Pio XII

 

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di Francesco Traniello

Eugenio Pacelli nacque a Roma il 2 marzo 1876 da Filippo e da Virginia Graziosi. La sua era una famiglia di piccola nobiltà pontificia, originaria di Acquapendente, distintasi in vari suoi membri al servizio della Santa Sede. Il padre alla nascita di Eugenio ricopriva la funzione di avvocato rotale per assumere nel 1896 quella di avvocato concistoriale. Il cugino di secondo grado Ernesto ebbe ruoli di prim'ordine nell'amministrazione dei beni vaticani e fu dal 1903 al 1916 presidente del Banco di Roma. Il fratello maggiore, Francesco, avvocato rotale, avrebbe poi svolto una parte di rilievo nei negoziati che prepararono i Patti Lateranensi.

Allievo del collegio Capranica, che lasciò dopo un anno, nel 1895, per ragioni di salute, seguì il corso di filosofia all'Università Gregoriana e proseguì gli studi teologici e poi quelli di diritto all'Apollinare (oggi Università Lateranense).

Ordinato sacerdote il 2 aprile 1899 da monsignor Cassetta, vicegerente del Vicariato di Roma, si laureò in teologia nel 1901 e in diritto nel 1902. Entrato in Curia come "apprendista" e, dal 1905, minutante della Congregazione degli Affari Ecclesiastici Straordinari di cui era segretario P. Gasparri, fu da questi chiamato, nel 1904, a ricoprire la carica di segretario della commissione per la redazione del Codex iuris canonici. Le sue competenze giuridiche, manifestate anche nel breve ma denso studio La personalità giuridica e la territorialità delle leggi, specialmente nel diritto canonico. Studio storico-giuridico (Roma 1912), gli valsero l'insegnamento del diritto nella Pontificia Accademia dei Nobili Ecclesiastici, centro di formazione dei diplomatici pontifici.

La fiducia di Gasparri e le sue qualità lo imposero come personalità emergente della diplomazia vaticana: nel 1911 succedette a monsignor Benigni quale sottosegretario della Congregazione degli Affari Ecclesiastici Straordinari, nel 1912 fu nominato da Pio X segretario aggiunto e, nel 1914, alla vigilia della prima guerra mondiale, segretario della stessa Congregazione. Quando Gasparri fu nominato segretario di Stato dal neoeletto Benedetto XV, Pacelli conservò la propria carica, infittendo i rapporti di collaborazione con il suo diretto superiore in occasione della redazione del libro bianco vaticano sulla rottura delle relazioni diplomatiche con la Francia avvenuta nel 1904 e, soprattutto, partecipando in prima persona ai tentativi della Santa Sede volti, dapprima, a limitare l'estensione del conflitto all'Italia - in relazione ai quali fu incaricato nel 1915 di una missione presso l'imperatore d'Austria-Ungheria - e più tardi a favorirne una soluzione di compromesso.

In questo quadro, nel maggio 1917 fu nominato da Benedetto XV, che lo consacrò contestualmente arcivescovo titolare di Sardi, nunzio pontificio a Monaco di Baviera, dove giunse il 26 maggio. Iniziò allora una nuova e decisiva fase della sua esistenza, che per molte ragioni lasciò un'impronta duratura sulla sua personalità e i suoi orientamenti. In proposito è da notare che la Nunziatura di Monaco fu, dal 1917 al 1920, la sola Nunziatura esistente in tutti i territori tedeschi, per cui il suo titolare ebbe modo di esercitare un ruolo di protagonista non solo nelle relazioni della Santa Sede con la Baviera, ma anche in quelle con il Reich in anni cruciali per la Germania.

Quando, poi, nell'agosto del 1920, la Santa Sede e il governo, ormai repubblicano, del Reich tedesco stabilirono - con il contributo decisivo del nunzio - diretti rapporti diplomatici, a Pacelli fu affidata anche la nuova Nunziatura di Berlino, pur continuando a risiedere per qualche tempo nella capitale bavarese. In secondo luogo, la nunziatura di Pacelli coincise con un tendenziale spostamento dell'asse diplomatico vaticano dall'Austria-Ungheria alla Germania, già profilatosi durante la guerra, e fattosi più marcato in seguito alla frammentazione dell'Impero asburgico e agli eventi della rivoluzione bolscevica in Russia: in questo senso Pacelli ebbe parte di assoluto rilievo nel rappresentare le sorti della Germania come determinanti per quelle dell'Europa e per il futuro della Chiesa, non solo tedesca. In terzo luogo, durante la sua residenza a Monaco, Pacelli assistette personalmente alla tumultuosa fase rivoluzionaria del 1918-1919, al processo di edificazione della Repubblica di Weimar e alla prolungata e drammatica vicenda del trattato di pace con la Germania. Inviato a Monaco con il compito precipuo di assecondare le iniziative di pace di Benedetto XV, poi tradotte nel vano appello ai governi delle potenze belligeranti del 1° agosto 1917, Pacelli si trovò dunque ad agire in condizioni, con obiettivi e con interlocutori totalmente diversi dopo il tracollo dell'Impero e la sconfitta tedesca.

Nel nuovo contesto il nunzio seguì una linea diplomatica ispirata a criteri di lucido realismo - anche anteposti alle proprie personali propensioni -, ma ancorata ad alcuni principi generali che le conferivano una ragguardevole indipendenza dagli indirizzi prevalenti nello stesso episcopato tedesco. Venutosi a trovare, nel novembre 1918, nel cuore della rivoluzione socialista di Monaco, e, dopo l'assassinio di Kurt Eisner, direttamente investito dalle sommosse che, all'inizio dell'anno successivo, portarono alla proclamazione della Repubblica consiliare, Pacelli manifestò sentimenti e giudizi di profondo disgusto nei confronti di quell'episodio di "tirannia russo-giudaico-rivoluzionaria" (E. Fattorini, p. 116) e di "dittatura del proletariato", senza tralasciare d'insistere, nelle sue relazioni alla Segreteria di Stato, sulla componente ebraica del bolscevismo dilagante; ma nello stesso tempo addebitò il movimento consiliare, oltre che alla propaganda comunista, all'infelicissimo esito della guerra e alla reazione del popolo contro le antiche classi dominanti, chiamò in causa le responsabilità delle potenze vincitrici nei confronti della Germania, "un grande popolo civile", e indicò con fermezza quale unica efficace risposta all'estremismo delle minoranze rivoluzionarie la democratizzazione parlamentare del sistema politico tedesco, basata su di "un'ordinata rappresentanza popolare scelta indistintamente tra tutte le classi".

Allo stesso modo, nei primi anni Venti, richiamò con insistenza l'attenzione della Segreteria di Stato sul pericolo di una saldatura tra i movimenti nazionalisti rivoluzionari, da lui denominati "bolscevismo nazionale", e il comunismo, alludendo ad una possibile alleanza militare russo-germanica contro l'Occidente, e segnalò con allarme la potenziale capacità di attrazione esercitata dal nazionalismo tedesco, benché di radici protestanti, sulle masse cattoliche. Per tali ragioni Pacelli, che intrattenne frequenti contatti con il leader del Centro, M. Erzberger, a dispetto della sua impopolarità presso i settori nazionalisti, sostenne nei suoi dispacci le ragioni della Repubblica, dei governi di coalizione del Centro cattolico con i socialisti, e della Costituzione di Weimar: di questa, pur riconoscendone i limiti di principio, segnalò i lati vantaggiosi per la Chiesa, attribuendone il merito "allo zelo, all'attività ed all'impareggiabile organizzazione dei cattolici tedeschi", che si erano così guadagnati una condizione di "maggiore libertà che non sotto il passato regime" ed una legislazione scolastica certamente più favorevole di quella dell'epoca guglielmina. Più in generale Pacelli ritenne di poter rilevare nella Germania weimariana un particolare apprezzamento, sul piano internazionale, dell'"immenso potere politico-religioso della Chiesa cattolica" (ibid., p. 336).

Personalmente partecipe delle ragioni del federalismo bavarese, il nunzio dispiegò tuttavia una ferma azione frenante nei confronti dei movimenti separatisti serpeggianti nelle aree tedesche di confine a maggioranza cattolica, adoperandosi costantemente, in accordo con Gasparri, a favore della salvaguardia dell'unità statale della Germania. Su questa stessa linea non mancò di segnalare come le condizioni da lui ritenute eccessivamente punitive, sul piano territoriale, economico e militare, della pace di Versailles fossero, da un lato, fomentatrici di bolscevismo e, dall'altro, originassero una spinta di "una gran parte della borghesia verso quei partiti, che erano stati prima i più energici propugnatori della politica di guerra" (ibid., p. 350). Al punto di convergenza di queste diverse linee fu posto da Pacelli un obiettivo concordatario, che consentisse di consolidare la situazione di favore in cui si era trovata, per le ragioni anzidette, la Chiesa cattolica in Germania, accrescendone altresì i legami con la Santa Sede. Senza escludere iniziative che miravano alla stipulazione di un concordato con il Reich, Pacelli puntò principalmente sulla maggiore disponibilità del governo di Monaco, con il quale condusse dal 1920 un negoziato diretto, concluso positivamente il 29 marzo 1924 con la firma del concordato con la Baviera, corrispondente alle richieste della Chiesa specialmente in materia scolastica.

Nei successivi anni di nunziatura, ormai trasferitosi a Berlino, Pacelli intrecciò trattative - definitivamente interrotte nel 1928 - con l'ambasciatore e con il commissario agli Esteri dell'URSS, Krestinski e Ciãerin, volte a migliorare, nei limiti del possibile, la situazione della Chiesa cattolica in quel paese, secondo una linea di tendenziale flessibilità. Pose inoltre le basi di due altri concordati, con la Prussia, firmato il 14 giugno 1929, e con il Baden giunto a conclusione il 12 ottobre 1932, dopo la sua partenza dalla Germania: restarono invece interrotti, per l'impossibilità di pervenire ad un accordo sulle questioni scolastiche, i negoziati per il concordato con il Reich, sebbene se ne fossero predisposte varie bozze provvisorie.

Rientrato a Roma per ricevere la porpora cardinalizia, che gli fu attribuita da Pio XI nel Concistoro del 16 dicembre 1929, il 9 febbraio 1930 fu inaspettatamente chiamato a succedere a Gasparri alla Segreteria di Stato vaticana. La nomina, dovuta probabilmente alla volontà di Pio XI di avere un collaboratore meno indipendente di Gasparri, avveniva a un anno dalla firma dei Patti Lateranensi, e collocava Pacelli in posizione preminente al fianco del pontefice, alla vigilia di un decennio contrassegnato dal precipitare della crisi economica mondiale, dall'emergenza totalitaria e dallo sconvolgimento dell'ordine internazionale.

Pacelli mutò sostanzialmente lo stile e la prassi della Segreteria di Stato, accentrando su di sé un'immensa mole di lavoro, dilatando gli orizzonti dell'ufficio a cui era preposto, e avvalendosi di collaboratori di grandi qualità, come A. Ottaviani, D. Tardini, succeduto a Ottaviani nel 1935 quale sostituto della Segreteria di Stato e divenuto nel 1937 segretario agli Affari Ecclesiastici Straordinari, e G.B. Montini, dal 1937 succeduto a Tardini nella carica di sostituto. Ancorché non sia agevole, allo stato attuale della documentazione disponibile, sceverare l'opera di Pacelli come segretario di Stato da quella del pontefice Pio XI, va però considerato che il ruolo della Segreteria di Stato vaticana risultò, all'epoca di Pacelli, oggettivamente enfatizzato sia dal precipitoso mutamento degli equilibri internazionali sia dal sovvertimento in senso autoritario e/o totalitario di molti Stati europei a maggioranza o con forti minoranze cattoliche (come, dopo l'Italia, l'Austria, la Germania, la Polonia, la Spagna), di cui furono in varia misura partecipi le Chiese locali attraversate da forti pulsioni nazionalistiche e anticomuniste, con il coinvolgimento indiretto, ma tendenzialmente improntato a maggior cautela, della Santa Sede.

In questa fase di radicali trasformazioni politico-istituzionali, che provocarono, nei Paesi anzidetti, il tracollo dei sistemi di garanzie costituzionali (peraltro tradizionalmente giudicati insufficienti e precari dalla Chiesa, in quanto applicazioni di principi liberali) e la dissoluzione dei partiti cattolici (considerati generalmente dai vertici ecclesiastici come strumenti subordinati alla realizzazione di ordinamenti pubblici più favorevoli o direttamente ispirati a istanze confessionali), la Santa Sede venne a svolgere un ruolo crescente di intermediazione tra le Chiese locali e gli Stati di appartenenza. Nell'assecondare questa linea di sviluppo, la Segreteria di Stato guidata da Pacelli non si attenne soltanto ad un prevalente criterio di distinzione tra gli aspetti ideologici dei nuovi regimi e la sfera dei rapporti istituzionali, ancorandosi al principio del non intervento in materia di "forme di governo"; ma si propose anche il duplice obiettivo di imprimere, ove possibile, più marcate coloriture confessionali agli Stati contraenti, ovvero di assicurare condizioni di relativa autonomia delle Chiese nazionali nei confronti di regimi politici tendenti alla subordinazione totalitaria delle istituzioni religiose. In questo quadro si colloca l'ulteriore sviluppo della linea concordataria realizzato da Pacelli e culminato nei due concordati con l'Austria e con il Reich tedesco del 1933.

Quest'ultimo, sollecitato dal vicecancelliere von Papen a due mesi dall'avvento di Hitler al potere, fu negoziato personalmente dal segretario di Stato affiancato da monsignor L. Kaas, già presidente della Zentrumspartei, e firmato il 20 luglio da Pacelli e von Papen, all'indomani dell'autoscioglimento del partito cattolico tedesco. Il suo testo prevedeva una serie di garanzie e di riconoscimenti nei riguardi dell'associazionismo e delle scuole cattoliche tedesche e, per converso, in analogia con il concordato italiano, il divieto fatto agli ecclesiastici di iscriversi e militare in partiti politici. Stipulato in condizioni eccezionali e in tempi molto brevi, anche per le pressioni dell'episcopato germanico, il concordato col Reich rifletteva i timori, condivisi da Pacelli, circa la natura totalitaria e pervasiva del nuovo regime, e dunque l'intento di ancorare ad un atto di validità internazionale la salvaguardia delle prerogative della Chiesa in Germania. Contribuì d'altro canto a consolidare le propensioni positive di ampi settori del cattolicesimo tedesco nei confronti del "nuovo ordine", sebbene, appena all'indomani della firma, il governo del Reich adottasse provvedimenti in aperto conflitto con il testo concordatario.

Ciò aprì un lungo contenzioso diplomatico con la Santa Sede destinato a trasferirsi, per iniziativa di papa Pio XI, su quello più apertamente dottrinale: sino alla pubblicazione, il 14 marzo 1937, dell'enciclica Mit brennender Sorge. La sua tormentata stesura, preceduta da una consultazione promossa da Pacelli con una delegazione dell'episcopato tedesco, e abbozzata originariamente dal cardinale di Monaco M. von Faulhaber, fu seguita personalmente dal segretario di Stato con la collaborazione dei gesuiti tedeschi R. Leiber ed A. Bea, e di monsignor Kaas. Pur riflettendo la preoccupazione di evitare una rottura frontale con il governo di Hitler e di preservare il concordato del 1933, l'enciclica conteneva un'aperta condanna di aspetti essenziali della dottrina nazionalsocialista - come il razzismo - secondo la linea intransigente adottata da Pio XI, e precedette di pochi giorni la pubblicazione della Divini Redemptoris (19 marzo) contro il comunismo ateo.

Diffusa in Germania valicando la rete di controllo della polizia, e letta in quasi tutte le chiese tedesche il 21 marzo, la Mit brennender Sorge venne accolta dai capi nazisti come un atto di guerra. Aspetto non marginale dell'opera di Pacelli come segretario di Stato furono le sue numerose missioni in Paesi europei e americani, di carattere ufficiale o privato, segno delle dimensioni planetarie assunte dalla Chiesa di Roma e delle conseguenti proiezioni extraeuropee della diplomazia vaticana.

Tra la fine del 1934 e l'inizio del 1935 Pacelli intraprese un lungo viaggio in America Latina come legato pontificio al congresso eucaristico di Buenos Aires, da dove raggiunse Montevideo e Rio de Janeiro, incontrando i capi di Stato dei Paesi visitati. Nell'aprile del 1935 presenziò alle cerimonie di Lourdes per il giubileo della Redenzione. Nell'ottobre-novembre del 1936 visitò gli Stati Uniti in forma privata, incontrando, in compagnia di monsignor F. Spellman, futuro arcivescovo di New York, decine di vescovi, stabilendo contatti diretti e durevoli con esponenti del fiorente mondo cattolico americano e visitando personalmente F.D. Roosevelt, appena rieletto alla presidenza: è verosimile che sin d'allora si ponessero le basi di un rapporto più formale tra il governo degli Stati Uniti, privo di rappresentanza ufficiale in Vaticano, e la Santa Sede. Nel luglio 1937 Pacelli fu inviato nuovamente in Francia a Lisieux come legato del papa, già gravemente ammalato, per la consacrazione della basilica dedicata a s. Teresa del Bambin Gesù, fermandosi anche a Parigi, dove incontrò ministri del governo di Fronte popolare, ed esaltò i particolari legami della Francia con la Chiesa di Roma. Nel maggio del 1938, appena all'indomani dell'Anschluss - visto con grave preoccupazione dalla Santa Sede e oggetto di contrastanti valutazioni tra la Segreteria di Stato e l'arcivescovo di Vienna, T. Innitzer - Pacelli si recò a Budapest, in occasione del congresso eucaristico internazionale, dove incontrò l'ammiraglio Horthy e ribadì il principio dell'estraneità della Chiesa alla determinazione delle forme dei governi.

Alla morte di Pio XI il cardinale Pacelli fu chiamato a succedergli dopo un brevissimo conclave concluso alla terza votazione, il 2 marzo 1939, primo segretario di Stato asceso al pontificato dopo quasi tre secoli, con l'appoggio dei cardinali francesi che lo giudicavano di sentimenti antinazisti, mentre alcuni cardinali italiani gli avrebbero preferito l'arcivescovo di Firenze, E. Dalla Costa.

Assunto il nome di Pio XII, sin dai primi giorni del suo pontificato, con l'ausilio del cardinale L. Maglione, già nunzio a Parigi e nominato alla Segreteria di Stato, egli rivolse principalmente la sua opera al tentativo, risultato vano, di ridurre le tensioni tra la Chiesa e il Terzo Reich, e di evitare, con accorati appelli e un'intensa, quanto delicata, azione diplomatica - non escludente, a certe condizioni, un ruolo mediatorio della Santa Sede in specie nei confronti della questione polacca -, che la crisi internazionale ormai in atto precipitasse in una generale conflagrazione bellica. Di fatto, dallo scoppio del conflitto, preceduto il 24 agosto dall'ultimo appello pontificio, "Nulla è perduto con la pace. Tutto può esserlo con la guerra", il problema della guerra avrebbe improntato sotto ogni aspetto - non solo, cioè, sotto il profilo pastorale, ma anche sotto quello dottrinale, diplomatico e istituzionale - tutta la prima parte del pontificato pacelliano, e si sarebbe proiettato sulla sua fase postbellica. Ove si prescinda dalla considerazione che P. fu il papa cui toccò il compito di guidare la Chiesa cattolica nella più grande catastrofe dell'umanità generatasi nel cuore dell'Europa cristiana non si può intendere il segno e il senso del pontificato pacelliano: altro discorso, ben più complesso e controverso, concerne peraltro una sua valutazione, o anche una sua raffigurazione d'insieme. In proposito, è opportuno considerare le grandi linee del pontificato di P. durante il conflitto sotto profili diversi, sebbene strettamente connessi.

Da un punto di vista istituzionale, l'esplosione e gli sviluppi della guerra - estesasi dal giugno 1940 all'Italia, nonostante svariati tentativi compiuti da P. di preservarne la non-belligeranza - incisero sul pontificato in modo contrastante. Mentre incrementarono il processo, già in atto, di concentrazione delle decisioni nelle mani del papa - anche formalmente evidenziato dalla scelta di non procedere alla nomina di un nuovo segretario di Stato alla morte, avvenuta nel 1944, del cardinale Maglione - resero più difficili e precari i rapporti di P. con gli episcopati locali, in un'epoca in cui questi erano chiamati, viceversa, a fronteggiare situazioni di estrema difficoltà, specie in alcune aree (come in Germania, o nei territori occupati dalla Germania, esclusi, tra l'altro, dall'applicazione delle clausole concordatarie).

Sotto l'aspetto diplomatico, la situazione bellica ridusse sensibilmente i margini d'influenza della Santa Sede nei riguardi degli Stati belligeranti, producendone un certo isolamento sul piano internazionale, solo in parte compensato dall'apertura di un importante canale diretto con il governo degli Stati Uniti mediante l'invio in Vaticano, dal febbraio del 1940, di un rappresentante del presidente Roosevelt nella persona di M. Taylor, le cui missioni proseguirono anche dopo l'ingresso degli Stati Uniti nel conflitto. Questi fattori, di tale rilevanza, a giudizio dello stesso pontefice, da limitare la sua "possibilità di operare efficacemente" e da mettere addirittura in pericolo l'"indipendenza" del papato, furono invocati da P. come una delle ragioni della "necessità per la Santa Sede [...] di chiudersi in un riserbo prudenziale anche dove sarebbe occorsa un'azione energica" (lettera al vescovo di Passau, del febbraio 1944, in Actes et documents du Saint-Siège relatifs à la seconde guerre mondiale, II, pp. 355 ss.; G. Miccoli, I dilemmi e i silenzi, p. 224); e comunque ebbero peso notevole nel definire il profilo del pontificato e nell'imprimergli particolari modulazioni.

Di fatto il passaggio allo stato di guerra e la tipologia di quella guerra imposta dalla Germania - contrassegnata dall'annientamento di molte entità statalnazionali europee, dall'occupazione militare di immensi territori, accompagnata da eccidi e deportazioni, dalla dispersione di comunità ecclesiastiche locali, dall'esplosione di conflitti etnico-religiosi coinvolgenti le Chiese locali, dall'avvio dello sterminio sistematico degli ebrei e di minoranze etniche - erano avvenimenti tali da ridurre sensibilmente l'incidenza dei metodi e degli strumenti tradizionali della diplomazia vaticana, ch'erano parte integrante della formazione e della personalità di Pio XII. Inoltre la natura ideologicamente complessa del conflitto, propiziato dagli accordi tra la Germania nazionalsocialista e la Russia comunista del 1939, proseguito con l'alleanza dell'Italia fascista con la Germania di Hitler, e sfociato nell'alleanza tra l'Unione Sovietica e le democrazie occidentali, poteva apparire in contraddizione insormontabile con uno dei principi cardinali cui s'era ispirato P. sin dalla sua prima enciclica Summi Pontificatus, del 20 ottobre 1939: la contrapposizione di una "civiltà cristiana" - della quale la nazione tedesca, in ragione delle sue radici storiche e della forza della Chiesa tedesca, era considerata dal pontefice parte integrante - ai sistemi totalitari, elevanti "lo Stato e la collettività a fine ultimo della vita, a criterio sommo dell'ordine morale e giuridico".

La convinzione profonda di P., avvertibile in molti documenti e attestata da molteplici testimonianze, circa un'analoga radicale pericolosità del nazionalsocialismo e del comunismo, si accompagnava ad un personale e persistente interesse per le sorti della Germania, senza escludere l'eventualità di una sua autoliberazione dal nazionalsocialismo - che indusse il pontefice sin dall'inizio della guerra a seguire con qualche consenso i deboli segnali di opposizione militare a Hitler - e nella prospettiva di un suo pieno reinserimento nella cristianità europea in funzione di baluardo nei confronti del comunismo sovietico. Gli atteggiamenti di "riserbo" e di "imparzialità" tra le parti in conflitto assunti da P. come norma generale - e fatti anche valere nei confronti delle pressanti e opposte richieste rivolte al pontefice di conferire una sanzione religiosa alla guerra contro l'Unione Sovietica, da un lato, o contro la Germania, dall'altro - corrispondevano dunque non solo ad una linea tradizionale, già assunta in occasione della prima guerra mondiale e imposta, tra l'altro, dal diretto coinvolgimento di popolazioni cattoliche e di Chiese nazionali su fronti opposti di guerra, ma anche al profilarsi di una situazione bellica ritenuta densa di incognite e di gravissimi pericoli per la Chiesa e la cristianità, sia nel caso che la vittoria finale fosse toccata al regime nazista sia che tra i vincitori fosse da annoverare il centro propulsore del comunismo.

In questo quadro venne a collocarsi lo speciale e crescente rilievo assunto dai rapporti tra la Santa Sede e gli Stati Uniti (e la Chiesa cattolica americana), nonostante il netto dissenso vaticano sul principio della resa incondizionata proclamato dagli Alleati a Casablanca nel gennaio 1943, e sulla reale portata delle promesse di Stalin in materia di libertà religiosa. Ma neppure vanno trascurati i fattori di natura soggettiva e culturale che rendevano P. alieno da specifici atti e interventi pubblici suscettibili di essere interpretati come sostegno ad uno dei due schieramenti politico-militari. Pur nella consapevolezza dei costi, presenti e futuri, di siffatta attitudine al riserbo, essi furono da P. considerati preferibili alle conseguenze - ritenute dirompenti per l'unità della Chiesa, e per l'autorità del papato come "padre di tutti i fedeli" - di un sospetto di corresponsabilità della Santa Sede nella sconfitta di una delle parti.

Nella cornice del più ampio atteggiamento pontificio, un punto controverso sin dall'epoca bellica fu l'ostilità da parte di P. a valicare il confine degli appelli e delle generali riprovazioni contro gli orrori della guerra e la loro illimitata estensione alle popolazioni civili o degli interventi riservati o delle parole di solidarietà verso i perseguitati - come il riferimento, contenuto nel radiomessaggio natalizio del 1942, "alle centinaia di migliaia di persone le quali, senza veruna colpa propria, talora solo per ragioni di nazionalità o di stirpe, sono destinate alla morte o ad un progressivo deperimento" -, per spingersi a compiere specifici atti di pubblica condanna e a pronunciare esplicite denunce di responsabilità, a proposito degli eccidi di massa perpetrati durante il conflitto e, in modo particolare, dello sterminio degli ebrei, sul quale la Santa Sede dispose di precoci ed autorevoli, sebbene parziali, informazioni.

Non meno controverso fu, allora e in seguito, l'argomento enunciato da P. - ed espressione di un suo autentico dramma di coscienza - per convalidare questa particolare forma di riserbo: cioè la necessità di evitare peggiori mali ("ad maiora mala vitanda") a carico delle vittime. Già nel maggio del 1940, ricevendo il 13 l'ambasciatore italiano D. Alfieri, che gli portava la protesta di Mussolini per il telegramma di solidarietà inviato dal pontefice ai sovrani del Belgio, del Lussemburgo e dell'Olanda in occasione dell'invasione tedesca di quei Paesi neutrali, P. aveva detto, a proposito della situazione della Polonia occupata, "Noi dovremmo dire parole di fuoco contro simili [orribili] cose e solo ci trattiene dal farlo il sapere che renderemmo la condizione di quegli infelici, se parlassimo, ancora più dura" (Actes et documents du Saint-Siège relatifs à la seconde guerre mondiale, I, p. 455). Un'idea ribadita anche dopo la fine della guerra, allorché P. affermò di aver inteso evitare "anche quando i fatti l'avrebbero giustificato, questa o quella espressione di tal natura da produrre più male che bene, soprattutto alle popolazioni innocenti curve sotto la ferula dell'oppressore" (allocuzione al corpo diplomatico, del 25 febbraio 1946).

Alla percezione acuta dei limiti opposti dalla guerra all'incidenza della Santa Sede sui comportamenti degli Stati coinvolti nel conflitto e in parte anche su quelli delle Chiese e delle comunità cattoliche nazionali fecero riscontro, in P., uno sviluppo significativo del magistero pontificio e un assiduo incoraggiamento ad opere e organismi caritativi e assistenziali facenti capo, direttamente, o indirettamente, alla Santa Sede, e giunti a svolgere funzioni di grande portata umanitaria in cospetto degli innumerevoli problemi che la guerra totale veniva ponendo incessantemente alle popolazioni civili, agli internati, ai prigionieri, ai profughi. Si trattò di due aspetti che contribuirono in misura rilevante ad aumentare il prestigio morale del papato, costituendolo - anche in relazione al tracollo degli apparati statali prodotti dagli eventi bellici, dal manifestarsi delle guerre civili e di liberazione, dalle invasioni militari - come uno dei grandi protagonisti del dopoguerra.

Nel quadro del magistero di P. in periodo bellico un posto particolare occuparono i suoi interventi sulle matrici della guerra, sull'ordine internazionale e interno degli Stati, sui compiti dei credenti nell'ordine postbellico. Già nell'enciclica Summi Pontificatus le cause originarie del conflitto erano ricondotte non alla responsabilità di una delle parti, ma all'abbandono di un ordine fondato sulla legge morale e sulla Rivelazione, al distacco dei popoli "dall'unità di dottrina e di fede, di costumi e di morale una volta promossa dall'opera indefessa e benefica della Chiesa", alle concezioni esaltatrici del potere illimitato e sovrastante degli Stati e delle collettività sugli individui, alla "corsa sfrenata verso l'espansionismo". Nel successivo messaggio natalizio del 1939, che inaugurò un genere di interventi radiofonici destinati a suscitare notevole risonanza, il pontefice enunciava per la prima volta le condizioni per il ristabilimento di una pace giusta: il diritto alla vita e all'indipendenza delle nazioni grandi e piccole; il disarmo pratico e spirituale; la creazione di istituzioni internazionali più efficaci di quelle del passato; l'attenzione alle legittime richieste delle nazioni e delle minoranze etniche anche mediante un'"equa, saggia e concorde revisione dei trattati", la commisurazione delle leggi internazionali alle "sante e incrollabili norme del diritto divino", alla giustizia morale e alla legge dell'amore. Il tema delle condizioni etiche e giuridiche di un nuovo ordine internazionale, radicato in un ordine naturale ed oggettivo di giustizia voluto da Dio, che non avrebbe potuto ricalcare quello prebellico, venne ancora sviluppato nei messaggi di Natale del 1940 e del 1941, con un insistito richiamo al posto che sarebbe toccato agli "uomini animati dalla fede in un Dio personale" nella costruzione della società futura.

Tra la fine del 1942 e il 1944, mentre la guerra perveniva al suo punto di svolta, gli interventi dottrinali del papa si polarizzarono sulle questioni attinenti l'ordine interno delle nazioni e il ruolo della Chiesa e dei credenti nella costruzione della società postbellica. Il fulcro intorno al quale ruotarono tali messaggi pontifici era il richiamo agli imprescindibili fondamenti morali della vita associata e dei relativi ordinamenti, contrapposti alle concezioni positivistiche, utilitarie o soggettivistiche della legge, e l'affermazione dell'eminente compito pedagogico della Chiesa come interprete dell'ordine naturale e depositaria della Rivelazione che lo aveva convalidato e perfezionato.

Gli aspetti che maggiormente connotavano questa fase del magistero pacelliano erano dati dai richiami alla persona come centro etico della vita sociale, fine e non mezzo delle strutture permanenti della socialità, la famiglia, la proprietà privata e lo Stato; e una tendenziale revisione della tradizionale dottrina affermante l'estraneità della Chiesa alle "forme di governo", messa in discussione dallo scontro con i sistemi politici totalitari. Il radiomessaggio natalizio del 1942, anticipato in molti suoi punti da quello del 1° giugno 1941 per il cinquantenario della Rerum Novarum, toccava in particolare il tema della riforma sociale come risposta all'immane tragedia della guerra, compito di una "crociata spirituale" affidata "ai migliori e più eletti membri della cristianità", e richiedente un deciso passaggio all'azione finalizzata alla "ricostruzione di ciò che sorgerà e deve sorgere a bene della società".

A caposaldo del nuovo ordine erano posti: lo sviluppo di "forme sociali in cui sia resa possibile e garantita una piena responsabilità personale"; la difesa dell'unità sociale e specialmente della famiglia, contro le concezioni identificanti il popolo con un insieme di individui senza radici o una massa amorfa oggetto di incontrastato dominio; i diritti dei lavoratori (salario giusto e familiare, diffusione della proprietà, elevazione culturale); la reintegrazione di un ordinamento giuridico in grado di difendere il cittadino anche dalle prevaricazioni del potere politico; la concezione cristiana dello Stato incompatibile con la sua identificazione con una classe o una razza. Nel rinnovare la condanna del socialismo materialista, P. denunciava altresì i "meccanismi" che nella società capitalistica ostavano agli sforzi delle classi operaie per migliorare le proprie condizioni; e affidava alle norme giuridiche il compito di una loro tutela contro "una dipendenza e servitù economica incompatibile con i diritti della persona".

Sull'argomento P. ritornò nel discorso di Pentecoste (13 giugno) del 1943, rivolto a venticinquemila operai radunati in piazza S. Pietro, e incentrato sull'esigenza di "raddrizzamenti e di miglioramenti" della struttura sociale, ma pure sulla contrapposizione tra una riforma prodotta dall'"evoluzione concorde" e, invece, la via rivoluzionaria, fra l'abolizione e la diffusione della proprietà, fra una funzione sociale del capitale e l'assoggettamento del popolo alla forza oppressiva del "capitalismo di Stato". Nel radiomessaggio del settembre 1944, "Per la civiltà cristiana", fecero spicco il richiamo al comune patrimonio di valori trasmessi all'Europa dal pensiero cristiano quale condizione originaria e imprescindibile dell'"opera gigantesca della restaurazione della vita sociale, economica e internazionale", e la precisazione che la fedeltà a quel patrimonio "e la sua strenua difesa contro le correnti atee e anticristiane" non potevano essere sacrificate "a nessun vantaggio provvisorio, a nessuna mutevole combinazione" (nel luglio P. aveva per la prima volta espresso la propria riprovazione per il movimento italiano dei cattolici-comunisti, "figli carissimi [...] che si mostrano ignari o dimentichi dei più aperti insegnamenti della Chiesa").

 Il radiomessaggio natalizio del 1944, sui problemi della democrazia, trasmesso quando la vittoria degli Alleati non era più in dubbio, richiamava il dovere della Chiesa, in quanto custode delle condizioni etiche della vita associata, di esprimersi anche sugli ordinamenti politici, pur senza perseguire fini di natura politica. La parola della Chiesa era, secondo P., tanto più opportuna in quanto i sistemi democratici, rispondenti all'esigenza di opporsi "ai monopoli di un potere dittatoriale, insindacabile", necessitavano di un'ispirazione morale che non poteva essere conferita se non "alla luce della sana ragione, e segnatamente della fede cristiana", per non trasformarsi in regimi di massa perniciosi per la dignità e la libertà dell'uomo. Le sorti della democrazia venivano riposte nelle mani di "una eletta schiera di uomini di solida convinzione cristiana", e una parte essenziale del suo compimento affidato "alla religione di Cristo e alla Chiesa". In maniera più esplicita che nei documenti risalenti all'inizio della guerra, il messaggio natalizio del 1944 fissava una connessione intrinseca tra la tragedia bellica e la natura del potere totalitario, oppugnatore del diritto del cittadino a "esprimere il proprio parere sui doveri e i sacrifici che gli vengono imposti", a "non essere costretto ad ubbidire senza venire ascoltato". Senza identificare i valori della democrazia nelle sue forme istituzionali, P. richiamava tuttavia la responsabilità preminente del popolo, partecipe alla vita della comunità politica, nel difendere e promuovere un ordine naturale di giustizia che, riverberandosi sul piano internazionale, avrebbe anche reso impraticabile l'uso e la teoria della guerra come modo di risolvere i conflitti tra le nazioni. In questo senso il magistero pacelliano conferiva un'implicita rilevanza politica alle ragioni etiche e religiose dell'antitotalitarismo, disegnando i tratti di una democrazia ispirata ai principi costitutivi della "civiltà cristiana" come unica adeguata risposta all'emergenza totalitaria.

I contenuti del magistero pontificio in epoca bellica non rappresentarono soltanto un articolato complesso dottrinale, che rielaborava, sulla scorta di recenti sviluppi della "metafisica sociale" e del diritto naturale d'impianto tomistico, aspetti qualificanti del precedente magistero, da Leone XIII a Pio XI, ma disegnavano un progetto storico che intendeva proiettarsi nella realtà del dopoguerra e, sulle rovine di un "mondo antico" andato in frantumi, collocare in posizione eminente la Chiesa cattolica come maestra ed educatrice degli uomini e dei popoli (allocuzione per il Concistoro del 20 febbraio 1946, "Potenza e influsso della Chiesa per la verace restaurazione del mondo").

Alle difficoltà incontrate nei rapporti con i governi e con gli Stati belligeranti fece riscontro l'impulso dato da P. a un rapporto diretto (in occasione per esempio dei pellegrinaggi e dei grandi raduni in piazza S. Pietro, iniziati nel corso del conflitto), o veicolato dai mezzi di comunicazione (la radio, il cinema e, più tardi, la televisione), con il popolo dei fedeli: un rapporto che aveva natura insieme carismatica e istituzionale. Esso rifletteva l'interpretazione pacelliana della propria missione apostolica di pastore della Chiesa universale, e trovava le sue radici nei lineamenti di un'ecclesiologia definita nei suoi aspetti essenziali nell'enciclica Mystici Corporis, del 29 giugno 1943: dove i fermenti teologici, emersi tra le due guerre principalmente in area francese o tedesca, che si erano focalizzati sulla definizione della Chiesa come "corpo mistico", erano stati ricondotti e inseriti in un più tradizionale quadro istituzionale e gerarchico, imperniato sul vicario di Cristo, supremo garante dell'unità disciplinare e dottrinale della Chiesa "corpo sociale di Cristo", e sua guida indefettibile nelle tribolazioni del presente e del futuro.

La ridefinizione pacelliana del carisma pontificio in rapporto alla Chiesa universale e al mondo contemporaneo trovò un suo punto di forza e di convalida nella grande rilevanza assunta dalla figura e dall'opera di P. nel contesto italiano dopo il crollo del regime fascista e durante l'occupazione tedesca, e nella sua esaltazione della particolare missione di Roma come centro della Chiesa e dell'ecumene cristiano.

Nell'Italia invasa e lacerata del 1943 P. si dedicò con speciale sollecitudine al tentativo di rendere effettivo lo status di Roma città aperta, preservandola dalle distruzioni, dagli scontri militari, dagli atti di terrorismo - riprovati come atti inconsulti e occasioni di rappresaglie -, manifestando la propria personale partecipazione ai lutti cittadini in occasione dei bombardamenti aerei dell'estate, e provvedendo ad estendere le iniziative di aiuto morale e materiale alle popolazioni. Nella fase dell'occupazione tedesca, il papa mantenne un atteggiamento di fermezza di fronte alle minacce rivolte alla sua persona, e incoraggiò l'attivazione di una rete di protezione e di accoglienza dei perseguitati per ragioni politiche o razziali in istituti e luoghi ecclesiastici, compresa la Città del Vaticano, ma non fino al punto da metterne a repentaglio l'inviolabilità ed astenendosi da interventi pubblici nei confronti delle autorità militari di occupazione, anche in presenza di atti efferati, come la razzia e la deportazione degli ebrei romani dell'ottobre 1943.

Il sentimento popolare che Roma fosse stata salvata dal papa si espresse all'indomani della liberazione, nel giugno del 1944, quando una massa di cittadini si riversò in piazza S. Pietro a salutare P. quale unico autentico "defensor civitatis". Lo speciale legame instauratosi tra il papa e la sua città era, in certo modo, la prefigurazione del ruolo che P. assegnava alla Chiesa nel mondo postbellico, e della centralità di Roma - "la Città universale, la Città caput mundi, l'Urbs per eccellenza, la Città di cui tutti sono cittadini, la Città sede del Vicario di Cristo, verso il quale si volgono gli sguardi di tutto il mondo cattolico" (allocuzione al Sacro Collegio in occasione del Natale 1945) - come punto d'irradiazione della missione religiosa e insieme civile nella quale il pontefice manifestamente si identificava.

La personalità di P. aveva raggiunto, alla fine della guerra, un grado elevato di autorevolezza su scala internazionale. Situato al vertice di una Chiesa ch'era uscita dalla guerra, in Europa, come uno dei pochi organismi istituzionali e territoriali ancora saldi, guardata da molti come arca di salvezza e di conciliazione e percorsa da fermenti di rinnovamento, il papa fu considerato interlocutore privilegiato dai governanti occidentali: il premier britannico W. Churchill lo volle incontrare personalmente durante la sua visita a Roma nell'agosto del 1944, mentre s'infittivano le relazioni della Santa Sede coll'amministrazione degli Stati Uniti, anche in seguito ai crescenti allarmi ecclesiastici circa il profilarsi, in Italia, di una situazione favorevole al comunismo e in vista dell'erogazione di aiuti americani alle popolazioni. La voce di P. era ascoltata da grandi masse di fedeli sparse nei più diversi Paesi e influenzava aree d'opinione non appartenenti al mondo cattolico. I partiti politici a base cattolica, ricostituiti durante o appena dopo la guerra in molti Stati europei, guardavano al magistero pontificio come ad un punto di riferimento ideale, sebbene quel magistero non avesse vincolato i credenti ad un'unica identità politica, ma si fosse limitato a sancire l'incompatibilità tra l'appartenenza alla Chiesa e la militanza o la collaborazione con movimenti e partiti professanti dottrine atee e materialiste. In realtà, il progetto di P. sulla collocazione e il ruolo della Chiesa, guidata dal suo capo e maestro, nel nuovo ordine postbellico, trovava il suo fulcro in un'idea di "civiltà cristiana" che trascendeva la sfera politica, e lasciava anzi trapelare un fondamentale pessimismo del pontefice nei confronti degli strumenti politici in sé considerati.

I principali interventi di P. nell'immediato dopoguerra furono tesi a convalidare le ragioni degli orientamenti assunti durante il conflitto - anche per contrastare pesanti accuse e gravi insinuazioni fatte circolare nei suoi confronti, non senza il ricorso alla pubblicazione di documenti falsi - ma, soprattutto, furono rivolti a ribadire il concetto dell'intimo rapporto tra la guerra e il "totalitarismo dello Stato forte", ultimo frutto di "un umanesimo secolarizzato" che aveva prodotto "la negazione e il disprezzo del pensiero e dei principi cristiani" (allocuzione al Sacro Collegio per il Natale 1945). La lettura, in certo modo, apocalittica della guerra, punto terminale e rivelatore di un cammino di allontanamento dalla verità cristiana e dalle radici della civiltà che il cristianesimo aveva permeato, costituiva il presupposto del pensiero di P. nei riguardi della rinnovata vocazione della Chiesa ad influire "sul fondamento, sulla struttura e sulla dinamica della società umana".

Nell'allocuzione pronunciata il 20 febbraio 1946 in occasione dell'imposizione della berretta a trentadue nuovi cardinali - di cui solo quattro italiani, e comprendenti numerosi vescovi americani, tre tedeschi, un cinese, un ungherese, un polacco, un armeno - nominati nel primo Concistoro del suo pontificato (il secondo e ultimo si tenne nel gennaio 1953), P. volle rimarcare non solo la dimensione realmente universale della Chiesa, ma insistette sulla sua particolare e specialissima natura societaria, che la rendeva incomparabile ad ogni altra società umana, perché rivolta al "cuore dell'uomo" e da qui dilatantesi "su tutta la durata della vita, su tutti i campi dell'attività di ciascuno", non "infeudata" ad alcun gruppo etnico o sociale, né "impietrita" in un momento della sua storia, fonte inesauribile di educazione della persona umana, promotrice del principio di responsabilità e di sussidiarietà, per il quale "ciò che gli uomini singoli possono fare da sé e con le proprie forze non deve essere loro tolto e rimesso alla comunità", "figura e forma della società umana", base delle sue "due colonne principali", la famiglia e lo Stato. Al punto di sutura tra la Chiesa e il mondo risultava così posto l'uomo cristiano, definito dal suo essere membro visibile della Chiesa e formato ai suoi insegnamenti.

Nell'immagine dell'"ecclesia docens" venivano a convergere le due cifre dominanti del magistero di P.: il primato dell'autorità gerarchica imperniata sul pontefice, e il dovere del credente, innestato nel corpo vivente di Cristo e docile alla parola del suo vicario, di agire come fermento di cristianizzazione della società e dei mondi circostanti. Il senso di una rinnovata missione della Chiesa rivolta all'edificazione di un ordine di valori qualitativamente diverso da quello ch'era precipitato nella guerra, implicava da un lato, nella visione di P., una rigorosa delimitazione disciplinare e dottrinale dell'ortodossia che toccava all'autorità ecclesiastica custodire e difendere, e si riverberava, dall'altro, nelle relazioni tra la Chiesa e la struttura bipolare del mondo quale si veniva configurando nell'immediato dopoguerra.

Per questo secondo aspetto, l'immagine pacelliana della realtà postbellica come dominata da una "lotta titanica fra i due spiriti opposti che si disputano il mondo" (radiomessaggio natalizio del 1947), da una scelta tra la volontà di appoggiarsi "sulla salda roccia del cristianesimo, sul riconoscimento di un Dio personale, sulla credenza nella dignità personale e dell'eterno destino dell'uomo" oppure la volontà di rimettersi nelle mani dell'"impassibile onnipotenza di uno Stato materialista, senza ideale ultraterreno, senza religione e senza Dio" (discorso di P. alla vigilia delle elezioni del giugno 1946 in Italia e in Francia), poteva costituire, a un primo sguardo, una legittimazione religiosa della contrapposizione tra "mondo occidentale" e "mondo comunista" e un alto grado di identificazione della Chiesa con le sorti e la causa dell'Occidente: come tale fu largamente utilizzata dalla propaganda politica. In realtà P. richiamò con frequenza il concetto dell'irriducibilità della Chiesa e della sua dottrina alla pura dimensione ideologica, anche all'ideologia dell'Occidente, insistendo invece, con accenti agostiniani, sulla natura apocalittica dello scontro in atto tra i due "spiriti", di Cristo e dell'Anticristo.

In questo senso P. intese preservare, sul piano dei principi, un ruolo autonomo della Chiesa, nell'ottica di una fondamentale autosufficienza e compiutezza dottrinale del cattolicesimo, e configurare un rapporto dialettico con il "mondo occidentale" come quella delle due parti che conservava "consapevolmente o no" le tracce di un originario ordine cristiano iscritto nei suoi ordinamenti e nella sua cultura, sforzandosi "ancora in larga misura", nonostante i suoi errori, di conservare i dettati del diritto naturale. Le resistenze di P. a schierare la Chiesa come parte integrante del blocco occidentale o atlantico, riflettevano anche, sul piano culturale, una fondamentale idiosincrasia nei confronti del modello di vita americano; e avevano come risvolto un'attenzione particolare per le sorti dell'Europa, alla cui rinascita, nel segno della propria missione, "cristianamente ispirata", libera dai "germi venefici dell'ateismo e della rivolta" e da "malsani influssi stranieri", il radiomessaggio natalizio del 1947 attribuiva un ruolo determinante per il mantenimento della pace. Ad esso seguirono, negli anni, vari pronunciamenti papali a favore dell'unificazione dell'Europa, da compiersi in nome e per mezzo delle sue radici cristiane, sino all'approvazione dei trattati di Roma del 1957.

L'autonomia della Chiesa nei confronti del "mondo occidentale" rispondeva pure all'esigenza di preservare e rinnovare la sua presenza nelle aree mondiali interessate ai processi di decolonizzazione, senza che fosse coinvolta in maniera irreparabile nelle ondate antioccidentali che vi si accompagnavano. In tal senso P. incoraggiò la tendenza alla trasformazione delle Chiese missionarie in Chiese autoctone, proclamandone la opportunità nelle encicliche Evangelii praecones, del 1951, e Fidei donum del 1957 - senza tacere dei pericoli che incombevano sulla loro ancora precaria esistenza - e non mancò poi di pronunciarsi, a certe condizioni, per il diritto all'indipendenza dei popoli colonizzati. Il fattore, tuttavia, che conferì i tratti più marcati al pontificato di P. negli anni del dopoguerra fu senza dubbio la percezione del comunismo come grande nemico della Chiesa e suprema minaccia della "civiltà cristiana".

La saldatura avvenuta tra l'ideologia comunista, la potenza militare e imperiale dell'Unione Sovietica dilagata sin nel cuore dell'Europa e la proliferazione e il crescente consenso raccolto dai movimenti comunisti nell'area occidentale, dava corpo a una situazione che si presentava, dal punto di vista della Santa Sede, in termini più gravi di quanto gli allarmati timori già espressi durante il conflitto avessero lasciato supporre. Molti fatti inducevano a pensare che, a partire dall'Unione Sovietica per giungere alle "repubbliche popolari" in fase di edificazione nei Paesi dell'Est europeo - in alcuni dei quali, come in Polonia, in Ungheria, in Cecoslovacchia, in Croazia e Slovenia il cattolicesimo aveva profonde radici -, s'intendesse smantellare la struttura delle Chiese locali annientandone l'esistenza, incominciando col separarle da Roma. In Ucraina e in Romania le comunità cattoliche uniati - cioè di rito orientale ma unite a Roma - furono forzatamente incorporate nelle locali Chiese ortodosse.

Nel 1947-1949 la tensione tra autorità ecclesiastiche e autorità politiche era precipitata in forme persecutorie, che avevano portato all'arresto e alla condanna - realizzata con procedimenti di tipo staliniano - del primate ungherese J. Mindszenty, alla limitazione della libertà dell'arcivescovo di Praga, J. Beran, all'imprigionamento di molti vescovi e di centinaia di preti cattolici in Romania, in Iugoslavia (tra cui l'arcivescovo di Zagabria, A. Stepinac), in Albania, in Lituania. In Cecoslovacchia e altrove si erano costituite associazioni di cattolici integrate nei sistemi comunisti. In Cina, poco dopo la proclamazione della Repubblica popolare nel 1949, sorgerà una Chiesa cattolica patriottica cinese, autonoma da Roma. L'unica parziale eccezione di un quadro in cui il tessuto della vita ecclesiastica e religiosa subiva lacerazioni che potevano apparire irreparabili era costituita dalla Polonia, dove il primate S. Wyszy´nski pervenne nel 1949 ad un compromesso con il governo, accolto da Roma con aperta freddezza. Mentre sul piano delle relazioni diplomatiche la Santa Sede aveva tentato di tenere aperto almeno qualche canale con gli Stati dell'Est, sul piano dottrinale e disciplinare la via imboccata da P. fu quella dell'intransigenza. Per diretto intervento pontificio il Sant'Uffizio promulgò il 15 luglio 1949 una solenne dichiarazione che comminava la scomunica ai fedeli che professassero e propagandassero la dottrina del "comunismo materialista e anticristiano", ed escludeva dai sacramenti i cattolici iscritti ai partiti comunisti, o che li appoggiassero o facessero propaganda per le loro idee o collaborassero e leggessero la loro stampa.

Ma la dichiarazione del Sant'Uffizio, giunta quando la situazione delle Chiese dell'Est europeo stava precipitando, fu l'ultimo atto di un processo che aveva confermato antiche e mai dismesse convinzioni di P., e convalidato la sua determinazione a sollecitare in Occidente - soprattutto laddove il comunismo e le sue organizzazioni mostravano maggiore forza di penetrazione - la mobilitazione dei fedeli, quelli in particolare raccolti nelle associazioni confessionali; e lo aveva indotto non solo a ribadire la riprovazione pontificia nei confronti dei cattolici che aderissero a partiti o movimenti d'ispirazione comunista, ma anche a manifestare, in maniera via via più aperta, l'ostilità pontificia per ogni sorta di organizzazione che comprendesse cattolici e comunisti, per esempio in campo sindacale, e l'avversione a governi che comprendessero i partiti comunisti, o che, a giudizio del pontefice, non mostrassero sufficiente energia nel contrastare il comunismo e nel sostenere le ragioni e i diritti della Chiesa.

Sotto quest'ultimo profilo la linea intransigente di P., sebbene moderata da taluni dei suoi più stretti collaboratori come Montini - che tuttavia nel 1954 fu allontanato da Roma per essere nominato arcivescovo di Milano - produceva una crescente influenza dei settori più conservatori della Curia - quelli che volgevano il loro sguardo alla Spagna franchista, pervenuta nel 1953 alla stipula di un concordato con la Santa Sede - e ai gruppi più integralisti del mondo cattolico; aprì tensioni crescenti nelle fila dell'associazionismo confessionale; alimentò incomprensioni tra il papa e taluni leaders politici di intemerata fede cattolica, come A. De Gasperi.

L'immagine o il modello di Chiesa cui s'ispirava P. rifletteva una visione a sfondo apocalittico del mondo contemporaneo, e tendeva a tradurre la missione salvifica ad essa connaturata, resa più attuale e pregnante dalla catastrofe bellica, in un potere direttivo, esteso e capillare, del vertice pontificio nei confronti di un corpo ecclesiastico pensato come proteso a metterne in atto gli indirizzi in ogni campo e momento della vita personale, familiare e collettiva. Ne conseguiva, sul piano dottrinale o politico, una sensibile riduzione dei margini di autonomia dei mondi cattolici, nel momento stesso in cui se ne esigeva la mobilitazione e l'impegno.

L'ideale pacelliano di una Chiesa costituita da "immense falangi di apostoli", nei quali l'intensità della vita e della pratica religiosa personale e di gruppo si connetteva strettamente a un'intima e rigorosa adesione ai dettati del magistero gerarchico, in particolar modo pontificio, dovette tuttavia misurarsi sia con i processi di secolarizzazione dei costumi e degli stili di vita indotti dalle trasformazioni sociali e culturali del dopoguerra, sia, e soprattutto, con fenomeni di rinnovamento, da tempo emergenti, nel campo della teologia, della vita religiosa e liturgica, della pratica pastorale, sollecitati dai contesti sempre più differenziati nei quali le Chiese locali e gruppi diversi di clero e di fedeli si trovavano inseriti o miravano a inserirsi. P. prese atto, in parte, di tali fenomeni, ponendosi nei loro confronti come suprema istanza di unificazione e di legittimazione, ma nello stesso tempo ne delimitò, sul piano dottrinale e pratico, il carattere innovativo, sottoponendoli al controllo ecclesiastico, che assunse forme particolarmente rigide in area italiana.

Così nel campo dell'apostolato laicale, principalmente ma non esclusivamente espresso dall'Azione Cattolica, il papa fu prodigo di incoraggiamenti e di direttive, che sanzionavano mediante l'approvazione pontificia un'articolazione di forme associative e di metodologie pastorali più estesa che nell'epoca di Pio XI, ma badando sempre a rimarcare che si trattava di un'azione subordinata alla gerarchia o al più di una "speciale e diretta collaborazione con l'apostolato gerarchico della Chiesa", come recitavano gli Statuti del 1946 dell'Azione Cattolica italiana. Anche il modello dell'apostolato di ambiente, promosso nel contesto belga e francese dalla Gioventù Operaia Cattolica (JOC) di J. Cardijn, fu tollerato a condizione di avere l'approvazione dell'episcopato locale. Diversa accoglienza fu riservata al più radicale esperimento pastorale messo in atto dai preti operai nel quadro della Mission de Paris, incoraggiati da alcuni vescovi francesi, come E. Suhard, M. Feltin e A. Liénart: dopo lunghe incertezze P. intervenne direttamente nel 1954 per richiamare i preti operai al rispetto delle regole imposte dalla consacrazione e dal ruolo sacerdotale e all'obbligo di non confondere l'azione missionaria con l'opera sindacale o politica - che li aveva resi contigui in alcuni casi al movimento comunista -, bloccandone di fatto l'attività.

L'insistenza di P. nella preservazione della specifica e tradizionale identità, anche esteriore e visibile, del prete cattolico, confermata nell'esortazione apostolica Menti nostrae del 1950, non escludeva tuttavia reiterati atti pontifici volti all'aggiornamento della formazione seminariale e ad una ridefinizione della personalità dei sacerdoti. Le diverse linee di tendenza che s'intrecciarono, durante il pontificato di P., a proposito delle forme e dei metodi pastorali che riguardassero l'apostolato sacerdotale o la più vasta e composita area dell'apostolato laicale, erano rivelatrici di un più complesso e multiforme dibattito teologico, alimentato da scuole e da gruppi disparati, presente e vivace nella Chiesa fin dagli anni Trenta e ripreso con forza nel dopoguerra. Mosso dall'intento di ricondurre ad un'unità di fondo e di riportare nel solco di una consolidata tradizione teologica tali fermenti, P. incrementò gli interventi magisteriali volti a delimitare i confini entro i quali quel rinnovamento dottrinale era considerato legittimo.

A questo fondamentale criterio si ispirarono, oltre alla ricordata enciclica di argomento ecclesiologico Mystici Corporis, l'enciclica Divino afflante Spiritu del 1943, che accoglieva talune delle istanze avanzate dalla moderna critica biblica nell'approccio e nell'interpretazione delle Scritture, e l'enciclica Mediator Dei, del 1947, che stabiliva una più stretta connessione tra l'ecclesiologia del corpo mistico e la liturgia cattolica, sanzionando, con cautela, il principio di una più diretta partecipazione dei fedeli agli atti di culto; cui fecero seguito nei successivi anni varie puntuali riforme liturgiche (celebrazione della messa vespertina, attenuazione del digiuno eucaristico, riti della Settimana santa).

Con l'avanzare degli anni i toni e i contenuti del magistero di P. si fecero più rigidi, in concomitanza con un ricorso più frequente ai poteri disciplinari. Così l'enciclica Humani generis, dell'agosto 1950, poneva limiti severi alla ricerca teologica, denunciando la diffusione di una mentalità relativistica e soggettivistica, paragonabile a quella modernista, e richiamando lo stretto dovere dei teologi di attenersi alle interpretazioni autentiche della Chiesa e ai confini stabiliti dal magistero per la difesa della dottrina cattolica. Venivano colpiti dall'intervento pontificio gli esponenti di punta della teologia cattolica, raccolti sotto la generica definizione di "nouvelle théologie". Alcuni di loro videro sottoposte a censura ecclesiastica le proprie opere.

Anche nel campo della dottrina morale, con riguardo particolare alla sfera della morale sessuale e familiare - cui P. venne dedicando una crescente attenzione, determinata dai profondi mutamenti di costume e di comportamenti in atto nel mondo occidentale - la linea del magistero pacelliano fu connotata dalla riaffermazione di dottrine tradizionali, riguardo ad esempio il rapporto tra matrimonio e procreazione o il ruolo della donna nella famiglia e nella società o la limitazione ai metodi "naturali" nel controllo delle nascite, che non escludeva una considerazione positiva dei processi di modernizzazione sociale, a condizione che si sviluppassero entro i limiti della morale naturale interpretata e trasmessa dalla Chiesa.

La prospettiva pacelliana di un popolo cristiano sollecito a conformarsi al magistero della Chiesa e a mobilitarsi in comunione di spirito e d'intenti con il suo capo, figura e vicario di Cristo, trovò uno dei suoi momenti di maggiore intensità nel giubileo celebrato nel 1950 e indetto in nome e con il programma di un "grande ritorno" a Dio e alla sua Chiesa di tutti coloro che ne erano lontani (non esclusi i cristiani separati da Roma): una sorta di crociata dei tempi moderni, divulgata e amplificata dai mezzi di comunicazione, da stuoli di predicatori, tra i quali si segnalò la figura del gesuita R. Lombardi, dai movimenti di massa dell'Azione Cattolica, in specie la Gioventù cattolica di L. Gedda, da un imponente afflusso di pellegrini a Roma, e accompagnata da atti pontifici di grande portata. Tra questi, oltre alla pubblicazione, il 12 agosto, dell'enciclica Humani generis, la proclamazione del dogma dell'Assunzione della Vergine, alla presenza di seicentosessantadue vescovi e di mezzo milione di fedeli, con la bolla pontificia Munificentissimus Deus, del 1° novembre. La definizione del nuovo dogma costituì il punto apicale di sviluppo di una linea mariana che dette una particolare impronta a tutto il pontificato pacelliano, tanto sul piano della pietà personale di P., quanto sul piano pastorale, liturgico e della devozione popolare.

Già in epoca bellica, e precisamente il 31 ottobre 1942, il pontefice aveva solennemente consacrato l'umanità intera al Cuore Immacolato di Maria; nuovi impulsi al culto della Vergine sarebbero poi venuti dall'istituzione del primo anno mariano (1954) - in coincidenza con il centenario del dogma dell'Immacolata Concezione - e della festa di Maria Regina, accostabile, per taluni aspetti, alla festa di Cristo Re introdotta da Pio XI. La connotazione mariana del cattolicesimo, che da più di un secolo aveva conosciuto continue e clamorose manifestazioni, raggiunse così la sua acme, rinfocolando la mai sopita ostilità delle Chiese protestanti, ma suscitando anche reazioni critiche in settori non marginali della teologia cattolica, sensibili alle esigenze del dialogo ecumenico. Il risalto dato da P. alla devozione e al culto della Vergine, così come l'esaltazione del primato di Pietro - il ritrovamento della tomba del santo sotto la basilica vaticana fu annunciato solennemente a chiusura dell'anno giubilare - e dei suoi successori, trovarono un puntuale riscontro nella scelta dei modelli di santità privilegiati da P.: dalla canonizzazione di Maria Goretti annunciata proprio in occasione dell'Anno santo, alla beatificazione, nel 1951, seguita dalla canonizzazione, proclamata nel 1954, di Pio X. Restò invece irrealizzato il progetto, studiato per impulso pontificio da un'apposita commissione cardinalizia, di far coincidere con l'Anno santo lo svolgimento di un concilio ecumenico.

La celebrazione dell'anno giubilare, punteggiato di riti penitenziali e di folle osannanti, segnò, sotto molti profili, l'acme del pontificato di P., personalmente poco aduso a condividere superficiali entusiasmi. Nel febbraio del 1952 egli lanciò un nuovo appello per dare inizio, partendo da Roma, ad un movimento "per un mondo migliore", rivolto a scuotere i credenti da un "funesto letargo", poiché "tutto un mondo" attendeva ancora di essere rifatto dalle fondamenta. L'appello trovò nuovamente larga eco nella predicazione di padre Lombardi, e tra le fila dell'Azione Cattolica, ora presieduta da L. Gedda. Ma cadde in un'atmosfera religiosa e civile già in fase di mutamento, come dimostrarono gli aperti, sebbene circoscritti, dissensi sorti ai vertici della stessa Azione Cattolica italiana. Anche il ricambio, il rinnovamento e l'internazionalizzazione degli organi del governo centrale della Chiesa entrarono in fase di stallo, sicché un numero via via più ristretto di collaboratori sempre più anziani, ciascuno dei quali rivestito di molteplici incarichi, affiancò un pontefice colpito, nel 1954, da grave malattia, ma non disposto ad abbandonare o ad attenuare il suo ruolo di fulcro attivo della struttura e dell'attività della Santa Sede. La partenza di Montini da Roma per Milano accentuò a sua volta l'effetto di sbilanciamento negli apparati di Curia a favore di un gruppo di cardinali e di personalità vaticane di orientamenti più conservatori, ai quali venne più tardi attribuita la definizione di "partito romano".

Ma, in linea più generale, parve aprirsi uno iato tra la percezione di P. della realtà della Chiesa e del mondo, pervasa da un senso tragico e sacrale della storia, e il profilarsi irruente, nel mondo occidentale, di una società del benessere, percorsa da una silenziosa rivoluzione di mentalità, di costumi e di valori, oltre che da imponenti dinamiche di trasformazione sociale. La figura del "bianco Padre", cui si rivolgevano folle acclamanti, del "Pastor Angelicus", celebrato anche in produzioni cinematografiche di maniera, trascorse, in realtà, l'ultimo scorcio del suo pontificato in una situazione di crescente solitudine, che da un lato accrebbe i tratti ieratici della sua personalità, e, dall'altro, dette maggior risalto al fondo di pessimismo, poco fidente nell'opera degli uomini, proprio della sua indole. I giorni estremi di un pontefice collocato sul crinale di due epoche, chiamato a reggere la barca di s. Pietro in una delle fasi più turbinose della sua storia, si consumarono in un clima di esaltazione miracolistica, veicolata dai mezzi di comunicazione, e di sfruttamento pubblicitario della sua immagine (e, dopo la morte, delle sue spoglie mortali), che erano in totale ed insanabile contrasto con le ragioni effettive della sua statura di grande, quanto discusso, pontefice.

La sua morte sopravvenne nella residenza pontificia di Castelgandolfo il 9 ottobre 1958.