Botero Giovanni
www.treccani.it
enciclopedia online
Scrittore politico (Bene, od. Bene Vagienna, 1544 - Torino 1617).
Gesuita dal 1560, lasciò nel 1580 l'Ordine per urti coi
superiori; dal 1582 divenne segretario di s. Carlo Borromeo. Nel
1585 fu in Francia, incaricato da Carlo Emanuele I d'una missione
segreta. Tornato in Italia accompagnò Federico Borromeo
giovinetto a Roma, e quivi si stabilì per 14 anni, pur
facendo frequenti viaggi in Italia e in Europa, per incarico
specialmente della Propaganda Fide. Richiamato nel 1599 a Torino da
Carlo Emanuele, fu per otto anni precettore dei figli di questo. Poi
fu lasciato libero di attendere ai suoi studî.
Attento lettore
del Machiavelli e di J. Bodin, espose le sue idee politiche, dopo un
primo abbozzo (De regia sapientia, 1583), nella opera sua più
famosa, Della Ragion di Stato, in 10 libri (1589), cercando in essa
di affermare la supremazia dei valori etici e religiosi sulle
istanze utilitarie della politica, che tuttavia finiva poi per
riconoscere come di fatto operanti nella prassi, lasciando
così quei valori etici sul piano di una pura esigenza
teorica. La grande fortuna dell'opera, più che all'impianto
dottrinale, è legata all'espressione ricca e sistematica dei
problemi relativi alla nascita dello stato moderno, da quelli
fiscali e tributarî a quelli militari, a quelli giuridici ed
economici. Questi ultimi già oggetto di un'agile e penetrante
operetta (Delle cause della grandezza e magnificenza delle
città, 1588), furono ripresi e ampliati nelle Relazioni
universali (ed. completa, in 4 parti, 1596; una 5a parte è
stata pubbl. solo nel 1895), organico repertorio di antropogeografia
ricco di notizie sulla configurazione fisica, demografica, militare
e politica di tutti gli stati del mondo. L'opera divenne un vero e
proprio manuale geopolitico della classe dirigente europea e
consolidò definitivamente la sua fama.
*
DBI
di Luigi Firpo
Nacque nel 1544 a Bene (Cuneo), oggi Bene Vagienna, l'antica Augusta
Bagiennorum, terra del duca di Savoia. Il padre Francesco era di
modesta condizione; della madre si ignora il nome; la sorella
Caterina e un'altra, innominata, si sposarono oscuramente con
Guglielmino Vicino e Sebastiano Valente, dando vita a una
discendenza numerosa, cui lo zio non lesinò soccorsi
finanziari e protezione. Quando era ormai lontano dalla terra natia,
il B. adottò lo stemma di un omonimo casato patrizio benese
(spaccato d'azzurro e d'uno scaccato di nero e d'argento) e ne
fregiò il proprio sigillo.
La data di nascita venne a lungo assegnata al 1540, perché un
ritratto oggi conservato nel municipio di Bene reca la scritta:
"Ioannes Botterus Bennensis, anno 1603, aetat. 63, abbas". Si tratta
comunque di una dicitura tarda e inesatta (nel 1603 il B. non era
ancora abate), non meno di quella che su un altro ritratto
recenziore, conservato in Torino al cadere dell'800 da Ernesto
Bottero, faceva risalire la nascita al 1533.
L'infanzia del B. trascorse in un Piemonte occupato e saccheggiato
da Francesi e Spagnoli, e Bene stessa nel '52 fu difesa dai primi e
invano assediata dai secondi. Il primo documento che fa menzione di
lui è del 1559 (proprio l'anno in cui Emanuele Filiberto
ricupera il suo stato e inizia un'avveduta opera di ricostruzione),
quando lo si ritrova all'altro capo d'Italia, studente quindicenne
nel collegio della Compagnia di Gesù in Palermo, dove lo
aveva chiamato uno zio paterno, il p. Giovenale, pio e stimato
sacerdote, professo ormai da un decennio, che si spense
improvvisamente il 25 novembre di quell'anno, in concetto di
santità. Il 5 settembre successivo il B. era ancora a
Palermo, certo al fine di ultimare l'anno scolastico, dedicato allo
studio della retorica e del greco (nel quale fece anche in seguito
scarsi progressi), ma il 28 ott. 1560, cadute le ragioni che
l'avevano chiamato in Sicilia, lo si trova nel Collegio Romano,
ammesso alla prova per l'ascrizione alla Compagnia e studente di
dialettica in un corso nel quale ebbe a compagno Roberto Bellarmino.
Nel maggio 1561 il B. è ancora a Roma, studente del primo
corso di logica e già apprezzato dai superiori per le sue
precoci doti di verseggiatore latino, che la Compagnia metteva in
valore quale strumento di penetrazione tra le classi colte e
facoltose, inclini ai trattenimenti letterari; ma sin da quei primi
anni il B., con la sua complessione esile e malaticcia, col
temperamento nevrotico, dovette mettere in luce un caratterino
difficile, tutto irrequietezze e puntigli, propenso al mormorio e
all'intrigo, tanto che i superiori, certo per punizione, lo
spedirono a insegnare precocemente la retorica nel piccolo collegio
umbro di Amelia. Vi restò un anno, amareggiato e contrito,
dopo di che si pensò di mandarlo in Francia, poi a Loreto (21
sett. 1562) e, quando già era per via, ebbe l'ordine di
fermarsi a Macerata come insegnante dei fanciulli della primaclasse.
Là si distinse per la sua facilità nel comporre
epigrammi, discorsi, versi di vario genere; recitò
nell'apertura dello Studio pubblico un'orazione in lode delle sette
arti liberali e vi tenne un corso sulla Rhetorica di Aristotele; ma
in realtà era amareggiato, irrequieto e insisteva per tornare
a Roma a continuare gli studi. Dovette invece restarsene in
quarantena per un secondo anno, afflitto da malanni di salute,
dettando le litterae quadrimestres del collegio di Macerata (27
gennaio, 30 maggio), poi quella del vicino collegio di Loreto
(1º settembre), traboccanti di unzione convenzionale e
precocemente rivelatrici di quella che fu poi sempre nel B.
un'attitudine a immedesimarsi nella propria parte e a viverla con
una fedeltà che sconfina nel mimetismo, tanto sul piano del
costume e dell'agire quotidiano quanto su quello della trasposizione
letteraria.
Fin dal 31 luglio s. Francesco Borgia aveva riconosciuto che un uomo
dalle qualità retoriche del B. era sciupato in un piccolo
centro, sicché nel settembre venne finalmente richiamato a
Roma. Preso da uno dei suoi ricorrenti slanci di fervore missionario
egli chiese allora di essere inviato a combattere gli eretici in
Germania, ma si preferì trattenerlo per due anni nel Collegio
Romano a studiar filosofia naturale sotto la guida del p. Diego
Acosta. Ormai ventunenne, nel maggio 1565 fu destinato ad insegnar
retorica in uno dei collegi di Francia, e nell'agosto, compiuti gli
studi, mosse alla volta del collegio di Billom, antico centro
universitario in Alvernia, presso Clermont, dove però, per
difetto di docenti, gli toccò insegnare non già
retorica, bensì filosofia. Vi rimase due anni, conducendo la
solita vita, componendo rappresentazioni sceniche edificanti e carmi
encomiastici: tre di questi, assegnabili al 1566, in onore del
medico J. Post, sono conservati nei Parerga di quest'ultimo
(Würzburg 1580).
Da quell'isolamento provinciale lo strappò, verosimilmente
nell'autunno del '67, la destinazione al collegio di Parigi, di cui
vergò (1º maggio 1568) la littera quadrimestris. La
città ricca e popolosa offriva suggestioni innumerevoli e
vivaci stimoli culturali al giovane professore di retorica intento
allora a comporre in lode dei Guisa, capi del partito cattolico, un
poema epico latino sulla prima crociata, una "Gottifreide" o
Hierosolima, che rimase incompiuta e di cui ci restano solo i 61
versi che l'autore trascrisse molti anni dopo nel suo De regia
sapientia (Mediolani 1583). La città, fervida di arti e di
commerci, dovette offrire sin d'allora al B. largo materiale per le
sue future analisi politico-economiche, ma le beghe interne e i
maneggi del collegio non tardarono a pregiudicare gravemente la sua
posizione. Intrighi e pettegolezzi, in larga misura suscitati o
rinfocolati dal B., si rivolgevano soprattutto contro gli
"stranieri", cioè gli influentissimi padri spagnuoli che
reggevano la Compagnia in posizioni di marcato predominio, tanto che
a Roma nel giugno 1569 si giunse alla determinazione di allontanare
cautamente il maggior responsabile, farlo rientrare in Italia ed
espellerlo poi senza scandalo. Un ordine del 30 settembre ingiunse
al B. di prender la via di Lione e di recarsi a Bologna, ma, nelle
more, un qualche ripensamento e la considerazione delle sue doti
d'ingegno indussero i superiori a meno severo partito, perché
l'espulsione non ebbe luogo ed egli venne assegnato al collegio di
Milano, nelle case presso S. Fedele che i gesuiti avevano occupato
due anni prima, chiamati da S. Carlo Borromeo per istituire il
seminario.
Vi trascorse quattro anni, poveri di eventi esterni, occupati dai
consueti corsi di retorica, dagli studi filosofico-teologici, dalle
esercitazioni letterarie: il 14 genn. 1570 era già nella sua
nuova sede; il 26 sett. 1571 venne giudicato maturo per
l'ordinazione sacerdotale, ma il 13 ottobre il vicario generale
della Compagnia Girolamo Nadal, memore dei recenti trascorsi,
giudicava che fosse opportuno soprassedere.
In effetti, si ignora la data della sua promozione agli ordini
maggiori, ma questa dovette seguire non molto più tardi,
perché un documento del 4 dic. 1574 attesta che già
celebrava la messa. Frutto d'una errata lettura è la notizia
tramandata dai biografi che il B. componesse la narrazione del
conclave brevissimo di Gregorio XIII (12-13 maggio 1572), poco
significativo di per sé e che non sarebbe stato possibile
compilare su notizie di seconda mano, standosene a Milano: la fonte
va intesa nel senso che il B. scrisse poi, molti anni più
tardi (1590) e come testimone oculare, del conclave di Gregorio XIV.
Nel 1573, in epoca imprecisata, il B. venne trasferito a Padova a
studiare teologia e vi restò quattro anni, legandosi di
affettuosa amicizia con l'erudito Gian Vincenzo Pinelli, col quale
intrattenne poi un dotto carteggio e in onore del quale
dettò, probabilmente nel 1577, il poemetto Otium honoratum
stampato nell'83 in calce al De regia sapientia. Quando Enrico di
Valois venne eletto re di Polonia (9 maggio 1573) il B. compose un
carme di esultanza di 355 esametri latini e lo inviò al
canonico Pietro Kostka, il quale ai primi d'agosto lo fece stampare
a Cracovia.
I progressi del B. nello studio erano tali che nell'aprile 1574 i
superiori già lo ritenevano idoneo a tenere un corso di Sacra
Scrittura, ma erano sempre le sue attitudini letterarie ad
attirargli i maggiori consensi sottoponendolo nel contempo a
continue e fastidiose richieste di una produzione occasionale, ora
edificante, ora encomiastica, di cui doveva cominciare a sentire
disgusto. Così quando, nel novembre 1574, ricevette
l'incarico di comporre una "comedia" sull'imperatore Costantino,
ch'era stata richiesta da Alberto V di Baviera, gran protettore dei
gesuiti in Germania, ebbe uno dei suoi moti di stizzita ribellione e
accampò difficoltà, chiese agevolazioni,
lamentò la cattiva salute, per mascherare un rifiuto che
rivela l'estenuarsi di quella sua artificiosa vocazione di
verseggiatore. Un altro segno di rottura, forse velleitaria, ma
rivelatrice di uno scontento profondo per quella sua vita sedentaria
e libresca, è la sua inascoltata richiesta (Padova, dicembre
1575)di essere inviato nelle missioni. Ancora a Padova, nel '77,
concluse con profitto gli studi teologici, ma non poté
sostenere l'esame di laurea per la temporanea chiusura dell'Ateneo
in conseguenza della peste, e l'11 ottobre venne nuovamente
destinato a Milano, ma trascorse poi l'inverno a Genova, per un
incarico temporaneo imprecisato, e di là, il 30 novembre,
rinnovò senza successo la domanda di essere inviato
missionario in America. Al cadere di febbraio 1578 lo si ritrova
ancora a Genova, ma poco dopo dovette rientrare stabilmente a Milano
con funzioni di lettore di Sacra Scrittura.Nell'ottobre
l'arcivescovo Borromeo lo incaricò di redigere per proprio
uso un parere negativo al quesito sottopostogli dalla Curia romana:
se al settantenne cardinale Enrico di Portogallo, salito al trono
per la morte in battaglia di re Sebastiano (4 agosto), fosse
conveniente e lecito prender moglie. Un documento del 22 novembre
rivela la viva impazienza e irritazione del B. nel vedersi escluso,
dopo quasi vent'anni di appartenenza alla Compagnia, dalla
definitiva professione dei voti solenni: in realtà, incidenti
occasionali e il suo stesso contegno intrigante e fazioso,
esasperato dal malcontento e dall'umiliazione, stavano allora
accentuando le diffidenze dei superiori.
Nella primavera del 1579 venne recitata nel seminario milanese,
durante la refezione e alla presenza di s. Carlo, una lezione del B.
sul salmo II, nella quale egli negava l'autorità temporale di
Cristo sul mondo prima della passione. Il santo, che era allora in
grave disaccordo con i gesuiti milanesi, se ne risentì
vivacemente, e, per troncare gli strascichi incresciosi, il 10
settembre fu deciso di rimandare il B. in patria, assegnandolo al
collegio di Torino; il 24, quando già aveva raggiunto quella
sede tanto più periferica e sgradita, la professione dei voti
gli venne ancora una volta negata, mentre un superiore lo definiva
"persona... che s'accomoda più presto per prudenza umana che
divina". Il lungo malcontento, l'orgoglio ferito, l'insofferenza
esplosero nel marzo 1580, quando si deliberò di spedire il B.
alla "missione" di Saluzzo, dove le infiltrazioni ugonotte favorite
dal dominio francese s'erano fatte preoccupanti: ritenendosi
perseguitato e misconosciuto, egli si abbandonò a proteste
clamorose e minacciò di appellarsi a Roma. Il 12 luglio,
quando già i superiori erano decisi a liberarsi di lui e ad
agevolare con benevolenza il suo allontanamento, i tentativi di
ridurlo a miti consigli fallirono, egli mise a rumore il Collegio e
finì per venire rinchiuso in cella; diede allora in
escandescenze, poi, abbattutto e pentito, chiese perdono. Soffocato
lo scandalo con due mesi di detenzione, ai primi di settembre venne
estromesso dalla Compagnia e, ammazzato, depresso, senza risorse, se
ne tornò a Milano.
Là trovò insperato appoggio proprio in s. Carlo, che
già nel novembre gli assegnava, in un isolamento propizio, un
posto di vicecurato a Luino: era un rifugio per i necessari
ripensamenti e un'occasione per passare dalla retorica
all'apostolato. Il 30 nov. 1580 egli chiese di venire dimesso senza
infamia dalla Compagnia di Gesù, nella quale aveva militato
per 22 anni, e il 12 dicembre ottenne la patente che attestava la
sua uscita onorevole quale dimissionario; più tardi
aderì alla Congregazione degli oblati, fondata da s. Carlo.
Iniziava così, dopo il naufragio, una nuova esistenza
all'ombra di una personalità dominatrice e dinamica come
quella del Borromeo, che ne disciplinò il carattere, lo
plasmò con l'esempio, lo animò con gli ideali della
restaurazione cattolica interpretati in chiave di sollecitudine
pastorale, di apologetica battagliera e di severo ascetismo; per
parte sua il B. rispose con duttilità estrema, ponendo in
atto quella sua capacità singolare di recepire le istanze
dell'ambiente e di uniformarvisi, senza ipocrisia, con un mimetismo
che non esclude l'autenticità del consenso.
I problemi del B. furono dapprima quelli della cura d'anime:
organizzazione pastorale, visite di monasteri, edilizia
ecclesiastica; il 30 maggio 1581 è ancora a Luino, ma
promosso vicario foraneo; il 28 febbr. 1582 partecipa a Treviglio a
una congregazione di vicari e vi predica nella quaresima; in tale
occasione il vescovo di Novara Francesco Bossi gli offre l'incarico
di penitenziere, che egli, per non dispiacere a s. Carlo, rifiuta.
Il 4 luglio presenta al Borromeo il frutto di quei mesi di
raccoglimento: la prima stesura del De regia sapientia, un
trattatello politico fitto di esempi edificanti come i vecchi
specula principum, ma che acutamente individuava nel machiavellismo
(e nel suo travestimento cauto sotto le spoglie del tacitismo) la
perdurante antitesi con l'etica cristiana restaurata dal concilio di
Trento; l'opera, dedicata a Carlo Emanuele I di Savoia, vedrà
la luce a Milano ai primi dell'anno seguente. Il 19 luglio si laurea
in teologia a Pavia e viene nominato "reggitore e moderatore"
dell'Accademia degli Accurati, ivi fondata da un giovinetto nipote
di s. Carlo, che vi era studente: il futuro cardinale Federico
Borromeo. Reduce da una scappata in Piemonte, il 13 agosto si vede
costretto a partire per Genova con lo sgradito ufficio di coadiutore
in una visita apostolica; depresso, forse stanco di uffici umili e
periferici, ha una delle sue solite crisi, chiede invano di
rientrare nella Compagnia di Gesù, supplica per essere
richiamato a Milano e il 22 settembre, simulando un malinteso, vi
torna a suo rischio e ottiene finalmente di restare a fianco di s.
Carlo, con funzioni di segretario e famiglio, accompagnandolo anche
in un viaggio a Roma e in una sosta a Loreto.
Il B. trascorse a Milano il biennio 1583-84 accanto agli altri
numerosi collaboratori del santo, taluni più intimi e
autorevoli di lui, cooperando all'opera di restaurazione della
diocesi, componendo lettere latine a principi e prelati, studiando
questioni teologiche e giuridiche. Nel novembre 1583, invitato a
predicare sulle lettere paoline in S. Sepolcro, ricusa il tema
troppo compromettente e predica l'avvento in S. Stefano; nel
carnevale dell'84 fa recitare nel collegio Borromeo di Pavia una
rappresentazione sacra; il 20 maggio dedica al giovinetto Andrea
Báthory, nipote del re di Polonia e destinato poche settimane
più tardi alla porpora, i cinque libri Del dispregio del
mondo, cui allega nella stampa due prediche Del regno di Cristo e
Della guerra vinta da' santi offerte il 30 aprile a F. Borromeo; il
28 agosto si reca a Lodi a incontrare il Báthory; sempre a
Milano pubblica anche sei prediche sul Vangelo domenicale, col
titolo Prima parte dell'Avvento ambrosiano (dedica del 17 ottobre al
card. Agostino Valier).
Questa nuova esistenza del B., così palesemente
caratterizzata dagli ideali di ascetismo severo e di fattiva
riorganizzazione ecclesiastica di s. Carlo, viene bruscamente
spezzata il 3 nov. 1584 dalla morte del santo. Ritiratosi, quasi
scampato da un "naufragio", in casa dell'ab. Arrigo da Cannobio,
l'11 novembre indirizza al Báthory una lettera latina,
descrivendo con accenti di unzione, ma altresì con vivace
realismo, gli ultimi giorni e il trapasso del Borromeo; il
documento, avidamente ricercato, ebbe larga diffusione popolare: in
un mese e mezzo ne apparvero non meno di tredici edizioni (che
l'autore ripudiò come abusive e scorrette), parte nel testo
originale, parte nella versione italiana di C. Peraccini. Nei
medesimi giorni B. dettò pure una relazione italiana dei
medesimi avvenimenti, molto più ampia e minuziosa,
indirizzata al proprio ordinario, cioè al card. Vincenzo
Lauro vescovo di Mondovì, stampata anch'essa a Milano ai
primi dell'85.
Al cadere dell'anno, in ritiro sul Sacro Monte di Varallo, diede
compimento ai cinque libri del De praedicatore verbi Dei, un tipico
trattatello germogliato nella temperie della Curia milanese; da essa
lo strappava ai primi del 1585 un invito del march. Filippo d'Este,
luogotenente di Carlo Emanuele I di Savoia, che offriva al B.
un'imprecisata missione diplomatica in Francia, accanto
all'ambasciatore ufficiale, il noto scrittore politico bressano
René de Lucinge signore des Allymes, probabilmente per
prendere contatti non appariscenti con esponenti della Lega
cattolica. Ancora prima di ottenere il consenso del nuovo vescovo di
Milano Gaspare Visconti (che venne concesso il 24 febbraio), il B.
partì; il 25 febbraio era già a Lione, il 30 marzo
intervenne forse al convegno di Péronne, il 25 agosto era con
la corte a St.-Maur poco a est di Parigi, il 26 dedicava al Lauro
l'edizione parigina del De praedicatore;poco dopo vedeva uscire a
Parigi a opera del Lucinge la traduzione francese del Dispregio del
mondo e vi stampava ancora, nell'ottobre, due libri Epistolarum,
comprendenti un centinaio di brevi lettere di complimento e di
edificazione dettate per conto, di s. Carlo nel biennio 1583-84; un
libro III accoglie cinque Epistolae theologicae del B. dettate per
documentare il Lucinge sulle controversie in corso tra cattolici e
ugonotti; l'ultima, diretta al cardinale Antonio Carafa, tratta dei
presunti vestigi e precorrimenti del culto cristiano trovati dai
primi navigatori in Asia e in America e documenta l'affiorare degli
interessi da cui sarebbe nata l'immane compilazione delle Relazioni
universali;per il suo carattere divozionale ed esotico questa
lettera ebbe autonoma fortuna: una versione italiana di Angelico
Fortunio venne stampata a Roma nel 1588.
Al di là di questa connessione palese, l'anno trascorso dal
B. in Francia fu decisivo per la maturazione della sua più
autentica vocazione politica; non era più il retore
giovinetto, che vi aveva soggiornato vent'anni prima, inseguendo
gloriuzze poetiche e puntigli di sacrestia: nel cuore di un paese
lacerato da una profonda crisi confessionale e di potere, straziato
da guerre civili, impegnato in un dibattito ideologico da cui
svettavano le tesi radicali dei monarcomachi e la recente sintesi
del Bodin, egli ebbe larghe occasioni di registrare esperienze e di
approfondire una meditazione che gli riusciva finalmente congeniale.
Il 6 dic. 1585 prese commiato dal Lucinge e si avviò alla
volta di Milano con un lodevole benservito. Qui trovò nuova
sistemazione presso i Borromeo, perché Margherita Trivulzio,
madre del poco più che ventenne Federico ormai avviato alla
carriera ecclesiastica, decise di affiancarlo al figlio, con ufficio
di aio e consigliere, perché gli facesse da nocchiero tra le
secche e gli scogli della corte romana. Lo si ritrova perciò
a Pavia (24 giugno 1586) accanto al suo nobile discepolo, a Milano
tra il giugno e l'agosto, sui valichi dell'Appennino (3 settembre) e
finalmente a Roma, donde scrive alla sollecita madre notizie
rassicuranti sulla sistemazione e i progressi dell'illustre
rampollo.
Tutto il 1587 vide il B. profondere la propria destrezza e cautela
nel guidare il giovane Borromeo nel complesso gioco di cerimonie e
visite, protezioni e simpatie, compromessi e alleanze, che dovevano
rendere possibile una carriera tanto folgorante: il 24 aprile il
severo Sisto V propose in concistoro il suo innalzamento alla
porpora; il 18 dic., appena ventitreenne, venne dichiarato cardinale
e quattro giorni dopo ricevette, il cappello rosso col titolo di S.
Mariain Domnica. Quasi a celebrare una vittoria che era anche un
poco sua, B. stampò una bella ode alcaica latina di
esultanza.
Dopo Parigi, Roma. Un altro centro cosmopolita, luogo di incontri,
di intrighi, di vivaci scambi culturali, e un osservatorio politico
senza eguali. Il B. vi trovò definitivamente la propria
strada: il 10 giugno 1588, con dedica a Cornelia d'Altemps Orsini
duchessa di Gallese, una parente dei Borromeo, vi pubblicava i tre
libri Delle cause della grandezza e magnificenza delle città,
un'operetta di mole esigua, ma lucida e penetrante, forse il suo
capolavoro: viene elaborata in essa per la prima volta una teoria
scientifica sulla dislocazione topografica e sull'incremento degli
agglomerati urbani, che identifica precisi rapporti fra ambiente
naturale, risorse economiche e sviluppo demografico. Allegato sin
dall'anno successivo, quale appendice inseparabile, al più
ampio trattato Della ragion di Stato, l'aureo opuscolo ne condivise
lo straordinario successo editoriale, ma godette anche di una sua
autonoma fortuna e fu tradotto in spagnolo (1593), in latino (1602)
e in inglese (1606). Una piccola ricerca collaterale venne stampata
(Roma 1588) col titolo Che numero di gente facesse Roma nel colmo
della sua grandezza. Giusto un anno dopo, dai torchi illustri di
Gabriel Giolito de' Ferrari, il B. dava alla luce in Venezia i dieci
libri Della ragion di Stato (dedica del 10 maggio 1589 a Wolf
Dietrich von Raitenau, arcivescovo di Salisburgo).
Sviluppando l'abbozzo delineato sei anni prima con il De regia
sapientia, l'opera tentava di dare una risposta al problema politico
centrale della Controriforma, la crisi aperta dal machiavellismo con
il dissociare la politica dalla morale e con il ridurre la religione
a strumento del potere. Tesi centrale è la restaurazione dei
trascendenti valori dell'etica rivelata, con preminenza assoluta
sulle istanze della politica; ma, per dare maggiore efficacia ai
suoi richiami alla pura coscienza e al timor di Dio, il B. finisce
con l'asserire che solo la rettitudine e la religiosità
assicurano il dominio felice, degradando così sul piano del
contingente vantaggio quei valori che la coscienza contemporanea
rivendicava soltanto in astratto, quasi succube del fascino
esercitato dal Machiavelli, ma in realtà dominata dalle
ferree istanze della volontà di potenza e dei conflitti
dinastici e confessionali. Tuttavia il successo della Ragion di
Stato, che dilagò per decenni con frequenti ristampe italiane
e reiterate versioni in spagnolo (1593), francese (1599), latino
(1602) e tedesco (1657), non fu dovuto alle poche e fragili pagine
dottrinali, bensì alla vasta e sistematica esposizione, che
ad esse si affianca, di tutta la nuova problematica che lo Stato
moderno sorgente portava con sé: esazione fiscale,
organizzazione militare, commercio, industria, amministrazione della
giustizia, annona, urbanistica; meglio di qualsiasi altra opera di
quell'età, il libro del B. documenta il tipico trapasso, che
allora si operava, dallo Stato patrimoniale di impronta feudale e
tirannica allo Stato di "politìa", fondato
sull'amministrazione oculata, la centralizzazione livellatrice, la
gerarchia burocratica, l'estinzione progressiva delle cariche
ereditarie o venali. In questo orizzonte culturale un posto distinto
spetta alle questioni economiche: in tema tributario il B. sostiene
la funzione preminente dell'imposta rispetto ai cespiti demaniali
nel finanziamento della spesa pubblica e la doverosa prevalenza
della tassazione diretta dei redditi a sgravio delle gabelle sui
consumi; tenta di conciliare il protezionismo particolaristico delle
nascenti manifatture con l'aspirazione alla liberalizzazione degli
scambi e delle vie commerciali; se è vero che si muove entro
i limiti concettuali dell'imperante mercantilismo, confuta a priori
l'errore dei fisiocratici, sottolineando i preponderanti incrementi
di valore che l'ingegno e l'opera dell'uomo conferiscono ai beni
naturali.
La Ragion di Stato era apparsa da appena un anno che già il
B. ne doveva dare in luce (Roma, Pelagallo, 1590) una seconda
edizione, accresciuta secondo un metodo puramente meccanico di
accumulazione di sempre nuovi esempi storici (allora e in seguito si
limitò a sovrapporre incrostazioni di stanca erudizione
all'immutata ossatura dottrinale, che fini per apparire per
contrasto sempre più esile). Dall'8 al 15 sett. 1590 il B.
intervenne a fianco del Borromeo, quale "conclavista" (cioè
confidente e consigliere), al conclave da cui uscì eletto
Urbano VII; dal 6 ottobre al 5 dicembre svolse lo stesso ufficio nel
conclave di Gregorio XIV, di cui scrisse una relazione (perduta),
che a causa della materia delicata dovette procurargli qualche
grattacapo; narrò pure le vicende del terzo conclave cui fu
presente, quello di Innocenzo IX (27-29 ott. 1591). In quello stesso
anno, il 25 maggio, aveva dedicato al card. Carlo di Lorena la prima
parte (in 6 libri) dell'opera che doveva consolidare definitivamente
la sua fama europea: le Relazioni universali.
Concepita originariamente come un esame statistico della
propagazione ecumenica del cristianesimo, l'opera si allargò
via via nel successivo quinquennio fino a costituire un repertorio
organico di antropogeografia, con notizie sistematiche sulla
configurazione fisica, la densità demografica, le risorse
economiche, la potenza militare, la costituzione politica di tutti
gli Stati del mondo. Frutto di laboriosa compilazione, le Relazioni,
per il metodo accurato e l'oculatezza nel vaglio dei dati raccolti,
segnarono un progresso enorme rispetto alle analoghe opere allora in
uso, e per quasi un secolo rimasero un testo istituzionale e
informativo di larghissima diffusione, il vero e proprio manuale
geopolitico di tutta la classe dirigente europea, con un centinaio
di edizioni e traduzioni in latino (Helmstadt 1596), tedesco (Monaco
1596), inglese (Londra 1601), spagnolo (Gerona 1603) e polacco
(Cracovia 1609). La parte prima è una descrizione generale,
sotto l'aspetto fisico e antropico, del mondo conosciuto; la parte
seconda una silloge di dati statistici di prevalente interesse
politico; la parte terza uno studio sulla distribuzione delle varie
religioni sui continenti terrestri, con notizie storiche sulle
recenti attività missionarie; la parte quarta tratta
specificamente delle religioni degli indigeni delle Americhe e
dell'introduzione del Vangelo in quelle regioni. Una parte quinta,
composta dal B. negli ultimi anni della sua vita e lasciata inedita,
vide la luce soltanto nel 1895: si tratta essenzialmente di un
aggiornamento dei dati della parte seconda, condotto fino alle
soglie del secondo decennio del Seicento, cui va unito un
interessante censimento "dei numero dei Cristiani e delle altre
nazioni".
Ai primi del 1592 il B. interviene al suo quarto e ultimo conclave,
quello di Clemente VIII (10-30 gennaio); invitato dall'ambasciatore
di Spagna e da un signore di casa Sfondrati e darne relazione
scritta, rifiuta il compromettente incarico. Il 15 giugno dedica
all'infante Filippo di Spagna la parte seconda delle Relazioni,
impressa, come la prima, a Roma da Giorgio Ferrari. Nell'ottobre,
benché sofferente per un ascesso al braccio, deve recarsi a
Milano e ad Arona per negozi dei Borromeo e altri disagi
dovrà affrontare nell'estate del 1594 per una missione a
Siena, dove annota la data conclusiva in calce alla parte terza
delle Relazioni (10 ag. 1594), che stamperà a Roma nella
primavera dell'anno seguente con dedica al Borromeo.
Tutto preso dai suoi studi, dalle polemiche e dalle censure
suscitate dal trattato politico, compiaciuto della fama che ormai lo
circonda, tormentato dall'umore difficile e dagli acciacchi
dell'età, il B. sopporta ormai di mala voglia le cure
quotidiane del segretariato, le responsabilità diplomatiche e
di rappresentanza del precoce cardinalato del Borromeo. Quando poi
il suo pupillo è nominato arcivescovo di Milano (24 apr.
1595), il B. medita di lasciare l'ufficio e di rimanersene nel suo
animato osservatorio romano, libero da gravose incombenze: si
affrettò infatti a chiedere una pensione a Filippo II di
Spagna (che il 6 maggio chiese informazioni sul suo conto
all'ambasciatore in Roma) e nel ripubblicare la parte prima,
rifatta, delle Relazioni, la divise in tre parti, serbando solo in
capo alla prima la vecchia dedica al cardinal di Lorena; le altre
due vennero offerte (10 aprile e 4 maggio 1595) a due potenti
cardinali di Curia: Simone Tagliavia d'Aragona e Pietro
Aldobrandini. La nuova sistemazione sperata non risultò
facile: quando il Borromeo (27 ag. 1595) fece il suo ingresso
solenne a Milano, il B. era probabilmente al suo seguito; il 15
settembre terminò la parte quarta delle Relazioni; certo era
a Milano nei primi giorni del 1596, e da Milano il 20 maggio
dedicò appunto la parte quarta a Juan Fernández de
Velasco, governatore del ducato; la prima edizione completa delle
Relazioni in quattro libri, dedicata a Carlo Emanuele I di Savoia,
non vide la luce a Roma, bensì a Bergamo, dai torchi di Comin
Ventura. Ancora nel 1596 stampa a Milano il terzo rifacimento della
Ragion di Stato, cui farà seguire nel marzo del '98 un volume
di Aggiunte, che accoglie cinque trattatelli di argomento militare
(Dell'eccellenza de' capitani antichi,Della neutralità,Della
riputazione,Dell'agilità delle forze,Della fortificazione),
cui allega un'interessante Relazione del mare, abbozzo d'una ricerca
oceanografica che tratta "della grandezza, profondità,
crescere, calare, qualità, colori, movimenti e divisioni di
esso mare". La sua servitù presso il Borromeo volgeva ormai
al termine: ammalato, zoppicante, incline ad accentuare i malanni
per meglio giustificare il suo ritiro, l'8 sett. 1598 il B. è
a Padova, forse per seguire la quarta revisione, quella definitiva,
della sua Ragion di Stato, impressa allora a Venezia dal Giolito,
forse per curarsi ai fanghi di Abano; il 19 settembre da Ferrara
prende commiato, dal Borromeo con un'abile missiva, manifestando il
proposito di stabilirsi a Roma, e da Roma il 3 novembre lo ringrazia
per la sua liberalità (probabilmente la concessione di un
canonicato in S. Ambrogio, a titolo di congedo). Il suo proposito di
sistemarsi presso il card. Ferdinando Niño de Guevara (cui
dedica il 10 ag. 1599 il trattato Dell'ufficio del Cardinale,
impresso a Roma con l'appendice di un Discorso intorno allo Stato
della Chiesa) incontra improvvise difficoltà, perché
il porporato viene richiamato in Spagna con ufficio di supremo
inquisitore: il B. prende allora in considerazione l'offerta di
Gherardo Filiberto Scaglia, agente di Savoia a Roma, che lo invita a
Torino (23 aprile) con ufficio di precettore dei tre figliuoli
più grandicelli del duca: Filippo Emanuele, Vittorio Amedeo
ed Emanuele Filiberto.
Non era certo la nostalgia della povera terra natia a richiamare il
B. in Piemonte, ma l'onorifico incarico e una promessa pensione di
200 scudi. A Torino, con la sua consueta capacità di
adattamento all'ambiente, egli si trasformò in precettore,
assumendo a fianco dei discepoli giovinetti mansioni di educatore
erudito e pio, di schietto stampo contro-riformistico; le sue
lezioni furono prevalentemente storiche, secondo i canoni di una
pedagogia moralistica intesa a suggerire esempi edificanti. Primo
frutto di quest'attività fu la raccolta de I prencipi,
biografie convenzionali di Alessandro Magno, Cesare e Scipione,
dedicate nel settembre-ottobre 1600 ai tre principi sabaudi. Nel
novembre ebbe a Torino colloqui col card. Pietro Aldobrandini,
venuto a negoziare la pace tra Savoia e Francia, e nel luglio 1601
si incontrò col Chiabrera per stimolarlo a condurre a termine
l'Amedeida, poema epico in lode della casa ducale. A Carlo Emanuele
I offerse il 26 luglio la parte prima dei Prencipi cristiani,
raccolta di 15 biografie untuose e stucchevoli di pii sovrani
cattolici, e due giorni dopo rogò a Giaveno il suo primo
testamento. La parte seconda dei Prencipi cristiani, sempre dedicata
al duca (20 febbr. 1603), accoglie le vite dei conti e dei duchi di
Savoia fino a Emanuele Filiberto e ricalca i moduli di edificante
moralismo del precedente volume, curioso libro di testo di una vacua
educazione principesca; più soda appare la Relazione della
repubblica veneziana, dettata per colmare una quasi completa lacuna
dell'opera maggiore, che apparve a Venezia nel 1605, dedicata al
doge Marino Grimani, dopo due anni di caute revisioni dei censori e
non senza mutilazioni.
Maturava in quelle settimane un infelice progetto di Carlo Emanuele
I, che decideva di inviare presso la corte di Spagna i suoi tre
figli giovinetti, vagheggiando addirittura per il primogenito la
corona dei re cattolici, visto che il regnante Filippo III, zio
materno dei principini, non aveva eredi maschi. Con stipendio di 600
ducatoni annui e funzioni di aio e segretario, il B. venne designato
a far parte, in posizione distinta, del numeroso seguito; ai primi
d'aprile la corte lasciò Torino per Mondovì, dove il 6
"il magnifico e reverendo oratore e secretario Botero" intervenne a
un'adunanza concernente l'erigendo santuario di Vicoforte; ai primi
di maggio la variopinta comitiva era a Nizza, dove il 18 si
imbarcò su una flotta di nove galere per giungere a
Barcellona il 24. Restando a fianco dei principi con paterne premure
nel triennio della loro permanenza in Spagna, il B. percorse il
paese per ogni verso, seguendo la corte a Valladolid, a Burgos, a
Valenza, ad Aranjuez, a Tordesillas. Al suo stipendio ducale si
aggiunsero nel marzo 1604 le cospicue rendite dell'abbazia di S.
Michele della Chiusa, rinunciata in suo favore dal principe
Filiberto, che ne era il beneficiario; il 3 aprile il B. ringraziava
calorosamente il duca, ma il 25 settembre lamentava di aver dovuto
racimolare ben mille scudi per pagare le bolle di investitura. Anche
Filippo III gli attestò il suo favore, concedendogli la
cappellania di S. Maria della Florana nella collegiata di S. Nazario
a Milano. Da queste soddisfazioni materiali, dagli attestati di
considerazione che illustri personaggi di corte gli tributavano non
rimasero disgiunte amarezze e preoccupazioni, sia per la cauta
sorveglianza sui giovani principi esposti a molte insidie nella
corrotta vita di corte, sia per puntigli e ripicche con i più
influenti personaggi del seguito piemontese. Ai primi del 1605 i
duchini vennero colpiti dal vaiolo e il 9 febbraio Filippo Emanuele,
il primogenito, soggiacque al male; la spedizione sabauda in Spagna,
già funestata da quella sventura, un mese dopo vide svanire
il suo miraggio, quando nacque (8 aprile) il futuro Filippo IV. Si
avviarono allora le lunghe pratiche per ottenere il ritorno in
patria dei principi superstiti, guardati ormai come ostaggi di
riguardo piuttosto che ospiti; lasciata Madrid il 14 luglio 1606, la
comitiva sbarcò a Nizza il 19 e raggiunse Torino il 17
agosto.
Rientrato così in patria, il B. si vide affidata l'educazione
dei due principi minori, Maurizio e Tommaso; visse a corte,
segretario e consigliere ascoltato, collaboratore e giudice delle
composizioni-letterarie del duca, col quale si intratteneva
familiarmente (come ricorda il Marino nel Ritratto del 1608) in
dotti conversari.
Nel 1607 il B. pubblicò a Torino I capitani (dedica al duca
del 4 luglio), adunandovi le biografie di sei condottieri
contemporanei (Francesco ed Enrico di Lorena, Enrico III di Valois,
Anne di Montmorency, Alessandro Farnese e il duca d'Alba); la
materia recente e appassionata, le tensioni religiose e politiche
prorompenti sollevano quest'opera al di sopra dell'agiografia
moraleggiante cui il B. ci aveva abituati e ne fanno un documento di
autentica riflessione storiografica, ovviamente partigiana, ma
niente affatto superficiale. Il volume reca un'appendice su I
prencipi e capitani illustri, che presenta surrettiziamente come
"saggio" d'una più vasta opera soltanto abbozzata due brevi
biografie di Emanuele Filiberto di Savoia (diversa dalla più
ampia narrazione che conclude la parte seconda dei Prencipi
cristiani) e di Carlo Emanuele I: opportunistico lasciapassare per
una opera che illustrava i più insigni capitani del tardo
Cinquecento senza accogliere nel loro consesso neppure un principe
di Savoia. Una seconda appendice aduna quattro Relazioni
supplementari inedite sulla Spagna (finalmente conosciuta de visu
nel soggiorno recente), sul Piemonte e la contea di Nizza (tributo
alla terra natia, illustrata di sfuggita nelle originarie Relazioni
universali) e finalmente sull'esotica isola di Taprobana.
Agiato, riverito, lodato, il B. si avviava ormai ad una vecchiaia
tranquilla e ritornava alle velleità e alle bravure poetiche
della sua giovinezza: nel novembre 1607 stampò a Torino le
206 ottave del poemetto La primavera, nato da una tenzone fra poeti
cortigiani sul tema delle quattro stagioni; l'opera, cosparsa di
coloriti fiori retorici, si sarebbe accresciuta negli anni seguenti:
325 stanze in più presentava una stesura manoscritta offerta
al duca il 28 giugno 1608, oltre 600 appaiono nella seconda edizione
(Torino 1609), un'ulteriore revisione è attestata dalla
stampa milanese del 1611. Nel frattempo il B. dava alle stampe una
sua fortunata raccolta di Detti memorabili di personggi illustri
(dedica al duca del 25 genn. 1608), subito ristampata a Brescia, a
Vicenza, a Venezia, e largamente rimpolpata nella definitiva
edizione torinese del 1614. Memore della sua lunga esperienza della
corte papale, il 21 luglio 1608 dettò un Discorso per
sconsigliare l'andata a Roma del principe Maurizio, il suo
quindicenne discepolo, che sette mesi prima era stato innalzato alla
porpora. L'anno dopo, in calce alla Primavera, pubblicò due
gruppi di Rime spirituali, che esprimono in forme corrette e frigide
sensi di religiosità austera e convenzionale.
Il B. si avviava così al tramonto, tornando al rigorismo
divozionale dei tempi di s. Carlo e agli ozi poetici, staccandosi da
quel mondo della politica che era pur stato il suo e allontanandosi
anche dalla spregiudicata e avventurosa politica ducale, fatta di
continui voltafaccia opportunistici, restando fedele a un suo
lealismo filoispanico che si identifica in realtà - su un
piano più sentimentale che logico - con gli ideali del
cesaropapismo asburgico di cui s'era permeato nei collegi della
Compagnia di Gesù.
Il 1610 è l'ultimo anno in cui il suo stipendio di 1.200 lire
appaia nei conti della Casa dei principi sabaudi; l'anno seguente
rinunciò a favore del card. Maurizio all'abbazia di S.
Michele, riservandosene i frutti; concluse la parte quinta delle
Relazioni e, senza pubblicarla, la dedicò al duca; aggiunse
ben 225 componimenti alle "rime spirituali" e le ristampò a
Milano col titolo Il monte Calvario, che bene esprime la contrizione
penitenziale e i sensi di fuga dal mondo che ormai lo pervadevano.
Nel febbraio 1611 erano state disseppellite a Roma, nelle catacombe
di S. Callisto, le reliquie di s. Antero papa; l'abate V. Claretta,
che era presente, ottenne di trasportarle al suo paese natale di
Giaveno; il 26 giugno a Torino i deputati di quel Comune
concordarono le opportune solennità col B., "prelato
ordinario e signore di Giaveno", e questi intervenne il 24 luglio
alle cerimonie della traslazione.
Negli ultimi anni si infittiscono le testimomanze relative alla
destinazione del suo cospicuo patrimonio: il 4 sett. 1612
prestò a censo varie somme ai collegi della Compagnia di
Gesù di Cremona e di Pavia e a alla Casa professa di Milano;
il 4 dic. 1613 convertì il prestito in donativo; il 6 maggio
1613 il generale della Compagnia p. Claudio Acquaviva accettò
un'altra sua donazione; il 25 giugno, nella casa del can. Bernardi
sita nella parrocchia di S. Tommaso in Torino, dove aveva preso
stanza, rifece il primo testamento, lasciando erede la Compagnia e
istituendo legati a favore del can. Giovanni Antonio Barroeri di
Mondovì, suo familiare e segretario, e dei poveri di Giaveno,
nonché la somma di mille fiorini per restaurare l'abbazia di
S. Michele.
Il 2 dic. 1613 il B. rinunciò alla cappellania di S. Maria
della Florana. Il 17 luglio 1614 dedicò al duca l'edizione
accresciuta dei Detti memorabili e nello stesso anno offerse al
card. Maurizio un Discorso della lega contro il Turco, che propugna
un'anacronistica crociata, ma non trascura di suggerire che il
comando dell'impresa, in caso di rinuncia dell'imperatore, venga
affidato a Carlo Emanuele I, capitano di insigne valore. In
realtà, l'innata cautela conservatrice e l'età senile
incline a consigli di prudenza l'avevano sempre più
allontanato dalle nuove strade della politica ducale, giunta ormai a
una temeraria rottura con la Spagna e ispirata da un atteggiamento
che sembrava ignorare i limiti delle forze e i rischi incombenti. Al
cadere dell'agosto 1614 il B. lasciò Torino per Savona,
adducendo motivi di salute forse intesi a velare qualche aperto
dissapore col duca; era ancora a Savona quando il Barroeri
pubblicò a Torino (8 genn. 1615) i suoi Carmina selecta, una
raccoltina di poesie latine in lode del duca e a lui dedicate;
rientrato a Torino, il 10 luglio diede in luce l'ultima sua opera, i
due libri Del purgatorio, che concludevano come un cerchio che si
chiude la meditazione penitenziale avviata in modi convenzionali, ma
con autentico fervore, negli anni giovanili. Il 4 giugno 1617
aggiunse un codicillo al proprio testamento, legando al fedele
Barroeri 4.000 fiorini e tutti i propri libri.
Morì il 23 giugno 1617; secondo le sue ultime volontà,
venne sepolto nella chiesa dei gesuiti dedicata ai SS. Martiri,
senza che memoria di sorta consenta di riconoscerne la tomba.
*
da http://davidbotti.tripod.com/index.html
Giovanni Botero, l'anti-machiavelli
Del piemontese Giovanni Botero — passato alla storia letteraria e
politica come il "Machiavelli cattolico" — le biografie forniscono
pochissime notizie, fino all'epoca in cui diede alle stampe le sue
prime scritture, già quarantenne e segretario in Milano del
Cardinale Carlo Borromeo.
Sappiamo solo che, di famiglia borghese e largamente fornita di
censo, nacque a Bene Giavenna intorno al 1540, e fu messo agli studi
in Torino nel Collegio dei Padri Gesuiti; ma non si iscrisse nella
Compagnia, preferendo far parte del clero secolare. E certo dovette
acquistarsi buona fama di virtù e di dottrina, se dal santo
Arcivescovo lombardo, fu onorato di un posto di così grande
fiducia e lo tenne con lode otto anni circa, fino alla morte del suo
illustre protettore.
Ho detto che a Milano scrisse i primi lavori dei quali abbiamo
traccia, su argomenti politici e morali: prima d'allora non aveva
composto che versi e panegirici latini, senza interesse per il
nostro studio.
Ma coi tre libri del De Regia Sapientia, affrontò arditamente
le scienze sociali e s'impose senz’altro al pubblico dei dotti, sia
laici che ecclesiastici.
Fervevano in quegli anni le discussioni sull'opera di Niccolò
Machiavelli, che era letta e studiata in tutte le Corti d'Europa; ed
alcuni levavano alle stelle la dottrina del Principe, altri e in
particolare i Gesuiti, ne condannavano l’immoralità e il
pessimismo, e avrebbero voluto bruciare sulle piazze quel libro, nel
quale ravvisavano un compendio di tutte le eresie.
Il Botero, disceso nella mischia, nel nome di una rigida ortodossia
cattolica, non poteva accettare le conclusioni dello spregiudicato
Fiorentino; ma invece di attaccarlo e di accusarlo alla cieca, come
facevano tanti del suo campo, si assunse di provare che il buon
governo dei popoli e l'arte di creare e di conservare gli stati, non
sono in alcun modo incompatibili con il rispetto e l’osservanza
della legge religiosa e morale.
Nel De Regia Sapientia, scrivendo da teologo, pose le basi della sua
teoria dello Stato: Iddio da’ i regni solo a chi ne è degno:
li conserva a chi osserva i suoi comandamenti, e li toglie o li
guasta a chi se ne allontana; la vittoria e il successo sono nelle
sue mani.... È la fiducia nella Provvidenza, fattore decisivo
nelle vicende storielle, che ritroveremo in De Maistre e in De
Bonald; il bene tende sempre a realizzarsi; e in ultimo, malgrado le
apparenze, i "meglio intenzionati" risultano i più abili....
Teoria che non esclude l'attività più gagliarda e
l'uso tempestivo di tutti i mezzi leciti nelle lotte terrene.
Ma il De Regia Sapientia, posti questi principii, non ne mostrava
ancora le applicazioni pratiche: era l'introduzione a un'opera
più vasta; i dieci grossi libri della Ragion di Stato da lui
dati alle stampe solo sei anni dopo. nel l589.
Nel frattempo era morto S. Carlo Borromeo, e a Giovanni Botero,
rimasto senza impiego, il Duca di Savoia, Carlo Emanuele I. grande
figura di guerriero e di politico ed avvedutissimo conoscitore di
uomini, aveva affidato una importante missione.
Si trattava di stringere accordi con la Lega Cattolica di Franchi
che combatteva contro gli Ugonotti. e preparare — in caso di
estinzione della casa regnante di Valois — la successione del
Principe sabaudo, che vantava diritti, più o meno fondati,
sulla Corona dei Gigli.
II prete piemontese fu ben lieto di poter servire utilmente il suo
signore, e passò in Francia nel 1585, recandosi a Parigi e
alla Corte dei Guisa, e seguendo l'esercito cattolico nelle sue
marce attraverso le provincie devastate e sconvolte dalla guerra
civile. Detestava Calvino e i suoi seguaci, e, ammesso nei consigli
della Lega, non mancò di proporre le misure più
energiche per estirpare l'eresia.
Tutti i mali di cui soffriva la Francia erano derivati
dall'empietà ugonotta; né il Regno avrebbe potuto
sollevarsi dall'abisso nel quale era caduto, se prima non si fosse
cancellata la lebbra dell'errore. E poiché i protestanti,
nella loro protervia, erano sordi ad ogni persuasione, bisognava che
il braccio secolare provvedesse a disperderli e a schiacciarli.
Gli infedeli, i gentili delle contrade barbare, si possono trattare
con indulgenza, perché non sono colpevoli della propria
ignoranza; ma per questi ribelli non vi sono attenuanti. Mossi
soltanto da un orgoglio satanico, si sono sottratti all’obbedienza
di Roma, e a quella dei legittimi sovrani, si sono levati in armi
contro il Re Cristianissimo, e contro l'Imperatore Apostolico, si
sono accinti a sovvertire gli Stati e vogliono darli in preda
all'anarchia: vanno colpiti senza debolezza. Il modo tenuto da
Caterina de’ Medici nella famosa notte di S. Bartolomeo per
sbarazzarsi dei calvinisti armati che minacciavano il Re fino in
Parigi, non gli sembra immorale o scandaloso: era un atto di savia
prevenzione, una operazione chirurgica ardita, legittimata e imposta
dinanzi ad ogni coscienza cattolica dalla suprema necessità
di difendere la Religione e lo Stato.
Tornato di Francia e riferito ai Duca il risultato delle sue
osservazioni e i messaggi dei capi della Lega, il Botero fu assunto
a consigliere dal Conte Federico Borromeo, che sulle tracce
dell'illustre zio aveva scelto la carriera ecclesiastica e si recava
a Roma per diventare cardinale.
Anche a fianco del giovane prelato, in mezzo agli intrighi della
corte papale, diede prova di grande accorgimento, conducendo a buon
fine la delicata impresa. Il Conte Federico ebbe la porpora a
ventitré anni, e — come poi si vide — ne era degno.
Ma il Botero non volle seguirlo a Milano; mise da parte ogni altra
occupazione, per dedicarsi interamente all'opera che doveva farlo
illustre, e restò a Roma a scrivere la sua Ragion di Stato,
destinata a mostrare — come spiega nella Dedica — "le vere e reali
maniere, che deve tenere un principe per divenire grande e per
governare felicemente i suoi popoli", dando "notizia dei mezzi atti
a fondare, conservare ed ampliare un dominio".
Voleva insomma, come ho già accennato, proporre ai Principi
un modello migliore di quello offerto loro da Niccolò
Machiavelli; ugualmente capace di alte imprese, ma non intinto di
spirito pagano e non estraneo alla pratica delle virtù
cristiane, non meno necessario a un reggitore di uomini che a un
semplice privato. Anzi affermava che il Principe, per imporsi al
rispetto dei sudditi, doveva mostrarsi in ogni campo più
virtuoso che la media degli uomini, perché "niuno si sdegna
di ubbidire e di star sotto a chi gli è superiore, ma bene a
chi gli è inferiore od anche pari".
E s'intende che, prima fra le virtù dei Monarchi, egli pone
il rispetto ed il timore di Dio. e il servizio devoto della Chiesa.
Laddove il Fiorentino, cattolico mediocre, faceva della fede un
"instrumentum regni" nelle mani di un Principe tutt'altro che
ortodosso, il Piemontese vuole che lo Stato sia "instrumentum
ecclesiae", sotto la guida di un "defensor fidei", rappresentante
del Signore in terra, sotto l'alto controllo del Papa, suo
Vicario....
Allo Stato, pensato come fine a se stesso, si contrappone lo Stato,
inteso come mezzo per far entrare e mantenere i popoli nell'ordine
cattolico e romano. Ma si capisce che perché lo Stato possa
bastare a un tal compito, occorre che sia forte, prospero ed
agguerrito, omogeneo all’interno e rispettato all'estero. E nella
parte pratica della sua trattazione, che si occupa dell'arte di
governo, il Botero si trova molto spesso d'accordo con Fautore del
Principe.
Le virtù più essenziali del monarca, sono per lui la
prudenza, la giustizia. la liberalità ed il valore. Prudente
affinché sappia governarsi nel mare infido della diplomazia,
e soprattutto tenere la bilancia fra gli avversi partiti.
"Giacché — egli scrive, — un Principe che avendo lo Stato
diviso in due fazioni, più per l’una che per l’altra senza
necessità si dichiara, lascia il grado e la persona di
Principe e si fa capo di parte".
Giusto, nei suoi rapporti con i sudditi, quando ne abbia ottenuto il
necessario a mantenerli e a difenderli. "non li lascerà
straziare con gravezze insolite e sproporzionate alle loro
facoltà, né consentirà che gravezze convenienti
sieno da' ministri acerbamente esatte"; li proteggerà
dall’usura e dai rischi della speculazione, che fa "lasciare
all’artegiano la bottega, al contadino l'aratro e al nobile vendere
la sua nobiltà e metterla in danaro" ; li castigherà
quando occorra, esemplarmente, come Dio "il quale col tuonare spesse
volte cagiona agli uomini paura e terrore senza danno; ma
acciocché i tuoni non perdano il credito, per non far mai
colpo, fra i mille tuoni saetta qualche volta e per lo più
qualche cima d’albero o giogo di monte".
Liberale, saprà dare largamente e non tanto ai signori e ai
cortigiani turbolenti e faziosi, quanto alla plebe lacera degli
umili, oppressa e taglieggiata dai potenti: giacché non vi
è "alcuna opera né più regia né
più divina che il soccorrere i miseri, conciosiachè
celebratissima sopra ogni altra cosa nella Scrittura si è la
misericordia di Dio e la cura e la protezione, ch'egli si prende
degli afflitti e de' poveri".
Valoroso, ed esperto in tutti gli esercizi del corpo, deve saper
condurre nelle imprese guerresche il suo esercito e porre ogni suo
studio nell’ordinare la milizia e nel mantenere la disciplina che
è "l’arte di far buono il soldato, e buon soldato è
colui che obbedisce con valore".
Il Monarca, fornito di tutte queste doti saprà tenere
saldamente in pugno le sorti del gregge affidatogli da Dio; e non
gli verrà meno l'affezione dei sudditi.
Del resto, se per caso costoro si mostrassero disubbidienti e
riottosi; e ciechi — come accade — ai benefizi di un'autorità
forte, non mancano i mezzi per ridurli al dovere....
Il Botero in proposito si esprime chiaramente: "Io sono di parere
che per la sicurezza degli Stati e de' Prencipi loro, miglior cosa
sia la severità del governo che la piacevolezza e la paura
che l’amore".
Egli non crede alla forza di un redime subordinato al consenso ed
all'accettazione spontanea dell'universale: "Non è forma di
Governo più incerta e fallace". " .... I cittadini di una
repubblica — scrive — sono tirati dai loro particolari interessi nel
mentre che il Principe non ha altro interesse all’infuori del bene
comune dello Stato".
La sola Repubblica per la quale fa eccezione è quella di
Venezia che essendo autoritaria e aristocratica partecipa ai
caratteri essenziali delle monarchie ereditarie: la
continuità e la durata.
È difficile dare in poche pagine un riassunto completo della
Ragion di Stato, piena com'è di lunghe digressioni su questo
o quell’aspetto della politica regia, con frequenti richiami a
esempi storici, presentati nel modo più opportuno per
confortare la tesi dell'autore. Si occupa dei commerci, delle
fortificazioni, dei mezzi adatti ad imbrigliare gli eretici,
riguardo ai quali osserva acutamente che "il cambiare religione
può esser di qualche utile a un particolare ed è
contro il bene pubblico, quindi avviene che una città libera
abbraccia più facilmente l'eresia che un principe assoluto":
consiglia ai governanti di cercare all'esterno un diversivo per i
contrasti interni: "la Spagna è in somma quiete perché
si è impiegata in guerre straniere e in imprese remote nelle
Indie e nei Paesi Bassi.... La Francia, stando in pace con gli
stranieri, se rivolta contro sé stessa e gli animi sono pieni
di furore e di rabbia"; raccomanda il possesso di colonie oltremare
per dare terre e pane al sopravanzo della popolazione; e, contro
l’opinione dominante ai suoi tempi, vuole che le imposte regie
colpiscano proporzionatamente tutte le proprietà dei privati
non siano personali, ma reali, cioè non su le teste, ma su i
beni, altrimenti tutto il carico delle taglie cadrà sopra de’
poveri, come avviene ordinariamente, perché la nobiltà
si scarica sopra la plebe e le città grosse sopra i contadini
"l'agricoltura dev'essere
Favorita" e si deve "far conto della gente che s’intende di
migliorare e fecondare i terreni e di quelli i cui poderi sono
eccellentemente coltivati", perciò da lode ai Duelli di
Milano che scavando canali irrigatori "hanno arricchito sopra ogni
credenza quel felicissimo contado": è avverso alle milizie
mercenarie, che "vendono a guisa di mercatanti e di bottegai di poca
fede l’opera loro piena di infinita tara di mille paghe morte o
truffate, o di gente a buon mercato e perciò di poco valore e
mal condizionata": si dilunga sull'arte militare, sulla scelta delle
armi per i cavalieri ed i fanti....
La Ragion di Stato e le Aggiunte che ad essa tennero dietro: Della
eccellenza dei grandi capitani; Della neutralità; Della
reputazione del Principe; oltre alle Relazioni universali che il
Botero, veniva pubblicando sui vari Stati di Europa, quasi ad
illustrazione ed a commento delle sue teorie di governo, gli valsero
fama e considerazione grandissima, non solo a Roma. nell'ambito
della Corte pontificia, ma presso i principali potentati nazionali e
stranieri; tanto che il Duca Carlo Emanuele volle chiamarlo a
Torino, per affidargli l'educazione dei suoi tre figli, ancora
giovinetti.
Don Giovanni Botero, da buon suddito, non esitò ad obbedire e
benché forse gli pesasse un poco di perdere la sua cara
indipendenza e di interrompere i suoi studi prediletti, tornò
in Piemonte dopo quindici anni di assenza, e si accinse con zelo
coscienzioso ad assolvere il compito che gli avevano assegnato.
Egli del resto aveva sempre professato che "un privato non
può l’opera e il saper suo meglio impiegare che in servire o
di consiglio o di aiuto a quegli a cui Dio ha la cura dei popoli e
l’amministrazione delle città confidato".
Ora la sorte gli offriva l'occasione di porre in atto questo suo
principio preparando e plasmando per le responsabilità del
comando la mente ed il carattere di futuri sovrani.
Alla corte di Carlo Emanuele, il nuovo precettore visse circa
quattro anni e seppe così bene accattivarsi l'affezione dei
principi e la fiducia del Duca, che quando nel 1603 i suoi allievi
dovettero partire per la Spagna, invitati a passare qualche tempo
alla corte del Re Filippo III. egli fu scelto per accompagnarli.
Il soggiorno durò quasi tre anni e si sarebbe forse
prolungato, se la tragica sorte del principe Filippo, rimasto
vittima di una epidemia di vaiolo, non avesse indotto il Duca padre
a richiamare presso di sé i due superstiti. Vittorio Amedeo e
Filiberto.
Dopo il ritorno in Piemonte l'illustre precettore che fra le cure
pedagogiche e di corte non perdeva di vista la politica e dalla
Spagna aveva mandato a Torino molte informazioni preziose, fu
promosso alle cariche onorevoli e ambite di Consigliere e Primo
Segretario dei Duchi di Savoia.
E non furono vane sinecure: ché il Sovrano teneva in alta
stima il senno e l'esperienza dell'Abate Botero, e lo consultava
spessissimo sugli affari di Stato.
Aveva allora molta carne al fuoco, l'ambizioso Signore montanaro che
vedeva lontano, grande ed alto, e pensava all'Impero, ed ai Regni di
Macedonia e di Cipro, alla Provenza ed alla Lombardia come alle
splendide possibili poste di una grande partita!
Di tutto ciò trattava col Primo Segretario negli intimi
colloqui a palazzo, o per lettere; e discuteva se colui
familiarmente anche di storia e di letteratura, sottoponendo al suo
esame e al suo giudizio gli scritti in versi e in prosa di cui si
dilettava nei momenti di svago.
Anche il Botero aveva ripreso a scrivere e diede fuori in quegli
anni alcune aggiunte alle sue Relazioni; e un'opera sui Principi
Cristiani, "ove nelle azioni di ottimi e valorosissimi Re la pratica
e l’uso di essa ragione di Stato quasi pittura al suo lume si
scorge"; a cui segue una storia della Casa Sabauda dai tempi di
Beroldo fìno al Duca regnante.
Dello stesso periodo sono un trattato didattico sui Grandi Capitani:
un Discorso sull’Eccellenza della Monarchia in cui riprende e
illustra le idee che già sappiamo, ed un Discorso della
Nobiltà, in cui mostra di anteporre l'aristocrazia militare a
quella civile o togata "perché la toga non è
così efficace e pronta all’operare come la spada in tagliare
i nodi gordiani e le difficoltà che si sogliono nelle alte
imprese attraversare" ; ed ancora poemetti e dissertazioni diverse,
sempre in lode del Duca e del Piemonte, produzioni di gusto
secentesco per la ricerca preziosa dei concetti, ma tuttavia
eleganti ed aggraziate.
Il suo ultimo scritto politico è del 1611: il Discorso sopra
la lega contro il Turco, alla cui testa sognava il suo Signore,
breve lavoro che tradisce in qualche punto la grave età
dell'autore, già più che settantenne.
Sentendosi ormai prossimo alla fine il vecchio infaticabile
scrittore cominciò a distaccarsi dalle cose terrene e
rinunziò alla ricca abbazia di S. Michele in favore
dell'ultimo dei suoi augusti discepoli, il Cardinale Maurizio di
Savoia; nel tempo stesso cedette a Don Luigi Cid, Cappellano di Sua
Maestà Cattolica, un lauto benefizio che possedeva in Milano,
e fece testamento istituendo erede universale il Collegio dei
Gesuiti in Torino, dove aveva
studiato giovinetto e nella cui chiesa voleva esser sepolto.
Non s'ingannava nei suoi presentimenti ed il 23 Giugno 1617 si
spense.