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Nacque il 14 ag. 1489, come risulta dalle
Ricordanze del padre, a Firenze nel "popolo" di S. Frediano, da
Niccolò di Antonio e da Piera Guiducci.
La famiglia ebbe quattro gonfalonieri di Giustizia e venti priori
tra il 1299 e il 1515. Il nonno Antonio era stato sostenitore dei
Medici. Il padre Niccolò fu invece antimediceo.
All'abbondanza di notizie sul F. per gli ultimi due anni della sua
vita fa riscontro per gli anni precedenti una conoscenza
estremamente lacunosa, e comunque non documentata con precisione.
Il primo dato certo di cui disponiamo è che il F. fu estratto
nel 1519 come podestà di Larciano; sappiamo però che
non poté risiedervi essendo il suo nome inserito quell'anno
nei libri dei Divieti (Arch. di Stato di Firenze, Tratte, 175, c.
20v). Tenne invece la podesteria di Campi dal 30 maggio al 30 nov.
1523 e quella di Radda dal 14 febbr. 1527 (1526, stile fiorentino),
al 14 agosto dello stesso anno. Nel 1528 troviamo il F. a Napoli
come pagatore delle Bande nere che la Repubblica aveva mandato a
combattere a fianco dei Francesi di O. de Foix, visconte di Lautrec.
Preso prigioniero dopo la sconfitta del Lautrec, il F. fu liberato
dietro pagamento di un riscatto.
Tornato comunque a Firenze, nel giugno 1529 il F. ebbe l'incarico di
recarsi a Pesaro e di qui negli Abruzzi con la somma di 4000 fiorini
necessaria per assoldare, insieme con Venezia e con la Francia, 1500
lanzichenecchi per ritentare l'impresa del Regno di Napoli. Ma la
conclusione della pace di Cambrai mise fine a questo impegno della
Repubblica e di conseguenza alla missione del Ferrucci.
Nei mesi seguenti il commissario in Valdichiana T. Soderini, avendo
bisogno di un uomo di fiducia, si servì in più
occasioni del Ferrucci. Rimase poi a collaborare col successore del
Soderini, Z. Bartolini, e in particolare servì come
collegamento con i Dieci di balia a Firenze e con M. Baglioni a
Perugia, per portare lettere, istruzioni, denari.
Nel 1529, iniziata la campagna degli Imperiali e dei Pontifici
contro la Repubblica, a M. Baglioni, governatore generale delle
forze fiorentine, assediato in Perugia, i Dieci di balia inviarono a
più riprese il F. con lettere di istruzioni e il 31 agosto
con 900 ducati per poter arruolare nuovi soldati. Nonostante
ciò il Baglioni reputò impossibile resistere
all'assedio dell'esercito imperiale e il 10 settembre, con
l'autorizzazione dei Dieci, concluse un accordo con il principe
d'Orange e abbandonò la città dirigendosi su Arezzo e
subito dopo su Firenze. Anche il F. rientrò a Firenze, dove
restò momentaneamente privo di qualsiasi incarico. Fu D.
Giannotti, allora segretario dei Dieci, che lo segnalò per un
compito questa volta di maggior rilievo, come commissario a Prato a
fianco di L. Soderini, il cui comportamento suscitava molte
lamentele. L'incarico fu però di breve durata (dal 4 al 12
ottobre) perché il Soderini non apprezzò di dover
condividere la responsabilità del comando e il F. per parte
sua si trovò in totale disaccordo col collega, in particolare
nel definire i criteri di disciplina dei soldati. I Dieci
richiamarono quindi il F., ma avendo avuto modo di sperimentarne le
capacità lo mandarono come commissario a Empoli, con pieni
poteri in campo militare.
Il F. si rese subito conto dell'importanza della città e con
grande energia si diede a rafforzarne le difese con bastioni e
terrapieni. Dedicò poi particolare impegno alle truppe di cui
curava l'addestramento, la disciplina e l'armamento. Per questo
nelle sue lettere ai Dieci insisteva sempre sulle richieste di
denari, per le paghe dei soldati e degli informatori, e sull'invio
di munizioni e di altri armati.
Pur con gli scarsi mezzi a sua disposizione il F. intraprese una
serie di scorrerie nel territorio circostante per disturbare le
forze nemiche e, quando possibile, per riconquistare quei luoghi che
erano passati agli Imperiali. Primo ad essere ripreso fu
Castelfiorentino, il 25 ott. 1529, poi la spedizione più
importante il 10 novembre fu contro San Miniato al Tedesco. Si
trattò di una spedizione in piena regola con 400 fanti e
tutti i cavalli disponibili; il F. stesso assunse il comando,
guidò l'assalto e fu tra i primi a scalare le mura. Dopo
un'accanita difesa gli Imperiali si arresero e la città
restò presidiata da una guarnigione comandata da Goro da
Montebenichi.
La volontà del F. di non dare tregua al nemico lo portava a
presidiare incessantemente la valle dell'Arno ma anche a organizzare
spedizioni più lontano, come a Certaldo. E intanto continuava
a ragguagliare i Dieci sul proprio operato e a chiedere quei
rinforzi che gli avrebbero consentito di riconquistare il controllo
sul Valdarno, allentando di conseguenza la pressione nemica su
Firenze. Ma le sue insistenti richieste restavano per lo più
inascoltate: i soldi arrivavano con tale ritardo che più
volte dovette contrarre debiti per pagare i soldati. Anche il suo
piccolo esercito fu più volte assottigliato per provvedere di
uomini Pisa e Fucecchio. Così dopo un ultimo successo
riportato ai danni di Pirro Colonna, nei pressi di Montopoli, per il
resto dell'inverno il F. dovette sospendere le azioni militari. Le
conseguenze negative di questa politica non tardarono a
manifestarsi: gli Imperiali intensificarono i loro sforzi e, forti
di una netta superiorità numerica, ripresero gradualmente le
posizioni perdute. San Miniato si arrese ai primi di febbraio 1530,
seguita da Pomarance e da Montecatini.
Contemporaneamente a questa avanzata nemica un nuovo duro colpo alla
Repubblica fiorentina veniva da Volterra, dove la popolazione si
accordava col commissario del papa, T. Guiducci, e abbracciava la
causa medicea. Solo la fortezza in cui si era chiusa la guarnigione
guidata dal commissario B. Tedaldi restava fedele a Firenze, da cui
aspettava soccorsi. La perdita di Volterra, dopo Pisa la
città più importante rimasta ai Fiorentini, era
particolarmente grave e di conseguenza la Signoria decise di fare
ogni sforzo per riprenderla. Dell'impresa fu dato il comando al F.,
cui fu conferito il titolo di commissario generale di campagna delle
genti dei Fiorentini.
Per consentire al F. di compiere la spedizione senza lasciare Empoli
sguarnita di uomini e priva di comando, da Firenze gli furono
inviate cinque compagnie insieme col commissario A. Giugni che lo
avrebbe sostituito in città. Il 26 aprile il F. lasciò
Empoli con 2000 fanti e 150 cavalli; giunto a sera a Volterra,
riuscì a entrare nella fortezza e subito, senza dare tempo al
commissario pontificio di organizzare la difesa, fece prendere
d'assalto l'abitato. Si combatté accanitamente fino a notte
inoltrata; il mattino seguente prevalse tra la popolazione il parere
di venire a un accordo per evitare una totale distruzione. Il F.
pretese e ottenne una resa a discrezione e d'accordo col commissario
Tedaldi e dietro precise richieste dei Dieci di balia impose ai
Volterrani severe misure fiscali.
La reazione degli Imperiali alla conquista di Volterra non si fece
attendere. Il capitano F. Maramaldo che già da tre mesi era
in Toscana con le sue soldatesche, predando e saccheggiando tra
Pienza, San Quirico e Buonconvento, si portò sotto la
città e l'8 maggio forzò la cinta esterna di mura,
molto ampia, e pose il campo nel borgo di San Giusto, dalla parte
opposta rispetto alla fortezza. Ma constatando che, contrariamente
alle sue aspettative, non era sufficiente la sua sola presenza per
far ribellare i Volterrani, si limitò a qualche scaramuccia
senza osare un attacco deciso. Questa situazione di stallo,
provvidenziale per il F. che ne approfittò per migliorare e
potenziare le difese della città, si protrasse fino al 12
giugno quando D. Sarmiento e Alfonso d'Avalos, marchese del Vasto,
arrivarono da Empoli con un esercito forte di 5000 uomini tra
Spagnoli e Italiani. Due giorni dopo iniziarono un intenso
bombardamento che aprì nelle mura una breccia tale da
consentire alle truppe cesaree di entrare in città. Sembra
che una disputa per la precedenza tra il marchese del Vasto e il
Maramaldo ritardasse l'assalto e permettesse ai difensori di
richiudere la breccia e di riorganizzarsi. Infatti, per quanto
violento, l'attacco imperiale fu respinto e il bilancio delle
perdite fu per gli assalitori di 300 0 400 uomini, mentre tra i
Fiorentini caddero solo una ventina. Tra i feriti fu anche il F.,
colpito mentre guidava i suoi uomini.
Nei giorni seguenti gli Imperiali ritentarono, ma ancora senza
risultato, nonostante il consistente impiego di artiglieria e 400
morti; il 29 giugno, spinti dalla mancanza di viveri e ormai anche
di munizioni e dalla preoccupante indisciplina dei soldati,
abbandonarono il campo, dopo aver riportato la più bruciante
sconfitta di tutta la guerra.
Questo brillante successo non mutava pero la drammatica situazione
della Repubblica che aveva perso tutti i suoi possedimenti (ultimo e
importantissimo Empoli) tranne Volterra e Pisa, dove erano radunati
gli uomini comandati da G. Orsini.La Signoria concepì a
questo punto un piano audace: far convergere sulla città
tutte le forze disponibili e spezzare il blocco degli assedianti, e
decise di affidarne l'esecuzione al Ferrucci, nominato commissario
generale per l'esercito esterno, con autorità assoluta per
tutto quanto riguardava la guerra Il F., lasciando a Volterra una
guarnigione sufficiente a difenderla, doveva raggiungere a Pisa le
forze di G. Orsini e messi così insieme circa 4000 uomini
muovere su Firenze. Al suo arrivo, dalla città si sarebbe
fatta una sortita generale, prendendo tra due fuochi gli Imperiali.
Nella notte del 15 luglio il F. si mise in viaggio per Pisa lungo la
strada di Rosignano e Livorno; il Maramaldo, che non era in grado di
fermarlo, si limitò a sorvegliare le mosse inviando pattuglie
in tutte le località che il F. avrebbe attraversato nella sua
marcia su Firenze. Il 18 luglio il F. entrava in Pisa, dove si dava
febbrilmente inizio ai preparativi per la spedizione, perché
dalla rapidità di questa poteva dipendere il successo. Ma la
speranza di far partire subito il F. non poté realizzarsi,
perché questi, ancora sofferente al ginocchio per una brutta
caduta da cavallo avvenuta a Volterra, fu colto da una febbre
persistente di cui i medici pisani non riuscirono a venire a capo se
non dopo parecchi giorni.
Effettivamente la sosta forzata del F. a Pisa ebbe gravi
ripercussioni sull'esito della spedizione, compromettendone la
già problematica riuscita. Infatti il principe d'Orange,
informato dei piani del F. e della Signoria da numerose lettere
intercettate, aveva avuto modo di organizzare la controffensiva che
consisteva nel sorprenderlo a mezza strada con il suo esercito molto
superiore numericamente e con in più la sicurezza alle spalle
garantitagli dagli accordi presi nel frattempo col Baglioni.
Finalmente il 31 luglio il F., guarito, fu in grado di partire alla
testa di 3000 fanti per la maggior parte armati d'archibugio e di
300 cavalli leggeri. La mattina del 2 agosto proseguì per
Calamecca, come informa l'ultima lettera da lui inviata ai Dieci. Il
3 agosto arrivò a Lari e da qui deviò verso il
villaggio fortificato di San Marcello, aderente alla fazione nemica
dei Panciatichi, che assalì e prese senza eccessiva
difficoltà. Dopo una sosta per rifocillarsi proseguì
verso Gavinana. Il Maramaldo, che aveva seguito a distanza il F. per
tutto il cammino di montagna, riuscì a raggiungerlo e a
portarsi sul suo fianco sinistro, mentre A. Vitelli con le sue
truppe si teneva sulla destra e la fazione dei Panciatichi, con
circa 1000 uomini, era alle spalle. Il principe d'Orange, che si era
mosso da Firenze il 1º agosto con circa 4500 uomini, era giunto
nel frattempo sulle alture che dominano Gavinana. Il piano del F.
basato sulla sorpresa era già fallito: in effetti gli si
stava chiudendo intorno la trappola preparata dalle preponderanti
forze nemiche.
Lo scontro avvenne il 3 ag. 1530 a Gavinana (San Marcello Pistoiese)
e nei boschi circostanti, dove si combatté aspramente e con
alterne vicende. In una prima fase le forze del F. riportarono un
netto successo sulla cavalleria dell'Orange che, dopo la morte del
principe, che aveva combattuto in prima fila, si sbandò e si
diede alla fuga. Nel paese invece lo scontro fu più duro e di
esito più incerto: a parecchie riprese i fanti del F. e
quelli del Maramaldo, combattendo con le picche, con le spade, con
gli archibugi, perfino con i sassi in un crudele corpo a corpo, si
impadronirono dell'abitato, respingendo fuori delle mura
l'avversario.
Il tempo però era dalla parte degli Imperiali, che nonostante
le forti perdite potevano contare su truppe non ancora logorate dal
combattimento. Invece l'unico soccorso che poteva venire al F. era
la retroguardia dell'Orsini, rimasta però a lungo bloccata
dall'attacco del Vitelli e giunta a Gavinana quando ormai le sorti
della battaglia erano decise. Dopo ore di combattimento le truppe
del F. erano allo stremo: moltissimi i morti e i feriti, molti i
dispersi, molti infine coloro che si arresero e furono fatti
prigionieri. Il F. continuò a combattere fino all'ultimo
senza volersi arrendere; infine, fatto prigioniero e condotto in
presenza del Maramaldo, fu da questo ferito e poi abbandonato ai
soldati perché lo uccidessero.
Il comportamento spietato del Maramaldo fu del tutto inconsueto
negli usi militari del tempo. Forse nella sua ostilità si
potrebbe leggere quella dell'uomo d'armi, del condottiero di
professione, contro il semplice mercante e cittadino che nella
guerra vedeva solo l'ideale difesa della patria. E così in
effetti l'intesero molti contemporanei, tra cui D. Giannotti, il
quale nel suo elogio del F. ("ha mostrato più perizia
nell'arte della guerra che qualunque altro capitano de' tempi
nostri") vide in lui la dimostrazione che "ogni cittadino che abbia
nelle altre cose prudenza si può intendere della guerra ed
amministrarla molto meglio e con maggior frutto pubblico che
qualunque altro capitano mercenario" (in Opere...,a cura di F.
Polidori, Firenze 1850, I, p. 303).