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di Piero Craveri
Nacque a Montanaro (Torino) il 12 gennaio del 1870, in una famiglia
povera, da Gioanni, tessitore, e Maddalena Biletta, giornaliera
agricola; numerosi i fratelli. La miseria contadina, quella che "ha
il potere di mutare e inasprire ogni più mite temperamento",
la durezza della vita familiare fecero da cornice alla sua infanzia.
Compì gli studi elementari nel paese natio, aiutando il padre
al telaio e seguendo la madre nella campagna. Gli stenti, la
difficile prova della sopravvivenza lo fecero crescere gracile e
malaticcio. Poté continuare gli studi all'istituto Cottolengo
di Torino e poi al seminario di Ivrea. Insofferente per
l'insegnamento angusto, rigidamente clericale, del seminario, non
volle seguire l'esodo tradizionale che s'imponeva alla sua naturale
vocazione religiosa di adolescente. Troppo curioso
intellettualmente, portava con sé quel miscuglio di orgoglio
e di diffidenza, che sono un tratto tipico dell'origine contadina,
filtro indelebile delle sue passioni umane e civili. Riuscì a
iscriversi alla facoltà di lettere dell'università di
Torino. Fu il primo passo verso una vita di letterato e di uomo di
cultura singolare e anomala. Maturò una coscienza laica,
intrisa di positivismo, sul cui sfondo permaneva vigile un istinto
mistico, giustizialista, dalla radice profondamente cattolica.
Eugenia Balengo, una sua amica letterata, nel tracciarne il profilo
(1918), lo ricorda "ignoto a tutti, piccolo, esile" salire sulla
cattedra di Arturo Graf per leggere "con voce grave e monotona" i
propri versi. Portava con sé una coscienza della sua origine,
del valore emblematico che aveva il mondo della sua infanzia e
adolescenza, così forte, così carica di "ammonimenti",
che gli rese difficile e contraddittorio l'amalgama con la
società letteraria. Come un personaggio del suo romanzo, Gli
ammonitori, avrebbe potuto dire di sé: "le mie idee sono
confuse... avrei bisogno di sistemarmi tutti questi pensieri, di
farne un organismo saldo, e darlo agli uomini perché vedano
chiaro..." (p. 23). Da questa incompiuta vocazione intellettuale la
sua urgenza di esprimersi nell'attività pratica, in un
apostolato sociale che impiegherà poi quasi interamente gli
anni della sua maturità. Ma il periodo torinese è
quello della maturazione intellettuale e letteraria, contrassegnato
da "un senso molesto di inferiorità nei confronti di quella
società di intellettuali che andava frequentando durante gli
anni universitari, ma anche un senso di ribellione sorda e violenta,
che si concretava nell'abbattere indiscriminatamente gli idoli e i
modelli letterari" (De Rienzo, p. 92).
Allievo di Arturo Graf, negli anni universitari il C. entrò
nella cerchia della scapigliatura torinese, stringendo amicizia con
G. Pellizza da Volpedo e A. M. Mucchi, oltre che con L. Bistolfi e
A. Pastore, dal quale ultimo, con cui fu particolarmente legato,
trasse una certa confidenza con la cultura positivista, quella
razionale fiducia per il progresso della tecnica, per il futuro
dell'organizzazione sociale, che sempre temperarono la sua amara
inclinazione pessimistica. Mosse i primi passi nell'attività
di pubblicista, scrivendo per L'Arte di Parma e Il Popolo della
domenica di Torino. Nel 1896 divenne redattore de La Triennale,
rivista illustrata d'arte, di cui uscirono 15 numeri presso
l'editore Roux-Frassati.
Nel 1897 usciva dall'editore Streglio di Torino la sua prima opera,
il poemetto Madre. Lamentosa, crepuscolare evocazione di
un'affettività vissuta solo nell'immagine, storpiata e delusa
dalla elementare durezza delle circostanze, non priva di un accento
acre di verità, "originale perché sincera" come la
definì il Graf (Per un nuovo poeta, in Nuova Antologia, 16
febbr. 1899, p. 706). In Madre già si palesa la
difficoltà che il C. incontrerà anche nei suoi
successivi tentativi letterari, quello di trovare una compiuta
espressività artistica. Intenso nella percezione dei
contenuti psicologici e sociali rimane incompiuta la sua
capacità di rappresentazione poetica e narrativa. E al fondo
di questa incompiutezza c'è un diaframma psicologico, la sua
naturale repugnanza a identificarsi coll'universo della letteratura,
una "ribellione primordiale che si richiama costantemente al mito
dell'uomo in libertà naturale" (De Rienzo, p. 93), una
confusa idea dell'artista "che deve essere anarchico per se,
socialista per gli altri". Di qui un suo speciale approccio
moralistico alla letteratura, di cui non mancano nella sua opera
ftammentari, ma interessanti, spunti critici, nelle pagine polemiche
su D'Annunzio, per "tendenze ... orrendo", e sull'opposto mito di
Zola, che è una critica ante litteram del realismo come moda
letteraria. Il C. si pone sempre il problema della verità
dell'immagine letteraria; la realtà non è oggetto
soltanto di rappresentazione, ma di conoscenza. Lo testimonia
l'acuta osservazione che egli fa sulla poesia del Pascoli,
sottolineata dal Pancrazi (1899), la rappresentazione arcadica del
mondo agricolo da parte di chi "non era di origine contadina", non
ne intendeva le motivazioni profonde, l'atavica resistenza e il
rapido mutamento dei sentimenti e delle consuetudini, col risultato
meramente retorico "di mettere in circolazione un numero di parole
toscane designanti gli strumenti agricoli, gli utensili di una
piccola vita domestica e le operazioni dei campi", che "infine
produceva soltanto ... delle inutili prolissità e
oscurità e pedanteria", (Opere, 1968, p. 329).
Questo furore moraleggiante, che è la vena autentica della
sua critica e del suo gusto per la letteratura, la letteratura come
sermone e come mistica comunicazione, era condotto sul filo di
un'idealità, da alcuni accennata come "socialismo
sentimentale" ma che era un insieme indistinto di sentimenti di
giustizia, in cui era il senso della ribellione misto al timore
della violenza, all'appello continuo ai sentimenti e alla ragione.
In cui soprattutto mancava l'esercizio di qualsiasi categoria
politica e ideologica, che poi è il limite della sua
interiore autenticità. "Passione... quest'acuta follia che
m'ha repente/ sconvolto, le natie virtù disfatte,/ scagliato
come arbusto in un torrente", scriverà In umbra, la seconda
sua raccolta di versi pubblicata a Torino nel 1898.
Una passione che trova a stento la forma compiuta per rivelarsi, si
trasforma in "nausea", per la consapevole incompiutezza del suo
messaggio, e per un'interna contraddizione, il ripiegarsi continuo
in una poetica intimistica, che non ha saputo trovare moduli diversi
da quelli decadentistici che l'epoca gli proponeva, la poesia come
"produzione-fruizione", scambio di sensitività artistica tra
predestinati. "Il movente dell'arte - scriverà nella
prefazione di In umbra - èla specie di malessere che prova
l'individuo a restar isolato nelle sue impressioni e il desiderio di
comunicare agli altri: il fine è di stabilire questa
comunicazione simpatica". Il contenuto verista della sua poetica si
risolve in presunto elitismo della rappresentazione.
Nel 1900 il C. si recò a Parigi in occasione della
Esposizione universale. Soggiorno di un anno, con un viaggio anche a
Londra, che gli aprì nuovi orizzonti. "Parigi è una
scuola... - scriverà alla Balegno - sento la mancanza di
cognizioni pratiche, di scienze industriali, di economia sociale, di
troppe cose. A basso la letteratura pura, a basso l'educazione
classica e sopratutto gli educatori" (Lettere, pp. 93-94). Parigi
è emblematicamente il suo incontro con il '900, che tocca le
corde della sua formazione positivistica, loriempie di una fiducia
puova, non più inquietato dal piccolo dramma del poeta come
ribelle incompiuto. "Ribellarsi è troppo poco. -
scriverà a Guido Mazzoni nel 1904. - Fino a qualche tempo fa
mi bastava. Ora non più. Bisogna ricostruire..." (appendice
de Gli ammonitori, 1978, p. 197).
Un cambiamento profondo è in effetti avvenuto nella sua
coscienza. Segnalato da Faldella, viene chiamato a Roma, nel 1901,
da Maggiorino Ferraris, come redattore della Nuova Antologia. A Roma
il C. trascorrerà tutto il resto della sua vita, salvo brevi
soggiorni in Piemonte. Egli vi trova subito un felice equilibrio.
Nell'ambiente mondano e letterario trova una confidenza che era
mancata nella chiusa cerchia torinese degli anni giovanili Sollevato
dal penoso sentimento della sua inferiorità sociale, tutto
teso nel suo compito di pubblicista, in un ambiente nuovo egli
riesce a ricongiungere unitariamente gli aspetti della sua
personalità intellettuale e civile. Torna al tema del mondo
contadino in un contesto sociale diverso, nel deserto del latifondo
che caratterizza l'Agro romano, rispetto a cui i modelli umanitari
del democratismo borghese possono avere un'incidenza più
ampia delle semplici opere di patronato. Il problema della bonifica,
dell'analfabetismo, della malaria sono piaghe bibliche, prima ancora
che sociali. È possibile intervenire per rimuoverne gli
effetti, con un programma di attività pratiche, che non
implica ulteriori riflessioni politiche, una socialità
apolitica, attitudine diffusa in altri paesi europei, elemento di
ricchezza della società civile, e che resta confinata a pochi
esempi in Italia.
I primi anni romani del C. furono di lento e continuo apprendimento
delle condizioni della vita contadina nell'Agro romano.
Accumulò con pazienza notizie e conoscenze, battendo la
campagna zona per zona con una passione da esploratore, diviso tra
il lavoro di redazione della Nuova Antologia e la stesura del suo
romanzo Gliammonitori.
Nel 1899 aveva scritto due drammi teatrali, L'abete e Fino alla
morte. Ma il nuovo romanzo era opera di maggiori ambizioni, in cui
il C. dava una compiuta sistemazione ai temi della sua polemica
letteraria e sociale dei giovanili anni torinesi, e insieme, nella
struttura stessa narrativa, c'era il segno del loro superamento.
Un orfano, operaio tipografo (Stanga), assiste nella sua arca
ambientale alle drammatiche conseguenze della sopraffazione della
classe al potere. La sorella del poeta (Crastino), sedotta ed
abbandonata da un giovane nobiluomo, muore di parto. Il poeta muore
tisico, lasciando sola la donna che aveva sollevato dalla miseria.
Il pittore (Quibio) finisce in galera perché tenta di unirsi
con una donna sposata e appartenente alla classe borghese. Il
protagonista è licenziato dopo uno sciopero e finisce in
galera perché amico del pittore. Solo la dottoressa prosegue
nella sua opera di fiducioso ottimismo nel riscatto finale.
Pubblicato a Roma nel 1904 nella "Biblioteca della Nuova Antologia",
il romanzo ebbe numerose edizioni e fu tradotto in tedesco, inglese,
olandese, russo. Maksim Gor´kij scriveva al C. (in Lettere):
"quel punto del romanzo in cui voi dite facendo parlqre il vostro
protagonista che "la vita dura degli uomini pesa sulla mia come un
pesante gioco; io non mi sento più la libertà di
essere solo" mi è parso particolarmente giusto... Quel modo
di pensare mi è affine, l'ho trovato familiare al mio...".
L'influenza di Gor´kij, più in generale della
letteratura russa, è percepibile negli Ammonitori. Ma la vera
affinità elettiva, quasi inconsapevole, non sta nelle scelte
tematiche o nella struttura narrativa, ma nella riproposizione
indiretta del tema della "comunità", come vincolo ed essenza
sociale e spirituale dell'individuo, e nella considerazione negativa
della "solitudine" come effetto d'una decomposizione sociale, che si
rifrange nella disposizione psichica degli uomini. Sulla traccia di
questi motivi profondi della cultura, contemporanea il C. cammina
così lungo l'argine sempre incerto tra cultura
nazionalpopolare e decadentismo.
Sono motivi che si raccolgono a piene mani nell'opera del C. e che
hanno esemplari accenni negli Ammonitori (ad es. la fine del VI
cap.), da cui si è voluto prendere pretesto per accostare il
suo modo di pensare alle dottrine del socialismo o del democratismo
borghese, ma sono solo affinità che risalgono alla comune
radice populistica. La difficoltà sta nel raccoglierli in un
disegno compiuto di pensieri e riflessioni, là dove il C. ce
li propone frammentariamente, incompiuti. L'opera letteraria avrebbe
potuto essere l'occasione di un ulteriore approfondimento, anch'essa
di fatto si interrompe con Gli ammonitori. L'ultimo lavoro è
del 1907, la raccolta di versi dal titolo Homo, edita a Roma,
omaggio finale al maestro della sua giovinezza, Arturo Graf.
"Ho paura di essere troppo felice" (Aleramo, 1978, p. 231) ripete il
C. alla nuova compagna Sibilla Aleramo in quei primi anni romani,
dopo la stesura del romanzo, quando al problema dell'affermazione
letteraria subentra una pienezza di iniziative pratiche e sociali e
di battaglie pubblicistiche. Nel 1904 prese avvio quel programma di
"scuole serali e festive dell'Agro romano" a cui il C. si
dedicò per anni a fondo, grazie all'appoggio della sezione
romana dell'Unione femminile nazionale e di singoli privati
finanziatori, coadiuvato da Angelo Celli, medico e scienziato.
La prima scuola fu aperta a Lunghezza, tre anni dopo erano otto,
variamente dislocate, con 340 allievi; nel 1910 erano 30 nel
territorio del comune di Roma, 14 sul territorio confinante dei
comuni vicino a Roma, 18 sul territorio di Terracina e nelle paludi
pontine: complessivamente 51 classi a corso serale, 4 a corso diurno
e 7 a corso festivo. Man mano al contributo dei privati si aggiunse
quello statale e degli enti pubblici territoriali; particolare
impulso venne dall'amministrazione Nathan del comune di Roma.
L'insegnamento, opera di un gruppo di maestri, quasi volontario, i
"garibaldini dell'alfabeto" come li definiva il C., fu il primo
ampio esperimento di scuola popolare attiva a cui seguirono qualche
anno dopo le iniziative della Associazione nazionale per gli
interessi del Mezzogiorno nella Calabria e nella Lucania, per
l'impulso datogli da Franchetti, Zanotti Bianco, Fogazzaro e
Salvemini, e di cui anche il C. fu un assiduo collaboratore. Queste
iniziative costituiscono un nucleo importante dei tentativi di
sviluppare istituzioni scolastico-assistenziali laiche e private, di
cui sono numerosi gli esempi sparsi in quegli anni in Italia,
momento significativo dello sviluppo della coscienza civile della
borghesia postunitaria, poi interrotta con l'avvento del fascismo.
L'attività sociale e civile del C. non si ferma all'Agro
romano. Il terremoto di Messina lo impegnò nell'opera di
soccorso e di risanamento, fissò la sua attenzione di
polemista sempre più sui problemi dell'Italia meridionale. Il
resoconto delle terre devastate nel 1909, Lungo le rive della morte,
è tutto impostato in un'alternanza continua di cifre ed
episodi, che lascia poco spazio ai commenti. Tornerà
sull'argomento con La rinascita dei paesi devastati, denunziando la
lentezza degli apparati burocratici e formulando precise accuse alle
classi dirigenti locali.Sono motivi polemici che ritroviamo anche
nei densi reportages sull'Abruzzo, che furono pubblicati anch'essi
sulla Nuova Antologia (1° agosto 1909, pp. 467 ss.). Il C.
scopre man mano i mali della distruzione del patrimonio forestale,
la cattiva utilizzazione di quello idrico, e il suo approccio
meridionalista si colora di una forte enfasi empirica, per tracciare
le linee di una diversa politica delle istituzioni pubbliche.
Sono riflessioni che rimangono marginali al grande dibattito sulla
questione meridionale, per l'assenza di un'analisi politica. Ma
c'è tuttavia anticipato il tema della rivoluzione agricola
nel Mezzogiorno come grande problema nazionale. Si esprimono anche
qui, in queste riflessioni e polemiche, i tratti singolari delle sue
inclinazioni civili, il suo democratismo, permeato di tensione
nazionalpopolare. Nel 1910 il C. seguì con attenzione la
formazione del movimento nazionalista, in cui sembrava riconoscersi,
nulla tuttavia intendendo dell'impostazione politico-ideologica
sottostante. Egli vi vedeva una forza nuova, che poteva rinnovare la
classe dirigente liberale, con una considerazione più
consapevole degli interessi nazionali, per esortare i nazionalisti
ad "essere pratici" e a "differenziarsi e concludere che ancor
più ... la maggior parte del loro programma deve esplicarsi
in casa nostra" (Prose critiche, 1969, p. 320).
La guerra mondiale lo colse impreparato e incerto. Era contrario
all'intervento, perorava la causa della neutralità, poi
l'originario pessimisino prese il sopravvento. "Credo - scriveva
nell'agosto 1914 - che quanto più profondo sarà lo
sconvolgimento, tanto maggiore speranza di avvenire dobbiamo avere"
(Lettere, p. 277). Poco saldo fisicamente, si adoperava con il
consueto attivismo. Pubblicò un periodico di propaganda
patriottica per le scuole, Il Piccolissimo, soprattutto in funzione
antisocialista, costituì un comitato per l'aiuto ai profughi
serbi, organizzò i soccorsi dopo il terremoto che
colpì l'Abruzzo nel 1916. Come giornalista visitò
più volte il fronte nel 1915 e 1916.
Colpito da polmonite fulminante, il C. morì a Roma il 7 dic.
1917.