenici che avrebbero dovuto ispirare la politica imperiale ("... perocché la divina provvidenza, come ella gl'altri nocivi animali fece pochi in numero ed in natura non fecondi, così ordinò che questa pestilenziosa vipera, che imperio si chiama, corta vita avesse e senza alcuna successione mancasse") e si auspica una Controriforma combattiva ("Siano dunque vostra difesa le armi e '1 vigore dell'animo, e non la lentezza e l'ozio, perciocché non le nobili e magnanime fiere, ma li vili e paurosi animali con l'umiltà e con l'obedienza la vita procurano di campare"), una prassi risoluta, ferina nella similitudine che accende la fantasia del D., tale da imporre un comportamento che, per l'eccezionalità della situazione, non può rinvenire precedenti:" le passate opere del tempo niun argomento sono delle future, perocché ogni fatto della fortuna procede da non conosciute cagioni". Meno aspra è l'Orazione a Carlo V imperatore intorno alla restituzione della città di Piacenza, composta sullo scadere del '48, allorché, data la riluttanza di Venezia ad aderire alla lega antispagnola, cominciano a intiepidirsi anche i rapporti tra la Francia e il papa e non resta ai Farnese altra tattica fuori di quella di un riavvicinamento a Carlo V.

L'orazione, spedita il 12 genn. 1549 al cardinale Farnese, costituisce sicuramente una delle maggiori prove letterarie del D., costruita com'è in base a un procedimento antifrastico per cui si attribuiscono all'imperatore quelle virtù sotto le quali l'opinione corrente, almeno nell'ambiente della Curia, avrebbe potuto facilmente riconoscere i corrispondenti demeriti. Non mancano peraltro le aperte intimidazioni ("... se lo spazio della vita nostra fosse pari a quello dell'altezza dell'animo vostro, poco sarebbe forse da prezzar questa tardanza; ma egli è brieve, e spesse volte anco si rompe a mezzo '1 corso e manca", "... consideri Vostra Maestà come ella, tale essendo, dispiacerebbe a se stessa e ad altrui, e più a Dio. Dinanzi al severo e infallibil giudicio del quale, per molto che altri tardi, tosto debbiamo in ogni modo venir tutti, non per interposta persona né con le campagnie né con gli eserciti, ma soli ed ignudi e per noi stessi, non meno i re e gli imperadori che alcun altro quantunque idiota e privato. E certo misero e dolente è colui che a sì fatto Tribunale la sua conscienza torbida e maculata conduce!"), né l'oratore rifugge dalle consuete aperture sul comportamento istintuale degli animali per significare il livello di estraneazione cui è giunta la rapacità aggressiva o subdola dell'imperatore. Ma forse la punta più acuminata della polemica si scorge in quei tratti dell'orazione in cui il D. adombra il sospetto che Carlo V possa essere contaminato dalla ragion di Stato: "Invano adunque si affaticano coloro che fanno due ragioni, l'una torta e falsa e dissoluta e disposta a rubare ed a mal fare (ed a questa han posto nome ragion di Stato, ed a lei assegnano il governo de' reami e degli imperii), e l'altra semplice e diritta e costante (e questa sgridano dalla cura e dal reggimento delle città e de' regni, e caccianla a piatire ed a contendere tra i litiganti)": e che era un espediente molto fine per ritorcere contro Carlo V, o quanto meno, contro alcuni aspetti della sua politica legati a uomini ed esigenze della corte di Madrid, ciò che costituiva di fatto la prassi della Controriforma romana.

Nonostante queste doti implicite e il grande impegno con cui il nunzio elaborò l'opera, a Roma non si ritenne tuttavia opportuno far uso dell'orazione e, a parte i giudizi entusiastici dell'amico Bianchetti e del retore Bartolomeo Cavalcanti, il lavoro del D. ebbe scarsa diffusione. Né poteva essere diversamente, data l'ambiguità e quindi l'inadattabilità politica del discorso, il quale, del resto, vuole offrirsi non tanto come documento del diplomatico, quanto come una testimonianza del letterato vincente lo scacco subito dall'uomo pubblico.

A questo, più modestamente, viene dato l'incarico di svolgere indagini a Padova (presso il Bembo), a Verona (presso il Giberti) e a Venezia circa i trattati del 1521 stipulati tra l'imperatore e Leone X sulla questione di Parma e Piacenza. Ma intanto il D. non si distrae da un'attività letteraria che comprende, favorita dai frequenti rapporti epistolari col Vettori, la traduzione delle orazioni e della "peste d'Atene" dalle Storie di Tucidide e un intrapreso Trattato delle tre lingue, greca latina e toscana; né rinunzia alla carriera ecclesiastica, intensificando presso la Curia (tra il '48 e il '49) le pressioni per ottenere il cardinalato che gli era già sfuggito nel 1546, l'anno successivo a quello in cui, fatto sacerdote e creato vescovo, aveva sperato di raggiungere in un tempo incredibilmente breve il prestigio della porpora.

Fallita l'ambasceria di Giulio Orsini all'imperatore sulla questione di Piacenza (marzo 1549), il D. riferisce a Roma le apprensioni del governo veneto per l'atteggiamento intransigente di Carlo V. Gli vengono spedite copie dei patti stipulati tra il papa e i messi dell'imperatore; manifestandoli nella sede della nunziatura il D. compie l'ultimo tentativo per sollecitare la politica veneta in senso antimperiale, dimostrando "che la potenza dello Imp.re è cresciuta tanto... che queste forze non sono più bastanti a resisterli... et che sono alla condition dello infermo, nel quale se ben non è scemata la virtù ma è cresciuta la febre, pur si dice esser peggiorato. Et ricordai anco che non guardino alla infermità di S. M. Ces., perché si vede che esso riprende vigore, come fa la serpe che il verno è tutta languida et poi riscalda in un momento..." (lettera del 3 agosto 1549). Ma si tratta ancora di uno scacco, e il D. deve addirittura sconfessare tutto l'impegno posto nella missione diplomatica ("V. S. Ill.ma sa che io non ho mai avuto comession di parlar di lega né difensiva né offensiva, et perciò non ne ho mai detto parola; et se si è ragionato tal volta delle conditioni del tempo che corre, sempre mi sono mantenuto in su i generali, et questo ho fatto con parole modeste...": lettera ad Alessandro Farnese del 19 ott. 1549), allorché, pochi giorni prima della scomparsa di Paolo III (10 novembre), Ottavio Farnese tenta un accordo con Ferrante Gonzaga che non era stato estraneo alla morte del padre Pier Luigi Farnese.

L'ultimo aspetto da esaminare circa la legazione veneziana del D. riguarda l'attività svolta in merito al concilio di Trento, su cui inizialmente (siamo nel '45) il nunzio sperava "che forse per via di negotio et pratiche si potrebbe fare alcun buon effetto, massimamente con le persone di lettere capi de gli heretici". Superati i ritardi dell'apertura, dovuti al viaggio del cardinal Farnese alla Dieta di Worms e alla volontà di Carlo V di predisporre una tregua col Turco, si danno istruzioni al D. per sollecitare i prelati a recarsi a Trento, per amministrare i fondi a disposizione dei delegati che ne facessero richiesta, per superare le reticenze di coloro che potessero osteggiare il "decreto della giustificazione" o boicottare quello della residenza che, ovviamente, coinvolgeva anche il vescovo di Benevento, il quale si esprimeva in questi termini in una lettera al Gualteruzzi del 19 maggio 1548: "Circa le cause di Benevento io vi prego insieme col Papazzone ad aiutarle quanto si può, ma non posso dire altro particolare, sendo io manco informato di tutti; e quei benedetti decreti del Concilio non dovevano essere messi ad effetto prima per me che per gli altri...". Nel marzo del '47 il concilio viene trasferito a Bologna col favore della Francia e nonostante il parere contrario di Carlo V, il quale, dopo il fallimento della missione romana del cardinale Madruzzo intesa a riportare il concilio a Trento, e una formale protesta dei rappresentanti imperiali a Bologna, il 15 maggio 1548 pubblica l'Interim ad Augusta. Paolo III pensa ad una diversa città veneta (Vicenza o Udine) come sede del concilio e impartisce in questo senso istruzioni al D., ma anche in questo caso il nunzio si trova di fronte ad un netto rifiuto, non volendo la Repubblica impegnarsi nel dissidio tra il papa e l'imperatore. Era, per il nunzio, l'ultimo atto di quella che definiva al Gualteruzzi, la sua "fallitissima legatione", terminata con la morte di papa Farnese. Gli succedeva al pontificato il cardinale Del Monte, già in familiarità col D., il quale aveva saputo addolcirgli "l'austerità tridentina" con il dono di cibi particolarmente invoglianti e con la descrizione di scene "miracolose" della vita quotidiana a Venezia altrettanto gustose per il futuro Giulio III.

Nel '50 la vita del D. subisce una svolta decisiva. Gli nasce un figlio, Quirinetto, tenuto a battesimo da Girolamo e Lisabetta Quirini e da Donato de' Bardi: la madre era una cortigiana, certa Ippolita data prontamente in sposa allo "zuccararo" (come si apprende da una lettera del 15 marzo) dietro lauto compenso consistente in una dote di 1.000 scudi. Nel '53 Quirinetto viveva ancora a Venezia presso i nobili padrini; nel testamento rogato dal D. nel 1551 gli venivano assegnati "omnia bona stabilia" e più di 6.000 scudi in oro.

Nel 1550 il nunzio si congeda altresì da Venezia (componendo la Vita del Bembo, poco dissimile da quella che apparirà in fronte alla Istoria volgare pubblicata a Venezia nel '52, e l'incompiuta orazione Delle lodi della Serenissima Republica di Venezia alla nobiltà veneziana) per trasferirsi a Roma ove spera di ottenere cospicui vantaggi da Giulio III. Gli viene invece offerta soltanto la nunziatura in Francia, che egli rifiuta; per cui, raccomandato il banco dei Rucellai a Cosimo I, comincia a disimpegnarsi dalla corte pontificia e forse pensa all'eventualità di un rinserimento in Toscana; senonché Francesco Strozzi non manca di screditarlo presso il duca tacciandolo di traditore e di miscredente. In questo senso non dovevano certo giocare a suo favore i rapporti intrattenuti a Venezia con i fuorusciti fiorentini, e soprattutto gli stretti legami con Lorenzino de' Medici, nonostante che il D. avesse tentato, dopo il suo assassinio (1548), di sottolineare l'assoluta impoliticità delle relazioni strette con l'ospite mediceo.
Nel '51 il D. è di nuovo a Venezia, ove si prodiga per sedare un dissidio sorto tra il Gualteruzzi e il Quirini a proposito delle Istorie latine del Bembo, che vedono la luce a Venezia nel '51 con una lettera dedicatoria (non firmata) del Della Casa. A Venezia egli si trattiene quasi ininterrottamente fino al 1553: qui egli riceve i libri Variarum lectionum del Vettori editi dal Torrentino, aggiunge alle vecchie amicizie (Tiziano, Aretino, Jacopo Sansovino, Daniele Ricciarelli) delle nuove, soprattutto rappresentate dai rimatori della seconda generazione bembiana (Bernardo Cappello, Iacopo Marmitta, Benedetto Varchi, Bernardino Rota, Gaspara Stampa); ma l'ambiente veneziano non si addice più allo stanco e infermo uomo di Curia, per cui nel '53 il D. si reca per la prima volta a Nervesa, nel Trevigiano, presso la badia dei conti di Collalto, che costituisce da questo periodo per il letterato il rifugio prediletto contro i richiami della vita pubblica e le sollecitazioni alla mondanità. Nel ritiro di Nervesa egli compone la Gaspari Contareni Vita, più interessante dell'obbligo letterario assolto con la Vita del Bembo, e tanto più significativa se paragonata alla biografia contariniana del Beccadelli, in quanto, quasi del tutto estranea alle motivazioni ideologiche della riforma cattolica, tende a sottolineare del Contarini gli aspetti del diplomatico attivo, in virtù di quegli ideali di militanza e di assoluta dedizione alla causa di Roma che informarono il comportamento del D. anche nei momenti della sconfitta.

Frattanto, nel '55, muore Giulio III, e viene innalzato al soglio pontificio Marcello Cervini (Marcello II) con l'appoggio dei Farnese. Annibale Rucellai, memore della vecchia amicizia che aveva lo zio col cardinale Alessandro, si dà un gran da fare per convincere il D. a tornare a Roma, ma questi per il momento non vuol saperne e pensa addirittura di sbarazzarsi della Chiesa beneventana a vantaggio di uno dei nipoti. Quando, tuttavia, muore il Cervini (nell'aprile del '55) e viene eletto papa il filofrancese Gian Pietro Carafa (Paolo IV), il D. non resiste al richiamo di Roma e vi fa ritorno con l'incarico di primo segretario del pontefice (nonostante le aperte rimostranze di Cosimo I e di Carlo V). Si tenta il rilancio di una politica antimperiale attraverso una nuova lega con la Francia, e viene inviato in missione diplomatica presso Enrico II proprio il nipote del segretario pontificio, Annibale Rucellai. Ma le ambizioni del D. sono ancora rivolte ad ottenere la porpora cardinalizia ed ancora una volta i desideri del prelato vengono frustrati sia per l'opposizione imperiale, sia per le pesanti accuse di immoralità che gli venivano rivolte dal Vergerio; onde in questi termini si rivolge direttamente al pontefice, forse nei giorni immediatamente successivi al concistoro del '55 che lo aveva per l'ennesima volta escluso dalla dignità cardinalizia: "... sentendo con mio infinito dispiacere et rossore che V. B.ne è stato et sarà tormentato fuor di modo sopra il farmi o non farmi cardinale, per liberar lei et me da questa molestia, le dico che io medesimo mi conosco peccatore indegno di quel grado; acciò che con questa mia confessione V. B.ne possa chiuder la bocca a chi me le loda et a chi me le raccomanda. Et perché io conosco che '1 duca di Fiorenza et gli altri imperiali non possono tolerare che io sia nell'offitio che V. B.ne si è degnato di darmi, et ch'io sono in questa corte come la pietra dello scandalo, con infinita noia di V. S.tà et pericolo mio, la supplico umilmente che si degni concedermi la sua santa beneditione, che io mi ritorni alla mia quiete a Venetia... Il che se la mi concederà con piena sua sodisfattione, mi fia la maggior gratia ch'io potesse chiederle. Ma quando V. B.ne non sia pienamente contenta che io mi parta, son prontissimo di obedirla etiam nel più vile offitio di casa, non che in questo che è troppo sopra ogni mio merito".

Cadono in quest'ultimo periodo di vita del D. le più impegnate liriche latine, tra cui l'autodifensivo carme Ad Germanos, e soprattutto la Dissertatio adversus Paulum Vergerium in risposta alle vergeriane Epistolae duae duorum amicorum, ex quibus vana flagitiosaque Pontificum Pauli tertii et Iulii tertii et Cardinalis Poli et Stephani Gardineri pseudoepiscopi Vuitoniensis Angli, eorumque adulatorum sectatorumque ratio magna ex parte intelligi potest. Si tratta di un attacco astioso e violento contro colui che aveva avuto l'ardire di rinfacciare, dopo una vita che il D. aveva speso al servizio attivo della Chiesa, la spregiudicatezza giovanile dell'esperienza romana e i granelli d'incenso bruciati sull'altare del bernismo. Ma è anche vero che lo stridore della diatriba antivergeriana si connette manifestamente al genere dell'invettiva umanistica, che la scabrosità delle accuse è giustificabile in una dimensione letteraria aperta al gioco dell'invenzione più dissacrante quanto irreale, e non è forse immotivato supporre che proprio a questo diaframma letterario il D. intendesse affidare la copertura delle accuse reali che gli provenivano dal Vergerio, anteponendo ancora una volta la propria abilità di retore alla fisionomia dell'individuo, quale poteva emergere dall'opera di diffamazione. Non c'è tuttavia spazio per ragioni politiche nella polemica dellacasiana (al contrario, per esempio, di quanto avviene nell'opera antivaldesiana del Castiglione), e la Dissertatio si restringe di continuo seguendo l'angusta angolazione della logica personale, tanto più significativa se si pensa al ruolo di direzione politica che svolge in questo periodo l'autore presso la segreteria di Stato pontificia.
L'ultima testimonianza che ci rimane del D. è un'Istruzione che egli dettò nel '56 per il cardinale Scipione Rebida che si recava in missione diplomatica a Madrid: uno scritto ancora sospettoso della politica imperiale e non del tutto lusinghiero rispetto alle aspettative che si nutrivano a Roma nei confronti di Filippo II. Poi le condizioni del D. si aggravarono improvvisamente. Ritiratosi in uno dei palazzi romani di Giovanni de' Ricci (forse quello di via Giulia), morì a Roma il 14 nov. 1556 e fu sepolto nella chiesa di S. Andrea della Valle.

Si sono volutamente tralasciate nel corso della trattazione biografica le opere di ispirazione meno contingente, ma tali da configurare, nel loro intreccio e talvolta nella loro contraddittorietà, un profilo originale dello scrittore cinquecentesco. Si fa ovviamente riferimento al De officiis inter potentiores et tenuiores amicos, composto forse nel '44 e la cui traduzione in italiano (Trattato degli uffici comuni) viene generalmente attribuita allo stesso D.; al Galateo ovvero de' costumi, frutto delle conversazioni romane con Galeazzo Florimonte tra il '50 e il '51, iniziato probabilmente a Venezia e terminato a Nervesa non oltre il 1553; alla lirica in volgare, infine, coltivata dall'autore durante tutta la vita, ma frequentata più assiduamente negli ultimi anni secondo criteri di rigore formale ("perché la mia natura - asseriva l'autore - è di mutare e di rimutare ed ancora di rifar volentieri, come quello che non ha fretta") che si ispiravano ad un ideale di alta eloquenza, assimilata dai classici e comunque tendente, al pari dei più maturi tra i carmi latini, a raffigurare l'immagine di un poeta affrancato dalle facili suggestioni della mondanità, nella vita come nella scelta dell'esercizio letterario.

Forse il passo più significativo del Galateo è quello (all'inizio del cap. VI), in cui il D. distingue in questi termini tra gli istinti che determinano l'azione degli uomini e la facoltà del comunicare: "Tu dei sapere che gli uomini naturalmente appetiscono più cose e varie; perciocché alcuni vogliono soddisfare all'ira, alcuni alla gola, altri alla libidine e altri alla avarizia e altri ad altri appetiti, ma in comunicando solamente infra di loro, non pare che chiegghino né possano chiedere né appetire alcuna delle sopraddette cose: conciossiaché elle non consistano nelle maniere o ne' modi o nel favellare delle persone, ma in altro. Appetiscono adunque quello che può conceder loro questo atto del comunicare insieme; e ciò pare che sia benivolenza onore e sollazzo, o alcuna altra cosa a queste somigliante". Queste due facoltà umane, polarizzate nella prassi e nella comunicazione, sono entrambe legittime, sebbene fra esse contrastanti (anzi la seconda mistificante la prima) e separate da una barriera, che lo scrittore mette in evidenza allorché, nel cap. XVI, espone il ridicolo, e in fondo l'immoralità, di un servo, il quale, dimentico della sua naturale subordinazione, intende ostentarla a parole, rivolgendosi al padrone in termini eccessivamente ossequiosi, "perciocché egli se lo reca ad onta e pargli che il servidore voglia metter dubbio nella sua signoria". Il che conduce al centro della problematica contenuta nel trattato Degli uffici comuni, il quale, se da un lato recupera dal Cortegiano il concetto che il dissidio "naturale" fra gli uomini possa quanto meno attutirsi sulla base di una civile convivenza (che solo l'intellettuale riesce a suggerire, per cui egli viene a interpretare il ruolo della ragione che trionfa sulla natura: è, in altri termini, colui che porta alla luce una necessità e al tempo stesso la mitiga astraendone una virtù civile), dall'altra mutua dal Principe l'ideologia della potenza che deve improntare non solo i rapporti internazionali, ma quelli tra governanti e governati, padroni e servi, trasgredendo anche - nel recupero di un ordinamento schiavistico che aveva costituito, ovviamente, la base della società antica - a quello che è un punto fermo nella teoria dellacasiana, l'inassimilabilità del moderno col mondo classico ("Io stimo che di un grande e continovo travaglio privi fossero gli antichi, li quali non di uomini liberi, come quasi è nostra usanza, ma di servi la famiglia loro fatta avevano; della cui opera, e per agio del vivere, e per farsi riputare, e per gli altri bisogni della vita si servivano"). È un nuovo principio d'autorità, vale a dire la legittimazione della repressione controriformistica, ciò che fa saltare l'ingenuo didascalismo di cui si nutriva, sull'ideologia di una tradizione da rinnovare, il messaggio della letteratura umanistica ("E, sì come pochi o niuno è cui soffera l'animo di fare la sua vita col medico o col confessore e molto meno col giudice del maleficio, così non si truova chi si arrischi di aver la costoro dimestichezza, perciocché ciascuno ama la libertà della quale essi [coloro che imprendono a correggere i difetti degli uomini] ci privano e parci essere col maestro": cap. XVIII) e liquida il concetto di imitazione, perché - come si afferma nel cap. XVI - "convienci ubbidire non alla buona, ma alla moderna usanza, sì come noi siamo ubbidienti alle leggi eziandio meno che buone per fino che il Comune o chi ha podestà di farlo non le abbia mutate". Donde il conservatorismo nel costume, verificato che "il contraddire nel costumar con le persone, non si dee fare se non in caso di necessità", e l'elogio dell'assuefazione ad un costume vigente: "ché, quantunque le forze della natura siano grandi, nondimeno ella pure è assai spesso vinta e corretta dall'usanza, ma vuolsi tosto incominciare a farsele incontro e a rintuzzarla prima che ella prende soverchio potere e baldanza... Come tu puoi vedere che i cavalli fanno [si pensi a quel celebre disegno di P. Klee in cui l'animale ammaestrato si riconverte in un prodigioso meccanismo di aggressività]; ché molte volte, anzi sempre sarebbon per natura salvatichi, e il loro maestro gli rende mansueti e oltre a ciò dotti e costumati... Non è adunque vero che incontro alla natura non abbia freno né maestro, anzi ve ne ha due, ché l'uno è il costume e l'altro è la ragione; ma, come io t'ho detto poco di sopra, ella non può di scostumato far costumato, senza l'usanza la quale è quasi parto e portato del tempo" (cap. XXV).

Deriva da questo atteggiamento una decisa opzione per l'uso, per la consuetudine, che la critica tradizionale ha sottolineato con successo illustrando la polemica dellacasiana contro gli arcaismi e soprattutto contro i residui danteschi presenti nella lingua letteraria del Cinquecento. Ma è chiaro che un'indagine linguistica non può arrestarsi alle inclinazioni del gusto e tanto meno limitarsi a sondaggi sulla massa dei mezzi espressivi. Il D. identifica il piacevole con l'usuale e il costumato bandendo l'estraneità alla norma come barbarie "... sappi che colui è piacevole, i cui modi sono tali nell'usanza comune quali costumano di tenere gli amici infra di loro; là dove chi è strano pare in ciascun luogo straniero, che tanto tiene a dire come forestiero; sì come i domestici uomini per lo contrario pare che sieno, ovunque vadano, conoscenti e amici di ciascuno": cap. IX), oltreché distingue, nel cap. XII, tra i sogni che ben si possono raccontare "e con molta dilettazione e frutto ascoltare, perciocché più si rassomigliano a pensiero", e quelli "senza forma e senza sentimento, quali... si deono dimenticare e da noi insieme col sonno licenziare". Ora, la censura applicata alla difformità, alla incongruenza rinvia a un comportamento che ricorre alla consuetudine, all'uso attuale in funzione emarginante; tale funzione è inoltre eminentemente pratica e cautelativa nei confronti di coloro che sono "così vogliosi e gelosi di dire che non prendono il sentimento ma lo trapassano e corrongli dinanzi a guisa di veltro che non assanni" (cap. XXIII) "e, come noi veggiamo talvolta su per l'aie dei contadini l'uno pollo tòrre la spica di becco all'altro, così cavano costoro i ragionamenti di bocca a colui che gli incominciò, e dicono essi" (cap. XXIV). Dove è evidente come, attraverso il motivo della comunicazione, la polemica slitti da una dimensione formale a quella semantica e affiori, nelle similitudini animalesche, un contenuto di lotta contro chi distorce il significato della "parola" o indebitamente se ne appropria.

Nell'equazione espressione-manifestazione-comportamento l'assoluta comunicabilità discorsiva corrisponde al mostrarsi dell'uomo pubblico nella sua individualità pratica: questa è la correzione del Galateo rispetto al fallimento delle orazioni ("Ché se tu vedessi una nobile donna e ornata posta a lavar suoi stovigli nel rigagnolo della via pubblica, comeché per altro non ti calesse di lei, sì ti dispiacerebbe ella in ciò che ella non si mostrerebbe una, ma più... né perciò ti verrebbe di lei né odore né sapore aspero né suono né colore, alcuno spiacevole né altramente farebbe noia al tuo appetito, ma dispiacerebbeti per sé quello sconcio e sconvenevol modo e diviso atto"). L'uso è la norma del presente. L'oratoria come fluidità, non discrepanza, immersione totale nel consueto corrisponde all'individuo non estraneo, a colui che parla per la parte e contro la parte. Si tratta quindi essenzialmente di una letteratura come comportamento (intransigente, combattivo nella volontà dell'esclusione e del recupero di una stretta ortodossia), anche se il D. si dimostra disposto a situare ancora l'opera in una dimensione di letteratura per il comportamento, allorché, nel cap. XXVIII, dichiara: "Ma, perché io non presi a mostrarti i peccati ma gli errori degli uomini, non dee esser mia presente cura il trattar della natura de' vizii e delle virtù, ma solamente degli acconci e sconci modi che noi l'uno con l'altro usiamo". Si ritorna al punto di partenza: senonché il linguaggio come modalità che non definisce più un modo diverso di esistenza letteraria, secondo la sperimentazione umanistica, bensì legittima lo stato presente, si rivela come una semplice copertura alla prassi inquisitoriale. E se si vuole misurare la distanza che intercorre tra il Galateo e forse l'ultima testimonianza cinquecentesca di letteratura del comportamento, il Cortegiano, basta sostituire entro la sfera della rappresentazione il modo alla moda, confrontando le ripetute ostentazioni di eccentricità da parte del Castiglione con questo passo del D. (cap. XXVIII): "I tuoi panni convien che siano secondo il costume degli altri di tuo tempo o di tua condizione, per le cagioni che io ho dette di sopra; ché noi non abbiamo potere di mutar di usanze a nostro senno, ma il tempo le crea, e consumale altresì il tempo". L'abito funereo con cui viene rappresentato l'autore nel ritratto di Tiziano simboleggia ad un tempo la più tetra uniformità al costume e il senso di annientamento che ispira l'opera artistica.

Se il Galateo rappresenta un momento di compromesso tra la prassi controriformistica enunciata nel Trattato del '44 (quando l'autore svolgeva le sue mansioni inquisitoriali, seppure in forma così personalistica da non mostrarsi insensibile alle raccomandazioni dell'Aretino in favore di un eretico, da non rompere la familiarità col Carnesecchi, anche prendendo le dovute distanze) e la letteratura del comportamento - con tutto ciò che ne consegue quanto al prestigio del letterato legato al suo magistero di civilizzazione -, l'opera costituisce altresì una sezione aurea fra il discorso e il monologo, la narrazione e il simbolo, la funzione comunicativa della letteratura e la sua negazione che corrisponde all'asfissia dell'esperienza letteraria stessa.

Sulla scorta di precise indicazioni circa la datazione delle Rime (Caretti), la critica ha potuto, periodizzando, distinguere abbastanza nettamente alcune zone della lirica dellacasiana, che vanno da un'accettazione immediata e piuttosto occasionale del bembismo a un recupero della vicenda del Canzoniere petrarchesco, sintetizzata in formulazioni che condensano in un unico componimento l'esito "penitenziale" del Petrarca narrativo, sino alla rappresentazione simbolica di un senso globale della propria esperienza, ormai affrancata dagli stilemi petrarchistici già volti ad una significazione crepuscolare e sfuggente della vita (vedi il sonetto "Curi le paci sue chi vede Marte", oltreché il celebre "O sonno, o de la queta, umida, ombrosa / notte placido figlio...") e affidata ad una trasfigurazione metafisica della realtà, col ricorso a immagini di folgorante evidenza. Schematizzando: dalle rime in morte del Bembo o del Soranzo, che contengono una spregiudicata commistione, caratteristica degli anni giovanili ("Bella fera e gentil mi punse il seno, / e poi fuggìo da me ratta lontano, / vago lassando il cor del suo veneno; / e mentre ella per me s'attende in vano, / lasso, ti parti tu, non ancor pieno / i primi spazii pur del corso umano": sonetto "Il tuo candido fil tosto le amare"), alle più impegnative prove retoriche - rilevabili per l'ampiezza e la continuità dell'impianto discorsivo - rappresentate dalle canzoni "Arsi; e non pur la verde stagion fresca" ed "Errai gran tempo, e del cammino incerto", nonché dai sonetti di risposta al Marmitta, sino alla "poesia pura", anticipata dai sonetti per le chiome recise ("Le chiome d'or, ch'Amor solea mostrarmi", "Le bionde chiome, ov'anco intrica e prende"), sublimata da un esercizio metaforico tendente al rilievo del contrasto fra desiderio di onori e volontà di rinuncia (vedi il sonetto "Or pompa e ostro e or fontana ed elce"), realizzata infine attraverso una trascrizione indolorosamente classicistica di un contenuto affettivo, cui il D. riesce a conferire (rispetto agli sporadici calchi latini innestati sullo stile bembiano dal Cappello, dal Varchi, da Bernardo Tasso) il carattere unitario dell'allegoria (nei sonetti "La bella greca, onde 'l pastor ideo", "Già lessi, e or conosco in me si come").

Ed è a quest'ultima fase dell'attività lirica del D. che si sono indirizzati con maggior interesse i critici (Baldacci, Seroni, Bo) sottolineando l'antipetrarchismo dell'autore - peraltro già segnalato da alcune penetranti osservazioni del Gravina - e rilevandone l'originalità nel campo del manierismo cinquecentesco. In virtù di una concentrazione eccezionalmente nutrita di studi, il recupero del D. poeta non ha trovato negli ultimi anni riscontro, limitatamente al settore della lirica concettista, se non, forse, nella rivalutazione di Galeazzo di Tarsia, accomunato del resto, da parte del Ponchiroli, all'esempio dello scrittore fiorentino. Questa critica ha tuttavia sottovalutato i caratteri fortemente involutivi presenti nell'ultimo D. rispetto alla fase di "tenebroso" petrarchismo che esaltava il senso retorico del Foscolo e su cui è tornato giustamente il Roncaglia a proposito di un'analisi stilistica del sonetto Al Sonno. Tali aspetti negativi sono da ravvisarsi nella solenne ma glaciale ornamentalità delle estreme prove liriche, nella studiata simmetria con cui si alternano i concetti e le metafore, nella regolarità che allinea le figure mitiche suscitate da una sapienza, se non libresca, freddamente intellettualistica: rilievi senza più spessore o che lasciano intuire la materia friabile di cui è composto il fregio, e soltanto perciò tali composizioni sono - come ha avvertito la critica - anticipatrici della tecnica barocca. Né potrebbe essere diversamente data la solubilità cui si è votato il linguaggio della lirica rispetto alla saldezza del linguaggio comportamentale, all'intransigenza della manifestazione pubblica che impegna tutte le forze dell'individuo.

Sotto questo aspetto le ultime poesie del D. segnano il fallimento di quella modalità linguistica che nel Galateo segue ancora il percorso, se non altro come scoperta mistificazione della natura, di una letteratura del comportamento; testimoniano la rottura di un equilibrio e la vittoria di quell'esercizio a servire che costituisce l'ideologia degli Uffici comuni e la pratica del diplomatico, nonché l'unica facoltà di manifestarsi concessa all'uomo dalla Controriforma, quali che siano le dimensioni della realtà e le possibilità oggettive di intervento ("Il tradimento di Piacenza - scriveva il D. al Gualteruzzi a proposito di un avvenimento tipicamente machiavellico, tanto irreparabile quanto assurdo fuori di una logica pervicacemente personalistica - debbe haver mutato tutti i disegni vecchi et rinnovato ogni cosa; però vi prego che siate con M. Luigi et con M. Gio. Bianchetti et veggiate d'indovinar, ché così è necessario di fare in simil caso, quello che io posso sperar di me, così dello star qui, come d'ogni altro mio fatto. Et quanto allo star qui io non domanderei mai licenza in questa adversità de' miei Signori: anzi sono per offerirmi et per servir più che mai, pur ch'io sia buono a farlo": lettera del 17 sett. 1547). Èl'imperativo pratico la forza minacciante e alfine vincente della letteratura controriformistica prima che la follia si sostituisca alla realtà e la fuga autocensoria alla norma della persecuzione; e allora si verificherà l'avventura drammaticamente alternativa del Tasso.