Botero Giovanni


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Scrittore politico (Bene, od. Bene Vagienna, 1544 - Torino 1617). Gesuita dal 1560, lasciò nel 1580 l'Ordine per urti coi superiori; dal 1582 divenne segretario di s. Carlo Borromeo. Nel 1585 fu in Francia, incaricato da Carlo Emanuele I d'una missione segreta. Tornato in Italia accompagnò Federico Borromeo giovinetto a Roma, e quivi si stabilì per 14 anni, pur facendo frequenti viaggi in Italia e in Europa, per incarico specialmente della Propaganda Fide. Richiamato nel 1599 a Torino da Carlo Emanuele, fu per otto anni precettore dei figli di questo. Poi fu lasciato libero di attendere ai suoi studî.

Attento lettore del Machiavelli e di J. Bodin, espose le sue idee politiche, dopo un primo abbozzo (De regia sapientia, 1583), nella opera sua più famosa, Della Ragion di Stato, in 10 libri (1589), cercando in essa di affermare la supremazia dei valori etici e religiosi sulle istanze utilitarie della politica, che tuttavia finiva poi per riconoscere come di fatto operanti nella prassi, lasciando così quei valori etici sul piano di una pura esigenza teorica. La grande fortuna dell'opera, più che all'impianto dottrinale, è legata all'espressione ricca e sistematica dei problemi relativi alla nascita dello stato moderno, da quelli fiscali e tributarî a quelli militari, a quelli giuridici ed economici. Questi ultimi già oggetto di un'agile e penetrante operetta (Delle cause della grandezza e magnificenza delle città, 1588), furono ripresi e ampliati nelle Relazioni universali (ed. completa, in 4 parti, 1596; una 5a parte è stata pubbl. solo nel 1895), organico repertorio di antropogeografia ricco di notizie sulla configurazione fisica, demografica, militare e politica di tutti gli stati del mondo. L'opera divenne un vero e proprio manuale geopolitico della classe dirigente europea e consolidò definitivamente la sua fama.

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DBI

di Luigi Firpo

Nacque nel 1544 a Bene (Cuneo), oggi Bene Vagienna, l'antica Augusta Bagiennorum, terra del duca di Savoia. Il padre Francesco era di modesta condizione; della madre si ignora il nome; la sorella Caterina e un'altra, innominata, si sposarono oscuramente con Guglielmino Vicino e Sebastiano Valente, dando vita a una discendenza numerosa, cui lo zio non lesinò soccorsi finanziari e protezione. Quando era ormai lontano dalla terra natia, il B. adottò lo stemma di un omonimo casato patrizio benese (spaccato d'azzurro e d'uno scaccato di nero e d'argento) e ne fregiò il proprio sigillo.

La data di nascita venne a lungo assegnata al 1540, perché un ritratto oggi conservato nel municipio di Bene reca la scritta: "Ioannes Botterus Bennensis, anno 1603, aetat. 63, abbas". Si tratta comunque di una dicitura tarda e inesatta (nel 1603 il B. non era ancora abate), non meno di quella che su un altro ritratto recenziore, conservato in Torino al cadere dell'800 da Ernesto Bottero, faceva risalire la nascita al 1533.

L'infanzia del B. trascorse in un Piemonte occupato e saccheggiato da Francesi e Spagnoli, e Bene stessa nel '52 fu difesa dai primi e invano assediata dai secondi. Il primo documento che fa menzione di lui è del 1559 (proprio l'anno in cui Emanuele Filiberto ricupera il suo stato e inizia un'avveduta opera di ricostruzione), quando lo si ritrova all'altro capo d'Italia, studente quindicenne nel collegio della Compagnia di Gesù in Palermo, dove lo aveva chiamato uno zio paterno, il p. Giovenale, pio e stimato sacerdote, professo ormai da un decennio, che si spense improvvisamente il 25 novembre di quell'anno, in concetto di santità. Il 5 settembre successivo il B. era ancora a Palermo, certo al fine di ultimare l'anno scolastico, dedicato allo studio della retorica e del greco (nel quale fece anche in seguito scarsi progressi), ma il 28 ott. 1560, cadute le ragioni che l'avevano chiamato in Sicilia, lo si trova nel Collegio Romano, ammesso alla prova per l'ascrizione alla Compagnia e studente di dialettica in un corso nel quale ebbe a compagno Roberto Bellarmino.

Nel maggio 1561 il B. è ancora a Roma, studente del primo corso di logica e già apprezzato dai superiori per le sue precoci doti di verseggiatore latino, che la Compagnia metteva in valore quale strumento di penetrazione tra le classi colte e facoltose, inclini ai trattenimenti letterari; ma sin da quei primi anni il B., con la sua complessione esile e malaticcia, col temperamento nevrotico, dovette mettere in luce un caratterino difficile, tutto irrequietezze e puntigli, propenso al mormorio e all'intrigo, tanto che i superiori, certo per punizione, lo spedirono a insegnare precocemente la retorica nel piccolo collegio umbro di Amelia. Vi restò un anno, amareggiato e contrito, dopo di che si pensò di mandarlo in Francia, poi a Loreto (21 sett. 1562) e, quando già era per via, ebbe l'ordine di fermarsi a Macerata come insegnante dei fanciulli della primaclasse. Là si distinse per la sua facilità nel comporre epigrammi, discorsi, versi di vario genere; recitò nell'apertura dello Studio pubblico un'orazione in lode delle sette arti liberali e vi tenne un corso sulla Rhetorica di Aristotele; ma in realtà era amareggiato, irrequieto e insisteva per tornare a Roma a continuare gli studi. Dovette invece restarsene in quarantena per un secondo anno, afflitto da malanni di salute, dettando le litterae quadrimestres del collegio di Macerata (27 gennaio, 30 maggio), poi quella del vicino collegio di Loreto (1º settembre), traboccanti di unzione convenzionale e precocemente rivelatrici di quella che fu poi sempre nel B. un'attitudine a immedesimarsi nella propria parte e a viverla con una fedeltà che sconfina nel mimetismo, tanto sul piano del costume e dell'agire quotidiano quanto su quello della trasposizione letteraria.

Fin dal 31 luglio s. Francesco Borgia aveva riconosciuto che un uomo dalle qualità retoriche del B. era sciupato in un piccolo centro, sicché nel settembre venne finalmente richiamato a Roma. Preso da uno dei suoi ricorrenti slanci di fervore missionario egli chiese allora di essere inviato a combattere gli eretici in Germania, ma si preferì trattenerlo per due anni nel Collegio Romano a studiar filosofia naturale sotto la guida del p. Diego Acosta. Ormai ventunenne, nel maggio 1565 fu destinato ad insegnar retorica in uno dei collegi di Francia, e nell'agosto, compiuti gli studi, mosse alla volta del collegio di Billom, antico centro universitario in Alvernia, presso Clermont, dove però, per difetto di docenti, gli toccò insegnare non già retorica, bensì filosofia. Vi rimase due anni, conducendo la solita vita, componendo rappresentazioni sceniche edificanti e carmi encomiastici: tre di questi, assegnabili al 1566, in onore del medico J. Post, sono conservati nei Parerga di quest'ultimo (Würzburg 1580).

Da quell'isolamento provinciale lo strappò, verosimilmente nell'autunno del '67, la destinazione al collegio di Parigi, di cui vergò (1º maggio 1568) la littera quadrimestris. La città ricca e popolosa offriva suggestioni innumerevoli e vivaci stimoli culturali al giovane professore di retorica intento allora a comporre in lode dei Guisa, capi del partito cattolico, un poema epico latino sulla prima crociata, una "Gottifreide" o Hierosolima, che rimase incompiuta e di cui ci restano solo i 61 versi che l'autore trascrisse molti anni dopo nel suo De regia sapientia (Mediolani 1583). La città, fervida di arti e di commerci, dovette offrire sin d'allora al B. largo materiale per le sue future analisi politico-economiche, ma le beghe interne e i maneggi del collegio non tardarono a pregiudicare gravemente la sua posizione. Intrighi e pettegolezzi, in larga misura suscitati o rinfocolati dal B., si rivolgevano soprattutto contro gli "stranieri", cioè gli influentissimi padri spagnuoli che reggevano la Compagnia in posizioni di marcato predominio, tanto che a Roma nel giugno 1569 si giunse alla determinazione di allontanare cautamente il maggior responsabile, farlo rientrare in Italia ed espellerlo poi senza scandalo. Un ordine del 30 settembre ingiunse al B. di prender la via di Lione e di recarsi a Bologna, ma, nelle more, un qualche ripensamento e la considerazione delle sue doti d'ingegno indussero i superiori a meno severo partito, perché l'espulsione non ebbe luogo ed egli venne assegnato al collegio di Milano, nelle case presso S. Fedele che i gesuiti avevano occupato due anni prima, chiamati da S. Carlo Borromeo per istituire il seminario.

Vi trascorse quattro anni, poveri di eventi esterni, occupati dai consueti corsi di retorica, dagli studi filosofico-teologici, dalle esercitazioni letterarie: il 14 genn. 1570 era già nella sua nuova sede; il 26 sett. 1571 venne giudicato maturo per l'ordinazione sacerdotale, ma il 13 ottobre il vicario generale della Compagnia Girolamo Nadal, memore dei recenti trascorsi, giudicava che fosse opportuno soprassedere.

In effetti, si ignora la data della sua promozione agli ordini maggiori, ma questa dovette seguire non molto più tardi, perché un documento del 4 dic. 1574 attesta che già celebrava la messa. Frutto d'una errata lettura è la notizia tramandata dai biografi che il B. componesse la narrazione del conclave brevissimo di Gregorio XIII (12-13 maggio 1572), poco significativo di per sé e che non sarebbe stato possibile compilare su notizie di seconda mano, standosene a Milano: la fonte va intesa nel senso che il B. scrisse poi, molti anni più tardi (1590) e come testimone oculare, del conclave di Gregorio XIV.

Nel 1573, in epoca imprecisata, il B. venne trasferito a Padova a studiare teologia e vi restò quattro anni, legandosi di affettuosa amicizia con l'erudito Gian Vincenzo Pinelli, col quale intrattenne poi un dotto carteggio e in onore del quale dettò, probabilmente nel 1577, il poemetto Otium honoratum stampato nell'83 in calce al De regia sapientia. Quando Enrico di Valois venne eletto re di Polonia (9 maggio 1573) il B. compose un carme di esultanza di 355 esametri latini e lo inviò al canonico Pietro Kostka, il quale ai primi d'agosto lo fece stampare a Cracovia.

I progressi del B. nello studio erano tali che nell'aprile 1574 i superiori già lo ritenevano idoneo a tenere un corso di Sacra Scrittura, ma erano sempre le sue attitudini letterarie ad attirargli i maggiori consensi sottoponendolo nel contempo a continue e fastidiose richieste di una produzione occasionale, ora edificante, ora encomiastica, di cui doveva cominciare a sentire disgusto. Così quando, nel novembre 1574, ricevette l'incarico di comporre una "comedia" sull'imperatore Costantino, ch'era stata richiesta da Alberto V di Baviera, gran protettore dei gesuiti in Germania, ebbe uno dei suoi moti di stizzita ribellione e accampò difficoltà, chiese agevolazioni, lamentò la cattiva salute, per mascherare un rifiuto che rivela l'estenuarsi di quella sua artificiosa vocazione di verseggiatore. Un altro segno di rottura, forse velleitaria, ma rivelatrice di uno scontento profondo per quella sua vita sedentaria e libresca, è la sua inascoltata richiesta (Padova, dicembre 1575)di essere inviato nelle missioni. Ancora a Padova, nel '77, concluse con profitto gli studi teologici, ma non poté sostenere l'esame di laurea per la temporanea chiusura dell'Ateneo in conseguenza della peste, e l'11 ottobre venne nuovamente destinato a Milano, ma trascorse poi l'inverno a Genova, per un incarico temporaneo imprecisato, e di là, il 30 novembre, rinnovò senza successo la domanda di essere inviato missionario in America. Al cadere di febbraio 1578 lo si ritrova ancora a Genova, ma poco dopo dovette rientrare stabilmente a Milano con funzioni di lettore di Sacra Scrittura.Nell'ottobre l'arcivescovo Borromeo lo incaricò di redigere per proprio uso un parere negativo al quesito sottopostogli dalla Curia romana: se al settantenne cardinale Enrico di Portogallo, salito al trono per la morte in battaglia di re Sebastiano (4 agosto), fosse conveniente e lecito prender moglie. Un documento del 22 novembre rivela la viva impazienza e irritazione del B. nel vedersi escluso, dopo quasi vent'anni di appartenenza alla Compagnia, dalla definitiva professione dei voti solenni: in realtà, incidenti occasionali e il suo stesso contegno intrigante e fazioso, esasperato dal malcontento e dall'umiliazione, stavano allora accentuando le diffidenze dei superiori.

Nella primavera del 1579 venne recitata nel seminario milanese, durante la refezione e alla presenza di s. Carlo, una lezione del B. sul salmo II, nella quale egli negava l'autorità temporale di Cristo sul mondo prima della passione. Il santo, che era allora in grave disaccordo con i gesuiti milanesi, se ne risentì vivacemente, e, per troncare gli strascichi incresciosi, il 10 settembre fu deciso di rimandare il B. in patria, assegnandolo al collegio di Torino; il 24, quando già aveva raggiunto quella sede tanto più periferica e sgradita, la professione dei voti gli venne ancora una volta negata, mentre un superiore lo definiva "persona... che s'accomoda più presto per prudenza umana che divina". Il lungo malcontento, l'orgoglio ferito, l'insofferenza esplosero nel marzo 1580, quando si deliberò di spedire il B. alla "missione" di Saluzzo, dove le infiltrazioni ugonotte favorite dal dominio francese s'erano fatte preoccupanti: ritenendosi perseguitato e misconosciuto, egli si abbandonò a proteste clamorose e minacciò di appellarsi a Roma. Il 12 luglio, quando già i superiori erano decisi a liberarsi di lui e ad agevolare con benevolenza il suo allontanamento, i tentativi di ridurlo a miti consigli fallirono, egli mise a rumore il Collegio e finì per venire rinchiuso in cella; diede allora in escandescenze, poi, abbattutto e pentito, chiese perdono. Soffocato lo scandalo con due mesi di detenzione, ai primi di settembre venne estromesso dalla Compagnia e, ammazzato, depresso, senza risorse, se ne tornò a Milano.

Là trovò insperato appoggio proprio in s. Carlo, che già nel novembre gli assegnava, in un isolamento propizio, un posto di vicecurato a Luino: era un rifugio per i necessari ripensamenti e un'occasione per passare dalla retorica all'apostolato. Il 30 nov. 1580 egli chiese di venire dimesso senza infamia dalla Compagnia di Gesù, nella quale aveva militato per 22 anni, e il 12 dicembre ottenne la patente che attestava la sua uscita onorevole quale dimissionario; più tardi aderì alla Congregazione degli oblati, fondata da s. Carlo.

Iniziava così, dopo il naufragio, una nuova esistenza all'ombra di una personalità dominatrice e dinamica come quella del Borromeo, che ne disciplinò il carattere, lo plasmò con l'esempio, lo animò con gli ideali della restaurazione cattolica interpretati in chiave di sollecitudine pastorale, di apologetica battagliera e di severo ascetismo; per parte sua il B. rispose con duttilità estrema, ponendo in atto quella sua capacità singolare di recepire le istanze dell'ambiente e di uniformarvisi, senza ipocrisia, con un mimetismo che non esclude l'autenticità del consenso.

I problemi del B. furono dapprima quelli della cura d'anime: organizzazione pastorale, visite di monasteri, edilizia ecclesiastica; il 30 maggio 1581 è ancora a Luino, ma promosso vicario foraneo; il 28 febbr. 1582 partecipa a Treviglio a una congregazione di vicari e vi predica nella quaresima; in tale occasione il vescovo di Novara Francesco Bossi gli offre l'incarico di penitenziere, che egli, per non dispiacere a s. Carlo, rifiuta. Il 4 luglio presenta al Borromeo il frutto di quei mesi di raccoglimento: la prima stesura del De regia sapientia, un trattatello politico fitto di esempi edificanti come i vecchi specula principum, ma che acutamente individuava nel machiavellismo (e nel suo travestimento cauto sotto le spoglie del tacitismo) la perdurante antitesi con l'etica cristiana restaurata dal concilio di Trento; l'opera, dedicata a Carlo Emanuele I di Savoia, vedrà la luce a Milano ai primi dell'anno seguente. Il 19 luglio si laurea in teologia a Pavia e viene nominato "reggitore e moderatore" dell'Accademia degli Accurati, ivi fondata da un giovinetto nipote di s. Carlo, che vi era studente: il futuro cardinale Federico Borromeo. Reduce da una scappata in Piemonte, il 13 agosto si vede costretto a partire per Genova con lo sgradito ufficio di coadiutore in una visita apostolica; depresso, forse stanco di uffici umili e periferici, ha una delle sue solite crisi, chiede invano di rientrare nella Compagnia di Gesù, supplica per essere richiamato a Milano e il 22 settembre, simulando un malinteso, vi torna a suo rischio e ottiene finalmente di restare a fianco di s. Carlo, con funzioni di segretario e famiglio, accompagnandolo anche in un viaggio a Roma e in una sosta a Loreto.

Il B. trascorse a Milano il biennio 1583-84 accanto agli altri numerosi collaboratori del santo, taluni più intimi e autorevoli di lui, cooperando all'opera di restaurazione della diocesi, componendo lettere latine a principi e prelati, studiando questioni teologiche e giuridiche. Nel novembre 1583, invitato a predicare sulle lettere paoline in S. Sepolcro, ricusa il tema troppo compromettente e predica l'avvento in S. Stefano; nel carnevale dell'84 fa recitare nel collegio Borromeo di Pavia una rappresentazione sacra; il 20 maggio dedica al giovinetto Andrea Báthory, nipote del re di Polonia e destinato poche settimane più tardi alla porpora, i cinque libri Del dispregio del mondo, cui allega nella stampa due prediche Del regno di Cristo e Della guerra vinta da' santi offerte il 30 aprile a F. Borromeo; il 28 agosto si reca a Lodi a incontrare il Báthory; sempre a Milano pubblica anche sei prediche sul Vangelo domenicale, col titolo Prima parte dell'Avvento ambrosiano (dedica del 17 ottobre al card. Agostino Valier).

Questa nuova esistenza del B., così palesemente caratterizzata dagli ideali di ascetismo severo e di fattiva riorganizzazione ecclesiastica di s. Carlo, viene bruscamente spezzata il 3 nov. 1584 dalla morte del santo. Ritiratosi, quasi scampato da un "naufragio", in casa dell'ab. Arrigo da Cannobio, l'11 novembre indirizza al Báthory una lettera latina, descrivendo con accenti di unzione, ma altresì con vivace realismo, gli ultimi giorni e il trapasso del Borromeo; il documento, avidamente ricercato, ebbe larga diffusione popolare: in un mese e mezzo ne apparvero non meno di tredici edizioni (che l'autore ripudiò come abusive e scorrette), parte nel testo originale, parte nella versione italiana di C. Peraccini. Nei medesimi giorni B. dettò pure una relazione italiana dei medesimi avvenimenti, molto più ampia e minuziosa, indirizzata al proprio ordinario, cioè al card. Vincenzo Lauro vescovo di Mondovì, stampata anch'essa a Milano ai primi dell'85.

Al cadere dell'anno, in ritiro sul Sacro Monte di Varallo, diede compimento ai cinque libri del De praedicatore verbi Dei, un tipico trattatello germogliato nella temperie della Curia milanese; da essa lo strappava ai primi del 1585 un invito del march. Filippo d'Este, luogotenente di Carlo Emanuele I di Savoia, che offriva al B. un'imprecisata missione diplomatica in Francia, accanto all'ambasciatore ufficiale, il noto scrittore politico bressano René de Lucinge signore des Allymes, probabilmente per prendere contatti non appariscenti con esponenti della Lega cattolica. Ancora prima di ottenere il consenso del nuovo vescovo di Milano Gaspare Visconti (che venne concesso il 24 febbraio), il B. partì; il 25 febbraio era già a Lione, il 30 marzo intervenne forse al convegno di Péronne, il 25 agosto era con la corte a St.-Maur poco a est di Parigi, il 26 dedicava al Lauro l'edizione parigina del De praedicatore;poco dopo vedeva uscire a Parigi a opera del Lucinge la traduzione francese del Dispregio del mondo e vi stampava ancora, nell'ottobre, due libri Epistolarum, comprendenti un centinaio di brevi lettere di complimento e di edificazione dettate per conto, di s. Carlo nel biennio 1583-84; un libro III accoglie cinque Epistolae theologicae del B. dettate per documentare il Lucinge sulle controversie in corso tra cattolici e ugonotti; l'ultima, diretta al cardinale Antonio Carafa, tratta dei presunti vestigi e precorrimenti del culto cristiano trovati dai primi navigatori in Asia e in America e documenta l'affiorare degli interessi da cui sarebbe nata l'immane compilazione delle Relazioni universali;per il suo carattere divozionale ed esotico questa lettera ebbe autonoma fortuna: una versione italiana di Angelico Fortunio venne stampata a Roma nel 1588.

Al di là di questa connessione palese, l'anno trascorso dal B. in Francia fu decisivo per la maturazione della sua più autentica vocazione politica; non era più il retore giovinetto, che vi aveva soggiornato vent'anni prima, inseguendo gloriuzze poetiche e puntigli di sacrestia: nel cuore di un paese lacerato da una profonda crisi confessionale e di potere, straziato da guerre civili, impegnato in un dibattito ideologico da cui svettavano le tesi radicali dei monarcomachi e la recente sintesi del Bodin, egli ebbe larghe occasioni di registrare esperienze e di approfondire una meditazione che gli riusciva finalmente congeniale.

Il 6 dic. 1585 prese commiato dal Lucinge e si avviò alla volta di Milano con un lodevole benservito. Qui trovò nuova sistemazione presso i Borromeo, perché Margherita Trivulzio, madre del poco più che ventenne Federico ormai avviato alla carriera ecclesiastica, decise di affiancarlo al figlio, con ufficio di aio e consigliere, perché gli facesse da nocchiero tra le secche e gli scogli della corte romana. Lo si ritrova perciò a Pavia (24 giugno 1586) accanto al suo nobile discepolo, a Milano tra il giugno e l'agosto, sui valichi dell'Appennino (3 settembre) e finalmente a Roma, donde scrive alla sollecita madre notizie rassicuranti sulla sistemazione e i progressi dell'illustre rampollo.

Tutto il 1587 vide il B. profondere la propria destrezza e cautela nel guidare il giovane Borromeo nel complesso gioco di cerimonie e visite, protezioni e simpatie, compromessi e alleanze, che dovevano rendere possibile una carriera tanto folgorante: il 24 aprile il severo Sisto V propose in concistoro il suo innalzamento alla porpora; il 18 dic., appena ventitreenne, venne dichiarato cardinale e quattro giorni dopo ricevette, il cappello rosso col titolo di S. Mariain Domnica. Quasi a celebrare una vittoria che era anche un poco sua, B. stampò una bella ode alcaica latina di esultanza.

Dopo Parigi, Roma. Un altro centro cosmopolita, luogo di incontri, di intrighi, di vivaci scambi culturali, e un osservatorio politico senza eguali. Il B. vi trovò definitivamente la propria strada: il 10 giugno 1588, con dedica a Cornelia d'Altemps Orsini duchessa di Gallese, una parente dei Borromeo, vi pubblicava i tre libri Delle cause della grandezza e magnificenza delle città, un'operetta di mole esigua, ma lucida e penetrante, forse il suo capolavoro: viene elaborata in essa per la prima volta una teoria scientifica sulla dislocazione topografica e sull'incremento degli agglomerati urbani, che identifica precisi rapporti fra ambiente naturale, risorse economiche e sviluppo demografico. Allegato sin dall'anno successivo, quale appendice inseparabile, al più ampio trattato Della ragion di Stato, l'aureo opuscolo ne condivise lo straordinario successo editoriale, ma godette anche di una sua autonoma fortuna e fu tradotto in spagnolo (1593), in latino (1602) e in inglese (1606). Una piccola ricerca collaterale venne stampata (Roma 1588) col titolo Che numero di gente facesse Roma nel colmo della sua grandezza. Giusto un anno dopo, dai torchi illustri di Gabriel Giolito de' Ferrari, il B. dava alla luce in Venezia i dieci libri Della ragion di Stato (dedica del 10 maggio 1589 a Wolf Dietrich von Raitenau, arcivescovo di Salisburgo).

Sviluppando l'abbozzo delineato sei anni prima con il De regia sapientia, l'opera tentava di dare una risposta al problema politico centrale della Controriforma, la crisi aperta dal machiavellismo con il dissociare la politica dalla morale e con il ridurre la religione a strumento del potere. Tesi centrale è la restaurazione dei trascendenti valori dell'etica rivelata, con preminenza assoluta sulle istanze della politica; ma, per dare maggiore efficacia ai suoi richiami alla pura coscienza e al timor di Dio, il B. finisce con l'asserire che solo la rettitudine e la religiosità assicurano il dominio felice, degradando così sul piano del contingente vantaggio quei valori che la coscienza contemporanea rivendicava soltanto in astratto, quasi succube del fascino esercitato dal Machiavelli, ma in realtà dominata dalle ferree istanze della volontà di potenza e dei conflitti dinastici e confessionali. Tuttavia il successo della Ragion di Stato, che dilagò per decenni con frequenti ristampe italiane e reiterate versioni in spagnolo (1593), francese (1599), latino (1602) e tedesco (1657), non fu dovuto alle poche e fragili pagine dottrinali, bensì alla vasta e sistematica esposizione, che ad esse si affianca, di tutta la nuova problematica che lo Stato moderno sorgente portava con sé: esazione fiscale, organizzazione militare, commercio, industria, amministrazione della giustizia, annona, urbanistica; meglio di qualsiasi altra opera di quell'età, il libro del B. documenta il tipico trapasso, che allora si operava, dallo Stato patrimoniale di impronta feudale e tirannica allo Stato di "politìa", fondato sull'amministrazione oculata, la centralizzazione livellatrice, la gerarchia burocratica, l'estinzione progressiva delle cariche ereditarie o venali. In questo orizzonte culturale un posto distinto spetta alle questioni economiche: in tema tributario il B. sostiene la funzione preminente dell'imposta rispetto ai cespiti demaniali nel finanziamento della spesa pubblica e la doverosa prevalenza della tassazione diretta dei redditi a sgravio delle gabelle sui consumi; tenta di conciliare il protezionismo particolaristico delle nascenti manifatture con l'aspirazione alla liberalizzazione degli scambi e delle vie commerciali; se è vero che si muove entro i limiti concettuali dell'imperante mercantilismo, confuta a priori l'errore dei fisiocratici, sottolineando i preponderanti incrementi di valore che l'ingegno e l'opera dell'uomo conferiscono ai beni naturali.

La Ragion di Stato era apparsa da appena un anno che già il B. ne doveva dare in luce (Roma, Pelagallo, 1590) una seconda edizione, accresciuta secondo un metodo puramente meccanico di accumulazione di sempre nuovi esempi storici (allora e in seguito si limitò a sovrapporre incrostazioni di stanca erudizione all'immutata ossatura dottrinale, che fini per apparire per contrasto sempre più esile). Dall'8 al 15 sett. 1590 il B. intervenne a fianco del Borromeo, quale "conclavista" (cioè confidente e consigliere), al conclave da cui uscì eletto Urbano VII; dal 6 ottobre al 5 dicembre svolse lo stesso ufficio nel conclave di Gregorio XIV, di cui scrisse una relazione (perduta), che a causa della materia delicata dovette procurargli qualche grattacapo; narrò pure le vicende del terzo conclave cui fu presente, quello di Innocenzo IX (27-29 ott. 1591). In quello stesso anno, il 25 maggio, aveva dedicato al card. Carlo di Lorena la prima parte (in 6 libri) dell'opera che doveva consolidare definitivamente la sua fama europea: le Relazioni universali.

Concepita originariamente come un esame statistico della propagazione ecumenica del cristianesimo, l'opera si allargò via via nel successivo quinquennio fino a costituire un repertorio organico di antropogeografia, con notizie sistematiche sulla configurazione fisica, la densità demografica, le risorse economiche, la potenza militare, la costituzione politica di tutti gli Stati del mondo. Frutto di laboriosa compilazione, le Relazioni, per il metodo accurato e l'oculatezza nel vaglio dei dati raccolti, segnarono un progresso enorme rispetto alle analoghe opere allora in uso, e per quasi un secolo rimasero un testo istituzionale e informativo di larghissima diffusione, il vero e proprio manuale geopolitico di tutta la classe dirigente europea, con un centinaio di edizioni e traduzioni in latino (Helmstadt 1596), tedesco (Monaco 1596), inglese (Londra 1601), spagnolo (Gerona 1603) e polacco (Cracovia 1609). La parte prima è una descrizione generale, sotto l'aspetto fisico e antropico, del mondo conosciuto; la parte seconda una silloge di dati statistici di prevalente interesse politico; la parte terza uno studio sulla distribuzione delle varie religioni sui continenti terrestri, con notizie storiche sulle recenti attività missionarie; la parte quarta tratta specificamente delle religioni degli indigeni delle Americhe e dell'introduzione del Vangelo in quelle regioni. Una parte quinta, composta dal B. negli ultimi anni della sua vita e lasciata inedita, vide la luce soltanto nel 1895: si tratta essenzialmente di un aggiornamento dei dati della parte seconda, condotto fino alle soglie del secondo decennio del Seicento, cui va unito un interessante censimento "dei numero dei Cristiani e delle altre nazioni".

Ai primi del 1592 il B. interviene al suo quarto e ultimo conclave, quello di Clemente VIII (10-30 gennaio); invitato dall'ambasciatore di Spagna e da un signore di casa Sfondrati e darne relazione scritta, rifiuta il compromettente incarico. Il 15 giugno dedica all'infante Filippo di Spagna la parte seconda delle Relazioni, impressa, come la prima, a Roma da Giorgio Ferrari. Nell'ottobre, benché sofferente per un ascesso al braccio, deve recarsi a Milano e ad Arona per negozi dei Borromeo e altri disagi dovrà affrontare nell'estate del 1594 per una missione a Siena, dove annota la data conclusiva in calce alla parte terza delle Relazioni (10 ag. 1594), che stamperà a Roma nella primavera dell'anno seguente con dedica al Borromeo.

Tutto preso dai suoi studi, dalle polemiche e dalle censure suscitate dal trattato politico, compiaciuto della fama che ormai lo circonda, tormentato dall'umore difficile e dagli acciacchi dell'età, il B. sopporta ormai di mala voglia le cure quotidiane del segretariato, le responsabilità diplomatiche e di rappresentanza del precoce cardinalato del Borromeo. Quando poi il suo pupillo è nominato arcivescovo di Milano (24 apr. 1595), il B. medita di lasciare l'ufficio e di rimanersene nel suo animato osservatorio romano, libero da gravose incombenze: si affrettò infatti a chiedere una pensione a Filippo II di Spagna (che il 6 maggio chiese informazioni sul suo conto all'ambasciatore in Roma) e nel ripubblicare la parte prima, rifatta, delle Relazioni, la divise in tre parti, serbando solo in capo alla prima la vecchia dedica al cardinal di Lorena; le altre due vennero offerte (10 aprile e 4 maggio 1595) a due potenti cardinali di Curia: Simone Tagliavia d'Aragona e Pietro Aldobrandini. La nuova sistemazione sperata non risultò facile: quando il Borromeo (27 ag. 1595) fece il suo ingresso solenne a Milano, il B. era probabilmente al suo seguito; il 15 settembre terminò la parte quarta delle Relazioni; certo era a Milano nei primi giorni del 1596, e da Milano il 20 maggio dedicò appunto la parte quarta a Juan Fernández de Velasco, governatore del ducato; la prima edizione completa delle Relazioni in quattro libri, dedicata a Carlo Emanuele I di Savoia, non vide la luce a Roma, bensì a Bergamo, dai torchi di Comin Ventura. Ancora nel 1596 stampa a Milano il terzo rifacimento della Ragion di Stato, cui farà seguire nel marzo del '98 un volume di Aggiunte, che accoglie cinque trattatelli di argomento militare (Dell'eccellenza de' capitani antichi,Della neutralità,Della riputazione,Dell'agilità delle forze,Della fortificazione), cui allega un'interessante Relazione del mare, abbozzo d'una ricerca oceanografica che tratta "della grandezza, profondità, crescere, calare, qualità, colori, movimenti e divisioni di esso mare". La sua servitù presso il Borromeo volgeva ormai al termine: ammalato, zoppicante, incline ad accentuare i malanni per meglio giustificare il suo ritiro, l'8 sett. 1598 il B. è a Padova, forse per seguire la quarta revisione, quella definitiva, della sua Ragion di Stato, impressa allora a Venezia dal Giolito, forse per curarsi ai fanghi di Abano; il 19 settembre da Ferrara prende commiato, dal Borromeo con un'abile missiva, manifestando il proposito di stabilirsi a Roma, e da Roma il 3 novembre lo ringrazia per la sua liberalità (probabilmente la concessione di un canonicato in S. Ambrogio, a titolo di congedo). Il suo proposito di sistemarsi presso il card. Ferdinando Niño de Guevara (cui dedica il 10 ag. 1599 il trattato Dell'ufficio del Cardinale, impresso a Roma con l'appendice di un Discorso intorno allo Stato della Chiesa) incontra improvvise difficoltà, perché il porporato viene richiamato in Spagna con ufficio di supremo inquisitore: il B. prende allora in considerazione l'offerta di Gherardo Filiberto Scaglia, agente di Savoia a Roma, che lo invita a Torino (23 aprile) con ufficio di precettore dei tre figliuoli più grandicelli del duca: Filippo Emanuele, Vittorio Amedeo ed Emanuele Filiberto.

Non era certo la nostalgia della povera terra natia a richiamare il B. in Piemonte, ma l'onorifico incarico e una promessa pensione di 200 scudi. A Torino, con la sua consueta capacità di adattamento all'ambiente, egli si trasformò in precettore, assumendo a fianco dei discepoli giovinetti mansioni di educatore erudito e pio, di schietto stampo contro-riformistico; le sue lezioni furono prevalentemente storiche, secondo i canoni di una pedagogia moralistica intesa a suggerire esempi edificanti. Primo frutto di quest'attività fu la raccolta de I prencipi, biografie convenzionali di Alessandro Magno, Cesare e Scipione, dedicate nel settembre-ottobre 1600 ai tre principi sabaudi. Nel novembre ebbe a Torino colloqui col card. Pietro Aldobrandini, venuto a negoziare la pace tra Savoia e Francia, e nel luglio 1601 si incontrò col Chiabrera per stimolarlo a condurre a termine l'Amedeida, poema epico in lode della casa ducale. A Carlo Emanuele I offerse il 26 luglio la parte prima dei Prencipi cristiani, raccolta di 15 biografie untuose e stucchevoli di pii sovrani cattolici, e due giorni dopo rogò a Giaveno il suo primo testamento. La parte seconda dei Prencipi cristiani, sempre dedicata al duca (20 febbr. 1603), accoglie le vite dei conti e dei duchi di Savoia fino a Emanuele Filiberto e ricalca i moduli di edificante moralismo del precedente volume, curioso libro di testo di una vacua educazione principesca; più soda appare la Relazione della repubblica veneziana, dettata per colmare una quasi completa lacuna dell'opera maggiore, che apparve a Venezia nel 1605, dedicata al doge Marino Grimani, dopo due anni di caute revisioni dei censori e non senza mutilazioni.

Maturava in quelle settimane un infelice progetto di Carlo Emanuele I, che decideva di inviare presso la corte di Spagna i suoi tre figli giovinetti, vagheggiando addirittura per il primogenito la corona dei re cattolici, visto che il regnante Filippo III, zio materno dei principini, non aveva eredi maschi. Con stipendio di 600 ducatoni annui e funzioni di aio e segretario, il B. venne designato a far parte, in posizione distinta, del numeroso seguito; ai primi d'aprile la corte lasciò Torino per Mondovì, dove il 6 "il magnifico e reverendo oratore e secretario Botero" intervenne a un'adunanza concernente l'erigendo santuario di Vicoforte; ai primi di maggio la variopinta comitiva era a Nizza, dove il 18 si imbarcò su una flotta di nove galere per giungere a Barcellona il 24. Restando a fianco dei principi con paterne premure nel triennio della loro permanenza in Spagna, il B. percorse il paese per ogni verso, seguendo la corte a Valladolid, a Burgos, a Valenza, ad Aranjuez, a Tordesillas. Al suo stipendio ducale si aggiunsero nel marzo 1604 le cospicue rendite dell'abbazia di S. Michele della Chiusa, rinunciata in suo favore dal principe Filiberto, che ne era il beneficiario; il 3 aprile il B. ringraziava calorosamente il duca, ma il 25 settembre lamentava di aver dovuto racimolare ben mille scudi per pagare le bolle di investitura. Anche Filippo III gli attestò il suo favore, concedendogli la cappellania di S. Maria della Florana nella collegiata di S. Nazario a Milano. Da queste soddisfazioni materiali, dagli attestati di considerazione che illustri personaggi di corte gli tributavano non rimasero disgiunte amarezze e preoccupazioni, sia per la cauta sorveglianza sui giovani principi esposti a molte insidie nella corrotta vita di corte, sia per puntigli e ripicche con i più influenti personaggi del seguito piemontese. Ai primi del 1605 i duchini vennero colpiti dal vaiolo e il 9 febbraio Filippo Emanuele, il primogenito, soggiacque al male; la spedizione sabauda in Spagna, già funestata da quella sventura, un mese dopo vide svanire il suo miraggio, quando nacque (8 aprile) il futuro Filippo IV. Si avviarono allora le lunghe pratiche per ottenere il ritorno in patria dei principi superstiti, guardati ormai come ostaggi di riguardo piuttosto che ospiti; lasciata Madrid il 14 luglio 1606, la comitiva sbarcò a Nizza il 19 e raggiunse Torino il 17 agosto.

Rientrato così in patria, il B. si vide affidata l'educazione dei due principi minori, Maurizio e Tommaso; visse a corte, segretario e consigliere ascoltato, collaboratore e giudice delle composizioni-letterarie del duca, col quale si intratteneva familiarmente (come ricorda il Marino nel Ritratto del 1608) in dotti conversari.

Nel 1607 il B. pubblicò a Torino I capitani (dedica al duca del 4 luglio), adunandovi le biografie di sei condottieri contemporanei (Francesco ed Enrico di Lorena, Enrico III di Valois, Anne di Montmorency, Alessandro Farnese e il duca d'Alba); la materia recente e appassionata, le tensioni religiose e politiche prorompenti sollevano quest'opera al di sopra dell'agiografia moraleggiante cui il B. ci aveva abituati e ne fanno un documento di autentica riflessione storiografica, ovviamente partigiana, ma niente affatto superficiale. Il volume reca un'appendice su I prencipi e capitani illustri, che presenta surrettiziamente come "saggio" d'una più vasta opera soltanto abbozzata due brevi biografie di Emanuele Filiberto di Savoia (diversa dalla più ampia narrazione che conclude la parte seconda dei Prencipi cristiani) e di Carlo Emanuele I: opportunistico lasciapassare per una opera che illustrava i più insigni capitani del tardo Cinquecento senza accogliere nel loro consesso neppure un principe di Savoia. Una seconda appendice aduna quattro Relazioni supplementari inedite sulla Spagna (finalmente conosciuta de visu nel soggiorno recente), sul Piemonte e la contea di Nizza (tributo alla terra natia, illustrata di sfuggita nelle originarie Relazioni universali) e finalmente sull'esotica isola di Taprobana.

Agiato, riverito, lodato, il B. si avviava ormai ad una vecchiaia tranquilla e ritornava alle velleità e alle bravure poetiche della sua giovinezza: nel novembre 1607 stampò a Torino le 206 ottave del poemetto La primavera, nato da una tenzone fra poeti cortigiani sul tema delle quattro stagioni; l'opera, cosparsa di coloriti fiori retorici, si sarebbe accresciuta negli anni seguenti: 325 stanze in più presentava una stesura manoscritta offerta al duca il 28 giugno 1608, oltre 600 appaiono nella seconda edizione (Torino 1609), un'ulteriore revisione è attestata dalla stampa milanese del 1611. Nel frattempo il B. dava alle stampe una sua fortunata raccolta di Detti memorabili di personggi illustri (dedica al duca del 25 genn. 1608), subito ristampata a Brescia, a Vicenza, a Venezia, e largamente rimpolpata nella definitiva edizione torinese del 1614. Memore della sua lunga esperienza della corte papale, il 21 luglio 1608 dettò un Discorso per sconsigliare l'andata a Roma del principe Maurizio, il suo quindicenne discepolo, che sette mesi prima era stato innalzato alla porpora. L'anno dopo, in calce alla Primavera, pubblicò due gruppi di Rime spirituali, che esprimono in forme corrette e frigide sensi di religiosità austera e convenzionale.

Il B. si avviava così al tramonto, tornando al rigorismo divozionale dei tempi di s. Carlo e agli ozi poetici, staccandosi da quel mondo della politica che era pur stato il suo e allontanandosi anche dalla spregiudicata e avventurosa politica ducale, fatta di continui voltafaccia opportunistici, restando fedele a un suo lealismo filoispanico che si identifica in realtà - su un piano più sentimentale che logico - con gli ideali del cesaropapismo asburgico di cui s'era permeato nei collegi della Compagnia di Gesù.

Il 1610 è l'ultimo anno in cui il suo stipendio di 1.200 lire appaia nei conti della Casa dei principi sabaudi; l'anno seguente rinunciò a favore del card. Maurizio all'abbazia di S. Michele, riservandosene i frutti; concluse la parte quinta delle Relazioni e, senza pubblicarla, la dedicò al duca; aggiunse ben 225 componimenti alle "rime spirituali" e le ristampò a Milano col titolo Il monte Calvario, che bene esprime la contrizione penitenziale e i sensi di fuga dal mondo che ormai lo pervadevano. Nel febbraio 1611 erano state disseppellite a Roma, nelle catacombe di S. Callisto, le reliquie di s. Antero papa; l'abate V. Claretta, che era presente, ottenne di trasportarle al suo paese natale di Giaveno; il 26 giugno a Torino i deputati di quel Comune concordarono le opportune solennità col B., "prelato ordinario e signore di Giaveno", e questi intervenne il 24 luglio alle cerimonie della traslazione.

Negli ultimi anni si infittiscono le testimomanze relative alla destinazione del suo cospicuo patrimonio: il 4 sett. 1612 prestò a censo varie somme ai collegi della Compagnia di Gesù di Cremona e di Pavia e a alla Casa professa di Milano; il 4 dic. 1613 convertì il prestito in donativo; il 6 maggio 1613 il generale della Compagnia p. Claudio Acquaviva accettò un'altra sua donazione; il 25 giugno, nella casa del can. Bernardi sita nella parrocchia di S. Tommaso in Torino, dove aveva preso stanza, rifece il primo testamento, lasciando erede la Compagnia e istituendo legati a favore del can. Giovanni Antonio Barroeri di Mondovì, suo familiare e segretario, e dei poveri di Giaveno, nonché la somma di mille fiorini per restaurare l'abbazia di S. Michele.

Il 2 dic. 1613 il B. rinunciò alla cappellania di S. Maria della Florana. Il 17 luglio 1614 dedicò al duca l'edizione accresciuta dei Detti memorabili e nello stesso anno offerse al card. Maurizio un Discorso della lega contro il Turco, che propugna un'anacronistica crociata, ma non trascura di suggerire che il comando dell'impresa, in caso di rinuncia dell'imperatore, venga affidato a Carlo Emanuele I, capitano di insigne valore. In realtà, l'innata cautela conservatrice e l'età senile incline a consigli di prudenza l'avevano sempre più allontanato dalle nuove strade della politica ducale, giunta ormai a una temeraria rottura con la Spagna e ispirata da un atteggiamento che sembrava ignorare i limiti delle forze e i rischi incombenti. Al cadere dell'agosto 1614 il B. lasciò Torino per Savona, adducendo motivi di salute forse intesi a velare qualche aperto dissapore col duca; era ancora a Savona quando il Barroeri pubblicò a Torino (8 genn. 1615) i suoi Carmina selecta, una raccoltina di poesie latine in lode del duca e a lui dedicate; rientrato a Torino, il 10 luglio diede in luce l'ultima sua opera, i due libri Del purgatorio, che concludevano come un cerchio che si chiude la meditazione penitenziale avviata in modi convenzionali, ma con autentico fervore, negli anni giovanili. Il 4 giugno 1617 aggiunse un codicillo al proprio testamento, legando al fedele Barroeri 4.000 fiorini e tutti i propri libri.

Morì il 23 giugno 1617; secondo le sue ultime volontà, venne sepolto nella chiesa dei gesuiti dedicata ai SS. Martiri, senza che memoria di sorta consenta di riconoscerne la tomba.

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Giovanni Botero, l'anti-machiavelli

Del piemontese Giovanni Botero — passato alla storia letteraria e politica come il "Machiavelli cattolico" — le biografie forniscono pochissime notizie, fino all'epoca in cui diede alle stampe le sue prime scritture, già quarantenne e segretario in Milano del Cardinale Carlo Borromeo.

Sappiamo solo che, di famiglia borghese e largamente fornita di censo, nacque a Bene Giavenna intorno al 1540, e fu messo agli studi in Torino nel Collegio dei Padri Gesuiti; ma non si iscrisse nella Compagnia, preferendo far parte del clero secolare. E certo dovette acquistarsi buona fama di virtù e di dottrina, se dal santo Arcivescovo lombardo, fu onorato di un posto di così grande fiducia e lo tenne con lode otto anni circa, fino alla morte del suo illustre protettore.

Ho detto che a Milano scrisse i primi lavori dei quali abbiamo traccia, su argomenti politici e morali: prima d'allora non aveva composto che versi e panegirici latini, senza interesse per il nostro studio.

Ma coi tre libri del De Regia Sapientia, affrontò arditamente le scienze sociali e s'impose senz’altro al pubblico dei dotti, sia laici che ecclesiastici.

Fervevano in quegli anni le discussioni sull'opera di Niccolò Machiavelli, che era letta e studiata in tutte le Corti d'Europa; ed alcuni levavano alle stelle la dottrina del Principe, altri e in particolare i Gesuiti, ne condannavano l’immoralità e il pessimismo, e avrebbero voluto bruciare sulle piazze quel libro, nel quale ravvisavano un compendio di tutte le eresie.

Il Botero, disceso nella mischia, nel nome di una rigida ortodossia cattolica, non poteva accettare le conclusioni dello spregiudicato Fiorentino; ma invece di attaccarlo e di accusarlo alla cieca, come facevano tanti del suo campo, si assunse di provare che il buon governo dei popoli e l'arte di creare e di conservare gli stati, non sono in alcun modo incompatibili con il rispetto e l’osservanza della legge religiosa e morale.

Nel De Regia Sapientia, scrivendo da teologo, pose le basi della sua teoria dello Stato: Iddio da’ i regni solo a chi ne è degno: li conserva a chi osserva i suoi comandamenti, e li toglie o li guasta a chi se ne allontana; la vittoria e il successo sono nelle sue mani.... È la fiducia nella Provvidenza, fattore decisivo nelle vicende storielle, che ritroveremo in De Maistre e in De Bonald; il bene tende sempre a realizzarsi; e in ultimo, malgrado le apparenze, i "meglio intenzionati" risultano i più abili.... Teoria che non esclude l'attività più gagliarda e l'uso tempestivo di tutti i mezzi leciti nelle lotte terrene.

Ma il De Regia Sapientia, posti questi principii, non ne mostrava ancora le applicazioni pratiche: era l'introduzione a un'opera più vasta; i dieci grossi libri della Ragion di Stato da lui dati alle stampe solo sei anni dopo. nel l589.

Nel frattempo era morto S. Carlo Borromeo, e a Giovanni Botero, rimasto senza impiego, il Duca di Savoia, Carlo Emanuele I. grande figura di guerriero e di politico ed avvedutissimo conoscitore di uomini, aveva affidato una importante missione.

Si trattava di stringere accordi con la Lega Cattolica di Franchi che combatteva contro gli Ugonotti. e preparare — in caso di estinzione della casa regnante di Valois — la successione del Principe sabaudo, che vantava diritti, più o meno fondati, sulla Corona dei Gigli.

II prete piemontese fu ben lieto di poter servire utilmente il suo signore, e passò in Francia nel 1585, recandosi a Parigi e alla Corte dei Guisa, e seguendo l'esercito cattolico nelle sue marce attraverso le provincie devastate e sconvolte dalla guerra civile. Detestava Calvino e i suoi seguaci, e, ammesso nei consigli della Lega, non mancò di proporre le misure più energiche per estirpare l'eresia.

Tutti i mali di cui soffriva la Francia erano derivati dall'empietà ugonotta; né il Regno avrebbe potuto sollevarsi dall'abisso nel quale era caduto, se prima non si fosse cancellata la lebbra dell'errore. E poiché i protestanti, nella loro protervia, erano sordi ad ogni persuasione, bisognava che il braccio secolare provvedesse a disperderli e a schiacciarli.

Gli infedeli, i gentili delle contrade barbare, si possono trattare con indulgenza, perché non sono colpevoli della propria ignoranza; ma per questi ribelli non vi sono attenuanti. Mossi soltanto da un orgoglio satanico, si sono sottratti all’obbedienza di Roma, e a quella dei legittimi sovrani, si sono levati in armi contro il Re Cristianissimo, e contro l'Imperatore Apostolico, si sono accinti a sovvertire gli Stati e vogliono darli in preda all'anarchia: vanno colpiti senza debolezza. Il modo tenuto da Caterina de’ Medici nella famosa notte di S. Bartolomeo per sbarazzarsi dei calvinisti armati che minacciavano il Re fino in Parigi, non gli sembra immorale o scandaloso: era un atto di savia prevenzione, una operazione chirurgica ardita, legittimata e imposta dinanzi ad ogni coscienza cattolica dalla suprema necessità di difendere la Religione e lo Stato.

Tornato di Francia e riferito ai Duca il risultato delle sue osservazioni e i messaggi dei capi della Lega, il Botero fu assunto a consigliere dal Conte Federico Borromeo, che sulle tracce dell'illustre zio aveva scelto la carriera ecclesiastica e si recava a Roma per diventare cardinale.

Anche a fianco del giovane prelato, in mezzo agli intrighi della corte papale, diede prova di grande accorgimento, conducendo a buon fine la delicata impresa. Il Conte Federico ebbe la porpora a ventitré anni, e — come poi si vide — ne era degno.

Ma il Botero non volle seguirlo a Milano; mise da parte ogni altra occupazione, per dedicarsi interamente all'opera che doveva farlo illustre, e restò a Roma a scrivere la sua Ragion di Stato, destinata a mostrare — come spiega nella Dedica — "le vere e reali maniere, che deve tenere un principe per divenire grande e per governare felicemente i suoi popoli", dando "notizia dei mezzi atti a fondare, conservare ed ampliare un dominio".

Voleva insomma, come ho già accennato, proporre ai Principi un modello migliore di quello offerto loro da Niccolò Machiavelli; ugualmente capace di alte imprese, ma non intinto di spirito pagano e non estraneo alla pratica delle virtù cristiane, non meno necessario a un reggitore di uomini che a un semplice privato. Anzi affermava che il Principe, per imporsi al rispetto dei sudditi, doveva mostrarsi in ogni campo più virtuoso che la media degli uomini, perché "niuno si sdegna di ubbidire e di star sotto a chi gli è superiore, ma bene a chi gli è inferiore od anche pari".

E s'intende che, prima fra le virtù dei Monarchi, egli pone il rispetto ed il timore di Dio. e il servizio devoto della Chiesa. Laddove il Fiorentino, cattolico mediocre, faceva della fede un "instrumentum regni" nelle mani di un Principe tutt'altro che ortodosso, il Piemontese vuole che lo Stato sia "instrumentum ecclesiae", sotto la guida di un "defensor fidei", rappresentante del Signore in terra, sotto l'alto controllo del Papa, suo Vicario....

Allo Stato, pensato come fine a se stesso, si contrappone lo Stato, inteso come mezzo per far entrare e mantenere i popoli nell'ordine cattolico e romano. Ma si capisce che perché lo Stato possa bastare a un tal compito, occorre che sia forte, prospero ed agguerrito, omogeneo all’interno e rispettato all'estero. E nella parte pratica della sua trattazione, che si occupa dell'arte di governo, il Botero si trova molto spesso d'accordo con Fautore del Principe.

Le virtù più essenziali del monarca, sono per lui la prudenza, la giustizia. la liberalità ed il valore. Prudente affinché sappia governarsi nel mare infido della diplomazia, e soprattutto tenere la bilancia fra gli avversi partiti. "Giacché — egli scrive, — un Principe che avendo lo Stato diviso in due fazioni, più per l’una che per l’altra senza necessità si dichiara, lascia il grado e la persona di Principe e si fa capo di parte".

Giusto, nei suoi rapporti con i sudditi, quando ne abbia ottenuto il necessario a mantenerli e a difenderli. "non li lascerà straziare con gravezze insolite e sproporzionate alle loro facoltà, né consentirà che gravezze convenienti sieno da' ministri acerbamente esatte"; li proteggerà dall’usura e dai rischi della speculazione, che fa "lasciare all’artegiano la bottega, al contadino l'aratro e al nobile vendere la sua nobiltà e metterla in danaro" ; li castigherà quando occorra, esemplarmente, come Dio "il quale col tuonare spesse volte cagiona agli uomini paura e terrore senza danno; ma acciocché i tuoni non perdano il credito, per non far mai colpo, fra i mille tuoni saetta qualche volta e per lo più qualche cima d’albero o giogo di monte".

Liberale, saprà dare largamente e non tanto ai signori e ai cortigiani turbolenti e faziosi, quanto alla plebe lacera degli umili, oppressa e taglieggiata dai potenti: giacché non vi è "alcuna opera né più regia né più divina che il soccorrere i miseri, conciosiachè celebratissima sopra ogni altra cosa nella Scrittura si è la misericordia di Dio e la cura e la protezione, ch'egli si prende degli afflitti e de' poveri".

Valoroso, ed esperto in tutti gli esercizi del corpo, deve saper condurre nelle imprese guerresche il suo esercito e porre ogni suo studio nell’ordinare la milizia e nel mantenere la disciplina che è "l’arte di far buono il soldato, e buon soldato è colui che obbedisce con valore".

Il Monarca, fornito di tutte queste doti saprà tenere saldamente in pugno le sorti del gregge affidatogli da Dio; e non gli verrà meno l'affezione dei sudditi.

Del resto, se per caso costoro si mostrassero disubbidienti e riottosi; e ciechi — come accade — ai benefizi di un'autorità forte, non mancano i mezzi per ridurli al dovere....

Il Botero in proposito si esprime chiaramente: "Io sono di parere che per la sicurezza degli Stati e de' Prencipi loro, miglior cosa sia la severità del governo che la piacevolezza e la paura che l’amore".

Egli non crede alla forza di un redime subordinato al consenso ed all'accettazione spontanea dell'universale: "Non è forma di Governo più incerta e fallace". " .... I cittadini di una repubblica — scrive — sono tirati dai loro particolari interessi nel mentre che il Principe non ha altro interesse all’infuori del bene comune dello Stato".

La sola Repubblica per la quale fa eccezione è quella di Venezia che essendo autoritaria e aristocratica partecipa ai caratteri essenziali delle monarchie ereditarie: la continuità e la durata.

È difficile dare in poche pagine un riassunto completo della Ragion di Stato, piena com'è di lunghe digressioni su questo o quell’aspetto della politica regia, con frequenti richiami a esempi storici, presentati nel modo più opportuno per confortare la tesi dell'autore. Si occupa dei commerci, delle fortificazioni, dei mezzi adatti ad imbrigliare gli eretici, riguardo ai quali osserva acutamente che "il cambiare religione può esser di qualche utile a un particolare ed è contro il bene pubblico, quindi avviene che una città libera abbraccia più facilmente l'eresia che un principe assoluto": consiglia ai governanti di cercare all'esterno un diversivo per i contrasti interni: "la Spagna è in somma quiete perché si è impiegata in guerre straniere e in imprese remote nelle Indie e nei Paesi Bassi.... La Francia, stando in pace con gli stranieri, se rivolta contro sé stessa e gli animi sono pieni di furore e di rabbia"; raccomanda il possesso di colonie oltremare per dare terre e pane al sopravanzo della popolazione; e, contro l’opinione dominante ai suoi tempi, vuole che le imposte regie colpiscano proporzionatamente tutte le proprietà dei privati non siano personali, ma reali, cioè non su le teste, ma su i beni, altrimenti tutto il carico delle taglie cadrà sopra de’ poveri, come avviene ordinariamente, perché la nobiltà si scarica sopra la plebe e le città grosse sopra i contadini "l'agricoltura dev'essere

Favorita" e si deve "far conto della gente che s’intende di migliorare e fecondare i terreni e di quelli i cui poderi sono eccellentemente coltivati", perciò da lode ai Duelli di Milano che scavando canali irrigatori "hanno arricchito sopra ogni credenza quel felicissimo contado": è avverso alle milizie mercenarie, che "vendono a guisa di mercatanti e di bottegai di poca fede l’opera loro piena di infinita tara di mille paghe morte o truffate, o di gente a buon mercato e perciò di poco valore e mal condizionata": si dilunga sull'arte militare, sulla scelta delle armi per i cavalieri ed i fanti....

La Ragion di Stato e le Aggiunte che ad essa tennero dietro: Della eccellenza dei grandi capitani; Della neutralità; Della reputazione del Principe; oltre alle Relazioni universali che il Botero, veniva pubblicando sui vari Stati di Europa, quasi ad illustrazione ed a commento delle sue teorie di governo, gli valsero fama e considerazione grandissima, non solo a Roma. nell'ambito della Corte pontificia, ma presso i principali potentati nazionali e stranieri; tanto che il Duca Carlo Emanuele volle chiamarlo a Torino, per affidargli l'educazione dei suoi tre figli, ancora giovinetti.

Don Giovanni Botero, da buon suddito, non esitò ad obbedire e benché forse gli pesasse un poco di perdere la sua cara indipendenza e di interrompere i suoi studi prediletti, tornò in Piemonte dopo quindici anni di assenza, e si accinse con zelo coscienzioso ad assolvere il compito che gli avevano assegnato.

Egli del resto aveva sempre professato che "un privato non può l’opera e il saper suo meglio impiegare che in servire o di consiglio o di aiuto a quegli a cui Dio ha la cura dei popoli e l’amministrazione delle città confidato".

Ora la sorte gli offriva l'occasione di porre in atto questo suo principio preparando e plasmando per le responsabilità del comando la mente ed il carattere di futuri sovrani.

Alla corte di Carlo Emanuele, il nuovo precettore visse circa quattro anni e seppe così bene accattivarsi l'affezione dei principi e la fiducia del Duca, che quando nel 1603 i suoi allievi dovettero partire per la Spagna, invitati a passare qualche tempo alla corte del Re Filippo III. egli fu scelto per accompagnarli.

Il soggiorno durò quasi tre anni e si sarebbe forse prolungato, se la tragica sorte del principe Filippo, rimasto vittima di una epidemia di vaiolo, non avesse indotto il Duca padre a richiamare presso di sé i due superstiti. Vittorio Amedeo e Filiberto.

Dopo il ritorno in Piemonte l'illustre precettore che fra le cure pedagogiche e di corte non perdeva di vista la politica e dalla Spagna aveva mandato a Torino molte informazioni preziose, fu promosso alle cariche onorevoli e ambite di Consigliere e Primo Segretario dei Duchi di Savoia.

E non furono vane sinecure: ché il Sovrano teneva in alta stima il senno e l'esperienza dell'Abate Botero, e lo consultava spessissimo sugli affari di Stato.

Aveva allora molta carne al fuoco, l'ambizioso Signore montanaro che vedeva lontano, grande ed alto, e pensava all'Impero, ed ai Regni di Macedonia e di Cipro, alla Provenza ed alla Lombardia come alle splendide possibili poste di una grande partita!

Di tutto ciò trattava col Primo Segretario negli intimi colloqui a palazzo, o per lettere; e discuteva se colui familiarmente anche di storia e di letteratura, sottoponendo al suo esame e al suo giudizio gli scritti in versi e in prosa di cui si dilettava nei momenti di svago.

Anche il Botero aveva ripreso a scrivere e diede fuori in quegli anni alcune aggiunte alle sue Relazioni; e un'opera sui Principi Cristiani, "ove nelle azioni di ottimi e valorosissimi Re la pratica e l’uso di essa ragione di Stato quasi pittura al suo lume si scorge"; a cui segue una storia della Casa Sabauda dai tempi di Beroldo fìno al Duca regnante.

Dello stesso periodo sono un trattato didattico sui Grandi Capitani: un Discorso sull’Eccellenza della Monarchia in cui riprende e illustra le idee che già sappiamo, ed un Discorso della Nobiltà, in cui mostra di anteporre l'aristocrazia militare a quella civile o togata "perché la toga non è così efficace e pronta all’operare come la spada in tagliare i nodi gordiani e le difficoltà che si sogliono nelle alte imprese attraversare" ; ed ancora poemetti e dissertazioni diverse, sempre in lode del Duca e del Piemonte, produzioni di gusto secentesco per la ricerca preziosa dei concetti, ma tuttavia eleganti ed aggraziate.

Il suo ultimo scritto politico è del 1611: il Discorso sopra la lega contro il Turco, alla cui testa sognava il suo Signore, breve lavoro che tradisce in qualche punto la grave età dell'autore, già più che settantenne.

Sentendosi ormai prossimo alla fine il vecchio infaticabile scrittore cominciò a distaccarsi dalle cose terrene e rinunziò alla ricca abbazia di S. Michele in favore dell'ultimo dei suoi augusti discepoli, il Cardinale Maurizio di Savoia; nel tempo stesso cedette a Don Luigi Cid, Cappellano di Sua Maestà Cattolica, un lauto benefizio che possedeva in Milano, e fece testamento istituendo erede universale il Collegio dei Gesuiti in Torino, dove aveva

studiato giovinetto e nella cui chiesa voleva esser sepolto.

Non s'ingannava nei suoi presentimenti ed il 23 Giugno 1617 si spense.