Quaderno 9

1932

 

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NOTE SUL RISORGIMENTO ITALIANO.

[Ant.: Il Risorgimento

Mat. Bibl: Storia del Risorgimento (Enciclopedia Europea); Storia del Risorgimento (Treccani); Storia del Risorgimento (pbmstoria); Interpretazioni del Risorgimento]

Storiografia

§89 Due lavori: uno sull’Età del Risorgimento e uno di Introduzione al Risorgimento.

L’Introduzione dovrebbe essere una raccolta di saggi sulle epoche della storia mondiale nei loro riflessi italiani, dopo la caduta dell’Impero Romano: Medio Evo (o età dei Comuni o epoca della formazione molecolare dei nuovi gruppi sociali cittadini); Età del Mercantilismo e delle Monarchie assolute (o epoca in cui questi nuovi gruppi si inseriscono potentemente nella struttura statale, ricreando questa struttura e introducendo un nuovo equilibrio di forze che permette il loro sviluppo rapidamente progressivo) precedente all’Età del Risorgimento. Un saggio anche sul periodo di storia romana in quanto crea la cornice culturale della futura nazione italiana (diversi significati della parola «Italia» secondo il noto saggio di Carlo Cipolla).

Questi saggi devono essere concepiti per un pubblico determinato, col fine di distruggere in esso concezioni antiquate e retoriche formatesi empiricamente e passivamente per la penetrazione delle idee diffuse in un dato ambiente di cultura popolaresca e per suscitare interesse scientifico per le quistioni stesse trattate, che saranno perciò presentate come viventi e operanti anche nel presente, come forze in movimento sempre attuali.

1. Età del Risorgimento. L’opera dell’Omodeo mi pare fallita nel suo complesso. Mantiene molto del manuale scolastico, cioè la descrizione dei fatti è pura enunziazione da catalogo, senza nessi di necessità storica; lo stile è pessimo, urtante. Per ciò che riguarda l’Italia, l’intenzione dell’Omodeo pare avrebbe dovuto essere quella di mostrare che il Risorgimento è fatto essenzialmente italiano, le cui origini devono trovarsi in Italia e non solo o prevalentemente nelle conseguenze della Rivoluzione francese e dell’invasione francese.

Ma questa intenzione non è attuata altro che nel dare inizio alla narrazione dal 1740 e non dal 1789 o dal 1799. Il periodo delle monarchie illuminate non è in Italia un fatto autoctono e non è «originale» italiano il movimento di pensiero connesso (Giannone e regalisti). La monarchia illuminata, mi pare, è la prima derivazione politica dell’età del mercantilismo che annunzia i tempi nuovi, la civiltà moderna; ma in Italia c’è stata un’età del mercantilismo come fenomeno nazionale?

Il mercantilismo avrebbe, se organicamente sviluppato, reso ancora più profonde, e forse definitive, le divisioni in Stati regionali.

Mi pare poi che nella conversione del suo lavoro da manuale scolastico a libro di coltura generale col titolo di Età del Risorgimento l’Omodeo avrebbe dovuto mutarne tutta l’economia, riducendo la parte europea e dilatando la parte italiana. Dal punto di vista europeo, l’età è quella della «Rivoluzione francese» e non del Risorgimento italiano, del «liberalismo» come concezione generale della vita e come nuova civiltà e non solo di una sua frazione, del «liberalismo nazionale» cioè.

È certo possibile parlare di un’età del Risorgimento, ma allora occorre restringere la prospettiva e mettere al fuoco l’Italia e non l’Europa, trattando della storia europea e mondiale quei nessi che modificano la struttura generale dei rapporti di forza internazionale che si opponevano alla formazione di un grande Stato unitario nella penisola, mortificandone le iniziative in questo senso e soffocandole in sul nascere, e quelle correnti che invece dal mondo internazionale influivano in Italia, incoraggiandone le forze autonome e locali della stessa natura e rendendole più valide.

Esiste cioè un’Età del Risorgimento nella storia della penisola italiana, non esiste nella storia dell’Europa e del mondo; in questa corrisponde l’Età della Rivoluzione francese e del liberalismo (come è stata trattata dal Croce, in modo manchevole, perché nel quadro del Croce manca la premessa, la rivoluzione in Francia e le guerre di Napoleone, e sono presentate le derivazioni storiche come fatto a sé, autonomo, che ha in sé le proprie ragioni di essere e non come parte di uno stesso nesso storico con la rivoluzione e le guerre napoleoniche).

Sullo sviluppo autonomo di una nuova vita civile e statale in Italia prima del Risorgimento sta preparando un lavoro Raffaele Ciasca. Ne è stata pubblicata l’introduzione: Raffaele Ciasca, Germogli di vita nuova nel 700 italiano (negli «Annali della Facoltà di Filosofia e Lettere della R. Università di Cagliari», 1930‑31), in 8°, pp. 21. Il Ciasca studia la «trasformazione che nel corso del secolo XVIII e specialmente nella seconda metà di esso si va compiendo nella vita di quasi tutte le regioni d’Italia, e che non si limita a riforme frammentarie imposte da principi illuminati e poco sentite dalla popolazione, ma investe tutta la costituzione statale, tutta la struttura economica del paese, tutti i rapporti fra le classi e si manifesta nelle correnti predominanti nel pensiero politico, sociale ed economico» («Nuova Rivista Storica», 1931, p. 577). Le riforme amministrative e finanziarie, la politica ecclesiastica, la storia del pensiero erano già state studiate; il Ciasca porta un contributo nuovo per lo studio della vita economica del tempo. [Segue in § 89 2 ndc]

§99 1. L’età del Risorgimento dell’Omodeo e le origini dell’Italia moderna. Cosa significa o può significare il fatto che l’Omodeo inizia la sua narrazione dalla pace di Aquisgrana, che pose termine alla guerra per la successione di Spagna? L’Omodeo non «ragiona» questo suo criterio metodico, non mostra che esso sia l’espressione del fatto che un determinato nesso storico europeo è nello stesso tempo nesso storico italiano, necessariamente da inserire nello sviluppo della vita nazionale italiana. Questo può e deve invece essere «dichiarato».

La personalità nazionale (come la personalità individuale) è un’astrazione fuori del nesso internazionale (e sociale). La personalità nazionale esprime un «distinto» del complesso internazionale, pertanto è legata ai rapporti internazionali. C’è un periodo di dominio straniero in Italia, diretto per un certo tempo, di carattere egemonico posteriormente (o misto, di dominio straniero e di egemonia).

La caduta dell’Italia sotto la dominazione straniera nel Cinquecento aveva già provocato come reazione l’indirizzo politico, nazionale‑democratico, del Machiavelli, che esprimeva nello stesso tempo il rimpianto per la perduta indipendenza in una determinata forma (equilibrio interno fra gli Stati italiani sotto l’egemonia della Firenze di Lorenzo il Magnifico) e la volontà iniziale di lottare per riacquistarla in una forma storicamente superiore, come monarchia assoluta nazionale sul tipo della Spagna e della Francia.

Nel Settecento l’equilibrio europeo Austria‑Francia entra in una fase nuova per rispetto all’Italia; c’è un indebolimento reciproco delle due grandi Potenze e sorge una terza grande potenza «la Prussia». Pertanto le origini del moto del Risorgimento, cioè il processo di formazione delle condizioni e dei rapporti internazionali che permetteranno all’Italia di riunirsi in nazione e alle forze interne nazionali di svilupparsi ed espandersi, non sarà da ricercare in questo o quell’evento concreto registrato sotto una o l’altra data, ma appunto nello stesso processo storico di trasformazione del precedente sistema europeo.

Questo processo intanto non è indipendente dai fatti interni italiani; un elemento importante e talvolta decisivo dei sistemi europei era sempre stato il Papato. Nel corso del Settecento l’indebolimento della posizione del Papato come potenza europea è addirittura catastrofico.

Colla Controriforma il Papato aveva modificato essenzialmente la struttura della sua potenza: si era allontanato dalle masse popolari, si era fatto fautore di guerre europee sterminatrici, si era confuso con le classi dominanti in modo irrimediabile. Aveva perduto perciò la capacità di dominare indirettamente sulle classi dirigenti attraverso la sua influenza sulle classi popolari fanatiche e fanatizzate: è notevole che proprio mentre il Bellarmino elaborava la sua teoria del dominio indiretto della Chiesa, la Chiesa con la sua attività concreta, distruggeva le condizioni di ogni suo dominio e specialmente del dominio indiretto, staccandosi dalle classi popolari.

La politica regalista delle monarchie illuminate è questa esautorazione della Chiesa come potenza europea e quindi italiana, e inizia anch’essa il Risorgimento, se è vero, come è vero, che il Risorgimento era in funzione di un indebolimento del Papato sia come potenza europea che come potenza italiana, cioè come possibile forza che riorganizzasse gli Stati della penisola sotto la sua egemonia. Ma sono elementi condizionanti; una dimostrazione storicamente valida, che già nel Settecento si fossero costituite in Italia delle forze che concretamente tendessero a fare della penisola un organismo politico unitario e indipendente, non è stata ancora fatta in modo valido.

§107 2. Adolfo Omodeo. Cfr «Critica» del 20 luglio 1932 p. 280:

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«Ai patrioti offriva la tesi che allora aveva rimessa in circolazione il Salvemini: della storia del Risorgimento come piccola storia, non sufficientemente irrorata di sangue; dell’unità, dono più di una propizia fortuna che meritato acquisto degli italiani; del Risorgimento, opera di minoranze contro l’apatia della maggioranza. Questa tesi generata dall’incapacità del materialismo storico di apprezzare in sé la grandezza morale, senza la statistica empirica delle bigonce di sangue versato e il computo degli interessi (aveva una speciosità facile ed era destinata a correre per tutte le riviste e i giornali, e a far denigrare dagli ignoranti l’opera dura del Mazzini e del Cavour), questa tesi serviva di base al Marconi per un’argomentazione moralistica di stile vociano». (L’Omodeo scrive di Piero Marconi morto nella guerra, e della sua pubblicazione Io udii il comandamento, Firenze, senza data).

Ma l’Omodeo, nel suo libro L’età del Risorgimento non è riuscito a dare una interpretazione e una ricostruzione che non sia estrinseca e di parata. Che il Risorgimento sia stato l’apporto italiano al grande movimento europeo del secolo XIX non dimostra che l’egemonia del movimento fosse in Italia. Del resto si può osservare: se la storia del passato non si può non scrivere con gli interessi e per gli interessi attuali, la formula critica che bisogna fare la storia di ciò che il Risorgimento è stato concretamente non è insufficiente e troppo ristretta?

Spiegare come il Risorgimento si è fatto concretamente, quali sono le fasi del processo storico necessario che hanno culminato in quel determinato evento è un nuovo modo di ripresentare la così detta «obbiettività» esterna e meccanica. Si tratta spesso di una rivendicazione «politica» di chi è soddisfatto e nel «processo» al passato vede giustamente un processo al presente, una critica al presente. Del resto queste discussioni, in quanto sono puramente di metodologia empirica, sono inconclusive.

E se scrivere storia significa fare storia presente, è grande libro di storia quello che nel presente crea forze in isviluppo più consapevoli di se stesse e quindi più concretamente attive e fattive. Il difetto massimo di tutte queste interpretazioni ideologiche del Risorgimento italiano consiste nel fatto che esse sono state meramente ideologiche, cioè che non si rivolgevano a forze politiche attuali concrete.

Lavori di letteratura, dilettantesche costruzioni ad opera di gente che voleva far sfoggio di intelligenza o di talento: oppure rivolte a piccole cricche intellettuali senza avvenire, oppure scritte per giustificare forze reazionarie, imprestando loro intenzioni che non avevano e fini immaginari, e quindi cioè piccoli servizi da lacché intellettuali (il tipo più compiuto di questi lacché è il Missiroli) e da mercenari della scienza.

Queste interpretazioni ideologiche della formazione nazionale e statale italiana sono da studiare anche da questo punto di vista: il loro succedersi «acritico» per spinte individuali di personalità più o meno «geniali» è un documento della primitività dei partiti politici italiani, dell’empirismo immediato di ogni azione costruttiva (compresa quella dello Stato), dell’assenza nella vita italiana di ogni movimento «vertebrato» che abbia in sé possibilità di sviluppo permanente e continuo.

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§101 [2]. Origini del Risorgimento. Le ricerche sulle origini del moto nazionale del Risorgimento sono quasi sempre viziate dalla tendenziosità politica immediata, non solo da parte degli scrittori italiani, ma anche da parte di quelli stranieri, specialmente francesi.

C’è una «dottrina» francese sulle origini del Risorgimento, cioè la nazione italiana deve la sua fortuna alla Francia, ai due Napoleoni e questa dottrina ha anche il suo aspetto negativo‑polemico: i nazionalisti monarchici (Bainville) rimproverano ai Napoleoni di avere indebolito la posizione relativa della Francia in Europa con la loro politica nazionalitaria, cioè di essere stati contro la tradizione e gli interessi della nazione francese, rappresentati dalla monarchia e dai partiti di destra (clericali) sempre antitaliani.

In Italia le quistioni «tendenziali e tendenziose» poste a questo proposito sono: 1) la tesi democratico‑francofila: il moto è dovuto alla Rivoluzione francese, ne è una derivazione, che ha determinato l’opposta tesi: 2) la Rivoluzione francese col suo intervento nella penisola ha interrotto il movimento «veramente» nazionale, tesi che ha un doppio aspetto: quello gesuitico (per cui i sanfedisti erano «nazionalisti») e quello moderato che si riferisce piuttosto ai principi riformatori. Qualcuno poi aggiunge: 3) il movimento riformatore era stato interrotto per la paura degli avvenimenti di Francia, quindi l’intervento degli eserciti francesi in Italia non interruppe il movimento indigeno ma anzi ne rese possibile la ripresa e il compimento.

Questi elementi si trovano svolti in quelle pubblicazioni a cui si è accennato sotto la rubrica di «Interpretazioni del Risorgimento italiano» e che, come si è detto, hanno significato nella storia della cultura politica e non della storiografia.

In un articolo di Gioacchino Volpe, Una scuola per la storia dell’Italia moderna («Corriere della Sera», 9 gennaio 1932) assai notevole, è scritto: «Tutti lo sanno: per capire il “Risorgimento” non basta spingersi al 1815 e neppure al 1796, l’anno in cui Napoleone irruppe nella Penisola e vi suscitò la tempesta. Il “Risorgimento”, come ripresa di vita italiana, come formazione di una nuova borghesia, come consapevolezza crescente di problemi non solo municipali e regionali ma nazionali, come sensibilità a certe esigenze ideali, bisogna cercarlo parecchio prima della Rivoluzione: è anche esso sintomo, uno dei sintomi, di una rivoluzione in marcia, non solo francese, ma, in certo senso, mondiale. Tutti egualmente sanno che la storia del Risorgimento non si studia solo coi documenti italiani e come fatto solamente italiano, ma nel quadro della vita europea; trattisi di correnti di cultura, di trasformazioni economiche, di situazioni internazionali nuove, che sollecitano gli italiani a nuovi pensieri, a nuove attività, a nuovo assetto politico».

Tutto ciò nel libro dell’Omodeo rimane sconnesso ed esteriore. Si ha l’impressione che sia per il titolo, che per l’impostazione cronologica, il libro dell’Omodeo abbia solo voluto fare omaggio alla tendenziosità storica e non alla storia, per ragioni di opportunismo poco chiare e poco lodevoli.

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Nel Settecento, mutate le condizioni relative della penisola italiana nel quadro dei rapporti europei, sia per ciò che riguarda la pressione egemonica delle grandi potenze che non potevano permettere il sorgere di uno Stato unitario italiano, sia per ciò che riguarda la posizione di potenza politica (in Italia) e culturale (in Europa) del Papato (e tanto meno le grandi potenze europee potevano permettere uno Stato unificato italiano sotto la supremazia del Papa, cioè permettere che la funzione culturale della Chiesa e la sua diplomazia, già abbastanza ingombranti e limitative del potere statale nei paesi cattolici, si rafforzassero appoggiandosi a un grande Stato territoriale e ad un esercito corrispondente), muta anche l’importanza e il significato della tradizione letterario‑retorica esaltante il passato romano, la gloria dei comuni e del Rinascimento, la funzione universale del Papato italiano.

Questa atmosfera culturale italiana finora era rimasta indistinta e generica: essa giovava specialmente al Papato, formava il terreno ideologico della potenza papale nel mondo, l’elemento per la selezione del personale ecclesiastico e laico‑ecclesiastico di cui il Papato aveva bisogno per la sua organizzazione pratica di centralizzazione dell’organismo ecclesiastico, e per tutto l’insieme delle attività politiche, filosofiche, giuridiche, pubblicistiche, culturali, che costituiva la macchina per l’esercizio del «potere indiretto», dopo che nel periodo precedente alla Riforma, era servito all’esercizio del potere diretto, o di quelle funzioni di potere diretto che poterono concretamente attuarsi nei rapporti di forza interni di ogni singolo paese cattolico.

Nel Settecento si inizia un processo di distinzione in questa corrente tradizionale: una parte sempre più coscientemente si connette con l’istituto del Papato come espressione di una funzione intellettuale (etico‑politica di egemonia) dell’Italia nel mondo civile, e finirà con l’esprimere il Primato giobertiano e il neoguelfismo (attraverso una serie di movimenti minori, più o meno equivoci, come il sanfedismo, che sono esaminati nella rubrica dell’«Azione Cattolica» e le sue origini) e con il concretarsi in forma organica, sotto la direzione dello stesso Papato, nel movimento di Azione Cattolica, in cui la funzione dell’Italia come nazione è ridotta al minimo (all’apporto di quella parte del personale centrale vaticano che è italiano, ma non può mettere in prima linea, come una volta, il suo essere italiano); e si sviluppa una parte «laica», anzi in opposizione al Papato, che cerca rivendicare una funzione di primato italiano e di missione italiana nel mondo indipendentemente dal Papato.

Questa seconda parte, che non può riferirsi a un organismo ancora così potente come la Chiesa romana, e manca pertanto di un punto di riferimento centralizzatore, non ha la stessa compattezza del primo, ha varie linee spezzate di sviluppo e si può dire confluisca nel mazzinianismo. Ma ciò che è importante storicamente è che nel Settecento questa tradizione incominci a concretarsi e a distinguersi, a muoversi con dialettica intima: significa che questa tradizione letterario‑rettorica sta diventando un elemento politico, sta diventando il suscitare del terreno ideologico in cui le forze politiche effettive riusciranno a determinare lo schieramento delle più grandi masse popolari necessarie per raggiungere i fini loro proprii, riusciranno a mettere in iscacco e il Papato stesso e le altre forze di reazione esistenti nella penisola accanto al Papato.

Che il liberalismo sia riuscito a creare la forza cattolico‑liberale e a ottenere che lo stesso Pio IX si ponesse, sia pure per poco, nel terreno del liberalismo (quanto fu sufficiente per disgregare l’apparato politico cattolico e togliergli la fiducia in se stesso) fu il capolavoro politico del Risorgimento e uno dei punti più importanti di risoluzione dei vecchi nodi che avevano impedito fino allora di pensare concretamente alla possibilità di uno Stato unitario italiano. (Se questo elemento della trasformazione della tradizione culturale italiana lo si pone come elemento necessario nello studio delle origini del Risorgimento, e il suo disfacimento è concepito come fatto positivo, come condizione necessaria per il sorgere e lo svilupparsi dell’elemento positivo liberale-nazionale, allora acquistano un certo significato, non trascurabile, movimenti come quello «giansenistico», che altrimenti apparirebbero come mere curiosità da eruditi. Si tratterebbe insomma di uno studio dei «corpi catalitici» nel campo storico‑politico italiano, elementi catalitici che non lasciano traccia di sé, ma hanno avuto una insostituibile funzione strumentale nel creare il nuovo organismo storico).

La mancanza di prospettiva storica nei programmi di partito, prospettiva ricostruita «scientificamente», cioè con serietà scrupolosa, per basare su tutto il passato i fini da raggiungere nell’avvenire e da proporre al popolo come una necessità cui collaborare consapevolmente, ha permesso appunto il fiorire di tanti romanzi ideologici, che sono in realtà la premessa di un movimento politico che si suppone astrattamente necessario, ma per creare il quale in realtà non si fa niente di pratico.

È questo un fenomeno molto utile per facilitare le «operazioni» di quelle che spesso si chiamano le «forze occulte» o «irresponsabili», che operano attraverso i «giornali indipendenti», creano «artificialmente» moti d’opinione occasionali, mantenuti in vita fino al raggiungimento di un determinato scopo e poi lasciati illanguidire e morire. Sono appunto «compagnie di ventura» ideologiche, pronte a servire i gruppi plutocratici o d’altra natura, spesso appunto fingendo di lottare contro la plutocrazia. Organizzatore tipico di tali «compagnie» è stato Pippo Naldi, discepolo anch’egli di Oriani e organizzatore dei giornali di M. Missiroli.

§108 2. Origini del Risorgimento. Alberto Pingaud, autore di un libro su Bonaparte, président de la Republique Italienne e che sta preparando un altro libro su Le premier Royaume d’Italie (che è già stato pubblicato quasi tutto sparsamente in diversi periodici) è tra quelli che «collocano nel 1814 il punto di partenza e in Lombardia il focolare del movimento politico che ebbe termine nel 1870 con la presa di Roma».

Baldo Peroni, che nella «Nuova Antologia» del 16 agosto 1932 passa in rassegna questi scritti ancora sparsi del Pingaud, osserva: «Il nostro Risorgimento – inteso come risveglio politico – comincia quando l’amor di patria cessa di essere una vaga aspirazione sentimentale o un motivo letterario e diventa pensiero consapevole, passione che tende a tradursi in realtà mediante un’azione che si svolge con continuità e non s’arresta dinanzi ai più duri sacrifici. Ora, siffatta trasformazione è già avvenuta nell’ultimo decennio del settecento, e non soltanto in Lombardia ma anche a Napoli, in Piemonte; in quasi tutte le regioni d’Italia. I “patrioti” che tra l’89 e il ’96 sono mandati in esilio o salgono il patibolo, hanno cospirato, oltre che per istaurare la repubblica, anche per dare all’Italia indipendenza e unità; e negli anni successivi è l’amore dell’indipendenza che ispira e anima l’attività di tutta la classe politica italiana, sia che collabori coi francesi e sia che tenti dei moti insurrezionali allorché appare evidente che Napoleone non vuol concedere la libertà solennemente promessa».

Il Peroni, in ogni modo, non ritiene che il moto italiano sia da ricercarsi prima del 1789, cioè afferma una dipendenza del Risorgimento dalla Rivoluzione francese, tesi che non è accettata dalla storiografia nazionalistica. Tuttavia appare vero quanto il Peroni afferma, se si considera il fatto specifico e di importanza decisiva, della formazione di un gruppo politico che si svilupperà fino alla formazione dell’insieme dei partiti che saranno i protagonisti del Risorgimento.

Se nel caso del Settecento incominciano ad apparire e a consolidarsi le condizioni obbiettive, internazionali e nazionali, che fanno dell’unificazione nazionale un compito storicamente concreto (cioè non solo possibile ma necessario) è certo che solo dopo l’89 questo compito diventa consapevole in gruppi di uomini disposti alla lotta. Cioè la Rivoluzione francese è uno degli eventi europei che maggiormente operano per approfondire un movimento già iniziato nelle «cose», rafforzando le condizioni positive del movimento stesso e funzionando come centro di aggregazione e centralizzazione delle forze umane dispersc in tutta la penisola e che altrimenti molto avrebbero tardato a «incontrarsi» e comprendersi tra loro.

Su questo stesso argomento è da vedere l’articolo di Gioacchino Volpe Storici del Risorgimento a Congresso nell’«Educazione Fascista» del luglio 1932.

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Il Volpe informa sul Ventesimo Congresso della Società Nazionale per la Storia del Risorgimento tenuto a Roma nel maggio‑giugno 1932. La Storia del Risorgimento fu prima concepita prevalentemente come «storia del patriottismo italiano». Poi essa cominciò ad approfondirsi, «ad essere vista come vita italiana del XIX secolo e quasi dissolta nel quadro di quella vita, presa tutta in un processo di trasformazione, coordinazione, unificazione, ideali e vita pratica, coltura e politica, interessi privati e pubblici». Dal secolo XIX si risalì al secolo XVIII e si videro nessi prima nascosti ecc.

Il secolo XVIII «fu visto dall’angolo visuale del Risorgimento, anzi come Risorgimento anch’esso: con la sua borghesia ormai nazionale; con il suo liberalismo che investe la vita economica e la vita religiosa e poi quella politica e che non è tanto un “principio” quanto una esigenza di produttori; con quelle prime concrete aspirazioni ad “una qualche forma di unità” (Genovesi), per la insufficienza dei singoli Stati, ormai riconosciuta, a fronteggiare, con la loro ristretta economia, la invadente economia di paesi tanto più vasti e forti. Nello stesso secolo si delineava anche una nuova situazione internazionale. Entravano cioè nel pieno giuoco forze politiche europee interessate ad un assetto più indipendente e coerente e meno staticamente equilibrato della penisola italiana. Insomma una “realtà” nuova italiana ed europea, che dà significato e valore al nazionalismo dei letterati, riemerso dopo il cosmopolitismo dell’età precedente».

Il Volpe non accenna specificamente al rapporto nazionale e internazionale rappresentato dal Vaticano, che anch’esso subisce nel secolo XVIII una radicale trasformazione: scioglimento dei gesuiti in cui culmina il rafforzarsi dello Stato laico contro l’ingerenza religiosa ecc. Si può dire che oggi, per la storiografia del Risorgimento, per il nuovo influsso esercitato dal Vaticano dopo il Concordato, il Vaticano è diventato una delle maggiori, se non la maggiore, forza di remora scientifica e di maltusianesimo metodico. Precedentemente accanto a questa forza, che è stata sempre molto rilevante, esercitavano una funzione di restrizione dell’orizzonte storico la monarchia e la paura del separatismo. Molti lavori storici non furono pubblicati per queste ragioni (Storia della Sardegna dopo il 1830 del barone Manno, episodio Bollea durante la guerra ecc.).

I pubblicisti repubblicani si erano specializzati nella storia «libellistica», sfruttando ogni opera storica che ricostruisse scientificamente gli avvenimenti del Risorgimento e perciò ne conseguì una limitazione delle ricerche e un prolungarsi delle storie apologetiche e rettoriche, la impossibilità di sfruttare gli archivi ecc., tutta la meschinità della storiografia del Risorgimento quando la si paragona a quella della Rivoluzione francese. Oggi le preoccupazioni monarchiche e separatiste si sono andate assottigliando, ma sono cresciute quelle vaticanesche e clericali. Una gran parte degli attacchi alla Storia dell’Europa del Croce sono evidentemente di questa origine.

Nel Ventesimo Congresso sono stati trattati argomenti molto interessanti per questa rubrica. Pietro Silva: Il problema italiano nella diplomazia europea del XVIII secolo. Così il Volpe riassume lo studio del Silva: «Il XVIII secolo vuol dire influenza di grandi potenze in Italia, ma anche loro contrasti: e perciò, progressiva diminuzione del dominio diretto straniero e sviluppo di due forti organismi statali a nord e a sud. Col trattato di Aranjuez tra Francia e Spagna, 1752, e subito dopo, col ravvicinamento Austria‑Francia, si inizia una stasi di quarant’anni per i due regni, pur con molti sforzi di rompere il cerchio Austro‑francese, tentando approcci con Prussia, Inghilterra, Russia. Ma il quarantennio segna anche lo sviluppo di quelle forze autonome che, con la Rivoluzione e con la rottura del sistema austro-francese, scenderanno in campo per una soluzione in senso nazionale ed unitario del problema italiano. Ed ecco le riforme ed i principi riformatori, oggetto, gli ultimi tempi, di molti studi, per il regno di Napoli e di Sicilia, per la Toscana, Parma e Piacenza, Lombardia». Carlo Morandi: Le riforme settecentesche nei risultati della recente storiografia, ha studiato la posizione delle riforme italiane nel quadro del riformismo europeo, e il rapporto tra riforme e Risorgimento.

Per il rapporto tra Rivoluzione francese e Risorgimento il Volpe scrive: «È innegabile che la Rivoluzione (francese), vuoi come ideologie, vuoi come passioni (!), vuoi come forza armata, vuoi come Napoleone, immette elementi nuovi nel flusso in movimento della vita italiana. Non meno innegabile che l’Italia del Risorgimento, organismo vivo, assimilando l’assimilabile di quel che veniva dal di fuori e che, in quanto idee, era un po’ anche rielaborazione altrui di ciò che già si era elaborato in Italia, reagisce, insieme, ad esso, lo elimina e lo integra, in ogni modo lo supera. Essa ha tradizioni proprie, mentalità propria, problemi propri, soluzioni proprie: che son poi la vera e profonda radice, la vera caratteristica del Risorgimento, costituiscono la sua sostanziale continuità con l’età precedente, lo rendono capace alla sua volta di esercitare anche esso una sua azione su altri paesi: nel modo come tali azioni si possono, non miracolisticamente ma storicamente, esercitare, entro il cerchio di popoli vicini e affini».

Queste osservazioni del Volpe non sono esatte: come si può parlare di «tradizioni, mentalità, problemi, soluzioni» propri dell’Italia? O almeno, cosa significa? Le tradizioni, la mentalità, i problemi, le soluzioni erano molteplici, contraddittori e non erano visti unitariamente. Le forze tendenti all’unità erano scarsissime, disperse, senza legami tra loro e senza capacità di crearseli. Le forze contrastanti a quelle unitarie erano potentissime, coalizzate, e specialmente come Chiesa assorbivano in sé una gran parte delle energie nazionali che altrimenti sarebbero state unitarie, dando loro un indirizzo cosmopolita‑clericale.

I fattori internazionali e specialmente la Rivoluzione francese stremando queste forze reazionarie e logorandole, potenziano per contraccolpo le forze nazionali in se stesse scarse e inefficienti. È questo il contributo più importante della Rivoluzione, molto difficile da valutare e definire, ma che s’intuisce di peso decisivo nel dare l’avviata al moto del Risorgimento.

   continua

§ 89 2. Interpretazioni del Risorgimento italiano. Ne esiste un bel mucchio e il loro studio non è privo di interesse e di significato. Il loro valore è di carattere politico e ideologico, non storico, la portata nazionale è scarsa, sia per la troppa tendenziosità, sia per l’assenza di ogni apporto costruttivo, sia per il carattere troppo astratto, spesso bizzarro e romanzato. Si può vedere che queste interpretazioni fioriscono nei periodi più caratteristici di crisi politico‑sociale e sono conati per determinare una riorganizzazione delle forze politiche esistenti, per suscitare nuove correnti intellettuali nei vecchi organismi di partito, o per esalare sospiri e gemiti di disperazione e di nero pessimismo.

Mi pare che tale letteratura possa dividersi provvisoriamente in due grandi gruppi: 1. Quello delle interpretazioni propriamente dette, come sarebbe quella contenuta nella Lotta politica in Italia e negli altri scritti di polemica politica di Alfredo Oriani, che ne ha determinato altre attraverso le opere di Mario Missiroli, come quella di Gobetti e di Guido Dorso. Accanto ad esse le interpretazioni di Curzio Malaparte (sull’Italia barbara; lotta contro la Riforma protestante ecc.); e di Carlo Curcio (L’eredità del Risorgimento, Firenze, La Nuova Italia, 1931, pp. 114, L. 12). Bisogna ricordare gli scritti di F. Montefredini (vedi saggio del Croce in proposito nella Letteratura della nuova Italia) per le «bizzarrie» e quelli di Aldo Ferrari (nella «Nuova Rivista Storica» e in volumi e volumetti) come «bizzarrie» e romanzo nel tempo stesso.

2. Un altro gruppo è rappresentato dal libro di Gaetano Mosca, Teorica dei governi e governo parlamentare pubblicato la prima volta nel 1883 e ristampato nel 1925 (Milano, Soc. An. Istituto Editoriale Scientifico, in 8°, pp. 301, L. 25); dal libro di Pasquale Turiello, Governo e governati; di Leone Carpi, L’Italia vivente; di Luigi Zini, Dei criteri e dei modi di governo; Giorgio Arcoleo, Governo di Gabinetto; Marco Minghetti, I partiti politici e la loro influenza nella giustizia e nell’amministrazione; libri di stranieri come quello del Laveleye, Lettere d’Italia; di von Loher, La nuova Italia, e anche del Brachet, L’Italie qu’on voit et l’Italie qu’on ne voit pas; oltre ad articoli della «Nuova Antologia» (e della «Rassegna settimanale» di Sonnino ecc.), di P. Villari, di R. Bonghi, del Palma, ecc. (fino all’articolo del Sonnino Torniamo allo Statuto!).

Questa letteratura è una conseguenza della caduta della Destra, dell’avvento al potere della Sinistra e delle innovazioni «di fatto» introdotte nel regime parlamentare. In gran parte sono lamentele, recriminazioni, giudizi pessimistici e catastrofici sulla situazione italiana. Di questo fenomeno parla il Croce nei primi capitoli della sua Storia d’Italia dal 1871  al 1915.

Ad essa fa pendant la letteratura degli epigoni del Partito d'Azione (tipico il libro di Luigi Anelli stampato recentemente da Arcangelo Ghisleri) sia in volumi, che in opuscoli e in articoli di riviste.

Si può osservare questo nesso tra le varie epoche di tale attività pseudo critica: 1) letteratura dovuta a elementi conservatori, furiosi per la caduta della Destra e della Consorteria (cioè per la diminuita importanza nella vita statale dei grandi proprietari terrieri e dell’aristocrazia, ché di una sostituzione di classe non si può parlare), fegatosa, biliosa, acrimoniosa, senza elementi costruttivi, perché nel passato non esiste nessun punto di riferimento reazionario che possa proporsi di restaurare con un certo pudore e qualche dignità; nel passato ci sono i vecchi regimi regionali, l’influenza del Papa e dell’Austria.

L’accusa che il regime parlamentare è «copiato» da altre nazioni, non è italiano, ecc., rimane una vuota recriminazione senza costrutto: il riferimento a una «tradizione» italiana di governo è necessariamente vago e astratto, poiché questa tradizione non ha prospettive storicamente apprezzabili: in tutto il passato non è esistita mai una unità territoriale‑statale italiana, la prospettiva dell’egemonia papale (propria del Medio Evo e fino al periodo dei domini stranieri) è già stata travolta col neoguelfismo. (Vediamo infatti che infine questa prospettiva sarà trovata nell’epoca romana, con ondeggiamenti, secondo i partiti, tra la Roma repubblicana e la Roma cesarea, ma il fatto avrà un nuovo significato e sarà caratteristico di nuovi indirizzi delle ideologie popolari).

Questa letteratura precede quella del gruppo Oriani‑Missiroli, che ha un significato più popolare‑nazionale e questa precede quella del gruppo Gobetti‑Dorso che ha ancora un altro significato più attuale. In ogni modo anche queste due nuove tendenze mantengono un carattere astratto e letterario: uno dei punti più interessanti è il problema della mancanza di una riforma protestante o religiosa in Italia, che è visto in modo meccanico ed esteriore e ripete uno dei canoni storici del Masaryk nei suoi studi di storia della Russia.

Tutta questa letteratura ha una importanza «documentaria» per i tempi in cui è apparsa. I libri dei «destri» dipingono la corruzione politica e morale nel periodo della sinistra ma la letteratura degli epigoni del Partito d'Azione non presenta come molto migliore il periodo del governo della destra. Risulta che non c’è stato nessun cambiamento essenziale nel passaggio dalla Destra alla Sinistra: il marasma in cui si trova il paese non è dovuto al regime parlamentare (che forse rende solo pubblico ciò che prima rimaneva nascosto o quasi) ma alla debolezza generale della classe dirigente, e alla grande miseria del paese.

Politicamente la situazione è assurda: a destra stanno i clericali, il partito del Sillabo, che negano in tronco tutta la civiltà moderna e boicottano lo Stato, impedendo che si costituisca un vasto partito conservatore; nel centro stanno tutte le gamme liberali, dai moderati ai repubblicani, sui quali operano tutti i ricordi degli odi dei tempi delle lotte e che si dilaniano implacabilmente; a sinistra il paese misero, arretrato, ignorante, esprime sia pure in forma sporadica una serie di tendenze sovversive anarcoidi, senza consistenza e indirizzo politico, che mantengono uno stato febbrile senza avvenire costruttivo. Non esiste un «partito economico», ma dei gruppi di ideologi declassés di tutte le classi: galli che annunziano un sole che mai non sorgerà.

I libri del gruppo Mosca‑Turiello incominciavano a essere rimessi in voga negli anni precedenti alla guerra (si può vedere nella «Voce» il richiamo continuo al Turiello) e il libro di Mosca fu ristampato nel 1925 con qualche nota dell’autore per ricordare che si tratta di idee del 1883 e che l’autore nel ’25 non è più d’accordo con lo scrittore ventiquattrenne del 1883.

La ristampa del libro del Mosca è uno dei tanti episodi dell’incoscienza e del dilettantismo politico dei liberali nel primo e secondo dopoguerra. Il libro è rozzo, incondito, scritto affrettatamente da un giovane che vuole «distinguersi» nel suo tempo con un atteggiamento estremista e con parole grosse e spesso triviali in senso reazionario. I concetti politici dell’autore sono vaghi e ondeggianti, la sua preparazione filosofica è nulla (e tale è rimasta in tutta la carriera letteraria del Mosca), i suoi principi di tecnica politica sono anch’essi vaghi e astratti e hanno carattere piuttosto giuridico. Il concetto di «classe politica», la cui affermazione diventerà il centro di tutti gli scritti di scienza politica del Mosca, è di estrema labilità e non è ragionato né giustificato teoricamente.

Tuttavia il libro del Mosca è utile come documento. L’autore vuole essere spregiudicato per programma, non avere peli sulla lingua e così finisce per mettere in vista molti aspetti della vita italiana del tempo, che altrimenti non trovano documento. Sulla burocrazia civile e militare, sulla polizia ecc. egli offre dei quadri talvolta di maniera, ma con una sostanza di verità (per esempio sui sottufficiali nell’esercito, sui delegati di pubblica sicurezza ecc.). Le sue osservazioni sono specialmente valide per la Sicilia, per l’esperienza diretta del Mosca di quell’ambiente. Nel 1925 il Mosca aveva cambiato punti di vista e prospettive, il suo materiale era sorpassato, tuttavia egli ristampò il libro per vanità letteraria, pensando di immunizzarlo con qualche noterella palinodica.

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Bibliografia- Sulla situazione politica italiana proprio nel 1883 e sull’atteggiamento dei clericali si può trovare qualche spunto interessante nel libro del Maresciallo Lyautey Lettres de Jeunesse, Parigi, Grasset (1931). Secondo il Lyautey molti italiani, tra i più devoti al Vaticano non credevano nell’avvenire del regno; ne prevedevano la decomposizione, da cui sarebbe nata un’Alta Italia con Firenze capitale, un’Italia meridionale con capitale Napoli, e Roma in mezzo, con sbocco al mare. Sull’esercito italiano d’allora, che in Francia era poco apprezzato, il Lyautey riferisce il giudizio del conte di Chambord: «Ne vous y trompez pas. Tout ce que j’en sais (dell’esercito italiano), me la (armée) fait juger très sérieuse, très digne d’attention. Sous leurs façons un peu théâtrales et leurs plumets, les officiers y sont fort instruits, fort appliqués. C’est d’ailleurs l’opinion de mon neveu de Parme qui n’est pas payé pour les aimer».

Txt: A. Oriani - La lotta politica in Italia

Txt: A. Oriani - Fino a Dogali

Scritti del nuovo periodo nell’attività del padre Carlo Maria Curci: Il moderno dissidio tra la Chiesa e l’Italia, considerato per occasione di un fatto particolare, IIa ed. migliorata ed accresciuta, in 8°, pp. XII‑276, 1878, L. 4,50; La nuova Italia e i vecchi zelanti. Studi utili ancora all’ordinamento dei partiti parlamentari, in 8°, pp. VIII‑256, 1881, L. 5,25; Il Vaticano Regio, tarlo superstite della Chiesa Cattolica. Studi dedicati al giovane clero ed al laicato credente, in 8°, pp. VIII-336, 1883, L. 4,50; Lo scandalo del «Vaticano Regio», duce la Provvidenza, buono a qualcbe cosa, in 8°, pp. XVI‑136, 1884, L. 2,25 (questi libri sono ancora in vendita presso l’Utet di Torino, secondo il catalogo del 1928).

§126 Risorgimento. Significato della Vita Militare del De Amicis: da porre accanto ad alcune pubblicazioni di G. C. Abba, nonostante il contrasto intimo e il diverso atteggiamento, Abba, più «educativo» e più «nazionale‑popolare», più «democratico», perché politicamente più robusto e austero.

Nella Vita Militare è da vedere il capitolo «L’Esercito italiano durante il colera del 1867» perché ritrae l’atteggiamento del popolo siciliano verso il governo e gli «italiani» dopo la sommossa del settembre 1866. Guerra del 66, sommossa di Palermo, colera: i tre fatti non possono essere staccati.

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§97 MarxEngels e l’Italia. Una raccolta sistematica di tutti gli scritti (anche dell’epistolario) che riguardano l’Italia e considerano problemi italiani. Ma una raccolta che si limitasse a questa scelta non sarebbe organica e compiuta. Esistono scritti di Marx ed Engels che pure non riguardando specificatamente l’Italia, hanno importanza per l’Italia, importanza non generica, s’intende, perché altrimenti tutte le opere dei due scrittori riguardano l’Italia.

Il piano dell’opera potrebbe essere costruito secondo questi criteri: 1) scritti che riguardano specificatamente l’Italia; 2) scritti che riguardano argomenti «specifici» di critica storica e politica, che pur non riguardando l’Italia, hanno attinenza coll’Italia. Esempi: l’articolo sulla costituzione spagnola del 1812 ha attinenza con l’ltalia, per la funzione politica che tale costituzione ha avuto nei movimenti italiani fino al 48. Così ha attinenze con l’Italia la critica della Miseria della filosofia contro la falsificazione della dialettica hegeliana fatta da Proudhon, che corrisponde a corrispondenti movimenti intellettuali italiani (Gioberti, l’hegelismo dei moderati, rivoluzione passiva, dialettica di rivoluzione, restaurazione). Così lo scritto di Engels sui movimenti libertari spagnoli del 1873 (dopo l’abdicazione di Amedeo di Savoia) ha attinenza con l’Italia ecc. Forse di questa seconda serie di scritti non bisogna fare l’antologia, ma è sufficiente uno studio analitico‑ critico.

Ma il piano più organico sarebbe quello di tre volumi: introduzione storico‑critica generale; scritti sull’Italia; scritti attinenti indirettamente l’Italia.

Mat. Bibl.: Marx e Engels - Scritti sull'Italia

Tra le altre memorie presentate al Congresso è da notare quella di Giacomo Lumbroso su La reazione popolare contro i francesi alla fine del 1700. Il Lumbroso sostiene che «le masse popolari, specialmente contadinesche, reagirono non perché sobillate dai nobili e neppure per amor di quieto vivere (difatti, impugnarono le armi!) ma, in parte almeno, per un oscuro e confuso amor patrio o attaccamento alla loro terra, alle loro istituzioni, alla loro indipendenza (!?): donde il frequente appello al sentimento nazionale degli italiani, che fanno i “reazionari”, già nel 1799», ma la quistione è mal posta così e piena di equivoci.

Cosa vuol dire la parentesi ironica del Volpe che non si possa parlare di amor di quieto vivere perché si impugnano le armi? Non c’è per nulla contraddizione, perché «quieto vivere» è inteso in senso politico di misoneismo e conservatorismo e non esclude la difesa armata delle proprie posizioni sociali. Inoltre la quistione dell’atteggiamento delle masse popolari non può essere impostata indipendentemente da quella delle classi dirigenti, perché le masse popolari si muovevano per ragioni immediate e contingenti contro gli «stranieri» invasori in quanto nessuno aveva loro insegnato a conoscere un indirizzo politico diverso da quello localistico e ristretto. Le reazioni spontanee delle masse popolari servono a indicare la forza didirezione delle classi alte; in Italia i liberali‑borghesi trascurarono sempre le masse popolari ecc.

Storia

§113 Pubblicazione di libri e memorie dovute agli antiliberali, «antifrancesi» nel periodo della Rivoluzione e di Napoleone e reazionari nel periodo del Risorgimento. Queste pubblicazioni sono certo necessarie, in quanto le forze avverse al moto liberale italiano erano anch’esse una parte della realtà, ma occorre tener conto di alcuni criteri: 1°) molte pubblicazioni, come il Memorandum del Solaro della Margarita e forse anche volumi curati dal Lovera e dal gesuita Rinieri, hanno o uno scopo attuale, di rafforzare certe tendenze reazionarie nell’interpretazione del Risorgimento (rappresentate specialmente dai gesuiti della «Civiltà Cattolica») o sono presentati come testi per l’azione attuale (come il Memorandum del Solaro, il Papa di De Maistre ecc.). 2°) Le descrizioni degli interventi francesi in Italia sotto il Direttorio sono dovuti, specialmente per certe parti d’Italia, solo a reazionari: i giacobini si arruolavano e quindi avevano altro da fare che scrivere memoriali. I quadri sono pertanto sempre tendenziosi e sarebbe molto ingenuo ricostruire la realtà su tali documenti.

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Di queste pubblicazioni cfr Ranuccio Ranieri, L’invasione francese degli Abruzzi nel 1798‑99, ed una memoria del tempo inedita di Giovanni Battista Simone, Pescara, Edizioni dell’«Adriatico», 1931. Dalla narrazione del Simone, un antigiacobino e legittimista, appare che in Chieti città la forza giacobina era di una certa forza, ma nella campagna (salvo eccezioni dovute a rivalità municipali e al desiderio di aver l’occasione di fare delle vendette) prevalevano le forze reazionarie nella lotta contro Chieti. Pare che più della memoria del Simone, enfatica e verbosa, sia interessante l’esposizione del Ranieri che ricostruisce la situazione dell’Abruzzo in quel periodo di storia.

§115 La rivoluzione del 1831. Nell’«Archiginnasio» (4‑6, anno XXVI, 1932) Albano Sorbelli pubblica e commenta il testo del Piano politico costitutivo della rivoluzione del 1831 scritto da Ciro Menotti.

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Il documento era già stato pubblicato da Enrico Ruffini nel 1909 nell’«Archivio Emiliano del Risorgimento Nazionale», Fasc. 10 e 11. Anche il volume di Arrigo Solmi sui fatti del 31 si basa su questo piano. Ora si è potuto, con un reagente, far rivivere lo scritto del Menotti e fotografarlo per L’Archiginnasio.

§116 Carlo Felice. È da leggerne la biografia scrittane da Francesco Lemmi per la «Collana storica sabauda» dell’editore Paravia. Punti: avversione di Carlo Felice contro il ramo Carignano: in alcune lettere scritte al fratello Vittorio Emanuele nel 1804 si leggono contro i genitori di Carlo Alberto parole roventi che, dettate da non si sa quale risentimento, giungono a scongiurare come una vergogna quella non desiderata successione. 1821. – Nota il Lemmi che Carlo Felice non fece una politica italiana, ma mirò ad estendere i suoi possessi.

§117 Martino Beltrani Scalia, Giornali di Palermo nel 1848‑1849, con brevi accenni a quelli delle altre principali città d’Italia nel medesimo periodo, a cura del figlio Vito Beltrani Palermo, Sandron, 1931.

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Si tratta di una esposizione condensata in poche linee del contenuto di singoli periodici pubblicati a Palermo nel 1848 e 1849 e anche nell’anno precedente, nonché di numerosi giornali del continente (di Napoli, di Roma, della Toscana, del Piemonte) e della Svizzera (cioè dell’«Italia del popolo» di Mazzini), esposizione fatta generalmente giorno per giorno. Per i giornali non siciliani si dava importanza a ciò che riguardava la Sicilia. Nel 1847 i giornali palermitani erano appena sei; nel 1848‑49 il Beltrani Scalia ne annovera centoquarantuno e non è da escludere che gliene sia sfuggito qualcuno.

Dai sunti del Beltrani Scalia appare l’assenza dei partiti permanenti: si tratta per lo più di opinioni personali, spesso contraddittorie nello stesso foglio. Pare che il saggio del Beltrani Scalia dimostri che aveva ragione il La Farina quando nella Storia documentata della rivoluzione siciliana scrisse che «la stampa periodica, salvo scarse ed onorevoli eccezioni, non rispose mai all’altezza del suo ministero: fu scandalo, non forza».

§114 Merimée e il 48. Nella «Revue des deux Mondes» (fasc. 15 maggio 1932) è pubblicato un manipolo di lettere di Prospero Merimée alla Contessa De Boigne (autrice delle famose Memorie).

Sul 48 in Italia: «I Piemontesi non si preoccupano affatto del nostro aiuto e noi impediamo gli italiani di aiutarli col promettere il rinforzo del nostro invincibile esercito: un viaggiatore che viene di Lombardia racconta che il paese, come in pieno Medio Evo, è diviso in tante piccole repubbliche quanti sono i borghi e i villaggi, ostili l’uno all’altro nell’attesa di prender le armi». Il Merimée era favorevole all’unità italiana.

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Racconta aneddoti piccanti sulla situazione francese: per esempio i contadini, votando per Luigi Napoleone, credevano di votare per Napoleone I. Inutilmente si cerca di spiegare loro che la salma dell’Imperatore è sepolta agli Invalidi. (Che l’equivoco di un possibile aiuto dell’esercito francese abbia nel 48 influito nel non determinare un maggior movimento di volontari ecc. è possibile: si spiegherebbe meglio così il motto dell’«Italia farà da sé», ma non si spiegherebbe lo stesso l’inerzia militare anche del Piemonte e l’assenza di una chiara direzione politico‑militare, nel senso altrove spiegato).

§102 Il 1849 a Firenze. Nella «Rassegna Nazionale» Aldo Romano ha pubblicato una lettera di R. Bonghi e una di Cirillo Monzani scritte a Silvio Spaventa nel 1849 da Firenze durante il periodo della dittatura GuerrazziMontanelli (cfr «Marzocco» del 21 febbraio, e quindi si tratterà della «Rassegna Nazionale» del febbraio 1932), che sono interessanti per giudicare quale fosse l’atteggiamento dei moderati verso il periodo democratico della rivoluzione italiana 1848‑49 e anche per trarne qualche elemento obbiettivo di fatto. Colpisce appunto come questi due moderati si mostrino estranei agli avvenimenti, spettatori incuriositi e malevoli e non attori interessati.

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Ecco un brano del Bonghi, scritto quindici giorni dopo la fuga del Granduca: «La fazione repubblicana intende a rizzare dovunque quell’albero con così poco concorso rizzato a Firenze, insino dalla sera che si seppe il proclama di De Laugier, e mediante l’opera di alcuni livornesi fatti venire a bella posta. Questo rizzamento ha poco o nessun contrasto nelle città principali o più popolose; ma ne ha molto nelle più piccole e moltissimo nelle campagne. Ier sera si voleva rizzare fuori Porta Romana; furori grida di evviva; poi contrasto di chi voleva e di chi non voleva; poi colpi di coltello e fucilate; infine un grande sconquasso. I contadini dei dintorni, credendo che fosse una baldoria che si facesse per il ritorno del granduca, o che fossero già istigati e preparati alla reazione, o comechessia, cominciarono anch’essi a fare gli evviva a Leopoldo II, a tirar fucilate, a cavar bandiere, ad agitar fazzoletti, a sparar mortaletti e cose simili».

Più sintomatico è lo scritto del Monzani, che meglio dà uno scampolo di quella che doveva essere la propaganda disfattista dei moderati: «La cecità e, quel che è peggio, la mala fede, l’astuzia, il raggiro, mi paiono giunti al colmo. Si parla molto di patria, di libertà, ma pochi hanno in cuore la patria, e saprebbero fare estremi sacrifizi, ed esporre le vite a salvamento di essa. Questi santissimi nomi sono purtroppo profanati, ed i più se ne servono come pala ad ottenere o potenza o ricchezza. Forse m’ingannerò, ma l’aspettarsi salvezza da costoro mi parrebbe il medesimo che aspettarla dal turco. Io non sono avvezzo ad illudermi, né a correr dietro ai fantasmi, ché troppo gli italiani si sono lasciati prendere al laccio delle chimere e dalle utopie di certi apostoli, i quali ormai sono troppo dannosi alla nostra disgraziata patria».

Le due lettere furono sequestrate allo Spaventa al momento dell’arresto. I Borboni erano troppo arretrati per servirsene contro i liberali, facendole commentare dai loro pennaioli (i Borboni odiavano troppo i pennaioli per averne anche al proprio servizio), si limitarono a passarle agli atti del processo Spaventa. (Tutto lo spirito del Bonghi è riposto in quel continuo ripetere «rizzare» e «rizzamento» alla napoletana!)

§94 Bibliografia. Gli scritti del padre Curci, dopo la sua conversione al cattolicesimo liberale, sono utili per stabilire la situazione intorno al 1880. La conversione del Curci, celebre e battagliero gesuita della «Civiltà Cattolica», rappresenta forse, dopo il 1870, il più gran colpo ricevuto dalla politica vaticana di boicottaggio del nuovo Stato unitario e l’inizio di quel processo molecolare che trasformerà il mondo cattolico fino alla fondazione del Partito Popolare.

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§90 Le sètte nel Risorgimento. Cfr Pellegrino Nicolli, La Carboneria in Italia, Vicenza, Edizioni Cristofari (1931). Il Nicolli cerca di distinguere nella Carboneria le diverse correnti, che spesso la componevano, e di dare un quadro delle diverse sètte che pullularono in Italia nella prima parte del secolo XIX. Dal «Marzocco» del 25 ottobre 1931 che recensisce la pubblicazione del Nicolli, riporto questo brano: «È un groviglio di nomi strani, di emblemi, di riti, di cui si ignorano il più delle volte le origini; un confuso mescolarsi di propositi disparati, che variano non soltanto da società a società, ma nella stessa società, la quale, secondo i tempi e le circostanze, muta metodi e programmi. Dal vago sentimento nazionale si arriva alle aberrazioni del comunismo e, per converso, si hanno sètte che, ispirandosi agli stessi sistemi dei rivoluzionari, assumono la difesa del trono e dell’altare. Sembra che rivoluzione e reazione abbiano bisogno di battersi in un campo chiuso, dove non penetra occhio profano, tramando congiure al lume di fiaccole fumose e maneggiando pugnali. Un filo che ci guidi in mezzo a questo labirinto non c’è ed è vano chiederlo al Nicolli, che pure ha fatto del suo meglio per trovarlo. Si tenga anche soltanto presente la Carboneria, che è in certo modo il gran fiume nel quale convogliano tutte le altre società segrete».

Il Nicolli si è proposto di «raccogliere sinteticamente quanto da valenti storici è stato finora scritto» sulle società segrete nel Risorgimento.

§92 Correnti popolari nel Risorgimento (storia delle classi subalterne). Carlo Bini. (Cfr Le più belle pagine di Carlo Bini raccolte da Dino Provenzal).

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Giovanni Rabizzani in uno studio su Lorenzo Sterne in Italia (forse in edizione di Rocco Carabba di raccolta di brani dello Sterne sull’Italia nella collezione – di prima della guerra – dell’«Italia negli scrittori stranieri») ricorda il Bini e rileva un notevole contrasto tra i due: lo Sterne più inclinato alle analisi sentimentali e meno scettico, il Bini più attento ai problemi sociali, tanto che il Rabizzani lo chiama addirittura socialista. In ogni caso è da notare che Livorno fu delle pochissime città (se non la sola) che nel 48‑49 vide un profondo movimento popolare, un intervento di masse che ebbe vaste ripercussioni in tutta la Toscana e che mosse a spavento i gruppi moderati e conservatori (ricordare le Memorie di Giuseppe Giusti). Il Bini è da vedere perciò, accanto al Montanelli, anche nel quadro del 1849 toscano.

§96 Caratteri popolareschi del Risorgimento. Volontari e intervento popolare. Nel numero del 24 maggio di «Gioventù Fascista» (riportato dal «Corriere» del 21 maggio 1932) è pubblicato questo messaggio dell’on. Balbo: «Le creazioni originali della storia e della civiltà italiana, dal giorno in cui risorse dal letargo secolare ad oggi, sono dovute al volontariato della giovinezza. La santa canaglia di Garibaldi, l’eroico interventismo del ’15, le Camicie Nere della Rivoluzione fascista hanno dato unità e potenza all’Italia: hanno fatto, di un popolo disperso, una nazione. Alle generazioni che ora si affacciano alla vita sotto il segno del Littorio, il compito di dare al secolo nuovo il nome di Roma».

L’affermazione centrale dell’on. Balbo, che l’Italia moderna è caratterizzata dal volontariato, è giusta (si può aggiungere l’arditismo di guerra), ma occorre notare che il volontariato, pur nel suo pregio storico che non può essere diminuito, è stato un surrogato dell’intervento popolare, e in questo senso è una soluzione di compromesso con la passività delle grandi masse.

Volontariato‑passività vanno insieme più di quanto si creda. La soluzione col volontariato è una soluzione di autorità, legittimata «formalmente» da un consenso, come si dice, dei «migliori». Ma per costruire storia duratura non bastano i «migliori», occorrono le più vaste e numerose energie nazionali‑popolari.

§93 Risorgimento e quistione orientale. In una serie di scritti si dà importanza alle manifestazioni letterarie nel periodo del Risorgimento in cui la quistione orientale è concepita in funzione dei problemi italiani. Disegno di inorientamento e balcanizzazione dell’Austria per compensarla del Lombardo‑Veneto perduto a profitto della rinascita nazionale italiana.

Non mi pare che questi disegni siano prova di grande capacità politica, come si pretende. Mi pare che debbano essere interpretati come sintomi di passività politica e di scoraggiamento di fronte alle difficoltà dell’impresa nazionale, scoraggiamento che si vela di disegni tanto più grandiosi quanto più astratti e vaghi in quanto non dipendeva dalle forze italiane di portarli a compimento.

Poiché «balcanizzare» l’Austria significava poi creare una situazione politico‑diplomatica europea (e implicitamente militare) in forza della quale l’Austria si fosse lasciata «balcanizzare»; significava cioè avere l’egemonia politica e diplomatica dell’Europa; una cosa da nulla, come si vede.

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Non si vede perché l’Austria non potesse, conservando il Lombardo‑Veneto, cioè la supremazia in Italia e una posizione dominante nel Mediterraneo centrale, conquistare anche una maggiore influenza nei Balcani e quindi nel Mediterraneo orientale. Questo anzi sarebbe stato l’interesse dell’Inghilterra, che basava sull’Austria un sistema di equilibrio europeo contro la Francia e contro la Russia. Ma lo stesso scarso sentimento di iniziativa politica autonoma e la sfiducia nelle proprie forze che erano implicate nel disegno del Balbo, dovevano rendere sorda l’Inghilterra a tali disegni.

Solo un forte Stato italiano che avesse potuto sostituire l’Austria nella sua funzione antifrancese nell’Europa centrale e nel Mediterraneo centrale avrebbe potuto muovere l’Inghilterra a simpatie italiane, come avvenne infatti dopo la politica delle annessioni nell’Italia centrale e l’impresa dei Mille contro i Borboni (cioè, prima dei fatti reali, solo un grande partito pieno di audacia e sicuro delle proprie mosse perché radicato nelle aspirazioni delle grandi masse popolari avrebbe ottenuto forse lo stesso risultatoIntegrato secondo il testo C., ma ciò appunto non esisteva, e il Balbo coi suoi amici non volevano che si formasse).

La balcanizzazione dell’Austria dopo la perdita dell’egemonia nella penisola italiana, avrebbe avuto conseguenze gravi per la politica inglese nel Mediterranco. Lo Stato napoletano sarebbe diventato un feudo russo, cioè la Russia avrebbe avuto la possibilità di un’azione politica militare di primo ordine proprio nel centro del Mediterraneo. (La quistione dei rapporti tra i Borboni di Napoli e lo Zarismo è tutto un aspetto della storia dal 1799 al 1860 da studiare e approfondire: dal libro di Nitti sul Capitale straniero in Italia stampato nel 1915 dai Laterza, si vede che ancora prima della guerra esistevano nell’Italia Meridionale per circa 150 milioni di lire di obbligazioni statali russe, ciò che indica il residuo di un lavorio non trascurabile di connessione tra l’Italia meridionale e la Russia).

Non bisogna dimenticare che la Quistione d’oriente non ha le sue essenziali ragioni di essere nei Balcani e in Turchia, ma è la forma politico‑diplomatica della lotta tra Inghilterra e Russia: è la quistione dell’India, la quistione del Mediterraneo, la quistione dell’Asia prossima e centrale, la quistione dell’Impero inglese ecc.

Il libro in cui il Balbo sosteneva la sua tesi, Le speranze d’Italia, fu pubblicato nel 1844 e la tesi stessa non ebbe nessun’altra efficacia se non quella di far conoscere la quistione orientale attirando l’attenzione su di essa e quindi di facilitare (forse) la politica del Cavour a proposito della guerra di Crimea. Non ebbe nessuna efficacia nel 59 (quando il Piemonte e l’Italia pensarono di suscitare nemici all’Austria nei Balcani per illanguidirne la forza militare) perché questa azione fu circoscritta, di poco respiro e in ogni caso si ridusse a un episodio di organizzazione dell’attività militare franco‑piemontese in Italia: lo stesso si dica per il 1866, quando qualcosa di simile fu pensato dal governo italiano e da Bismarck per la guerra contro l’Austria. Cercare, in caso di guerra, di indebolire il nemico suscitandogli nemici all’interno e su tutto il perimetro dei confini politico‑militari non è elemento di un piano politico per l’Oriente, ma fatto di ordinaria amministrazione della guerra. Del resto, dopo il 60 e la formazione di uno Stato italiano di notevole importanza, l’inorientamento dell’Austria aveva un ben diverso significato internazionale e trovava consenziente tanto l’Inghilterra che la Francia napoleonica.

§123 Risorgimento. Il «mutuo insegnamento». Per l’importanza che ha avuto nel movimento liberale del Risorgimento il principio del «mutuo insegnamento» cfr Arturo Linacher su Enrico Mayer (due volumi). Il Mayer fu uno dei maggiori collaboratori dell’«Antologia» del Vieusseux e uno dei maggiori propagandisti del nuovo insegnamento.

 Elezioni tipiche: quella che porta la Sinistra al potere nel 1876, quella dopo l’allargamento del suffragio dopo il 1880, quella dopo il 1898, per il primo periodo; quella del 1913 è la prima elezione con caratteri popolari spiccati per la larga partecipazione di massa; 1919 è la più importante di tutte per il carattere proporzionale e regionale, che obbliga i partiti a raggrupparsi e perché in tutto il territorio, per la prima volta, si presentano gli stessi partiti con gli stessi (all’ingrosso) programmi.

In misura molto maggiore e più organica che nel 1913 (quando il collegio uninominale restringeva le possibilità e falsificava le posizioni politiche di massa) nel 1919 in tutto il territorio, in uno stesso giorno, tutta la parte più attiva del popolo italiano si pone le stesse quistioni e cerca di risolverle nella sua coscienza storico‑politica. Il significato delle elezioni del 1919 è dato dal complesso di elementi «unificatori» che vi confluiscono: la guerra era stata un elemento unificatore di primo ordine in quanto aveva dato la coscienza alle grandi masse dell’importanza che ha per il destino di ogni singolo individuo la costruzione dell’apparato di governo oltre all’aver posto una serie di problemi concreti, generali e particolari, che riflettevano l’unità popolare‑nazionale.

Si può dire che le elezioni del 1919 ebbero per il popolo un carattere di Costituente (questo carattere lo ebbero anche le elezioni del 1913, come può ricordare chiunque abbia assistito alle elezioni nei centri regionali dove maggiore era stata la trasformazione del corpo elettorale e come fu dimostrato dall’alta percentuale di partecipazione attiva: si era diffusa una convinzione mistica che tutto doveva cambiare col voto, di una vera e propria palingenesi sociale; così almeno in Sardegna), quantunque non l’avessero certo per «nessun» partito politico del tempo: in questa contraddizione tra il popolo e i partiti popolari è consistito il dramma storico del 1919, che fu capito immediatamente solo dai gruppi dirigenti più accorti e intelligenti (e che avevano più da temere per il loro futuro).

È da notare che proprio il partito tradizionale della costituente in Italia, il partito repubblicano, dimostrò il minimo di sensibilità storica e di capacità politica, e si lasciò imporre il proprio programma e il proprio indirizzo (cioè difesa astratta e retrospettiva dell’intervento in guerra) dalle classi dirigenti. Il popolo, a suo modo, guardava all’avvenire (e in ciò è il carattere implicito di costituente che il popolo diede alle elezioni del 1919); i partiti guardavano al passato (solo al passato) concretamente e all’avvenire «astrattamente», «genericamente», come «abbiate fiducia nel vostro partito» e non come concezione storico‑politica concreta, ricostruttiva.

Tra le altre differenze tra le elezioni del 13 e quelle del 19 occorre porre la partecipazione «attiva» dei cattolici, con uomini proprii, con un proprio partito, con un proprio programma. Anche nel 1913 i cattolici parteciparono alle elezioni, ma attraverso il patto Gentiloni, in modo sornione e che in gran parte falsificava lo schieramento e la forza delle potenze politiche tradizionali.

Per il 1919 è da ricordare l’atteggiamento dei giolittiani quale risulta dalle campagne di Luigi Ambrosini nella «Stampa» per influenzare i cattolici. In realtà i giolittiani furono «storicamente» i vincitori, nel senso che essi impressero il carattere di costituente senza costituente alle elezioni e riuscirono a tirar gli sguardi dall’avvenire al passato.

Sarà da vedere l’altra letteratura sul colera in tutto il Mezzogiorno nel 1866‑67. Non si può giudicare il livello di vita popolare senza trattare questo argomento. Esistono pubblicazioni ufficiali sui delitti commessi contro le autorità (soldati, ufficiali, ecc.) durante il colera?

§104 [2]. Tutto il lavorio di interpretazione del passato italiano e la serie di costruzioni ideologiche e di romanzi storici che ne sono derivati è legato alla «pretesa» di trovare un’unità nazionale, almeno di fatto, in tutto il periodo da Roma ad oggi. Come è nata questa pretesa? È un segno di forza o di debolezza? È il riflesso di una formazione sociale nuova, sicura di sé, e che cerca a se stessa e si crea titoli di nobiltà nel passato, oppure è invece il riflesso di «una volontà di credere», un elemento di fanatismo ideologico che deve appunto rimediare alle debolezze di struttura e impedire il tracollo? Mi pare questa la giusta interpretazione, unita al fatto della eccessiva importanza relativa degli intellettuali, cioè dei piccoli borghesi, in confronto delle classi economiche arretrate e politicamente incapaci.

La formazione nazionale è sentita come aleatoria, perché forze ignorate, selvagge, elementarmente distruttive si agitano alla sua base. La dittatura di ferro degli intellettuali e di alcuni gruppi urbani con la proprietà rurale sulla campagna si mantiene solo unita, sovraeccitandosi con questo mito di fatalità storica, più forte di ogni manchevolezza e ogni inettitudine politica e militare. È su questo terreno che all’adesione popolare‑nazionale allo Stato si sostituisce una selezione di «volontari» della nazione.

Nessuno ha pensato che appunto il problema posto da Machiavelli col proclamare la necessità di milizie nazionali contro i mercenari non è risolto finché anche il «volontarismo» non sarà superato dal «fatto popolare‑nazionale», poiché il volontatismo è soluzione intermedia, equivoca, altrettanto pericolosa che il mercenarismo.

§127 Risorgimento. Il moto nazionale che condusse all’unificazione dello Stato italiano deve necessariamente sboccare nel nazionalismo e nell’imperialismo nazionalistico e militare? Questo sbocco è anacronistico e antistorico; esso è realmente contro tutte le tradizioni italiane, romane prima, cattoliche poi. Le tradizioni sono cosmopolitiche. Che il moto nazionale dovesse reagire contro le tradizioni e dare luogo a un nazionalismo da intellettuali può essere spiegato, ma non è una reazione organico‑popolare. Del resto, anche nel Risorgimento, Mazzini‑Gioberti cercano di innestare il moto nazionale nella tradizione cosmopolita, di creare il mito di una missione dell’Italia rinata in una nuova Cosmopoli europea e mondiale, ma è un mito puramente verbale e cartaceo, retorico, fondato sul passato e non sulle condizioni del presente, già esistenti o in processo di sviluppo.

Perché un fatto si è prodotto nel passato non significa che si produca nel presente e nell’avvenire; le condizioni di una espansione italiana nel presente e per l’avvenire non esistono e non appare che siano in processo di formazione.

L’espansione moderna è di origine capitalistico-finanziaria. L’elemento «uomo», nel presente italiano, o è uomo‑capitale o è uomo‑lavoro. L’espansione italiana è dell’uomo‑lavoro non dell’uomo‑capitale e l’intellettuale che rappresenta l’uomo‑lavoro non è quello tradizionale, gonfio di retorica e di ricordi meccanici del passato. Il cosmopolitismo italiano non può non diventare internazionalismo. Non il cittadino del mondo, in quanto civis romanus o cattolico, ma in quanto lavoratore e produttore di civiltà.

Perciò si può sostenere che la tradizione italiana dialetticamente si continua nel popolo lavoratore e nei suoi intellettuali, non nel cittadino tradizionale e nell’intellettuale tradizionale. E popolo italiano è quello che «nazionalmente» è più interessato all’internazionalismo. Non solo l’operaio ma il contadino e specialmente il contadino meridionale.

Collaborare a ricostruire il mondo economicamente in modo unitario è nella tradizione della storia italiana e del popolo italiano, non per dominarlo e appropriarsi i frutti del lavoro altrui, ma per esistere o svilupparsi.

Il nazionalismo è una escrescenza anacronistica nella storia italiana, di gente che ha la testa volta all’indietro come i dannati di Dante. La missione di civiltà del popolo italiano è nella ripresa del cosmopolitismo romano e medioevale, ma nella sua forma più moderna e avanzata. Sia pure nazione proletaria; proletaria come nazione perché è stata l’esercito di riserva di capitalismi stranieri, perché ha dato maestranze a tutto il mondo, insieme coi popoli slavi. Appunto perciò deve innestarsi nel fronte moderno di lotta per riorganizzare il mondo anche non italiano, che ha contribuito a creare con il suo lavoro.

§103 Momenti di vita intensamente collettiva e unitaria nella vita del popolo italiano. Cercare nella storia italiana dal 1800 ad oggi tutti i momenti in cui al popolo italiano si è posto da risolvere un compito potenzialmente comune, in cui avrebbe potuto verificarsi un’azione o un movimento collettivi (in profondità e in complessità) e unitari. Questi momenti, nelle diverse fasi storiche, possono essere stati di diversa natura, di diversa portata e importanza nazionale‑popolare. Ciò che importa nella ricerca è il carattere potenziale (e quindi la misura in cui questa «potenzialità» si è tradotta in atto) di collettività e di unitarietà, cioè la diffusione territoriale (la regione risponde bene a questo carattere, se non addirittura la provincia) e la diffusione di massa (cioè la maggiore o minore moltitudine di partecipanti, la maggiore o minore ripercussione attiva e passiva – o negativa per le reazioni suscitate – che l’azione ha avuto nei diversi strati della popolazione).

Questi momenti possono aver avuto carattere e natura diversa: guerre, rivoluzioni, plebisciti, elezioni generali di particolare importanza e significato. Guerre: 1848, 1859, 1860, 1866, 1870, guerra d’Africa (Eritrea), guerra libica (1911‑12), guerra mondiale (1915‑18). Rivoluzioni: 1820‑21, 1831, 1848‑49, 1860, fasci siciliani, 1898, 1904, 1914, 1919‑20, 1924‑25. Plebisciti per la formazione del Regno: 1859‑60, 1866, 1870. Elezioni generali con diversa misura di suffragio allargato.

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Primo Novecento

§105 2. La quistione italiana. Cfr i discorsi tenuti dall’on. Grandi al Parlamento sulla politica estera nel 1932 e le discussioni derivate nella stampa italiana ed estera. L’on. Grandi pose la quistione italiana come quistione mondiale, da risolvere insieme alle altre che formano l’espressione politica della crisi iniziata nel 1929 e cioè il problema francese della sicurezza, il problema tedesco della parità dei diritti, il problema dell’assetto degli Stati danubiani e balcanici. Tentativo quindi di costringere ogni possibile Congresso mondiale chiamato a risolvere questi problemi, ad occuparsi della quistione italiana come elemento fondamentale della ricostruzione e pacificazione europea e mondiale. In che consiste la quistione italiana secondo questa impostazione? Consiste nel fatto che l’incremento demografico del paese è in contrasto con la povertà relativa del paese, cioè nell’esistenza di un superpopolamento. Occorrerebbe perciò che all’Italia fosse data la possibilità di espandersi, sia economicamente che demograficamente ecc. Aggiunte necessarie all’analisi della situazione italiana.

Se è vero che i rapporti generali internazionali sono sfavorevoli all’Italia (specialmente il nazionalismo economico che impedisce la libera circolazione del lavoro umano) è anche da domandare se a costruire tali rapporti non contribuisce la stessa politica italiana.

La ricerca principale deve essere in questo senso: il basso saggio individuale di reddito nazionale è dovuto alla povertà «naturale» del paese oppure a fattori storico‑sociali creati e mantenuti da un determinato indirizzo politico? Lo Stato, cioè, non costa troppo caro, intendendo per Stato non solo l’amministrazione dei servizi statali, ma anche l’insieme delle classi che lo compongono e lo dominano? E, pertanto, è possibile pensare che senza un mutamento di questi rapporti interni, la situazione possa mutarsi anche se internazionalmente i rapporti migliorassero? E la proiezione nel campo internazionale della quistione non è forse un mezzo per crearsi un alibi di fronte alle grandi masse del paese?

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Che il reddito nazionale sia basso può concedersi, ma non viene poi esso in gran parte distrutto (divorato) da troppa popolazione passiva, rendendo impossibile ogni capitalizzazione progressiva sia pure con ritmo rallentato? Dunque la quistione demografica deve essere a sua volta analizzata e occorre fissare se la composizione demografica sia «sana» anche per un regime capitalistico e di proprietà. La povertà relativa dei singoli paesi, nella civiltà moderna, ha un’importanza relativa: tutt’al più impedirà certi profitti marginali di «posizione» geografica.

La ricchezza è data dalla divisione internazionale del lavoro, e dall’aver saputo selezionare tra le possibilità che questa divisione offre, quella più redditizia. Si tratta dunque anche di «capacità direttiva» della classe dirigente economica, del suo spirito di iniziativa e di organizzazione. Se queste qualità mancano, esse non possono essere sostituite da nessun accordo internazionale. Non si ha esempio, nella storia moderna, di colonie di «popolamento». Esse non esistono. L’emigrazione e la colonizzazione seguono il flusso di capitali investiti nei vari paesi e non viceversa. La crisi attuale, che si verifica specialmente come caduta dei prezzi delle materie prime e dei cereali, mostra che il problema non è di «ricchezza naturale» per i vari paesi del mondo, ma di organizzazione sociale e di trasformazione delle materie prime per certi scopi e non per altri.

Che si tratti di organizzazione e di indirizzo politico‑economico appare dal fatto che ogni paese ha avuto «emigrazione» in certe fasi del suo sviluppo economico, ma tale emigrazione è poi stata riassorbita, o almeno è cessata. Che non si vogliano mutare i rapporti interni e neppure rettificarli razionalmente (o che non si possa) si vede dalla politica del debito pubblico, che aumenta continuamente il peso della passività demografica, proprio quando la parte attiva della popolazione è ristretta dalla disoccupazione e dalla crisi. Diminuisce il reddito nazionale, aumentano i parassiti, il risparmio si restringe ed è, anche così ristretto, riversato nel debito pubblico, cioè fatto causa di nuovo parassitismo relativo e assoluto.

§106 2. Storia feticistica. Si potrebbe chiamare così il modo di rappresentare gli avvenimenti storici nelle «interpretazioni» ideologiche della formazione italiana, per cui diventano protagonisti dei personaggi astratti e mitologici. Nella Lotta politica di Oriani si ha il più popolare di questi schemi mitologici, quello che ha prodotto e partorito una più lunga serie di figli degeneri. Vi troviamo la Federazione l’Unità, la Rivoluzione, l’Italia ecc. ecc. Nell’Oriani è chiara una delle cause di questo modo di concepire la storia. Il canone di ricerca che gli avvenimenti successivi gettano luce su quelli precedenti, che cioè tutto il processo storico è un «documento» storico di se stesso, viene meccanizzato ed esteriorizzato e ridotto, in fondo, a una legge deterministica di «rettilineità» e di «unilinearità».

Il problema di ricercare le origini storiche di un fatto concreto e circostanziato, la formazione dello Stato moderno italiano nel secolo XIX, viene trasformato in quello di vedere questo «Stato», come unità o come nazione o genericamente come Italia, in tutta la storia precedente, come il pollo nell’uovo fecondato.

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Per questa trattazione sono da vedere le osservazioni critiche di Antonio Labriola negli Scritti vari (pp. 487‑90; pp. 317‑442 passim, e nel primo dei Saggi sul materialismo storico pp. 50‑52). (Su questo punto vedi anche Croce, Storia della storiografia, II, pp. 227‑28 e in tutto questo lavoro lo studio dell’origine «sentimentale e poetica» e «la critica impossibilità» di una «Storia generale d’Italia»). Altre osservazioni connesse a queste sono quelle di A. Labriola a proposito di una storia generale del Cristianesimo, che al Labriola sembrava inconsistente come tutte le costruzioni storiche che assumono a soggetto enti inesistenti (III Saggio, p. 113).

Una reazione concreta nel senso indicato dal Labriola si può vedere negli scritti storici del Salvemini, il quale non vuol sapere di «guelfi» e «ghibellini», uno partito della nobiltà e dell’impero, e l’altro del popolo e del papato, perché egli li conosce solo come «partiti locali», combattenti per ragioni affatto locali, che non coincidevano con quelle del Papato e dell’Impero. Nella prefazione al suo volume della Rivoluzione francese si può vedere teorizzato questo atteggiamento del Salvemini con tutte le esagerazioni antistoriche che porta con sé. «L’innumerevole varietà degli eventi rivoluzionari» si suole attribuire in blocco a un ente «Rivoluzione», invece di «assegnare ciascun fatto all’individuo o ai gruppi d’individui reali, che ne furono autori». Ma se la storia si riducesse solo a questa ricerca, sarebbe ben misera cosa e diventerebbe, tra l’altro, incomprensibile.

Sarà da vedere come il Salvemini concretamente risolve le incongruenze che risultano dalla sua impostazione troppo unilaterale del problema metodologico, tenendo conto di questa cautela critica: se non si conoscesse da altre opere la storia qui raccontata, e avessimo solo questo libro, ci sarebbe essa storia comprensibile ? Cioè si tratta di una storia «integrale» o di una storia «polemica» che si propone solo (o ottiene senza proporselo, necessariamente) di aggiungere qualche pennellata a un quadro già abbozzato da altri? Questa cautela dovrebbe sempre essere presente in ogni critica, poiché infatti spesso si ha che fare con opere che da «sole» non sarebbero soddisfacenti, ma che sono molto utili nel quadro generale di una determinata cultura, come «integrative» di altri lavori o ricerche.

§111 2. Missiroli e la storia italiana moderna.

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Occorre compilare una bibliografia completa del Missiroli. Alcuni libri sono: La monarchia socialista (1913), Polemica liberale, Opinioni, Il colpo di Stato (1925), Una battaglia perduta, Italia d’oggi (1932), La repubblica degli accattoni (su Molinella), Amore e fame, Date a Cesare… (1929), (un libro sul papa nel 1917).

I motivi principali posti in circolazione dal Missiroli sono: 1°) che il Risorgimento è stato una conquista regia e non un movimento popolare; 2°) che il Risorgimento non ha risolto il problema dei rapporti tra Stato e Chiesa, motivo che è legato al primo poiché «un popolo che non aveva sentito la libertà religiosa non poteva sentire la libertà politica. L’ideale dell’indipendenza e della libertà diventò patrimonio e programma di una minoranza eroica, che concepì l’unità contro l’acquiescenza delle moltitudini popolari». La mancanza della Riforma protestante in Italia spiegherebbe in ultima analisi tutto il Risorgimento e la storia moderna nazionale.

Il Missiroli applica all’Italia il criterio ermeneutico applicato dal Masaryk per interpretare la storia russa (sebbene il Missiroli accettasse la critica di Antonio Labriola contro il Masaryk storico). Come il Masaryk, il Missiroli (nonostante le sue relazioni con G. Sorel) non comprende che la «riforma» moderna di carattere popolare è stata la diffusione delle idee marxiste, sia pure in forma di letteratura da opuscoletto. Né egli tenta di analizzare perché la minoranza che ha guidato il moto del Risorgimento non sia «andata al popolo» né «ideologicamente» (ciò che poteva avvenire in Italia sulla base della «riforma agraria» dato che il contadiname era quasi tutto il popolo di allora – d’altronde non bisogna dimenticare che molte istituzioni operaie di mutuo soccorso furono fondate per impulso dei liberali: l’A.G.O. di Torino ha avuto tra i fondatori Cavour –, mentre la Riforma religiosa tedesca ha coinciso con una guerra di contadini) né economicamente appunto con la Riforma agraria.

«L’unità non aveva potuto attuarsi col Papato, di sua natura universale ed organicamente ostile a tutte le libertà moderne; ma non era nemmeno riuscita a trionfare del Papato, contrapponendo all’idea cattolica un’idea altrettanto universale che rispondesse ugualmente alla coscienza individuale e alla coscienza del mondo rinnovato dalla Riforma e dalla Rivoluzione». (Affermazioni astratte e in gran parte prive di senso. Quale idea universale contrappose al cattolicismo la Rivoluzione francese? Perché dunque in Francia il moto fu popolare e in Italia no? La famosa minoranza italiana, «eroica» per definizione, che condusse il moto unitario, in realtà si interessava di interessi economici più che di formule ideali e combatté più per impedire che il popolo intervenisse nella lotta e la facesse diventare sociale che non contro i nemici dell’unità.

Il Missiroli scrive che il nuovo fattore apparso nella storia italiana dopo l’unità, il socialismo, è stata la forma più potente assunta dalla reazione antiunitaria e antiliberale (ciò che è una sciocchezza). Come il Missiroli stesso scrive: «Il socialismo non solo non ringagliardì la passione politica, ma aiutò potentemente ad estinguerla; fu il partito dei poveri e delle plebi affamate: le quistioni economiche dovevano prendere rapidamente il sopravvento, i principii politici cedere il campo agli interessi materiali»; veniva creata «una remora, lanciando le masse alle conquiste economiche ed evitando tutte le quistioni istituzionali». Cioè il socialismo fece l’errore (alla rovescia) della famosa minoranza: questa parlava solo di idee astratte e di istituzioni politiche, quello trascurò la politica per la mera economia.

In realtà il Missiroli è solo quello che si chiama uno scrittore brillante: si ha l’impressione che egli si infischi delle sue idee, dell’Italia, e di tutto: lo interessa solo il gioco momentaneo di alcuni concetti astratti e lo interessa di cadere sempre in piedi con una nuova coccarda in petto.

§110 Rodolfo Morandi, Storia della grande industria in Italia (ed. Laterza, Bari, 1931). Nella «Riforma Sociale» del maggio‑giugno 1932 è pubblicata una severa recensione del lavoro del Morandi, recensione che contiene alcuni spunti metodici di un certo interesse (la recensione è anonima, ma autore potrebbe esserne il De Viti De Marco).

Si obbietta prima di tutto al Morandi che egli non tiene conto di ciò che è costata l’industria italiana: «All’economista non basta che gli vengano mostrate fabbriche che danno lavoro a migliaia di operai, bonifiche che creano terre coltivabili, ed altri simili fatti di cui il pubblico generalmente si contenta nei suoi giudizi su un paese, su un’epoca. L’economista sa bene che lo stesso risultato può rappresentare un miglioramento o un peggioramento di una certa situazione economica a seconda che sia ottenuto con un complesso di sacrifici minori o maggiori».

(È giusto il criterio generale che occorre studiare quanto sia costata l’introduzione di una certa industria in un paese, chi ne abbia fatto le spese, chi ne abbia ricavato i vantaggi, e se i sacrifizi fatti non potevano essere fatti in altra direzione più utilmente, ma non è giusto sempre che l’introduzione dell’industria peggiori la situazione generale. D’altronde il solo criterio economico non è sufficiente per studiare il passaggio da una forma di Stato a un’altra; occorre tener conto anche del criterio politico, in quanto obbiettivamente necessario e corrispondente a un interesse generale.

Che l’unificazione della penisola dovesse costare sacrifizi a una parte della popolazione, per le necessità inderogabili di un grande Stato moderno, è da ammettere; ma bisogna vedere come tali sacrifizi furono distribuiti e in che misura potevano essere risparmiati. Che l’introduzione del capitalismo in Italia non sia avvenuta da un punto di vista nazionale, ma da angusti punti di vista regionali e di ristretti gruppi e che abbia fallito ai suoi compiti, determinando un’emigrazione morbosa non mai riassorbita e rovinando economicamente intere regioni, è certissimo).

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Il Morandi non riesce a valutare il significato del protezionismo nello sviluppo della grande industria italiana. Così il Morandi rimprovera assurdamente alla borghesia «il proposito deliberato e funestissimo di non aver tentato l’avventura salutare del sud, … dove malamente la produzione agricola può ripagare i grandi sforzi che all’uomo richiede».

Il Morandi non si domanda se la miseria del Sud non fosse determinata dalla legislazione protezionistica che ha consentito lo sviluppo industriale del Nord e come poteva esistere un mercato interno da sfruttare coi dazi e altri privilegi, se il sistema protettivo si fosse esteso a tutta la penisola, trasformando l’economia rurale del Sud in economia industriale.

Si rimprovera al Morandi l’eccessiva severità con cui giudica e condanna uomini e cose del passato, poiché basta fare un confronto tra le condizioni prima e dopo l’indipendenza per vedere che qualcosa si è pur fatta.

Pare dubbio che si possa fare una storia della grande industria astraendo dai principali fattori (sviluppo demografico, politica finanziaria e doganale, ferrovie ecc.) che hanno contribuito a determinare le caratteristiche economiche del periodo considerato. (Critica molto giusta. Una gran parte dell’attività della vecchia destra da Cavour al 1876 fu infatti dedicata a creare le condizioni tecniche generali in cui una grande industria fosse possibile e un grande capitalismo potesse diffondersi e prosperare: solo con l’avvento della sinistra e specialmente con Crispi si ha la «fabbricazione dei fabbricanti» attraverso il protezionismo e i privilegi.

La politica finanziaria della destra tendente a pareggiare il bilancio rende possibile la politica «produttivistica» successiva). «Così, ad esempio, non si riesce a capire come mai vi fosse tanta abbondanza di mano d’opera in Lombardia nei primi decenni dopo la unificazione, e quindi il livello dei salari rimanesse tanto basso, se si rappresenta il capitalismo come una piovra che allunga i suoi tentacoli per far sempre nuove prede nelle campagne, invece di tener conto della trasformazione che contemporaneamente avviene nei contratti agrari ed in genere nell’economia rurale. Ed è facile concludere semplicisticamente sulla caparbietà e sulla ristrettezza di mente delle classi padronali osservando la resistenza che esse fanno ad ogni richiesta di miglioramento delle condizioni delle classi operaie, se non si tiene anche presente quello che è stato l’incremento della popolazione rispetto alla formazione di nuovi capitali». (La quistione però non è così semplice. Il saggio del risparmio o di capitalizzazione era basso perché i capitalisti avevano preferito mantenere tutta l’eredità di parassitismo del periodo precedente, perché non venisse meno la forza politica della loro classe).

Critica della definizione di «grande industria» data dal Morandi, il quale non si sa perché ha escluso dal suo studio molte delle più importanti attività industriali (trasporti, industrie alimentari ecc.). Eccessiva simpatia del Morandi per i colossali organismi industriali, considerati troppo spesso, senz’altro, come forme superiori di attività economica, malgrado siano ricordati i crolli disastrosi dell’Ilva, dell’Ansaldo, della Banca di Sconto, della Snia Viscosa, dell’Italgas.

«Un altro punto di dissenso, il quale merita di essere rilevato, perché nasce da un errore molto diffuso, è quello in cui l’A. considera che un paese debba necessariamente rimaner soffocato dalla concorrenza degli altri paesi se inizia dopo di essi la propria organizzazione industriale. Questa inferiorità economica, a cui sarebbe condannata anche l’Italia, non sembra affatto dimostrata, perché le condizioni dei mercati, della tecnica, degli ordinamenti politici, sono in continuo movimento e quindi le mète da raggiungere e le strade da percorrere si spostano tanto spesso e subitamente che possono trovarsi in vantaggio individui e popoli che erano rimasti più indietro, o quasi non s’erano mossi. Se ciò non fosse si spiegherebbe male come continuamente possono sorgere e prosperare nuove industrie accanto alle più vecchie nello stesso paese, e come abbia potuto realizzarsi l’enorme sviluppo industriale del Giappone alla fine del secolo scorso».

§112 L’industria italiana. Nel fare l’analisi della relazione della Banca Commerciale Italiana all’assemblea sociale per l’esercizio 1931, Attilio Cabiati (Riforma Sociale, luglio‑agosto 1932, p. 464) scrive: «Risalta da queste considerazioni il vizio fondamentale che ha sempre afflitto la vita economica italiana: la creazione e il mantenimento di una impalcatura industriale troppo superiore sia alla rapidità di formazione di risparmio nel paese, che alla capacità di assorbimento dei consumatori interni; vivente quindi per una parte cospicua solo per la forza del protezionismo e di aiuti statali di svariate forme.

Ma il patrio protezionismo, che in taluni casi raggiunge e supera il cento per cento del valore internazionale del prodotto, rincarando la vita rallentava a sua volta la formazione del risparmio, che per di più veniva conteso all’industria dallo Stato stesso, spesso stretto dai suoi bisogni, sproporzionati alla nostra impalcatura.

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La guerra, allargando oltre misura tale impalcatura, costrinse le nostre banche, come scrive la relazione precitata, “ad una politica di tesoreria coraggiosa e pertinace”, la quale consisté nel prendere a prestito “a rotazione” all’estero, per prestare a più lunga scadenza all’interno. “Una tale politica di tesoreria aveva però – dice la relazione – il suo limite naturale nella necessità per le banche di conservare ad ogni costo congrue riserve di investimenti liquidi o di facile realizzo”.

Quando scoppiò la crisi mondiale, gli “investimenti liquidi” non si potevano realizzare se non ad uno sconto formidabile: il risparmio estero arrestò il suo flusso: le industrie nazionali non poterono ripagare. Sicché, exceptis excipiendis, il sistema bancario italiano si trovò in una situazione per più aspetti identica a quella del mercato finanziario inglese nella metà del 1931. … (l’errore) antico consisteva nell’aver voluto dare vita ad un organismo industriale sproporzionato alle nostre forze, creato con lo scopo di renderci “indipendenti dall’estero”: senza riflettere che, a mano a mano che non “dipendevamo” dall’estero per i prodotti, si rimaneva sempre più dipendenti per il capitale».

Si pone il problema se in un altro stato di cose si potrà allargare la base industriale del paese senza ricorrere all’estero per i capitali. L’esempio di un altro paese mostra di sì: ogni forma di società ha una sua legge di accumulazione del risparmio ed è da ritenere che anche in Italia si può ottenere una più rapida accumulazione.

L’Italia è il paese, nelle condizioni createsi nel secolo scorso, col Risorgimento, che ha il maggior numero di popolazione parassitaria, che vive senza intervenire per nulla nella vita produttiva, è il paese di maggior quantità di piccola e media borghesia rurale e urbana che consuma una frazione grande di ricchezza per risparmiarne una piccola parte.

§118 La posizione geopolitica dell’Italia. La possibilità dei blocchi.

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Nella sesta seduta della Conferenza di Washington (23 dicembre 1921) il delegato inglese Balfour, a proposito della posizione geopolitica dell’Italia, disse: «L’Italia non è un’isola, ma può considerarsi come un’isola. Mi ricordo dell’estrema difficoltà che abbiamo avuto a rifornirla anche con il minimo di carbone necessario per mantenere la sua attività, i suoi arsenali e le sue officine, durante la guerra. Dubito che essa possa nutrirsi e approvvigionarsi, o continuare ad essere una effettiva unità di combattimento, se fosse realmente sottomessa ad un blocco e se il suo commercio marittimo fosse arrestato. L’Italia ha cinque vicini nel Mediterraneo. Spero e credo che la pace, pace eterna, possa regnare negli antichi focolari della civiltà.

Ma noi facciamo un esame freddo e calcolatore come quello di un membro qualsiasi dello Stato Maggiore Generale. Questi, considerando il problema senza alcun pregiudizio politico e soltanto come una questione di strategia, direbbe all’Italia: voi avete cinque vicini, ciascuno dei quali può, se vuole, stabilire un blocco delle vostre coste senza impiegare una sola nave di superficie. Non sarebbe necessario che sbarcasse truppe e desse battaglia. Voi perireste senza essere conquistati».

È vero che Balfour parlava specialmente sotto l’impressione della guerra sottomarina e prima dei grandi passi fatti dall’aviazione di bombardamento, che non pare possa permettere un blocco immune da rappresaglie, tuttavia per alcuni aspetti la sua analisi è abbastanza giusta.

§39 Argomenti di coltura. Elementi di vita politica francese.

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I monarchici hanno costruito la dottrina storico-politica (che cercano di rendere popolare) secondo la quale l’Impero e la Repubblica hanno significato finora l’invasione del territorio nazionale francese. Due invasioni connesse con la politica di Napoleone I (del 1814 e del 1815), una con la politica di Napoleone III (1870‑71) e una con quella della Terza Repubblica* (1914) danno il materiale d’agitazione. I repubblicani si servono anch’essi degli stessi materiali, ma naturalmente il loro punto di vista non è quello dei monarchici, che può sembrare persino disfattista, in quanto pone le cause dell’invasione nelle istituzioni francesi e non invece, come i repubblicani sostengono, nei nemici ereditari della Francia, in prima linea la Prussia (più che la Germania; e questa distinzione ha importanza perché dipende dalla politica francese tendente a isolare la Prussia e a fare alleati della Francia la Baviera e i tedeschi meridionali, compresi gli austriaci). Questo modo di porre la quistione dinanzi alle masse popolari da parte di tutte le varie tendenze del nazionalismo è tutt’altro che privo di efficacia. Ma è storicamente esatto?

Quante volte la Germania è stata invasa dai francesi? (Bisognerebbe contare tra le invasioni francesi anche l’occupazione della Ruhr del 1923). E quante volte l’Italia è stata invasa dai francesi? E quante volte la Francia è stata invasa dagli inglesi ecc.? (Le invasioni inglesi: la lotta della nazione francese per espellere l’invasore e liberare il territorio ha formato la nazione francese prima della Rivoluzione; è scontata dal punto di vista del patriottismo e del nazionalismo, sebbene il motivo antinglese, a cause delle guerre della rivoluzione e di Napoleone, si sia trascinato, specialmente nella letteratura per i giovani – Verne ecc. – fin nell’epoca della Terza Repubblica e non sia completamente morto).

Ma dopo il 1870 il mito nazionalistico del pericolo prussiano ha assorbito tutta o quasi l’attenzione dei propagandisti di destra e ha creato l’atmosfera di politica estera che soffoca la Francia.

Mat. Bibl.: Storia della Francia

§77 Loria. Nell’introduzione all’articolo sul «Fascismo» pubblicato dall’«Enciclopedia Italiana», introduzione scritta dal Capo del Governo, si legge: «Una siffatta concezione della vita porta il fascismo ad essere la negazione recisa di quella dottrina che costituì la base del socialismo cosiddetto scientifico o marxiano: la dottrina del materialismo storico, secondo il quale la storia delle civiltà umane si spiegherebbe soltanto con la lotta di interessi tra i diversi gruppi sociali e col cambiamento dei mezzi e strumenti di produzione. Che le vicende dell’economia – scoperte di materie prime, nuovi metodi di lavoro, invenzioni scientifiche – abbiano una loro importanza, nessuno nega; ma che esse bastino a spiegare la storia umana escludendone tutti gli altri fattori, è assurdo; il fascismo crede ancora e sempre nella santità e nell’eroismo, cioè in atti nei quali nessun motivo economico – lontano o vicino – agisce».

L’influsso delle teorie di Loria è evidente.

Mat. Bibl.: Milza, Berstein - La cultura del fascismo

Politica

Politologia

§16 Grande potenza. Politica estera. «Così la politica estera italiana, mirando sempre alla stessa mèta, è stata sempre rettilinea, e le sue pretese oscillazioni sono state in realtà determinate soltanro dalle incertezze e dalle contraddizioni altrui, com’è inevitabile nel campo internazionale dove infiniti sono gli elementi in contrasto» (Aldo Valori, «Corriere della Sera» del 12 maggio 1932).

Che siano infiniti gli elementi di equilibrio di un sistema politico internazionale, è vero, ma appunto per ciò il sistema deve essere stabilito in modo che, nonostante le fluttuazioni «esterne», la propria linea non oscilli.

La linea di uno Stato egemonico (cioè di una grande potenza) non oscilla perché esso stesso determina la volontà altrui, e non ne è determinato, perché si fonda su ciò che vi è di permanente e non di casuale e immediato nelle altrui volontà.

Classi

§4 Storia delle classi subalterne. De Amicis. Del De Amicis sono da vedere la raccolta di discorsi Speranze e Glorie e il volume su Lotte civili. La sua attività letteraria e di oratore in questo senso va dal 90 al 900 ed è da vedere per ricercare l’atteggiamento di certe correnti intellettuali del tempo in confronto della politica statale. Si può vedere quali erano i motivi dominanti, le preoccupazioni morali e gli interessi di queste correnti. Del resto non si tratta di una corrente unica. Sebbene si debba parlare di un socialnazionalismo o socialpatriottismo nel De Amicis, è evidente la sua differenza dal Pascoli, per esempio: il De Amicis era contro la politica africanista, il Pascoli invece era un colonialista di programma.

Txt: De Amicis - Speranze e Glorie

§81 Storia delle classi subalterne. David Lazzaretti.

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Giuseppe Fatini richiama l’attenzione sulle reliquie del lazzarettismo nell’«Illustrazione Toscana» (cfr «Marzocco» del 31 gennaio 1932). Si credeva che dopo l’esecuzione del Lazzaretti da parte dei carabinieri, le traccie del lazzarettismo si fossero per sempre disperse anche nelle pendici dell’Armata grossetana. Invece i lazzarettisti o cristiani giurisdavidici, come amano chiamarsi, continuano a vivere; raccolti per lo più nel villaggio arcidossino di Zancona, con qualche proselite sparso nelle borgate adiacenti, trassero dalla guerra mondiale nuovo alimento per stringersi sempre più fra loro nella memoria di Lazzaretti, che secondo i seguaci aveva tutto previsto dalla guerra mondiale a Caporetto, dalla vittoria del popolo latino alla nascita della Società delle Nazioni.

Di quando in quando quei fedeli si fanno vivi fuor del loro piccolo cerchio con opuscoli di propaganda, indirizzandoli ai «fratelli del popolo latino»; e in essi raccolgono qualcuno dei tanti scritti, anche poetici, che il Maestro ha lasciato inediti, e che i seguaci custodiscono gelosamente.

Ma che cosa vogliono i cristiani giurisdavidici? A chi non è ancora tocco dalla grazia di poter penetrare nei segreti del linguaggio del Santo non è facile comprendere la sostanza della loro dottrina. La quale è un risveglio di dottrine religiose d’altri tempi con una buona dose di massime socialistoidi e con generici accenni alla redenzione morale dell’uomo; redenzione che non potrà attuarsi se non col pieno rinnovamento dello spirito e della gerarchia della chiesa cattolica.

L’articolo XXIV che chiude il «Simbolo dello Spirito Santo», costituente come il «Credo» dei lazzarettisti, dichiara che «il nostro istitutore David Lazzaretti, l’unto del Signore, giudicato e condannato dalla Curia Romana, è realmente il Cristo Duce e Giudice nella vera e viva figura della seconda venuta di nostro Signor Gesù Cristo sul mondo, come figlio dell’uomo venuto a portare compimento alla Redenzione copiosa su tutto il genere umano in virtù della terza legge divina del Diritto e Riforma generale dello Spirito Santo, la quale deve riunire tutti gli uomini alla fede di Cristo in seno alla cattolica Chiesa in un sol punto e in una sola legge in conferma delle divine promesse».

Parve per un certo momento, nel dopoguerra, che i lazzarettisti si incanalassero «per una via pericolosa»; ma seppero ritrarsene a tempo e dettero piena adesione ai vincitori. Non certo per la sua divergenza con la Chiesa cattolica – «la setta dell’Idolatria papale» –, ma per la tenacia con cui essi difendono il Maestro e la Riforma, il Fatini ritiene degno di attenzione e di studio il fenomeno religioso amiatino.

Politica nazionale

§22 Passato e presente. Dal discorso del ministro della guerra Gazzera tenuto in Senato il 19 maggio 1932 (Cfr «Corriere della Sera» del 20 maggio): «Il regime di disciplina del nostro Esercito per virtù del Fascismo appare oggi una norma direttiva che ha valore per tutta la Nazione. Altri Eserciti hanno avuto e tuttora conservano una disciplina formale e rigida. Noi teniamo sempre presente il principio che l’Esercito è fatto per la guerra e che a quella deve prepararsi; la disciplina di pace dev’essere quindi la stessa del tempo di guerra, che nel tempo di pace deve trovare il suo fondamento spirituale. La nostra disciplina si basa su uno spirito di coesione tra i capi e i gregari che è frutto spontaneo del sistema seguito. Questo sistema ha resistito magnificamente durante una lunga e durissima guerra fino alla vittoria; è merito del Regime fascista di aver esteso a tutto il popolo italiano una tradizione disciplinare così insigne. Dalla disciplina dei singoli dipende l’esito della concezione strategica e delle operazioni tattiche.

La guerra ha insegnato molte cose, e anche che vi è un distacco profondo tra la preparazione di pace e la realtà della guerra. Certo è che, qualunque sia la preparazione, le operazioni iniziali della campagna pongono i belligeranti innanzi a problemi nuovi che danno luogo a sorprese da una parte e dall’altra. Non bisogna trarne però la conseguenza che non sia utile avere una concezione a priori e che nessun insegnamento possa derivarsi dalla guerra passata. Se ne può ricavare una dottrina di guerra che dev’essere intesa con disciplina intellettuale e come mezzo per promuovere modi di ragionamento non discordi e uniformità di linguaggio tale da permettere a tutti di comprendere e di farsi comprendere.

Se, talvolta, l’unità di dottrina ha minacciato di degenerare in schematismo, si è subito reagito prontamente, imprimendo alla tattica, anche per i progressi della tecnica, una rapida rinnovazione. Tale regolamentazione quindi non è statica, non è tradizionale, come taluno crede. La tradizione è considerata solo come forza e i regolamenti sono sempre in corso di revisione non per desiderio di cambiamento, ma per poterli adeguare alla realtà».

Economia e Lavoro

§32 Economia nazionale. Tutta l’attività economica di un paese può essere giudicata solo in rapporto al mercato internazionale, «esiste» ed è da valutarsi in quanto è inserita in una unità internazionale. Da ciò l’importanza del principio dei costi comparati e la saldezza che mantengono i teoremi fondamentali dell’economia classica di contro alle critiche verbalistiche dei teorici di ogni nuova forma di mercantilismo (protezionismo, economia diretta, corporativismo ecc.).

Non esiste un «bilancio» puramente nazionale dell’economia, né per il suo complesso, e neppure per una attività particolare.

Tutto il complesso economico nazionale si proietta nell’eccedente che viene esportato in cambio di una corrispondente importazione, e se nel complesso economico nazionale una qualsiasi merce o servizio costa troppo, è prodotta in modo antieconomico, questa perdita si riflette nell’eccedente esportato, diventa un «regalo» che il paese fa all’estero, o per lo meno (giacché non sempre può parlarsi di «regalo») una perdita secca del paese, nei confronti con l’estero, nella valutazione della sua statura relativa e assoluta nel mondo economico internazionale.

Se il grano in un paese è prodotto a caro prezzo, le merci industriali esportate e prodotte da lavoratori nutriti con quel grano, a prezzo uguale con l’equivalente merce estera, contengono congelata una maggior quantità di lavoro nazionale, una maggior quantità di sacrifizi di quanto contenga la stessa merce estera.

Si lavora per l’«estero» a sacrifizio; i sacrifizi sono fatti per l’estero, non per il proprio paese. Le classi che all’interno si giovano esse di tali sacrifizi, non sono la «nazione» ma rappresentano uno sfruttamentoesercitato da «stranieri» sulle forze realmente nazionali ecc.

Cattolicesimo e altre Religioni

Azione Cattolica

§29 Azione Cattolica. Francia.

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Nei volumi che raccolgono gli atti delle varie sessioni delle Settimane Sociali, venne pubblicato l’indice alfabetico ed analitico delle materie trattate in tutte le Settimane Sociali precedenti. La XXIII sessione, del 1931, tenuta a Mulhouse, ha trattato de La Morale Chrétienne et les Affaires (Lyon, J. Gabalda, 1931, in 8°, pp. 610, fr. 30). In questo volume non ci sono gli indici suddetti, che sono pubblicati a parte.

§31 Azione Cattolica. Lotta intorno alla filosofia neoscolastica. Polemiche recenti di cattolici come Gorgerino e Siro Contri (sono la stessa persona?) contro padre Gemelli. Il Gemelli ha scritto nel 1932 Il mio contributo alla filosofia neoscolastica, Milano, Vita e Pensiero, in 8°, pp. 106, L. 5.

Siro Contri scrive che la filosofia dell’Università Cattolica deve chiamarsi ormai «Archeoscolastica», perché pare che dopo i tentativi di conciliare col tomismo prima il positivismo e poi l’idealismo, per aggiornare il pensiero cattolico alle esigenze della vita moderna, il Gemelli (aiutato dai gesuiti, che nella «Civiltà Cattolica» l’hanno difeso contro gli attacchi del Gorgerino) voglia ritornare al «tomismo» puro delle origini. È da vedere se questa «conversione» del Gemelli non sia connessa al Concordato, e alla posizione eccezionale di monopolio che i cattolici, date le loro possibilità di concentrazione delle forze intellettuali, possono conquistare in Italia nel mondo dell’alta cultura ufficiale e scolastica.

Per ciò è certo necessario tagliare ogni legame e rinunziare a ogni forma di combinazione con filosofie acattoliche (come invece era necessario prima fare) e presentarsi come filosofia intransigente ed esclusivista.

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Dalle pubblicazioni del Contri appare che il Gemelli nel cuor suo si infischia santamente di ogni filosofia: per lui la filosofia è una «balla». I suoi interessi sono puramente pratici, di conquista del mercato culturale da parte del cattolicismo e la sua attività è rivolta ad assicurare al Vaticano quel potere indiretto sulla Società e sullo Stato che è l’essenziale fine strategico dei gesuiti e fu teorizzato dall’attuale loro santo Roberto Bellarmino.

(Il Contri ha iniziato o sta per iniziare la pubblicazione di una nuova rivista «Criterion» di «vera» neo‑scolastica, e ha pubblicato una Piccola Enciclopedia filosofica. Editore Galleri, Bologna, 12 l.).

Cattolici integralisti, gesuiti e modernisti

§30 Cattolici integrali, gesuiti, modernisti. Il 6 aprile 1932 è stata iscritta nell’Indice l’opera di Felix Sartiaux, Joseph Turmel, prêtre, historien des dogmes. Parigi, Ed. Rieder. È una difesa del Turmel dopo gli ultimi mirabolanti casi capitati a questo esemplare eccezionale del mondo clericale francese.

Altro

§128 Cattolicismo. Il medico cattolico e l’ammalato (moribondo) acattolico.

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Cfr «Civiltà Cattolica» del 19 novembre 1932, p. 381 (recensione al libro di Luigi Scremin, Appunti di morale professionale per i medici, Roma, Editrice «Studium», 1932, in 120, pp. 8 L. 5): «… così a p. 95, pur citando il Prümmer, è detto male che “per un acattolico che desideri ed esiga un ministro della sua religione, è lecito al medico, in mancanza di altri, far conoscere al ministro stesso il desiderio dell’infermo, ed è anche tenuto (sic) a farlo solo quando giudichi dannoso per l’infermo non soddisfare questo desiderio”.

La sentenza del moralista è ben altra; ed infatti il Prümmer (I, 526) ci dice che non si deve chiamare un ministro acattolico, il quale non ha alcuna potestà di amministrare i sacramenti; ma piuttosto aiutare l’infermo a fare un atto di contrizione. Che se l’infermo esige assolutamente che si chiami il ministro acattolico e dal rifiuto nascerebbero gravi danni si può (non già si deve) far conoscere a detto ministro il desiderio dell’infermo. E si dovrebbe distinguere ancora, quando l’infermo fosse in buona fede, ed appartenesse ad un rito acattolico, in cui i ministri fossero insigniti di vero ordine sacro, come tra i Greci separati».

Il brano è di grande significazione.

Intellettuali

Italiani

§55 Rinascimento e Riforma. Cfr A. Oriani, La lotta politica

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(p. 128, edizione milanese): «La varietà dell’ingegno italiano, che nella scienza poteva andare dal sublime buon senso di Galileo alle abbaglianti e bizzarre intuizioni di Cardano, si colora nullameno alla Riforma, e vi si scorgono tosto Marco Antonio Flaminio poeta latino, Jacopo Nardi storico, Renata d’Este moglie del duca Ercole II; Lelio Socini, ingegno superiore a Lutero e a Calvino, che la porta ben più alto fondando la setta degli unitari; Bernardo Ochino e Pietro Martire Vermiglio teologo, che passeranno, questi alla università di Oxford, quegli nel capitolo di Canterbury; Francesco Burlamacchi che ritenterà l’impossibile impresa di Stefano Porcari e vi perirà martire eroe; Pietro Carnesecchi e Antonio Palcario che vi perderanno entrambi nobilmente la vita. Ma questo moto incomunicato al popolo è piuttosto una crisi del pensiero filosofico e scientifico, naturalmente ritmata sulla grande rivoluzione germanica, che un processo di purificazione e di elevazione religiosa. Infatti Giordano Bruno e Tommaso Campanella riassumendolo, per quanto vissuti e morti entro l’orbita di un ordine monastico, sono due filosofi trascinati dalla speculazione oltre i confini non solo della Riforma ma del cristianesimo stesso. Quindi il popolo rimane così insensibile alla loro tragedia che sembra quasi ignorarla».

Ma cosa significa tutto ciò? Forse che anche la Riforma non è una crisi del pensiero filosofico e scientifico, cioè dell’atteggiamento verso il mondo, della concezione del mondo? Bisogna quindi dire che, a differenza degli altri paesi, neanche la religione in Italia era elemento di coesione tra il popolo e gli intellettuali, e perciò appunto la crisi filosofica degli intellettuali non si prolungava nel popolo, perché non aveva origini nel popolo, perché non esisteva un «blocco nazionale‑popolare» nel campo religioso. In Italia non esisteva «chiesa nazionale», ma cosmopolitismo religioso, perché gli intellettuali italiani erano collegati a tutta la cristianità immediatamente come dirigenti anazionali.

Distacco tra scienza e vita, tra religione e vita popolare, tra filosofia e religione; i drammi individuali di Giordano Bruno ecc. sono del pensiero europeo e non italiano.

Funzione cosmopolita degli intellettuali italiani

§38 Funzione cosmopolita degli intellettuali italiani. Sull’Algarotti. Dall’articolo “Nicolino” e l’Algarotti di Carlo Calcaterra, nel «Marzocco» del 29 maggio 1932: «Impedisce tuttora nell’animo di molti un’equa valutazione degli scritti d’arte dell’Algarotti la considerazione che egli fu il consigliere e il provveditore di Augusto III di Sassonia negli acquisti per la galleria di Dresda, onde si rimprovera a lui di avere impoverito l’Italia a beneficio di corti straniere. Ma giustamente è stato detto dal Panzacchi e da altri studiosi che nel cosmopolitismo settecentesco quell’opera di diffusione dell’arte italiana, come di bellezza appartenente a tutta Europa, ha un aspetto meno odioso di quello che con tutta facilità può esserle oggi attribuito».

L’osservazione del cosmopolitismo settecentesco, che è esatta, va approfondita e specificata: il cosmopolitismo degli intellettuali italiani è esattamente della stessa natura del cosmopolitismo degli altri intellettuali nazionali? Questo è il punto: per gli italiani è in funzione di una particolare posizione che viene attribuita all’Italia a differenza degli altri paesi, cioè l’Italia è concepita come complementare di tutti gli altri paesi, come produttrice di bellezza e di coltura per tutta Europa.

§122 Carattere cosmopolita della letteratura italiana. La poesia provenzale in Italia. È stata pubblicata la raccolta completa delle Poesie provenzali storiche relative all’Italia (Roma, 1931, nella serie delle Fonti dell’Istituto Storico Italiano) per cura di Vincenzo De Bartholomaei

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e ne dà un annunzio Mario Pelaez nel «Marzocco» del 7 febbraio 1932. «Di circa 2600 poesie provenzali giunte fino a noi, 400 rientrano nella Storia d’Italia, o perché trattano di argomenti italiani, sebbene siano di poeti non mai venuti in Italia, o perché composte da poeti provenzali che vi dimorarono, o infine perché scritte da Italiani. Delle 400, la metà circa sono puramente amorose, le altre storiche, e qual più qual meno offrono testimonianze utili per la ricostruzione della vita e in generale della Storia italiana dalla fine del secolo XII alla metà del XIV. Duecento poesie di circa ottanta poeti».

Questi trovatori, provenzali o italiani, vivevano nelle corti feudali dell’Italia settentrionale, all’ombra delle piccole Signorie e nei Comuni, partecipavano alla vita e alle lotte locali, sostenevano gli interessi di questo o quel Signore, di questo o quel Comune, con poesia di varia forma, di cui è ricca la lirica provenzale: serventesi politici, morali, satirici, di crociata, di compianto, di consiglio; canzoni, tenzoni, cobbole ecc. che apparendo via via e circolando negli ambienti interessati, compivano la funzione che ha oggi l’articolo di fondo del giornale.

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Il De Bartholomaeis ha cercato di datare queste poesie, cosa non difficile per le allusioni che contengono; le ha corredate di tutti i sussidi che ne agevolano la lettura, le ha tradotte. Di ogni trovatore è data una breve informazione biografica. Per la lettura del testo originale è dato un glossario delle voci meno facili a intendersi. Sulla poesia provenzale in Italia è da vedere il volume di Giulio Bertoni Trovatori d’Italia.

§84 Carattere cosmopolita degli intellettuali italiani. Cesare Balbo aveva scritto: «Una storia intiera e magnifica e peculiare all’Italia sarebbe a fare degli Italiani fuori d’Italia».

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Nel 1890 fu pubblicato un saggio di Dizionario degli Italiani all’Estero, come opera postuma di Leo Benvenuti (uno studioso modesto). Nella prefazione il Benvenuti osservava che date le condizioni delle ricerche bibliografiche al suo tempo, non sarebbe stato possibile andare oltre a un indice che avrebbe poi dovuto servire a chi si fosse accinto a scrivere la storia. Le categorie in cui il Benvenuti suddivide l’elenco onomastico (le principali) sono: Ambasciatori, antiquari, architetti, artisti (drammatici, coreografici, acrobati), astronomi, botanici, cantanti, eruditi, filosofi, fisici, geografi, giureconsulti, incisoti, ingegneri (civili e militari), linguisti, insegnanti, matematici, medici e chirurghi, maestri di musica, mercanti, missionari, naturalisti, nunzi apostolici, pittori scultori e poeti, soldati di mare, soldati di terra, sovrani, storici, teologi, uomini di chiesa, viaggiatori, statisti.

(Come si vede il Benvenuti non aveva altro punto di vista che quello della nazionalità e l’opera sua, se completa, sarebbe stata un censimento degli italiani all’estero; secondo me la ricerca deve essere di carattere qualitativo e cioè studiare come le classi dirigenti – politiche e culturali – di una serie di paesi, furono rafforzate da elementi italiani i quali contribuirono a crearvi una civiltà nazionale, mentre in Italia appunto una classe nazionale mancava e non riusciva a formarsi: è questa emigrazione di elementi dirigenti che rappresenta un fatto storico peculiare, corrispondente all’impossibilità italiana di utilizzare e unificare i suoi cittadini più energici e intraprendenti). Il Benvenuti prendeva le mosse dall’anno 1000.

Promossa dal Capo del Governo, affidata al Ministero degli Affari Esteri, con la collaborazione del Reale Istituto di Archeologia e Storia dell’Arte, è in preparazione una voluminosissima pubblicazione intitolata L’Opera del Genio italiano all’estero. L’idea pare sia stata suggerita da Gioacchino Volpe che deve avere scritto il programma dell’opera (in un discorso all’Accademia, annotato in altro quaderno, il Volpe preannunziò questo lavoro).

Nel programma si legge: «La Storia del Genio italiano all’Estero che noi vogliamo narrare trascura i tempi antichi staccati da noi da secoli oscuri e muove dalla civiltà, che spuntata dopo il mille, ha raggiunto, sia pure tra soste e sussulti, i nostri giorni, rinnovellata da conquiste ideali e da conquiste politiche, donde l’odierna unità dell’anima e della patria italiana. Sarà opera oggettiva, scevra di antagonismi e di polemiche, ma di giusta celebrazione per quanto il genio italiano, considerato nel suo complesso, operò nel mondo per il bene di tutti».

L’opera sarà divisa in dodici serie le quali sono indicate in ordine progressivo, avvertendosi che ogni serie comprenderà uno o più volumi distribuiti in massima secondo il criterio geografico. Le 12 serie sarebbero: 1°’ Artisti di ogni arte; 2° Musicisti; 3° Letterati; 4° Architetti militari; 5° Uomini di guerra; 6° Uomini di mare; 7° Esploratori e Viaggiatori; 8° Principi; 9° Uomini politici; 10° Santi sacerdoti missionari; 11° Scienziati; 12° Banchieri mercanti colonizzatori.

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L’opera sarà riccamente illustrata. La Commissione Direttiva è composta del prof. Giulio Quirino Giglioli, di S. E. Vincenzo Loiacono e del Sen. Corrado Ricci. Segretario generale della Commissione è il barone Giovanni Di Giura. L’edizione sarà di 1000 esemplari di cui 50 di lusso. (Queste notizie sono ricavate dal «Marzocco» del 6 marzo 1932).

§141 Passato e presente. Caratteri del popolo italiano. Come si spiega la relativa popolarità «politica» di G. D’Annunzio? È innegabile che in D’Annunzio sono sempre esistiti alcuni elementi di «popolarismo»: dai suoi discorsi come candidato al Parlamento, dal suo gesto nel Parlamento, nella tragedia La Gloria, nel Fuoco (discorso su Venezia e l’artigianato), nel Canto di calendimaggio e giù giù fino alle manifestazioni (alcune almeno) politiche fiumane.

Ma non mi pare che siano «concretamente» questi elementi di reale significato politico (vaghi, ma reali) a spiegare questa relativa popolarità.

Altri elementi hanno concorso: 1°) l’apoliticità fondamentale del popolo italiano (specialmente della piccola borghesia e dei piccoli intellettuali), apoliticità irrequieta, riottosa, che permetteva ogni avventura, che dava a ogni avventuriero la possibilità di avere un seguito di qualche decina di migliaia di uomini, specialmente se la polizia lasciava fare o si opponeva solo debolmente e senza metodo; 2°) il fatto che non era incarnata nel popolo italiano nessuna tradizione di partito politico di massa, che non esistevano cioè «direttive» storico‑politiche di massa orientatrici delle passioni popolari, tradizionalmente forti e dominanti; 3°) la situazione del dopoguerra, in cui tali elementi si presentavano moltiplicati, perché, dopo quattro anni di guerra, decine di migliaia di uomini erano diventati moralmente e socialmente «vagabondi», disancorati, avidi di sensazioni non più imposte dalla disciplina statale, ma liberamente, volontariamente scelte a se stessi; 4°) quistioni sessuali, che dopo quattro anni di guerra si capisce essersi riscaldate enormemente: le donne di Fiume attiravano molti (e su questo elemento insiste stranamente anche Nino Daniele nel suo volumetto su D’Annunzio).

Questi elementi sembrano inetti solo se non si pensa che i ventimila giovani raccoltisi a Fiume non rappresentavano una massa socialmente e territorialmente omogenea, ma erano «selezionati» da tutta Italia, ed erano delle origini più diverse e disparate; molti erano giovanissimi e non avevano fatto la guerra, ma avevano letto la letteratura di guerra e i romanzi di avventura.

Tuttavia al di sotto di queste motivazioni momentanee e d’occasione pare si debba anche porre un motivo più profondo e permanente, legato a un carattere permanente del popolo italiano: l’ammirazione ingenua e fanatica per l’intelligenza come tale, per l’uomo intelligente come tale, che corrisponde al nazionalismo culturale degli italiani, forse unica forma di sciovinismo popolare in Italia. Per apprezzare questo nazionalismo bisogna pensare alla Scoperta dell’America di Pascarella: il Pascarella è l’«aedo» di questo nazionalismo e il suo tono canzonatorio è il più degno di tale epopea.

Questo sentimento è diversamente forte nelle varie parti d’Italia (è più forte in Sicilia e nel Mezzogiorno), ma è diffuso da per tutto in una certa dose, anche a Milano e a Torino (a Torino certo meno che a Milano e altrove): è più o meno ingenuo, più o meno fanatico, anche più o meno «nazionale» (si ha l’impressione, per esempio, che a Firenze sia più regionale che altrove, e così a Napoli, dove è anche di carattere più spontaneo e popolare in quanto i napoletani credono di essere più intelligenti di tutti come massa e singoli individui; a Torino poche «glorie» letterarie e più tradizione politico‑nazionale, per la tradizione ininterrotta di indipendenza e libertà nazionale).

D’Annunzio si presentava come la sintesi popolare di tali sentimenti: «apoliticità» fondamentale, nel senso che da lui ci si poteva aspettare tutti i fini immaginabili, dal più sinistro al più destro, e l’essere D’Annunzio ritenuto popolarmente l’uomo più intelligente d’Italia.

Machiavelli

§19 Machiavelli. Politica ed arte militare. Lo scrittore militare italiano (generale) De Cristoforis nel suo libro Che cosa sia la guerra dice che per «distruzione dell’esercito nemico» (fine strategico) non si intende «la morte dei soldati, ma lo scioglimento del loro legame come massa organica».

La formula mi pare felice anche per la terminologia politica. In politica il legame organico è dato dalla economia, cioè dai rapporti di proprietà e di organizzazione giuridica che su quei rapporti di proprietà si fondano (partiti, sindacati, ecc.).

§21 Machiavelli. Storia della burocrazia. Il fatto che nello svolgimento storico e delle forme economiche e politiche si sia venuto formando il tipo del funzionario tecnico ha una importanza primordiale. È stata una necessità o una degenerazione, come sostengono i liberisti? Ogni forma di società ha avuto il suo problema dei funzionari, il suo modo di impostare e risolvere il problema, un suo sistema di selezione, un suo «tipo» di funzionario da educare. Ricercare lo svolgimento di tutti questi elementi è di importanza capitale.

In parte questo problema coincide col problema degli intellettuali. Ogni rapporto nuovo di proprietà ha avuto bisogno di un nuovo tipo di funzionario, cioè ogni nuova classe dirigente ha impostato in modo nuovo il proprio problema dei funzionari, ma non ha potuto prescindere, per un certo tempo, dalla tradizione e dagli interessi costituiti, cioè dai gruppi di funzionari già precostituiti al suo avvento.

Unità del lavoro manuale e intellettuale come motivo per un indirizzo nuovo nella risoluzione del problema degli intellettuali e dei funzionari.

§40 Machiavelli. Rapporti di forza ecc. Nello studio del terzo grado o momento del sistema dei rapporti di forza esistenti in una determinata situazione, si può ricorrere al concetto che nella scienza militare è chiamato della «congiuntura strategica» ossia, con più precisione, del grado di preparazione strategica del teatro della lotta, uno dei cui elementi principali è dato dalle condizioni qualitative del personale dirigente e delle forze attive che si possono chiamare di prima linea (comprese in esse quelle d’assalto).

Il grado di preparazione strategica può dare la vittoria a forze «apparentemente» inferiori a quelle avversarie. (Si può dire che questa preparazione tende a ridurre a zero i così detti «imponderabili», cioè le reazioni immediate, in un momento dato, delle forze tradizionalmente passive o semipassive). (Tra gli elementi di questa preparazione strategica sono da porre quelli considerati nelle osservazioni fatte su un «ceto militare» che fiancheggia l’organismo tecnico dell’esercito, la cui preparazione è curata da tutti i paesi: ufficiali in congedo, associazioni di corpi militari in congedo, che mantengono lo spirito di corpo anche dopo la fine del servizio militare attivo ecc.).

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Altro elemento da aggiungere al paragrafo sull’economismo è questo: come esemplificazione della così detta intransigenza, l’avversione rigida di principio al compromesso con la sua manifestazione subordinata della «paura dei pericoli». L’avversione al compromesso è strettamente legata all’economismo, in quanto la concezione su cui si basa questa avversione non può essere che un fatale verificarsi di certe situazioni favorevoli senza bisogno di «prepararle» con iniziative volontarie e predisposte secondo un piano; c’è inoltre l’elemento di affidarsi ciecamente e scriteriatamente alla virtù delle armi.

Non si tiene conto del fattore tempo e non si tiene conto, in ultima analisi, della stessa «economia» nel senso che non si capisce come in certi momenti la spinta dovuta al fattore economico è rallentata o impastoiata da un elemento ideologico tradizionale, che c’è una lotta, nell’interno di certi blocchi sociali economico‑politici, tra le esigenze della posizione economica di massa e la fortuna politica dei dirigenti tradizionali, e che una iniziativa politica appropriata da parte di una forza estranea al blocco è «necessaria» per liberare la spinta economica dalla pastoia politica e mutare la direzione tradizionale con una nuova direzione conforme al contenuto economico sviluppatosi in una fase più progressiva ecc.

Due forze «simili» non possono fondersi in organismo nuovo che attraverso una serie di compromessi, oppure con la forza delle armi; alleandosi su un piano di eguaglianza o subordinando una forza all’altra con la coercizione. Se l’unità delle due forze è necessaria per vincere una terza forza, evidentemente il ricorso alla coercizione (dato che se ne abbia la disponibilità) è una pura ipotesi metodologica e l’unica possibilità concreta è un compromesso.

§62 Machiavelli. Il teorema delle proporzioni definite. Questo principio può essere impiegato per rendere più chiari molti ragionamenti riguardanti l’organizzazione e anche la politica generale (nelle analisi delle situazioni, dei rapporti di forza ecc., nel problema degli intellettuali). S’intende che occorre ricordare sempre come il ricorso al principio delle proporzioni definite ha un valore metaforico, e non può essere applicato meccanicamente.

Ogni organismo ha un suo principio ottimo di proporzioni definite. Ma la scienza dell’organizzazione specialmente deve ricorrere a questo principio. Nell’esercito si vede con chiarezza l’applicazione del principio. Ma ogni società ha un suo esercito e ogni tipo di esercito ha un suo principio di proporzioni definite, ed è in continuo svolgimento anche come tipo. L’esercito attuale è già diverso da quello che era agli inizi dello sviluppo della attuale forma sociale ecc. Rapporto tra truppa, graduati di truppa, sottufficiali, ufficiali subalterni, ufficiali superiori, Stato maggior generale ecc. Rapporto delle armi speciali. Rapporto dei servizi d’intendenza ecc. Ogni mutamento di ognuno degli elementi porta a squilibri nelle altre parti ecc.

Politicamente il principio si può studiare nei partiti, nelle fabbriche e vedere come ogni gruppo sociale ha le sue proprie proporzioni, a seconda del livello di coltura, di indipendenza mentale, di spirito d’iniziativa dei suoi membri più arretrati e periferici.

La legge delle proporzioni definite è riassunta così dal Pantaleoni nei Principii di Economia Pura: «… I corpi si combinano chimicamente soltanto in proporzioni definite e ogni quantità di un elemento che superi la quantità richiesta per una combinazione con altri elementi, presenti in quantità definite, resta libera; se la quantità di un elemento è deficiente per rapporto alla quantità di altri elementi presenti, la combinazione non avviene che nella misura in cui è sufficiente la quantità dell’elemento che è presente in quantità minore degli altri».

Si potrebbe servirsi metaforicamente di questa legge per far capire come un «movimento» diventa partito, cioè forza politica efficiente, nella misura in cui possiede «dirigenti» di vario grado e nella misura in cui questi dirigenti sono «capaci». L’automatismo storico di una certa premessa viene potenziato politicamente dai partiti e dagli uomini «capaci»: la loro assenza o deficienza (quantitativa e qualitativa) rende «sterile» l’automatismo stesso: c’è la premessa, ma le conseguenze non si realizzano.

Perciò si può dire che i partiti hanno il compito di creare dirigenti, sono la funzione di massa che seleziona, sviluppa e moltiplica i dirigenti necessari perché la massa determinata (che è una quantità «fissa», in quanto si può assumere e fissare quanti sono i membri di un certo gruppo sociale) si articoli e diventi, da caos tumultuoso, esercito politico organicamente predisposto.

Quando in elezioni successive dello stesso grado o di grado diverso (in Germania per esempio: elezioni per il presidente della repubblica, per le diete dei Länder, per il Reichstag, per i consigli comunali e giù giù fino ai comitati d’azienda), quando un partito ondeggia nella sua massa di suffragi da massimi a minimi che sembrano arbitrari si può dedurre che i suoi quadri sono manchevoli per quantità e per qualità, o per quantità e non per qualità (relativamente) o per qualità e non per quantità.

Un partito che ha molti voti sindacali e meno politici, è deficiente qualitativamente nella sua direzione: possiede molti subalterni, o almeno in numero, sufficiente, ma non possiede i gradi superiori proporzionatamente ecc. Si può fare una analisi di tal genere che è già stata accennata in altre annotazioni.

§64 Machiavelli (storia delle classi subalterne). Importanza e significato dei partiti. Quando si scrive la storia di un partito, si affronta tutta una serie di problemi.

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Cosa sarà la storia di un partito? Sarà la mera narrazione della vita interna di una organizzazione politica, come essa nasce, i primi gruppi che la costituiscono, le polemiche ideologiche attraverso le quali nasce il suo programma e la sua concezione del mondo e della vita? Sarebbe, in tal caso, la storia di ristretti gruppi intellettuali e talvolta la biografia politica di una sola personalità.

Il quadro dovrà essere più largo: sarà la storia di una determinata massa di uomini che avrà seguito quegli uomini, li avrà sorretti con la sua fiducia, criticati «realisticamente» con le sue dispersioni e le sue passività. Ma questa massa sarà solamente costituita dai soci del partito?

Occorrerà seguire i congressi, le votazioni ecc. tutto l’insieme di modi di vita con cui una massa di partito manifesta la sua volontà; ma sarà sufficiente?

Bisognerà evidentemente tener conto del gruppo sociale di cui il partito è l’espressione e la parte più avanzata, e la storia di un partito non potrà non essere la storia di un determinato gruppo sociale. Ma questo gruppo non è isolato nella società, ha amici, affini, avversari, nemici.

Solo dal complesso quadro di tutto l’insieme sociale risulterà la storia di un determinato partito, e pertanto si può dire che scrivere la storia di un partito significa scrivere la storia generale di un paese da un punto di vista monografico, per metterne in risalto un aspetto caratteristico.

Un partito avrà avuto maggiore o minore importanza, maggiore o minore significato nella misura appunto in cui la sua particolare attività avrà avuto maggiore o minore peso nella determinazione della storia di un paese.

Ecco che dal modo di scrivere la storia di un partito risulta quale concetto si abbia di ciò che un partito sia e debba essere. Il settario si esalterà nei fatterelli interni, che avranno per lui un significato esoterico e lo riempiranno di entusiasmo mistico.

Uno storico‑politico darà a questi fatti l’importanza che essi hanno nel quadro generale e insisterà sull’efficienza reale del partito, sulla sua forza determinante, positiva o negativa, nell’aver contribuito a determinare un evento e anche nell’averne impedito il compimento.

§68 Machiavelli.

Centralismo organico e centralismo democratico.

Sono da studiare i reali rapporti economici e politici che trovano la loro forma organizzativa, la loro articolazione e la loro funzionalità nelle manifestazioni di centralismo organico e di centralismo democratico in una serie di campi: nella vita statale (unitarismo, federalismo ecc.), nella vita interstatale (alleanze, forme varie di costellazioni politiche internazionali), nella vita dei partiti politici e delle associazioni sindacali economiche (in uno stesso paese, tra paesi diversi ecc.).

  

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Le polemiche sorte nel passato (prima del 1914) a proposito del predominio tedesco nella vita di alcune forze politiche internazionali. Era poi reale questa predominanza o in che cosa essa realmente consisteva? Mi pare si possa dire: 1°) che nessun nesso organico e disciplinare stabiliva un tale predominio, il quale pertanto era un mero fatto di influenza culturale e ideologica astratta; 2°) che tale influenza culturale non toccava per nulla l’attività pratica effettiva, la quale viceversa era disgregata, localistica, senza indirizzo d’insieme. Non si può parlare in tal caso di alcun centralismo, né organico né democratico, né d’altro genere o misto.

L’influenza culturale era risentita e subita da scarsi gruppi intellettuali, senza legami con le masse e appunto questa assenza di legame caratterizzava la situazione. Tuttavia questo stato di cose è degno di studio perché serve a spiegare il processo che ha portato alle teorie del centralismo organico, che è appunto una critica unilaterale e da intellettuali di quel disordine e dispersione di forze.

Occorre intanto distinguere appunto nelle teorie del centralismo organico tra quelle che velano un preciso programma politico di predominio reale di una parte sul tutto (sia questa parte costituita da uno strato come quello degli intellettuali, sia costituita da un gruppo territoriale privilegiato) e quelle che sono una pura posizione unilaterale (anch’essa propria d’intellettuali), cioè un fatto settario o di fanatismo, immediatamente, e che, pur nascondendo un programma di predominio, è però meno accentuato come fatto politico cosciente.

Il nome più esatto è quello di centralismo burocratico: l’organicità non può essere che del centralismo democratico, il quale appunto è un «centralismo in movimento» per così dire, cioè una continua adeguazione dell’organizzazione al movimento storico reale ed è organico appunto perché tiene conto del movimento, che è il modo organico di manifestarsi della realtà storica. Inoltre è organico perché tiene conto di qualcosa di relativamente stabile e permanente o per lo meno che si muove in una direzione più facile a prevedersi ecc.

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Questo elemento di stabilità negli Stati si incarna nello sviluppo organico della classe dirigente così come nei partiti si incarna nello sviluppo organico del gruppo sociale egemone; negli Stati il centralismo burocratico indica che si è formato un gruppo angustamente privilegiato che tende a perpetuare i suoi privilegi regolando e anche soffocando il nascere di forze contrastanti alla base, anche se queste forze sono omogenee di interessi agli interessi dominanti (esempio nel fatto del protezionismo in lotta col liberismo).

Nei partiti rappresentanti gruppi socialmente subalterni l’elemento di stabilità rappresenta la necessità organica di assicurare l’egemonia non a gruppi privilegiati: ma alle forze sociali progressive, organicamente progressive in confronto di altre forze alleate ma composte e oscillanti tra il vecchio e il nuovo.

In ogni caso ciò che importa notare è che nelle manifestazioni di centralismo burocratico spesso la situazione si è formata per deficienza d’iniziativa, cioè per la primitività politica, delle forze periferiche, anche quando esse sono omogenee con il gruppo territoriale egemone. Specialmente negli organismi territoriali internazionali il formarsi di tali situazioni è estremamente dannoso e pericoloso.

Il centralismo democratico è una formula elastica, che si presta a molte «incarnazioni»; essa vive in quanto è interpretata continuamente e continuamente adattata alle necessità: essa consiste nella ricerca critica di ciò che è uguale nell’apparente disformità e distinto e opposto nell’apparente uniformità, e nell’organizzare e connettere strettamente ciò che è simile, ma in modo che tale organizzazione e connessione appaia una necessità pratica «induttiva», sperimentale, e non il risultato di un procedimento razionalistico, deduttivo, astrattistico, cioè appunto proprio di intellettuali «puri».

Questo lavorio continuo per sceverare l’elemento «internazionale» e «unitario» nella realtà nazionale e localistica è in realtà l’operazione politica concreta, l’attività sola produttiva di progresso storico. Essa richiede una organica unità tra teoria e pratica, tra strati intellettuali e massa, tra governanti e governati.

Le formule di unità e federazione perdono gran parte del loro significato da questo punto di vista: esse invece hanno il loro veleno nella concezione «burocratica», per la quale in realtà non esiste unità ma palude stagnante superficialmente calma e «muta», e non federazione ma sacco di patate, cioè giustapposizione meccanica di «unità» singole senza rapporto tra loro.

§69 Machiavelli. (Il numero e la qualità nei regimi rappresentativi). Uno dei luoghi comuni più banali che si vanno ripetendo contro il sistema elettivo di formazione degli organi statali è quello che il «numero sia in esso legge suprema» e che la «opinione di un qualsiasi imbecille che sappia scrivere (e anche di un analfabeta, in certi paesi) valga, agli effetti di determinare il corso politico dello Stato, esattamente quanto quella di chi allo Stato e alla Nazione dedichi le sue migliori forze» ecc. (Le formulazioni sono molte, alcune anche più felici di questa riportata, che è di Mario da Silva, nella «Critica Fascista» del 15 agosto 1932, ma il contenuto è sempre uguale).

Non è certo vero che il numero sia legge suprema, né che il peso dell’opinione di ogni elettore sia «esattamente» uguale. I numeri, anche in questo caso, sono un semplice valore strumentale, che danno una misura e un rapporto e niente di più. E che cosa poi si misura? Si misura proprio l’efficacia e la capacità di espansione e di persuasione delle opinioni di pochi, delle minoranze attive, delle élites, delle avanguardie ecc. ecc., cioè la loro razionalità o storicità o funzionalità concreta. Ciò vuol dire anche che non è vero che il peso delle opinioni dei singoli sia esattamente uguale. Le idee e le opinioni non «nascono» spontaneamente nel cervello di ogni singolo: hanno avuto un centro di irradiazione e di diffusione, un gruppo di uomini o anche un uomo singolo che le ha elaborate e le ha presentate nella forma politica di attualità.

La numerazione dei «voti» è la manifestazione terminale di un lungo processo in cui l’influsso massimo appartiene proprio a quelli che «dedicano allo Stato e alla Nazione le loro migliori forze» (quando lo sono). Se questi presunti ottimati, nonostante le forze materiali sterminate che possiedono, non hanno il consenso delle maggioranze, saranno da giudicare inetti e non rappresentanti gl’interessi «nazionali», che non possono non essere prevalenti nell’indurre le volontà in un senso piuttosto che in un altro. «Disgraziatamente» ognuno è portato a confondere il proprio particolare con l’interesse nazionale e quindi a trovare orribile ecc. che sia la «legge del numero» a decidere. Non si tratta quindi di chi «ha molto» che si sente ridotto al livello di uno qualsiasi, ma proprio di «chi ha molto» che vuole togliere a ogni qualsiasi anche quella frazione infinitesima di potere che questo possiede di decidere sul corso della vita dello Stato.

Dalla critica (di origine oligarchica) al regime parlamentarista (che invece dovrebbe essere criticato proprio perché la «razionalità storicistica» del consenso numerico è sistematicamente falsificata) queste affermazioni banali sono state estese a ogni forma di sistema rappresentativo, anche non parlamentaristico e non foggiato secondo i canoni della democrazia astratta. Tanto meno questa formulazione è esatta.

In questi altri regimi il consenso non ha nel momento del voto una fase terminale: tutt’altro. Il consenso è supposto permanentemente attivo, fino al punto che i consenzienti potrebbero essere considerati come «funzionari» dello Stato e le elezioni un modo di arruolamento volontario di funzionari statali di un certo tipo, che in un certo tempo potrebbe ricollegarsi (in piani diversi) a self‑government. Le elezioni avvenendo non su programmi generici e vaghi ma su programmi di lavoro immediati, chi consente si impegna a fare qualcosa di più del comune cittadino legale, per realizzarli, a essere cioè un’avanguardia di lavoro attivo e responsabile.

L’elemento «volontarietà» nell’iniziativa non potrebbe essere stimolato in altro modo per le più larghe moltitudini e quando queste non siano formate di amorfi cittadini ma di elementi produttivi qualificati, si può intendere l’importanza che la manifestazione può e deve avere. (Queste osservazioni potrebbero essere svolte più ampiamente e organicamente, mettendo in rilievo anche altre differenze tra i diversi tipi di elezionismo, a seconda che mutano i rapporti generali sociali e politici).

Note

§70 Machiavelli. Sull’origine delle guerre. Come si può dire che le guerre tra nazioni hanno la loro origine nelle lotte dei gruppi nell’interno di ogni singola nazione? È certo che in ogni nazione deve esistere una certa (e determinata per ogni nazione) espressione della legge delle proporzioni definite. I vari gruppi cioè devono essere in certi rapporti di equilibrio, il cui turbamento radicale potrebbe condurre a una catastrofe sociale. Questi rapporti variano a seconda che un paese è agricolo o industriale e a seconda dei diversi gradi di sviluppo delle forze produttive.

La classe dirigente cercherà di mantenere l’equilibrio migliore per il suo permanere, non solo, ma per il suo permanere in determinate condizioni di floridezza e anzi per incrementare queste condizioni. Ma siccome l’area sociale di ogni paese è limitata, sarà portata a estenderla nelle zone coloniali e quindi a entrare in conflitto con altre classi dirigenti che aspirano allo stesso fine, o ai cui danni l’espansione della prima dovrebbe necessariamente avvenire, poiché anche il globo è limitato.

Ogni classe dirigente tende in astratto ad allargare la base della società lavoratrice da cui preleva plusvalore, ma la tendenza da astratta diventa concreta e immediata quando il prelevamento del plusvalore nella sua base tradizionale è diventato difficile e pericoloso oltre certi limiti che sono insufficienti.

§88 Machiavelli. Grandi potenze. La misura suprema della grande potenza è data dalle guerre. Il concetto di grande potenza è strettamente legato alle guerre.

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Entrando in alleanze per una guerra, e oggi ogni guerra presuppone dei sistemi di forze antagonistiche, è grande potenza quella che al momento della pace è riuscita a conservare il rapporto delle forze con gli alleati, per essere in grado di far mantenere i patti e, le promesse fatte all’entrata in guerra.

Ma uno Stato che per entrare in guerra ha bisogno di grossi prestiti, che ha bisogno continuo di armi e munizioni per i soldati, di vettovaglie per l’esercito e per la popolazione civile, di navi per il trasporto, che cioè non può fare la guerra senza l’aiuto continuo degli alleati, che per qualche tempo dopo la pace ha ancora bisogno di aiuti specialmente di vettovaglie e in prestiti o altre forme di aiuti finanziari, come può essere uguale ai suoi alleati e imporsi perché mantengano le promesse?

Un simile Stato non è considerato grande potenza altro che nelle carte diplomatiche, ma nella realtà è considerato come un semplice fornitore di soldati per la coalizione che ha i mezzi non solo di sopportare la guerra coi mezzi propri, ma ha mezzi esuberanti di cui disporre.

§133 Machiavelli. Il cesarismo. Cesare, Napoleone I, Napoleone III, Cromwell, ecc. Fare un catalogo degli eventi storici che hanno culminato in una grande personalità «eroica». Si può dire che il cesarismo o bonapartismo esprime una situazione in cui le forze in lotta si equilibrano in modo catastrofico, cioè si equilibrano in modo che la continuazione della lottanon può concludersi che con la distruzione reciproca.

Quando la forza progressiva A lotta con la forza regressiva B, può avvenire non solo che A vinca B o B vinca A, può avvenire anche che non vinca né A né B ma si svenino reciprocamte e una terza forza C intervenga dall’esterno assoggettando ciò che resta di A e di B. Nell’Italia dopo la morte di Lorenzo il Magnifico è appunto successo questo, come era successo nel mondo antico con le invasioni barbariche.

Ma il cesarismo, se esprime sempre la soluzione «arbitrale», affidata a una grande personalità, di una situazione storico‑politica di un equilibrio delle forze a tendenza catastrofica, non ha sempre lo stesso significato storico. Ci può essere un cesarismo progressivo e un cesarismo regressivo, e il significato esatto di ogni forma di cesarismo, in ultima analisi, può essere ricostruito dalla storia concreta e non da uno schema sociologico.

È progressivo il cesarismo quando il suo intervento aiuta la forza progressiva a trionfare sia pure con certi compromessi limitativi della vittoria; è regressivo quando il suo intervento aiuta a trionfare la forza regressiva, anche in questo caso con certi compromessi e limitazioni, che però hanno un valore, una portata e un significato diversi che non nel caso precedente.

Cesare e Napoleone I sono esempi di cesarismo progressivo. Napoleone III (e anche Bismarck) di cesarismo regressivo. Si tratta di vedere se nella dialettica «rivoluzione‑restaurazione» è l’elemento rivoluzione o quello restaurazione che prevale, poiché è certo che nel movimento storico non si torna mai indietro e non esistono restaurazioni «in toto».

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Del resto, il fenomeno «cesarista» è una formula più polemico-ideologica che non storico‑politica. Si può avere «soluzione cesarista» anche senza un cesare, senza una grande personalità «eroica» e rappresentativa. Il sistema parlamentare ha dato il meccanismo per tali soluzioni di compromesso, I governi «laburisti» di Mac Donald erano soluzioni di tale specie in un certo grado; il grado di cesarismo si intensificò quando si ebbe il governo con Mac Donald presidente e la maggioranza conservatrice.

Così in Italia nell’ottobre 1922, fino al distacco dei popolari e poi gradatamente fino al 3 gennaio 1925 e ancora fino all’8 novembre 1926, si ebbe un moto politico‑storico in cui diverse gradazioni di cesarismo si succedettero fino a una forma più pura e permanente, sebbene anch’essa non immobile e statica. Ogni governo di coalizione è un grado iniziale di cesarismo, che può o non può svilupparsi fino ai gradi più significativi.

Nel mondo moderno, con le sue grandi coalizioni di carattere economico‑sindacale e politico, di partito, il meccanismo del fenomeno cesarista è diverso da quello che fu fino a Napoleone III; nel periodo fino a Napoleone III le forze militari regolari o di linea erano un elemento decisivo del cesarismo e questo si verificava con colpi di Stato ben precisi, con azioni militari ecc.

Nel mondo moderno le forze sindacali e politiche, coi mezzi finanziari incalcolabili di cui possono disporre piccoli gruppi di cittadini, complicano il fenomeno; i funzionari dei partiti e dei sindacati economici possono essere corrotti o terrorizzati, senza bisogno di azione militare in grande stile, tipo Cesare o 18 brumaio. Si riproduce in questo campo la stessa situazione studiata a proposito della formula giacobino‑quarantottesca della così detta «rivoluzione permanente».

Il «tecnicismo» politico moderno è completamente mutato dopo il 48, dopo l’espansione del parlamentarismo, del regime associativo sindacale e di partito, del formarsi di vaste burocrazie statali e «private» (politico‑private, di partito e sindacali) e le trasformazioni avvenute nell’organizzazione della polizia in senso largo, cioè non solo del servizio statale destinato alla repressione della delinquenza, ma dell’insieme di forze organizzate dallo Stato e dai privati per tutelare il dominio politico ed economico della classe dirigente.

In questo senso, interi partiti «politici» e altre organizzazioni economiche o di altro genere devono essere considerati organismi di polizia politica di carattere «repressivo» e «investigativo».

§136 Machiavelli. Il cesarismo. Lo schema generico delle forze A e B in lotta con prospettiva catastrofica, cioè con la prospettiva che non vinca né A né B per l’esistenza di un equilibrio organico, da cui nasce (può nascere) il cesarismo, è appunto un’ipotesi generica, uno schema sociologico (di scienza politica) a tipo matematico. L’ipotesi può ancora essere resa più concreta, portata a un grado maggiore di approssimazione alla realtà concreta storica.

Ciò può ottenersi precisando meglio alcuni elementi fondamentali. Così, parlando di A e B, si è solo detto che esse sono una forza genericamente progressiva e una forza genericamente regressiva: si può precisare di quale tipo di forza regressiva e progressiva si tratta e ottenere così maggiore approssimazione.

Nel caso di Cesare e di Napoleone I si può dire che A e B, pur essendo distinte e contrastanti, non erano però tali da non poter venire «assolutamente» ad una fusione ed assimilazione reciproca dopo un processo molecolare, ciò che infatti avvenne, in una certa misura almeno (sufficiente tuttavia ai fini storico‑politici della cessazione della lotta organica fondamentale e quindi del superamento della fase catastrofica). Questo è un elemento di maggiore approssimazione.

Un altro elemento è il seguente: la fase catastrofica può annodarsi per deficienza politica momentanea della forza dominante tradizionale, e non già per una sua deficienza organica insuperabile necessariamente. Ciò appunto si è verificato nel caso di Napoleone III.

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La forza dominante in Francia dal 1815 al 1848, si era scissa politicamente in quattro frazioni: quella legittimista, quella orleanista, quella bonapartista, quella repubblicano‑giacobina. Le lotte interne di frazione erano tali da rendere possibile l’avanzata della forza antagonista B (progressista) in forma «precoce»; tuttavia la forma sociale esistente non aveva ancora esaurito le sue possibilità di sviluppo, come infatti la storia successiva mostrò abbondantemente. Napoleone III rappresentò (a suo modo, cioè secondo la statura dell’uomo che non era grande) queste possibilità latenti o immanenti; il suo cesarismo dunque è ancora di un tipo particolare. È obbiettivamente progressivo, sebbene non come quello di Cesare e di Napoleone I.

Il cesarismo di Cesare e di Napoleone I è stato, per così dire, di carattere quantitativo‑qualitativo, ha cioè rappresentato la fase storica di passaggio da un tipo di Stato a un altro tipo, un passaggio in cui le innovazioni furono tante quantitativamente e tali, da rappresentare un completo rivolgimento qualitativo. Il cesarismo di Napoleone III fu solo e limitatamente quantitativo; non ci fu passaggio da un tipo di Stato ad un altro tipo, ma solo «evoluzione» dello stesso tipo, secondo una linea ininterrotta.

Nel mondo moderno i fenomeni di cesarismo sono del tutto diversi, sia da quelli del tipo progressivo Cesare‑Napoleone I, come anche da quelli del tipo Napoleone III, sebbene si avvicinino a questo ultimo. Nel mondo moderno l’equilibrio a prospettive catastrofiche non si verifica tra forze contrastanti che in ultima analisi potrebbero fondersi e unificarsi, sia pure dopo un processo faticoso e sanguinoso, ma tra forze il cui contrasto è insanabile storicamente e si approfondisce anzi specialmente coll’avvento di forme cesaree.

Il cesarismo ha tuttavia un margine, più o meno grande, a seconda dei paesi e del loro significato nella struttura mondiale, perché una forma sociale ha «sempre» possibilità marginali di ulteriore sviluppo e sistemazione organizzativa e specialmente può contare sulla debolezza relativa della forza antagonista e progressiva, per la natura e il modo di vita peculiare di essa. Il cesarismo moderno più che militare è poliziesco.

§142 Machiavelli. Volontarismo e «massa sociale». In tutta una serie di quistioni, di ricostruzione storica del passato e di analisi storico‑politica per l’azione da compiere, non si tiene conto di questo elemento: che occorre distinguere e valutare diversamente le imprese e le organizzazioni di volontari, dalle imprese e dalle organizzazioni di «blocchi omogenei sociali».

Ciò ha grande importanza specialmente in Italia: 1°) per l’apoliticismo e la passività tradizionale delle grandi masse popolari che ha come reazione naturale una relativa facilità al «reclutamento di volontari»; 2°) per la costituzione sociale italiana, uno dei cui elementi è la morbosa quantità di borghesi rurali o di tipo rurale, medi e piccoli, che sono l’elemento che dà molti intellettuali irrequieti e quindi «volontari» per ogni iniziativa anche la più bizzarra che sia vagamente sovversiva (a destra o a sinistra).

Nell’analisi dei partiti politici italiani si può vedere che essi sono stati sempre di «volontari», in un certo senso di declassés, e mai o quasi di «blocchi omogenei sociali». Un’eccezione è stata la «destra storica» cavourriana e quindi la sua superiorità organica e permanente sul Partito d’Azione mazziniano e garibaldino, che è stato il prototipo di tutti i partiti italiani di «massa», che non erano in realtà tali (cioè non contenevano blocchi omogenei sociali) ma attendamenti zingareschi e nomadi della politica.

Si può trovare una sola analisi di tal genere (ma imprecisa e gelatinosa, da un punto di vista solo «statistico-sociologico») in Roberto Michels nel volume Borghesia e proletariato. La posizione di Gottlieb [Amadeo Bordiga ndc] era appunto quella del Partito d'Azione mazziniano, anch’essa zingaresca e nomade: l’interesse sindacale era solo pelle pelle e di origine polemica, non organico, non sistematico, non di ricerca di omogeneità sociale, ma «paternalistico», formalistico, meccanicistico.

MatBibl.: Gramsci e Bordiga

Stranieri

§13 Argomenti di coltura. Max Nordau. Grande diffusione dei libri del Nordau in Italia negli strati più colti del popolo e della piccola borghesia urbana. Le menzogne convenzionali della nostra civiltà e Degenerazione erano giunti rispettivamente all’ottava edizione (nel 1921) e alla quinta edizione (nel 1923) nella pubblicazione regolare dovuta ai Fratelli Bocca di Torino; ma questi libri passarono nel dopoguerra ai librai tipo Madella e Barion e furono lanciati dai venditori ambulanti a bassissimo prezzo in quantità molto notevoli.

Hanno contribuito così a far entrare nell’ideologia popolare (senso comune) una certa serie di credenze e di «canoni critici» che appaiono come il non plus ultra dell’intellettualità e dell’alta cultura, così come vengono concepite dal popolo.

Txt: Le menzogne convenzionali della nostra civiltà

§139 Gli intellettuali. Sulla funzione che hanno avuto gli intellettuali in Ispagna prima della caduta della monarchia è da vedere il libro di S. de Madariaga, Spagna. Saggio di storia contemporanea, a cura di Alessandro Schiavi, Laterza, Bari, 1932.

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Sull’argomento deve esistere una larga letteratura in Ispagna, attualmente, poiché la repubblica si presenta come una repubblica di intellettuali. Il fenomeno spagnolo ha caratteri propri, peculiari, determinati dalla speciale situazione delle masse contadine in Ispagna. Pure è da riavvicinare alla funzione dell’«intellighenzia» russa, alla funzione degli intellettuali italiani nel Risorgimento, degli intellettuali tedeschi sotto il dominio francese e agli enciclopedisti del Settecento. Ma in Ispagna la funzione degli intellettuali nella politica ha un suo carattere inconfondibile e può valere la pena di essere studiata.

Letteratura

Critica letteraria

§124 Critica letteraria. Che si possa parlare di lotta per una «nuova cultura» e non per una «nuova arte» mi pare evidente. Non si puo forse neanche dire, esattamente, che si lotta per un nuovo contenuto dell’arte, perché questo non può essere pensato astrattamente separato dalla forma. Lottare per una nuova arte significherebbe lottare per creare nuovi artisti individuali, ciò che è assurdo, poiché non si possono creare artificiosamente degli artisti.

Si deve parlare di lotta per una nuova cultura, cioè per una nuova vita morale che non può non essere intimamente legata a una nuova concezione della vita, fino a che essa diventi un nuovo modo di sentire e di intuire la realtà e quindi mondo intimamente connaturato nell’artista e nelle sue opere.

Che la creazione di artisti non possa essere prodotta artificiosamente non significa però che un nuovo mondo culturale, per la cui realizzazione si lotta, suscitando passioni e nuovo calore di umanità, non susciti anche «artisti nuovi»; non si può a priori dire che Tizio o Caio diventeranno artisti, ma non si può escludere anzi si può affermare che dal movimento nasceranno nuovi artisti.

Un nuovo gruppo che entra nella vita storica egemonica, con una sicurezza di sé che prima non aveva, non può non suscitare dal suo interno personalità che prima non avrebbero trovato una forza sufficiente per esprimersi ecc.

§134 Letteratura italiana. Pirandello. Altrove ho notato come in un giudizio critico‑storico su Pirandello, l’elemento «storia della cultura» debba essere superiore all’elemento «storia dell’arte», cioè che nell’attività letteraria pirandelliana prevale il valore culturale al valore estetico. Nel quadro generale della letteratura contemporanea, l’efficacia del Pirandello è stata più grande come «innovatore» del clima intellettuale che come creatore di opere artistiche: egli ha contribuito molto più dei futuristi a «sprovincializzare» l’«uomo italiano», a suscitare un atteggiamento «critico» moderno in opposizione all’atteggiamento «melodrammatico» tradizionale e ottocentista.

La quistione è però ancor più complessa di quanto appaia da questi cenni. E si pone così: i valori poetici del teatro pirandelliano (e il teatro è il terreno più proprio del Pirandello, l’espressione più compiuta della sua personalità poetico‑culturale) non solo devono essere isolati dalla sua attività prevalentemente di cultura, intellettuale‑morale, ma devono subire una ulteriore limitazione: la personalità artistica del Pirandello è molteplice e complessa.

Quando il Pirandello scrive un dramma, egli non esprime «letterariamente», cioè con la parola, che un aspetto parziale della sua personalità artistica. Egli «deve» integrare la «stesura letteraria» con la sua opera di capocomico e di regista. Il dramma del Pirandello acquista tutta la sua espressività solo in quanto la «recitazione» sarà diretta dal Pirandello capo‑comico, cioè in quanto Pirandello avrà suscitato negli attori dati una determinata espressione teatrale e in quanto Pirandello regista avrà creato un determinato rapporto estetico tra il complesso umano che reciterà e l’apparato materiale della scena (luce, colori, messinscena in senso largo). Cioè il teatro pirandelliano è strettamente legato alla personalità fisica dello scrittore e non solo ai valori artistico‑letterari «scritti».

Morto Pirandello (cioè, se Pirandello oltre che come scrittore, non opera come capo‑comico e come regista) cosa rimarrà del teatro di Pirandello? Un «canovaccio» generico, che in un certo senso può avvicinarsi agli scenari del tealtro pregoldoniano: dei «pretesti» teatrali, non della «poesia» eterna. Si dirà che ciò avviene per tutte le opere di teatro e in un certo senso ciò è vero. Ma solo in un certo senso. È vero che una tragedia di Shakespeare può avere diverse interpretazioni teatrali a seconda dei capocomici e dei registi, cioè è vero che ogni tragedia di Shakespeare può diventare «pretesto» per spettacoli teatrali diversamente originali: ma rimane che la tragedia «stampata» in libro, e letta individualmente, ha una sua vita artistica indipendente, che può astrarre dalla recitazione teatrale: è poesia e arte anche fuori del teatro e dello spettacolo.

Ciò non avviene per Pirandello: il suo teatro vive esteticamente in maggior parte solo se «rappresentato» teatralmente, e se rappresentato teatralmente avendo il Pirandello come capocomico e regista. (Tutto ciò sia inteso con molto sale).

Ant.: Il teatro di Pirandello (da Intratext)

§140 Sulla civiltà inglese. Le pubblicazioni sulla letteratura inglese di J. J. Jusserand (Storia letteraria del popolo inglese, Histoire littéraire, ecc.).

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L’opera di Jusserand è fondamentale anche per gli studiosi inglesi. Jusserand fu diplomatico francese a Londra; era stato allievo di Gaston Paris e di Ippolito Taine. Al momento della sua morte (verso il settembre 1932) dell’opera principale dello Jusserand, Histoire littéraire du Peuple Anglais erano usciti due volumi; un terzo e conclusivo doveva seguire. Altri lavori sulla letteratura inglese e sulla storia della cultura inglese dello stesso autore.

Letteratura popolare

§135 Letteratura nazionale‑popolare. Gli «umili». Questa espressione «gli umili» è caratteristica per comprendere l’atteggiamento tradizionale degli intellettuali italiani verso il popolo e quindi il significato della letteratura per gli «umili». Non si tratta del rapporto contenuto nell’espressione dostoievschiana di «umiliati e offesi». In Dostoievskij c’è potente il sentimento nazionale‑popolare, cioè la coscienza di una «missione degli intellettuali» verso il popolo che magari è «oggettivamente» costituito di «umili», ma deve essere liberato da questa «umiltà», trasformato, rigenerato.

Nell’intellettuale italiano l’espressione di «umili» indica un rapporto di protezione paterna e padreternale, il sentimento «sufficiente» di una propria indiscussa superiorità, il rapporto come tra due razze, una ritenuta superiore e l’altra inferiore, il rapporto come tra adulti e bambini nella vecchia pedagogia e peggio ancora, un rapporto da «società protettrice degli animali», o da esercito della Salute anglosassone verso i cannibali della Guinea.

§66 Letteratura popolare. Ho accennato in altra nota come in Italia la musica abbia in una certa misura sostituito, nella cultura popolare, quella espressione artistica che in altri paesi è data dal romanzo popolare e come i genii musicali abbiano avuto quella popolarità che invece è mancata ai letterati.

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È da ricercare: 1°) se la fioritura dell’opera in musica coincide in tutte le sue fasi di sviluppo (cioè non come espressione individuale di singoli artisti geniali, ma come fatto, manifestazione storico‑culturale) con la fioritura dell’epica popolare rappresentata dal romanzo. Mi pare di sì: il romanzo e il melodramma hanno l’origine nel settecento e fioriscono nel primo 50° del secolo XIX, cioè essi coincidono con la manifestazione e l’espansione delle forze democratiche popolari‑ nazionali in tutta l’Europa. 2°) Se coincidono l’espansione europea del romanzo popolare anglo‑francese e quella del melodramma italiano.

Perché la «democrazia» artistica italiana ha avuto una espressione musicale e non «letteraria»? Che il linguaggio non sia stato nazionale, ma cosmopolita, come è la musica, può connettersi alla deficienza di carattere popolare‑nazionale degli intellettuali italiani?

Nello stesso momento in cui in ogni paese avviene una stretta nazionalizzazione degli intellettuali indigeni, e questo fenomeno si verifica anche in Italia, sebbene in misura meno larga (anche il settecento italiano, specialmente nella seconda metà, è più «nazionale» che cosmopolita), gli intellettuali italiani continuano la loro funzione europea attraverso la musica.

Si potrà forse osservare che la trama dei libretti non è mai «nazionale» ma europea, in due sensi: o perché l’«intrigo» del dramma si svolge in tutti i paesi d’Europa e più raramente in Italia, muovendo da leggende popolari o da romanzi popolari; o perché i sentimenti e le passioni del dramma riflettono la particolare sensibilità europea settecentesca e romantica, cioè una sensibilità europea, che non pertanto coincide con elementi cospicui della sensibilità popolare di tutti i paesi, da cui del resto aveva attinto la corrente romantica.

(È da collegare questo fatto con la popolarità di Shakespeare e anche dei tragici greci, i cui personaggi, travolti da passioni elementari – gelosia, amor paterno, vendetta, ecc. – sono essenzialmente popolari in ogni paese).

Si può perciò dire che il rapporto melodramma italiano ‑ letteratura popolare anglo‑francese non è sfavorevole criticamente al melodramma, poiché il rapporto è storico‑popolare e non artistico-critico.

Verdi non può essere paragonato, per dir così, a Eugenio Sue, come artista, se pure occorre dire che la fortuna popolare di Verdi può solo essere paragonata a quella del Sue, sebbene per gli estetizzanti (wagneriani) aristocratici della musica, Verdi occupi lo stesso posto nella storia della musica che Sue nella storia della letteratura. La letteratura popolare in senso deteriore (tipo Sue e tutta la sequela) è una degenerazione politico‑commerciale della letteratura nazionale‑popolare, il cui modello sono appunto i tragici greci e Shakespeare.

Questo punto di vista sul melodramma può anche essere un criterio per comprendere la popolarità del Metastasio che fu tale specialmente come scrittore di libretti.

§120 Letteratura popolare. Nel «Marzocco» del 13 settembre 1931, Aldo Sorani (che parecchie altre volte, in diverse riviste e giornali, si è occupato di questo argomento) scrive un articolo Romanzieri popolari contemporanei in cui commenta la serie di articoli dello Charensol sugli Illustri ignoti nella «Nouvelles Littéraires» (di cui è nota in altro quaderno). «Si tratta di scrittori popolarissimi di romanzi d’avventure e d’appendice, sconosciuti o quasi al pubblico letterario, ma idoleggiati e seguiti ciecamente da quel più grosso pubblico di lettori che decreta le tirature mastodontiche e di letteratura non s’intende affatto, ma vuol essere interessato e appassionato da intrecci sensazionali di vicende criminali od amorose. Per il popolo sono essi i veri scrittori ed il popolo sente per loro un’ammirazione ed una gratitudine che questi romanzieri tengon deste somministrando ad editori e lettori una mole di lavoro così continua ed imponente da parere incredibile e insostenibile da forze, non dico intellettuali, ma fisiche».

Il Sorani osserva molto spregiudicatamente che questi scrittori «si sono asserviti ad un compito stremante e adempiono ad un servizio pubblico reale se infinite schiere di lettori e di lettrici non possono farne a meno e gli editori conseguono dalla loro inesauribile attività lauti guadagni».

Come si vede il Sorani impiega il termine di «servizio pubblico reale» ma ne dà una definizione ben meschina, e che non corrisponde a quella di cui si parla in queste note."

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Il Sorani nota che questi scrittori, come appare dagli articoli dello Charensol, «hanno reso più severi i loro costumi e più morigerata, in genere, la loro vita, dal tempo ormai remoto in cui Ponson du Terrail o Xavier de Montépin esigevano una notorietà mondana e facevano di tutto per accaparrarsela …, pretendendo che, alla fine, essi non si distinguevano dai loro più accademici confratelli che per una diversità di stile. Essi scrivevano come si parla, mentre gli altri scrivevano come non si parla…!» (Tuttavia anche gli «illustri ignoti» fanno parte delle associazioni di letterati come il Montépin. Ricordate anche l’astio di Balzac contro Sue per i successi mondani e finanziari di questo).

Scrive ancora il Sorani: «Un lato non trascurabile della persistenza di questa letteratura popolare … è offerto dalla passione del pubblico. Specialmente il grosso pubblico francese, quel pubblico che taluno crede il più smaliziato, critico e blasé del mondo, è rimasto fedele al romanzo d’avventure e d’appendice. Il giornalismo francese di informazione e di grande tiratura è quello che non ha ancora saputo o potuto rinunziare al romanzo d’appendice. Proletariato e borghesia sono ancora in grandi masse così ingenui (?) da aver bisogno degli interminabili racconti emozionanti e sentimentali, raccapriccianti o larmoyants per nutrimento quotidiano della loro curiosità e della loro sentimentalità, hanno ancora bisogno di parteggiare tra gli eroi della delinquenza e quelli della giustizia o della vendetta». «A differenza del pubblico francese, quello inglese o americano s’è riversato sul romanzo d’avventure storiche (e i francesi no?) o su quello d’avventure poliziesche» ecc. (luoghi comuni sui caratteri nazionali).

«Quanto all’Italia, credo che ci si potrebbe domandare perché la letteratura popolare non sia popolare in Italia. (Non è esatto: perché non ci siano scrittori, non lettori, che sono una caterva). Dopo il Mastriani e l’Invernizio, mi pare che siano venuti a mancare tra noi i romanzieri capaci di conquistare la folla facendo inorridire e lacrimare un pubblico di lettori ingenui, fedeli e insaziabili. Perché questo genere di romanzieri non ha continuato (?) ad allignare tra noi? La nostra letteratura è stata anche nei suoi bassifondi troppo accademica e letterata? I nostri editori non hanno saputo coltivare una pianta ritenuta troppo spregevole? I nostri scrittori non hanno fantasia capace d’animare le appendici e le dispense? O noi, anche in questo campo, ci siamo contentati e ci contentiamo di importare quanto producono gli altri mercati? Certo non abbondiamo come la Francia di “illustri sconosciuti” e una qualche ragione per questa deficienza ci deve essere e varrebbe forse la pena di ricercarla».

Finisce con luoghi comuni.

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§34 Giornalismo. Riviste tipo. Per essere veramente accessibile alla cultura media del lettore medio, ogni fascicolo di rivista dovrebbe avere due appendici: 1) una rubrica in cui tutti i nomi e le parole straniere che possono essere state usate nei vari articoli dovrebbero essere rappresentate in una trascrizione fonetica, la più esatta possibile, della lingua italiana. Quindi la necessità di costruire, con criteri pratici e unitari quali la struttura dell’italiano scritto permette, una tabella di traducibilità dei fonemi stranieri in fonemi italiani; 2) una rubrica in cui sia dato il significato delle parole specializzate nei vari linguaggi (filosofico, politico, scientifico, religioso ecc.) o specializzate nell’uso di un determinato scrittore.

L’importanza di questi sussidi tecnici non viene di solito valutata perché non si riflette alla remora che costituiscono nel ricordare e specialmente nell’esprimere le proprie opinioni l’ignoranza del come si pronunziano certi nomi e del significato di certi termini.

Quando il lettore si incontra in troppi «Carneade» di pronunzia o di significato, si arresta, si sfiducia delle proprie forze e attitudini e non si riesce a farlo uscire da uno stato di passività intellettuale in cui impaluda la sua intelligenza.

I nipotini di padre Bresciani

§2 I nipotini di padre Bresciani. Una sfinge senza enigmi. Nell’«Ambrosiano» dell’8 marzo 1932 Marco Ramperti aveva scritto un articolo La Corte di Salomone in cui, tra l’altro scriveva: «Stamattina mi sono destato sopra un “logogrifo” di quattro righe, intorno a cui avevo vegliato nelle ultime sette ore di solitudine, senza naturalmente venirne a capo di nulla. Ombra densa! Mistero senza fine! Al risveglio mi accorsi, però, che nell’atonia febbrile avevo scambiato la Corte di Salomone con l’Italia Letteraria, il “logogrifo” enigmatico con un carme del poeta Ungaretti…».

A queste eleganze del Ramperti l’Ungaretti risponde con una lettera pubblicata nell’«Italia Letteraria» del 10 aprile e che mi pare un «segno dei tempi». Se ne possono ricavare quali «rivendicazioni» l’Ungaretti ponga al «suo paese» per essere compensato dei suoi meriti nazionali e mondiali. (L’Ungaretti non è che un buffoncello di mediocre intelligenza): «Caro Angioletti, di ritorno da un viaggio faticoso per guadagnare lo scarso pane dei miei bimbi, trovo i numeri dell’“Ambrosiano” e della “Stampa” nei quali un certo signor Ramperti ha creduto di offendermi. Potrei rispondergli che la mia poesia la capivano i contadini, miei fratelli, in trincea; la capisce il mio Duce che volle onorarla di una prefazione; la capiranno sempre i semplici e i dotti di buona fede. Potrei dirgli che da 15 anni tutto ciò che di nuovo si fa in Italia e fuori, porta in poesia l’impronta dei miei sogni e del mio tormento espressivo; che i critici onesti, italiani e stranieri, non si fanno pregare per riconoscerlo; e, del resto, non ho mai chiesto lodi a nessuno. Potrei dirgli che una vita durissima come la mia, fieramente italiana e fascista, sempre, davanti a stranieri e connazionali, meriterebbe almeno di non vedersi accrescere le difficoltà da parte di giornali italiani e fascisti. Dovrei dirgli che se c’è cosa enigmatica nell’anno X (vivo d’articoli nell’assoluta incertezza del domani, a quaranta anni passati!), è solo l’ostinata cattiveria verso di me da parte di gente di… spirito. – Con affetto – Giuseppe Ungaretti». La lettera è un capolavoro di tartuferia letteraria e di melensaggine presuntuosa.

§10 I nipotini di padre Bresciani. C. Malaparte. Cfr nell’«Italia Letteraria» del 3 gennaio 1932 l’articolo del Malaparte: Analisi cinica dell’Europa. Negli ultimi giorni del 1931 nei locali dell’«École de la Paix» a Parigi l’ex Presidente Herriot tenne un discorso sui mezzi migliori per organizzare la pace europea. Dopo Herriot parlò il Malaparte in contradditorio: «Siccome anche voi, sotto certi aspetti (sic), siete un rivoluzionario, dissi tra l’altro a Herriot (scrive il Malaparte nel suo articolo), penso che siate in grado di capire che il problema della pace dovrebbe essere considerato non solo dal punto di vista del pacifismo accademico, ma anche da un punto di vista rivoluzionario. Soltanto lo spirito patriottico e lo spirito rivoluzionario (se è vero, come è vero, ad esempio, nel fascismo, che l’uno non esclude l’altro) possono suggerire i mezzi di assicurare la pace europea. – Io non sono un rivoluzionario, mi rispose Herriot; sono semplicemente un cartesiano. Ma voi, caro Malaparte, non siete che un patriota».

Così per Malaparte, anche Herriot è un rivoluzionario, almeno per certi aspetti, e allora si fa anche più difficile sapere cosa significa «rivoluzionario» per Malaparte. Se nel linguaggio comune rivoluzionario stava assumendo sempre più il significato di «attivista», di «interventista», di «volontarista», «dinamico», è difficile dire come Herriot possa esserne qualificato, ed Herriot con molto spirito ha risposto di essere un «cartesiano». Per Malaparte «rivoluzionario» mi pare possa intendersi essere ormai un complimento, come una volta «gentiluomo», o «grande galantuomo», «vero galantuomo» ecc. E anche questo è Brescianesimo; dopo il 48 ci furono i veri liberali e i libertini e demagoghi.

§11 I nipotini di padre Bresciani. Giovanni Ansaldo. Con un posticino a parte, nella rubrica deve entrare anche Giovanni Ansaldo. Ricordare il suo dilettantismo politico‑letterario, come quello di voler essere «in pochi», di voler formare un’aristocrazia: i suoi atteggiamenti erano dunque «snob», più che convinzione etico‑politica, un modo di fare della letteratura distinta.

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E così l’Ansaldo è diventato la «Stelletta nera» del «Lavoro», che ci tiene a che si vedano che ha solo cinque punte per non essere confusa con quella che nei «Problemi del Lavoro» indica Franz Weiss e che ha sei punte (che l’Ansaldo ci tenga alle cinque punte appare dall’Almanacco delle Muse del 1931, Almanacco dell’Alleanza del Libro – rubrica genovese).

Per Ansaldo tutto diventa eleganza letteraria; l’erudizione, la precisione della coltura è eleganza letteraria; la stessa serietà morale non è serietà ma eleganza, fiore all’occhiello. Anche questo atteggiamento si può chiamare ed è gesuitismo, un culto del proprio «particulare» nell’ordine dell’intelletto, una esteriorità da sepolcro imbiancato.

§20 I nipotini di padre Bresciani. G. Prezzolini. Cfr articolo di Giuseppe Prezzolini, Monti, Pellico, Manzoni, Foscolo veduti da viaggiatori americani, in «Pègaso» del maggio 1932.

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Prezzolini riporta un brano del critico d’arte americano H. Y. Tuckermann (The Italian Sketch‑Book, 1848, p. 123): «Alcuni dei giovani elementi liberali, in Italia, si dimostrano assai disillusi perché uno, il quale stava per diventare un martire della loro causa, si sia voltato invece alla devozione, e si mostrano spiacenti che egli abbia ad impiegar la sua penna per scrivere inni cattolici e odi religiose».

Così commenta il Prezzolini: «Il dispetto che i più accesi provavano per non aver trovato in Pellico uno strumento di piccola polemica politica, è dipinto in queste osservazioni».

Perché si dovesse trattare di volgare «dispetto» e perché, prima del 48, la polemica contro le persecuzioni austriache e clericali fosse «piccola» è appunto un mistero della mentalità brescianesca.

§42 I nipotini di padre Bresciani. Per quali forme di attività hanno «simpatia» i letterati italiani? Perché l’attività economica, il lavoro come produzione individuale e di gruppo non li interessa? Se nei libri si tratta di argomento economico, è il momento della «direzione», del «dominio», del «comando», di un «eroe» sui produttori che li interessa. Oppure li interessa la generica produzione, il generico lavoro in quanto elemento di vita e di potenza nazionale, in quanto elemento per tirate retoriche.

La vita del contadino occupa un maggior spazio, ma anche qui non come lavoro, ma del contadino come «folclore», come pittoresco rappresentante di sentimenti e costumi curiosi e bizzarri.

Perciò la «donna» ha molto spazio, coi problemi sessuali nel loro aspetto più esteriore e romantico. Il «lavoro» dell’impiegato è fonte di comicità. Il lavoro dell’intellettuale poco spazio oppure presentato nella sua espressione di «dominio», di retorica.

Non si può certo imporre a una o a molte generazioni di scrittori di aver «simpatia» per uno o altro aspetto della vita, ma che una o molte generazioni di scrittori abbiano certe simpatie e non altre ha pure un significato, indica un certo indirizzo piuttosto che altri nell’interesse degli intellettuali.

Anche il verismo italiano (eccetto, in parte, il Verga) si distingue dalle correnti realistiche degli altri paesi in quanto si limita alla «bestialità» della «natura umana» (al «verismo» inteso in senso gretto) e non offre apprezzabili rappresentazioni del lavoro e della fatica.

Ha qualche merito culturale come parziale reazione alle sdolcinatezze e ai languori romantici di maniera tradizionali, ma crea subito un suo cliché altrettanto manierato. Ma non basta che gli scrittori non ritengano degna di «cronaca e di storia» un’attività che pure assorbe i 9/10, per quasi tutta la vita, della nazione; se se ne occupano, il loro atteggiamento è quello del padre Bresciani ecc. (Vedere gli scritti di L. Russo sul Verga e sull’Abba).

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G. C. Abba può essere citato come esempio italiano di scrittore «popolare‑nazionale», pur non essendo «popolaresco» o non appartenendo a nessuna corrente che critichi per ragioni di «partito» o settarie la posizione della classe dirigente. Possono analizzarsi non solo gli scritti dell’Abba che hanno un valore poetico e artistico, ma altri libri come quello rivolto ai soldati, che pure fu premiato da enti govemativi e militari e fu per qualche tempo diffuso tra le truppe. In questa direzione può citarsi lo studio del Papini pubblicato in «Lacerba» dopo gli avvenimenti del giugno 1914. La posizione di Alfredo Oriani è anche da rilevare, ma essa è astratta e retorica e annegata nel suo «titanismo» di genio incompreso.

È da rilevare qualcosa negli scritti di Piero Jahier (ricordare le simpatie dello Jahier per il Proudhon), anche di carattere militare (in questo lo Jahier si può collegare coll’Abba), deturpata dallo stile biblico e claudelliano dello scrittore, che lo rende meno efficace e indisponente, perché maschera una forma snobistica di retorica. (Tutta la letteratura di Strapaese dovrebbe essere «nazionale‑popolare» come programma, ma appunto lo è per programma ed è una manifestazione deteriore della cultura; il Longanesi deve aver scritto anche un libriccino per le reclute, ciò che dimostrerebbe come la tendenza nasca anche da preoccupazioni militari).

La preoccupazione nazionale‑popolare nell’impostazione del problema critico‑estetico appare in Luigi Russo (del quale è da vedere il volumetto su i Narratori) come risultato di un ritorno all’esperienza del De Sanctis dopo il punto di arrivo del crocianesimo.

Osservare che il Brescianesimo è in fondo «individualismo» antistatale e antinazionale anche quando e quantunque si veli di un nazionalismo e statalismo frenetico. «Stato» significa specialmente direzione consapevole delle grandi moltitudini nazionali, quindi necessario «contatto» sentimentale e ideologico con esse e in certa misura «simpatia» e comprensione dei loro bisogni ed esigenze. Infatti l’assenza di una letteratura popolare‑nazionale, dovuta all’assenza di preoccupazioni per questi bisogni ed esigenze, ha lasciato il «mercato» letterario aperto alle influenze dei gruppi intellettuali di altri paesi, che, «popolari‑nazionali» in patria, lo diventavano all’estero perché le esigenze e i bisogni erano simili.

Così il popolo italiano si è appassionato attraverso il romanzo storico‑popolare francese, alle tradizioni francesi, monarchiche e rivoluzionarie francesi e conosce gli amori di Enrico IV, la Rivoluzione dell’89, le invettive vittorughiane contro Napoleone III, si appassiona per un passato non suo, si serve nel suo linguaggio e nel suo pensiero di metafore e di riferimenti francesi ecc., è culturalmente più francese che italiano.

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Per l’indirizzo nazionale‑popolare dato dal De Sanctis alla cultura italiana è da vedere anche il libro del Russo (F. De Sanctis e la cultura napoletana, 1860‑1885, La Nuova Italia editrice, 1928) e il saggio del De Sanctis La Scienza e la Vita: mi pare che il De Sanctis abbia fortemente sentito il contrasto Riforma‑Rinascimento, cioè appunto il contrasto tra Vita e Scienza che era nella tradizione italiana come una debolezza della struttura nazionale‑statale e abbia cercato di reagire contro di esso.

Quindi il fatto che ad un certo punto lo porta a staccarsi dall’idealismo speculativo e ad avvicinarsi al positivismo e al verismo in letteratura (simpatie per Zola, come il Russo per il Verga e per S. Di Giacomo), e come pare osservi il Russo nel suo libro (Cfr Marzot, nella «Nuova Italia» del maggio 1932), «il segreto dell’efficacia di De Sanctis è tutto da cercare nella sua spiritualità democratica, la quale lo fa sospettoso e nemico di ogni movimento o pensiero che assuma carattere assolutistico e privilegiato …; e nella tendenza e nel bisogno di concepire lo studio come momento di un’attività più vasta, sia spirituale che pratica, racchiusa nella formula di un suo famoso discorso La Scienza e la Vita».

Antidemocrazia negli scrittori brescianeschi non ha altro significato che di opposizione al movimento popolare‑nazionale, cioè è spirito «economico‑corporativo», «privilegiato», di casta e non di classe, di carattere politico‑medioevale e non moderno.

§43 I nipotini di padre Bresciani. Libri di guerra. Quali riflessi ha avuto la tendenza «brescianistica» nella letteratura di guerra? La guerra ha costretto i diversi strati sociali ad avvicinarsi, a conoscersi, ad apprezzarsi nella sofferenza comune. I letterati cosa hanno imparato dalla guerra? E in generale cosa hanno imparato dalla guerra quei ceti da cui sorgono normalmente i più numerosi intellettuali e scrittori?

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Due linee di ricerca. La prima, quella riguardante la classe sociale generale, può seguire il materiale già scelto dal professor Adolfo Omodeo nella pubblicazione Momenti della vita di guerra. Dai diari e dalle lettere dei caduti che esce a puntate nella «Critica» già da parecchio tempo.

La raccolta dell’Omodeo presenta un materiale già selezionato, nel senso nazionale‑popolare, poiché l’Omodeo si propone di dimostrare come già nel 1915 una coscienza nazionale‑popolare si fosse già formata e nella guerra abbia avuto l’occasione di manifestarsi e non già l’origine palingenetica.

Che l’Omodeo riesca a dimostrare il suo assunto è altra quistione: intanto l’Omodeo ha una sua concezione di ciò che è coscienza nazionale‑popolare, le cui origini culturali sono facili da rintracciare; egli è un epigone della tradizione liberale moderata, e il paternalismo democratico o popolaresco si confonde spesso in lui con quella particolare forma di coscienza nazionale‑popolare che è più moderna e meno borbonizzante.

La letteratura di guerra propriamente detta, cioè dovuta a scrittori «professionali» ha avuto varia fortuna in Italia. Subito dopo la guerra è stata scarsa, e ha cercato la sua fonte di ispirazione nel Feu di Barbusse. C’è stata una seconda ondata, prodottasi dopo il successo internazionale del libro di Remarque e con il proposito internazionale di opporsi alla mentalità della letteratura pacifista tipo Remarque.

Questa letteratura è in genere mediocre, in tutti i sensi, come arte e come «cultura», cioè come creazione pratica di «masse di sentimenti» da far trionfare nel popolo. Molta di questa letteratura rientra perfettamente nel «Brescianesimo». Esempio tipico il libro di C. Malaparte La rivolta dei santi maledetti che è stato presentato nella prima edizione come barbussiano ed è diventato brescianesco in una seconda edizione.

È da vedere l’apporto dato a questa letteratura dal gruppo di scrittori che sogliono essere chiamati «vociani» e che già prima del 1914 lavoravano per creare una coscienza nazionale‑popolare moderna: credo che da questo gruppo siano stati dati i libri migliori, per esempio il diario di Giani Stuparich. Il libro di Ardengo Soffici, sebbene il Soffici, esteriormente «vociano», ha una sua retorica repugnante. Una rassegna di questa letteratura di guerra sotto la rubrica del Brescianesimo sarebbe molto interessante.

§48 I nipotini di padre Bresciani, Leonida Répaci. È uscito il primo volume di un romanzo ciclico di Leonida Répaci, I fratelli Rupe (Milano, Ceschina, 1932, L. 15) che, nel suo complesso dovrebbe rappresentare lo sviluppo della vita italiana in questi trent’anni del secolo, vista dalla Calabria (in una prefazione il Répaci presenta il piano dell’opera). È da domandarsi se la Calabria abbia avuto in questo senso una funzione nazionale rappresentativa, E in generale se la provincia italiana abbia avuto una funzione progressiva, o qualunque altra, nel dirigere un qualsiasi movimento del paese, nel selezionare i dirigenti, nel rinfrescare l’ambiente chiuso e corrotto dei centri di vita nazionale. La provincia era in realtà (come dirigenti) molto più corrotta del centro e i provinciali hanno apportato una nuova corruzione: esempio i fratelli Répaci, andati da Palmi a Torino e a Milano.

I fratelli Rupe, si capisce, sono i fratelli Répaci; ma, se si eccettua Mariano, dov’è il carattere rupestre di Ciccio e di Leonida: il carattere ricotta e fango è prevalente. Il Répaci non ha nessuna fantasia creatrice: ha una certa disposizione ad ampliare meccanicamente (per aggregazione, o per inflazione) dei fattarelli successi nella sua famiglia, che è assunta a «mito» della sua arte. Questo processo di gonfiamento meccanico può essere dimostrato analiticamente.

Ed è poi uno strano mito quello del Répaci, privo di umanità, di dignità, di decoro, per non dire di grandezza. L’Ultimo Cireneo, con le scene del dibattersi osceno del fratello impotente, mostra di quale umanità sia provvisto Répaci (anche in questo Fratelli Rupe c’è un impotente); il quale, pare, sarebbe capace di commettere incesto, per poter scrivere un romanzo sull’incesto e dire che la sua famiglia ha conosciuto tutte le tragedie anche quella di Fedra o di Edipo.

§50 I nipotini di padre Bresciani. Arnaldo Frateili. È il critico letterario della «Tribuna», ma appartiene alla schiera dei Forges e non dei Baldini. Ha scritto un romanzo Capogiro (Milano, Bompiani, 1932). Il Frateili mi si presenta alla fantasia come l’ho visto in una caricatura‑ritratto: una faccia da fesso pretenzioso con la goccetta al naso. (Prende tabacco il Frateili? Ha il cimurro A. Frateili?) Perché quella goccetta? Si tratta di un errore di riproduzione? Di un colpo di matita fuori programma? E perché il disegnatore non ha cancellato la goccetta? Angosciosi problemi, i soli che interessano a proposito del Frateili.

§79 I nipotini di padre Bresciani. Letteratura di guerra. Cfr il capitolo IX: «Guerre et Littérature» nel volume di B. Cremieux, Littérature Italienne (ed. Kra, 1928, pp. 243 sgg.). Per il Cremieux la letteratura di guerra segna una scoperta del popolo da parte dei letterati. Ma il Cremieux esagera! Tuttavia il capitolo è interessante e da rileggere.

Lorianesimo

§12 Lorianesimo. Enrico Ferri. Può darsi che la conferenza di Ferri su Zola in cui è contenuta l’affermazione dell’«obbiettività» consistente nell’ignoranza sia lo scritto Emilio Zola, artista e cittadino contenuto nel volume I delinquenti nell’arte ed altre conferenze pubblicato dall’Unione Tipogr. Ed. Torinese nel 1926 (seconda ediz. interamente rifatta in 8°, pp. XX‑350, L. 35). Nel volume si potrà forse trovare qualche altro spunto «loriano» non meno caratteristico di quello «musicale». Nel volume d’altronde sono contenuti scritti che avranno significato per altre rubriche, come i Ricordi di giornalismo e La scienza e la vita nel secolo XIX.

§28 Lorianismo. Il signor Nettuno. All’inizio di questa serie di note sul lorianismo potrà essere citata la novella raccontata dal barbiere nei primi capitoli della seconda parte del Don Chisciotte. Il pazzo che ricorre al vescovo per essere liberato dal manicomio, sostenendo, in una lettera assennatissima, di essere savio e quindi tenuto arbitrariamente segregato dal mondo. L’arcivescovo che invia un suo fiduciario, che si convince di aver da fare realmente con un sano di mente, finché, nel congedarsi del presunto savio dai suoi amici del manicomio, non avviene la catastrofe. Un pazzo, che dice di essere Giove, minaccia che se l’amico se ne andrà, egli non farà più piovere sulla terra, e l’amico, temendo che l’inviato del vescovo non si spaurisca, dice: Non si spaventi, perché se il signor Giove non farà più piovere, io che sono Nettuno, troverò ben modo di rimediare. Ebbene, queste note appunto riguardano scrittori che in uno o in molti istanti della loro attività scientifica, hanno dimostrato di essere il «signor Nettuno».

Folklore

§15 Folclore. Raffaele Corso chiama il complesso dei fatti folcloristici una «preistoria contemporanea», ciò che è solo un bisticcio per definire un fenomeno complesso che non si lascia definire brevemente. Si può ricordare in proposito il rapporto tra le così dette «arti minori» e le così dette «arti maggiori», cioè tra l’attività dei creatori d’arte e quella degli artigiani (delle cose di lusso o per lo meno non immediatamente utilitarie). Le arti minori sono sempre state legate alle arti maggiori e ne sono state dipendenti. Così il folclore è sempre stato legato alla cultura della classe dominante, e, a suo modo, ne ha tratto dei motivi che sono andati a inserirsi in combinazione con le precedenti tradizioni. Del resto niente di più contraddittorio e frammentario del folclore.

In ogni modo si tratta di una «preistoria» molto relativa e molto discutibile e niente sarebbe più disparato che voler trovare in una stessa area folcloristica le diverse stratificazioni. Ma anche il confronto tra aree diverse, sebbene sia il solo indirizzo metodico razionale, non può permettere conclusioni tassative, ma solo congetture probabili, poiché è difficile fare la storia delle influenze che ogni area ha accolto e spesso si paragonano entità eterogenee.

Il folclore, almeno in parte, è molto più mobile e fluttuante della lingua e dei dialetti, ciò che del resto si può dire per il rapporto tra cultura della classe colta e lingua letteraria: la lingua si modifica, nella sua parte sensibile, molto meno del contenuto culturale; e solo nella semantica si può, naturalmente, registrare una adesione tra forma sensibile e contenuto intellettuale.

Argomenti di Cultura

§23 Argomenti di coltura. Individualismo e individualità (coscienza della responsabilità individuale) o personalità. È da vedere quanto ci sia di giusto nella tendenza contro l’individualismo e quanto di erroneo e pericoloso. Atteggiamento contraddittorio necessariamente. Due aspetti, negativo e positivo, dell’individualismo. Quistione quindi da porre storicamente e non astrattamente, schematicamente.

Riforma e controriforma. La quistione si pone diversamente nei paesi che hanno avuto la riforma o che sono stati paralizzati dalla controriforma. L’uomo‑collettivo o conformismo imposto e l’uomo‑collettivo o conformismo proposto (ma si può chiamare più conformismo allora?) Coscienza critica non può nascere senza una rottura del conformismo cattolico o autoritario e quindi senza un fiorire della individualità: il rapporto tra l’uomo e la realtà deve essere diretto o attraverso una casta sacerdotale (come il rapporto tra uomo e dio nel cattolicismo? che è poi una metafora del rapporto tra l’uomo e la realtà)?

Lotta contro l’individualismo è contro un determinato individualismo, con un determinato contenuto sociale, e precisamente contro l’individualismo economico in un periodo in cui esso è diventato anacronistico e antistorico (non dimenticare però che esso è stato necessario storicamente e fu una fase dello svolgimento progressivo). Che si lotti per distruggere un conformismo autoritario, divenuto retrivo e ingombrante, e attraverso una fase di sviluppo di individualità e personalità critica si giunga all’uomo‑collettivo è una concezione dialettica difficile da comprendere per le mentalità schematiche e astratte. Come è difficile da comprendere che si sostenga che attraverso la distruzione di una macchina statale si giunga a crearne un’altra più forte e complessa ecc.

§6 Argomenti di cultura. Il movimento e il fine. È possibile mantenere un movimento senza che si abbia una previsione del fine? Il principio di Bernstein secondo cui il movimento è tutto e il fine è nulla, sotto un’apparenza di interpretazione «ortodossa» della dialettica, nasconde una concezione puramente meccanicistica del movimento, per cui le forze umane sono considerate come passive e non consapevoli, come elementi non dissimili dalle cose materiali. Ciò è interessante notare perché il Bernstein ha cercato le sue armi nel revisionismo idealistico, che avrebbe dovuto portarlo invece a valutate l’intervento degli uomini come decisivo nello svolgimento storico.

Ma se si analizza a fondo, si vede che nel Bernstein l’intervento umano è valutato, sia pure implicitamente, ma in modo unilaterale, poiché è considerato come «tesi» ma non come «antitesi»; efficiente come tesi, ossia nel momento della resistenza e della conservazione, è rigettato come antitesi, ossia come iniziativa e come spinta progressiva. Possono esistere «fini» per la resistenza e la conservazione, non per il progresso e l’iniziativa. La passività è la conseguenza di tale concezione, poiché invece proprio l’antitesi (che presuppone il risveglio di forze ancora latenti e addormentate) ha bisogno di fini, immediati e mediati, per il movimento. Senza la prospettiva dei fini concreti, non si riesce a mantenere il movimento.

§7 Argomenti di cultura. Il male minore. Si potrebbe trattare in forma di apologo. Il concetto di male minore è dei più relativi. C’è sempre un male ancora minore di quello precedentemente minore e in confronto di un pericolo maggiore in confronto di quello precedentemente maggiore. Ogni male maggiore diventa minore in confronto di un altro ancor maggiore e così all’infinito. Si tratta dunque niente altro che della forma che assume il processo di adattamento a un movimento regressivo, di cui una forza efficiente conduce lo svolgimento, mentre la forza antitetica è decisa a capitolare progressivamente, a piccole tappe, e non d’un solo colpo, ciò che gioverebbe, per l’effetto psicologico condensato, a far nascere una forza concorrente attiva, o a rinforzarla se già esistesse. Poiché è giusto il principio che i paesi più avanzati in un certo svolgimento sono l’immagine di ciò che avverrà negli altri paesi dove il movimento è agli inizi, la comparazione è d’obbligo.

§25 Argomenti di coltura. Il Machiavellismo di Stenterello. Stenterello è molto più furbo di Machiavelli. Quando Stenterello aderisce a una iniziativa politica, vuol far sapere a tutti di essere molto furbo e che a lui nessuno gliela fa, neanche se stesso. Egli aderisce all’iniziativa, perché è furbo, ma è ancor più furbo perché sa di esserlo e vuol farlo sapere a tutti. Perciò egli spiegherà a tutti che cosa significa «esattamente» l’iniziativa alla quale ha aderito: si tratta, manco a dirlo, di una macchina ben montata, ben congegnata e la sua maggiore astuzia consiste nel fatto che è stata preparata nella persuasione che tutti siano degli imbecilli e si lasceranno intrappolare.

Appunto: Stenterello vuol far sapere che non è che lui si lasci intrappolare, lui così furbo; l’accetta perché intrappolerà gli altri, non lui. E siccome fra gli altri qualche furbo c’è, Stenterello a questo ammicca e spiega, e analizza: «Sono dei vostri, veh!, noi ci intendiamo. Badate di non credere che io creda… Si tratta di una “machiavellica”, siamo intesi?» E Stenterello così passa per essere il più furbo dei furbi, il più intelligente degli intelligenti, l’erede diretto, e senza cautela d’inventario, della tradizione di Machiavelli.

Altro aspetto della quistione: quando si fa la proposta di una iniziativa politica, Stenterello non si cura di vedere l’importanza della proposta, per accettarla e lavorare a divulgarla, difenderla, sostenerla. Stenterello crede che la sua missione è quella di essere la Vestale del sacro fuoco. Riconosce che l’iniziativa non è contro le sacre tavole e così crede di aver esaurito la sua parte. Egli sa che siamo circondati di traditori, di deviatori, e sta col fucile spianato per difendere l’altare e il focolare. Applaude e spara e così ha fatto la storia bevendoci sopra un mezzo litro.

(Intorno a questa rubrica, in forma di bozzetti su Stenterello politico, si possono raggruppare altri motivi, come quello della svalutazione dell’avversario fatta per politica, ma che diventa una convinzione e quindi porta alla superficialità e alla sconfitta ecc.).

§27 Argomenti di cultura. Il Machiavellismo di Stenterello. Stenterello pensa specialmente all’avvenire. Il presente lo preoccupa meno dell’avvenire. Ha un nemico contro cui dovrebbe combattere. Ma perché combattere, se tanto il nemico dovrà necessariamente sparire, travolto dalla fatalità della storia. C’è ben altro da fare che combattere il nemico immediato. Più pericolosi sono i nemici mediati, quelli che insidiano l’eredità di Stenterello, quelli che combattono lo stesso nemico di Stenterello, pretendendo che saranno loro gli credi. Che pretese son queste? Come si osa dubitare che Stenterello sarà l’erede? Dunque Stenterello non combatte il nemico immediato, ma coloro che pretendono di combattere questo stesso nemico per succedergli. Stenterello è così furbo che solo lui comprende che questi sono i veri e soli nemici. La sa lunga, Stenterello!

§121 Argomenti di cultura. I grandi genî nazionali. Ho accennato altrove all’importanza culturale che in ogni paese hanno avuto i grandi genî (come Shakespeare per l’Inghilterra, Dante per l’Italia, Goethe per la Germania). Di essi, che siano operanti anche oggi, o che abbiano operato fino all’avantiguerra, solo due: Shakespeare e Goethe, specialmente quest’ultimo, per la singolarità della sua figura. Si è affermato che l’ufficio di queste grandi figure è quello d’insegnare come filosofi quello che dobbiamo credere, come poeti quello che dobbiamo intuire (sentire), come uomini quello che dobbiamo fare1. Ma quanti possono rientrare in questa definizione? Non Dante, per la sua lontananza nel tempo, e per il periodo che esprime, il passaggio del Medio Evo all’età moderna. Solo Goethe è sempre di una certa attualità, perché egli esprime in forma serena e classica ciò che nel Leopardi, per esempio, è ancora torbido romanticismo: la fiducia nell’attività creatrice dell’uomo, in una natura vista non come nemica e antagonista, ma come una forza da conoscere e dominare, con l’abbandono senza rimpianto e disperazione delle «favole antiche» di cui si conserva il profumo di poesia, che le rende ancor più morte come credenze e fedi. (È da vedere il libro di Emerson, Uomini rappresentativi e gli Eroi di Carlyle).

Note

§44 Argomenti di coltura. Discussioni, spaccare il pelo in quattro ecc. Atteggiamento da intellettuali è quello di prendere a noia le discussioni troppo lunghe e sottili, che si sbriciolano analiticamente nei minuti particolari e mostrano di non voler finire se non quando tra i dissertanti si sia venuti a un accordo perfetto su tutto il piano di attrito o per lo meno le opinioni in contrasto si siano affrontate totalmente. L’intellettuale crede sufficiente un accordo sommario, sui principii generali, sulle linee direttrici fondamentali e presuppone che il lavorio individuale di riflessione porterà necessariamente all’accordo sulle «minuzie». Perciò nelle discussioni tra intellettuali si procede spesso per accenni rapidi: si tasta, per così dire, la formazione culturale reciproca, il «linguaggio» reciproco, e fatta la scoperta che ci si trova su un terreno comune, con un linguaggio comune, con modi di ragionamento comuni, si procede oltre rapidamente.

La quistione appunto è che le discussioni non avvengono sempre tra intellettuali professionali, ma anzi un terreno comune culturale, un linguaggio comune, modi di ragionamento comuni occorre creare tra non intellettuali, che non hanno acquistato l’abito professionale e la disciplina intellettuale necessari per la rapida connessione di concetti apparentemente disparati, come viceversa per la rapida analisi, scomposizione, scoperta delle differenze essenziali tra concetti apparentemente simili.

Spesso in questa rubrica si è accennato alla formazione «parlata» della cultura, e ai suoi inconvenienti per rispetto allo scritto. Osservazioni giuste ma che occorre integrare con queste fatte ora, cioè con la necessità, per diffondere organicamente una forma culturale, della parola parlata e della discussione minuziosa e «pedantesca». (Questo si osserva nei rapporti tra intellettuali professionali e non intellettuali, che poi è il caso tipico in ogni grado di scuola, dalle elementari all’Università). Il non tecnico del lavoro intellettuale, nel suo lavoro «individuale», coi libri, intoppa in una difficoltà, che lo arresta, perché non ne può avere subito la soluzione, che invece è possibile avere nelle discussioni a voce immediatamente. Perciò deve esserci un giusto contemperamento del lavoro individuale (scritto e con lo scritto) e del lavoro «orale», di discussione ecc.

§57 La cultura come espressione della società. Una affermazione del Baldensperger, che i gruppi umani «creano le glorie secondo le necessità e non secondo i meriti», è giusta e va meditata. Essa può estendersi anche oltre il campo letterario.

§132 Argomenti di cultura. 1°) È ancora possibile, nel mondo moderno, l’egemonia culturale di una nazione sulle altre? Oppure il mondo è già talmente unificato nella sua struttura economico‑sociale, che un paese, se può avere «cronologicamente» l’iniziativa di una innovazione, non ne può però conservare il «monopolio politico» e quindi servirsi di questo monopolio per farsene una base di egemonia? Quale significato quindi può avere oggi il nazionalismo? Non è esso possibile solo come «imperialismo» economico‑finanziario, ma non più come «primato civile» o egemonia politico‑intellettuale?

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2°) Forme di «neolalismo». Il neolalismo come manifestazione patologica individuale. Ma non si può impiegare il termine in senso metaforico, per indicare tutta una serie di manifestazioni culturali, artistiche, intellettuali? Cosa sono tutte le scuole e scolette artistiche e letterarie, se non manifestazioni di neolalismo culturale? Nei periodi di crisi si hanno le manifestazioni più estese e molteplici di neolalismo.

La lingua e le lingue. Ogni espressione ha una «lingua» storicamente determinata, ogni attività intellettuale e morale: questa lingua è ciò che si chiama anche «tecnica» e anche struttura. Se un letterato si mettesse a scrivere in un linguaggio personalmente arbitrario (cioè diventasse un «neolalico» nel senso patologico della parola) e fosse imitato da altri, si parlerebbe di «Babele» delle lingue. La stessa impressione non si prova per il linguaggio (tecnica) musicale, pittorico, plastico ecc. Questo punto è da esaminate e da meditare.

Dal punto di vista della storia della cultura, e quindi anche della «creazione» culturale (da non confondersi con la «creazione artistica», ma da avvicinare invece alle attività «politiche» – e infatti in questo senso si può parlare di una «politica culturale») tra l’arte letteraria e le altre arti (figurative e musicali o orchestriche) esiste una differenza che bisognerebbe definire e precisare in modo teoricamente giustificato e comprensibile.

L’espressione «verbale» ha un carattere strettamente nazionale‑popolare‑culturale; una poesia di Goethe, nell’originale, può essere capita e rivissuta solo da un tedesco; Dante può essere capito e rivissuto solo da un italiano colto ecc. Una statua di Michelangelo, un brano musicale di Verdi, un balletto russo, un quadro di Raffaello ecc. può essere capito quasi immediatamente da qualsiasi cittadino del mondo, anche non cosmopolita, anche se non ha superato l’angusta cerchia di una provincia del suo paese. Tuttavia questo è così solo in apparenza, superficialmente. L’emozione artistica che un giapponese o un lappone prova dinanzi a un quadro di Raffaello o ascoltando un brano di Verdi è una emozione artistica; lo stesso giapponese o lappone non potrebbe non restare insensibile e sordo se ascoltasse recitare una poesia di Dante, di Goethe, di Shelley; c’è quindi una profonda differenza tra l’espressione «verbale» e quelle delle arti figurative, della musica ecc.

Tuttavia, l’emozione artistica del giapponese o del lappone dinanzi a un quadro di Raffaello o ad un brano musicale di Verdi non sarà della stessa intensità e calore dell’emozione artistica di un italiano medio e tanto meno di un italiano colto. Cioè accanto o meglio al di sotto dell’espressione di carattere «cosmopolita» del linguaggio musicale, pittorico ecc., «internazionale», c’è una più profonda sostanza culturale più ristretta, più «nazionale‑popolare».

Non basta: i gradi di questo «linguaggio» sono diversi: c’è un grado «nazionale‑popolare» (e spesso prima di questo un grado provinciale‑dialettale‑folcloristico), poi un grado di una determinata «civiltà», che può determinarsi dalla religione (per esempio cristiana, ma divisa in cattolica e protestante e ortodossa ecc.), e anche, nel mondo moderno, di una determinata «corrente culturale-politica».

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Durante la guerra, per esempio, un oratore inglese, francese, russo, poteva parlare a un pubblico italiano nella sua lingua incompresa delle devastazioni tedesche nel Belgio: se il pubblico simpatizzava con l’oratore, se cioè il suo modo di pensare coincideva all’ingrosso con quello dell’oratore, il pubblico ascoltava attentamente e «seguiva» l’oratore, si può dire lo «comprendesse».

È vero che nell’oratoria non è solo elemento la «parola»: c’è il gesto, il tono della voce, ecc., cioè un elemento musicale che comunica il leit motiv del sentimento predominante, della passione principale e l’elemento «orchestrico», il gesto in senso largo, che scandisce e articola l’onda sentimentale e passionale.

Per una politica di cultura queste osservazioni sono indispensabili, per una politica di cultura delle masse popolari sono fondamentali. Ecco la ragione del «successo» internazionale del cinematografo modernamente e, prima, del «melodramma» in particolare e della musica in generale.

§87 Intellettuali. Noterelle di cultura inglese. Guido Ferrando nel «Marzocco» del 4 ottobre 1931 pubblica un articolo Educazione e Colonie da cui traggo alcuni spunti.

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Il Ferrando ha assistito a un grande convegno «The British Commonwealth Education Conference» a cui parteciparono centinaia d’insegnanti di ogni grado, dai maestri elementari a professori universitari, provenienti da tutte le parti dell’Impero, dal Canadà e dall’India, dal Sud Africa e dall’Australia, dal Kenja e dalla Nuova Zelanda, e che ebbe luogo a Londra alla fine di luglio. Il Congresso si propose di discutere i vari aspetti del problema educativo «in a changing Empire», in un impero in trasformazione; erano presenti vari ben noti educatori degli Stati Uniti.

Uno dei temi fondamentali del Congresso era quello dell’interracial understanding, del come promuovere e sviluppare una migliore intesa tra le diverse razze, specialmente tra gli europei colonizzatori e gli africani e asiatici colonizzati. «Era interessante vedere con quanta franchezza e quanto acume dialettico, i rappresentanti dell’India rimproverassero agli inglesi la loro incomprensione dell’anima indiana, che si rivela, per esempio, in quel senso quasi di disgusto, in quell’attitudine di sprezzante superiorità che la maggioranza del popolo britannico ha ancor oggi verso gli indiani, e che perfino durante la guerra spingeva gli ufficiali inglesi ad allontanarsi da tavola e a lasciar la stanza quando entrava un ufficiale indiano».

Tra i tanti temi discussi fu quello della lingua. Si trattava cioè di decidere se fosse opportuno insegnare anche alle popolazioni semiselvagge dell’Africa a leggere prendendo per base l’inglese anziché il loro idioma nativo, se fosse meglio mantenere il bilinguismo o tendere, per mezzo dell’istruzione, a far scomparire la lingua indigena.

Ormsby Gore, ex sottosegretario alle colonie, sostenne che era un errore il tentare di snaturalizzare le tribù africane e si dichiarò favorevole ad una educazione tendente a dare agli africani il senso della propria dignità di popolo e la capacità di governarsi da sé. Nel dibattito che seguì la comunicazione dell’Ormsby «mi colpirono le brevi dichiarazioni di un africano, credo che fosse uno zulù, il quale tenne ad affermare che i suoi, diciamo così, connazionali, non avevano alcuna voglia di diventar europei; si sentiva nelle sue parole una punta di nazionalismo, un leggero senso di orgoglio di razza».

«Non vogliamo esser inglesi»: a questo grido che prorompeva spontaneo dal petto dei rappresentanti degli indigeni delle colonie britanniche dell’Africa e dell’Asia, faceva eco l’altro grido dei rappresentanti dei Dominions: «Non ci sentiamo inglesi». Australiani e canadesi, cittadini della Nuova Zelanda e dell’Africa del Sud erano tutti concordi nell’affermare questa loro indipendenza non solo politica, ma anche spirituale. Il prof. Cillie, preside della facoltà di lettere in una università sudafricana, aveva argutamente osservato che l’Inghilterra, tradizionalista e conservatrice, viveva nello ieri, mentre essi, i sud‑africani, vivevano nel domani.

§95 Argomenti di coltura. La tendenza a diminuir l’avversario. (cfr Quad. I, p. 48 bis). Cfr il cap. XIV della seconda parte del Don Chisciotte. Il cavaliere degli Specchi sostiene di aver vinto Don Chisciotte: «y héchole confesar que es más hermosa mi Casildea que su Dulcinea; y en solo este vencimiento hago cuenta que he vencido á todos los caballeros del mundo, porque el tal Don Quijote que digo, los ha vencido á todos; y habiéndole yo vencido á él, su gloria, su fama, y su honra, se ha tranferido y pasado á mi persona,

Y tanto el vencedor es más honrado

cuanto más el vencido es reputado;

así que ya corren por mi cuenta y son m’as las innumerables hazañas del ya referido Don Quijote».

Passato e presente

§45 Passato e presente. La politica del meno peggio. Ma «peggio non è mai morto» dice un proverbio popolare, e ci sarà un «meno peggio» all’infinito, poiché il peggio di domani sarà «meno peggio» del «peggio» di dopodomani e così via.

§8 Passato e presente. Azioni e obbligazioni. Quale radicale mutamento porterà nell’orientamento del piccolo e medio risparmio l’attuale depressione se si prolunga ancora per qualche tempo? Si può osservare che la caduta del mercato azionario ha determinato uno smisurato spostamento di ricchezza e un fenomeno mai visto, di espropriazione «simultanea» di vastissime masse della popolazione, specialmente in America, ma un po’ da per tutto. Il sistema introdotto dal governo italiano pare il più razionale e organico, per certi gruppi di paesi, almeno, ma quali conseguenze potrà avere?

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Si osserva una differenza tra le azioni e le obbligazioni industriali, e una differenza ancora tra azioni e obbligazioni del mercato libero e obbligazioni di Stato. Il pubblico cerca di disfarsi completamente delle azioni, svalutate in misura inaudita, preferisce le obbligazioni industriali alle azioni, ma preferisce le obbligazioni di Stato alle une e alle altre. Si può dire che il pubblico rompe ogni legame diretto col regime capitalistico, ma non rifiuta la fiducia allo Stato; vuole partecipare all’attività economica, ma attraverso lo Stato, che garantisca un interesse modico, ma sicuro.

Lo Stato assume così una funzione di primo ordine come capitalista, come azienda che concentra il risparmio da porre a disposizione dell’industria e dell’attività privata, come investitore a medio e lungo termine. (Istituto di credito mobiliare). Ma assunta questa funzione può lo Stato disinteressarsi dell’organizzazione produttiva? Lasciarla, come prima, all’iniziativa della concorrenza privata? Se ciò avvenisse, la sfiducia che oggi colpisce l’industria, travolgerebbe lo Stato: una nuova depressione che costringesse lo Stato a svalutare le sue obbligazioni come si sono svalutate le azioni e le obbligazioni industriali sarebbe catastrofica per l’insieme dell’organizzazione politico‑sociale.

Lo Stato deve intervenire per controllare se i suoi investimenti sono bene amministrati. Si capisce lo sviluppo di un aspetto almeno del regime corporativo. Ma il puro controllo non sarà sufficiente. Non si tratta infatti di conservare l’apparato produttivo così come è in un momento dato. Bisogna svilupparlo parallelamente all’aumento della popolazione e dei bisogni collettivi. In questi sviluppi necessari è il pericolo maggiore dell’iniziativa privata e qui sarà maggiore l’intervento statale.

Se lo Stato si preoccupasse di iniziare un processo per cui la produzione del risparmio da funzione di una classe parassitaria diventasse funzione dello stesso organismo produttivo, questi sviluppi sarebbero progressivi, rientrerebbero in un disegno comprensivo di razionalizzazione integrale: bisognerebbe condurre una riforma agraria (abolizione della rendita terriera e incorporazione di essa nell’organismo produttivo, come risparmio collettivo di ricostruzione e neocostruzione) e una riforma industriale, per condurre tutti i redditi a necessità tecnico‑industriali e non più a necessità giuridiche di diritto quiritario.

In questa situazione generale è la giustificazione storica delle tendenze corporative, che si manifestano come esaltazione dello Stato in generale, concepito in assoluto, e come diffidenza e avversione alle forme tradizionali capitalistiche. Quindi base sociale‑politica dello Stato affermata e cercata nella piccola borghesia e negli intellettuali, ma in realtà struttura plutocratica e legami col capitale finanziario.

Le due cose non sono contraddittorie, tutt’altro, come dimostra un paese esemplare, la Francia, dove appunto non si comprenderebbe il dominio del capitale finanziario senza la base politica di una democrazia di redditieri piccoli borghesi e di piccoli contadini. Tuttavia la Francia, per ragioni complesse, ha ancora una composizione sociale abbastanza sana, perché contribuisce a formarla la piccola e media proprietà coltivatrice.

In altri paesi invece, i risparmiatori sono staccati dalla produzione e dal lavoro; il risparmio è «socialmente» caro, perché ottenuto con un livello di vita troppo basso dei lavoratori sia industriali, sia specialmente agricoli. Se la nuova struttura del credito consolidasse questa situazione, in realtà la peggiorerebbe, perché se il risparmio parassitario non corresse più neanche le alee generali del mercato normale, ci sarebbe la tendenza a un assalto della proprietà terriera parassitaria da una parte e le obbligazioni industriali dall’altra finirebbero coll’assicurare il dividendo legale a spese del lavoro in modo troppo gravoso.

§9 Passato e presente. Le prigioni dello Stato pontificio.

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Nel fascicolo aprile‑settembre 1931 della «Rassegna Storica del Risorgimento» è pubblicato da Giovanni Maioli un capitolo di una autobiografia inedita di Bartolo Talentoni, patriotta forlivese. Il capitolo si riferisce alle procedure giudiziarie e alla prigionia patita dal Talentoni, quando fu arrestato nel 1855 come cospiratore e favoreggiatore di sétte in Romagna. Carcere di Bologna. Tra l’altro si può stralciare questo: «Tutto colà era calcolato né mai ci lasciavano un momento tranquilli...» Perché un sonno riparatore non rafforzasse lo spirito e il corpo dei detenuti si ricorreva ai mezzi più impensati. La sentinella faceva rimbombare la prigione cogli urrà, durante la notte il catenaccio era fatto scorrere con la più rumorosa violenza, ecc. (Questi cenni sono presi dal «Marzocco» del 25 ottobre 1931).

§14 Passato e presente. Franz Weiss e i suoi proverbi.

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Cfr Don Quijote, seconda parte, cap. XXXIV: «Maldito seas de Dios y de todos sus santos, Sancho maldito – dijo Don Quijote –; y cuándo será el d’a, como otras muchas veces he dicho, donde yo te vea hablar sin refranes una razón corriente y concertada» (confr. quad. I, p. 47). Nei consigli che Don Chisciotte dà a Sancio prima di diventar governatore dell’isola, un paragrafo è dedicato contro i troppi proverbi cap. XLIII: «También, Sancho, no has de mezclar en tus pláticas la muchedumbre de refranes que sueles; que puesto que los refranes son sentencias breves, muchas veces los traes tan por los cabellos, que mas parecen disparates que sentencias. – Eso Dios lo puede remediar, respondió Sancho, porque sé mas refranes que un libro, y viénenseme tantos juntos á la boca cuando hablo, que riñen por salir unos con otros; pero la lengua va arrojando los primeros que encuentra, aunque no vengan á pelo». Nello stesso capitolo XLIII: «Oh, maldito seas de Dios, Sancho! …. Sesenta mil satanases te lleven á t’ y à tus refranes! …. Yo te aseguro que estos refranes te han de llevar un dia á la horca». E Sancio: «¿A qué diablos se pudre de que yo me sirva de mi hacienda, que ninguna otra tengo, ni otro caudal alguno, sino refranes y mas refranes?».

Al capitolo l, il curato del pueblo di Don Chisciotte dice: «Yo no puedo creer sino que todos los deste linaje de los Panzas nacieron cada uno con un costal de refranes en el cuerpo: ninguno dellos he visto que no los derrame á todas horas y en todas las pláticas que tienen», dopo aver sentito che anche Sanchicha, figlia di Sancio, snocciola proverbi.

Si può dunque sostenere che Franz Weiss è disceso dai lombi de los Panzas e che, quando vorrà latinizzare tutto il suo nome, oltre a Franz, non dovrà chiamarsi Bianco ma Panza, o Pancia ancor più italianamente.

§17 Passato e presente. Bibliografia.

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Nel «Corriere della Sera» del 12 maggio 1932 Arturo Marescalchi (Come vivono i rurali) parla di due libri, senza darne le indicazioni bibliografiche: uno del dott. Guido Mario Tosi studia il bilancio di una famiglia di piccoli proprietari nel Bergamasco (il bilancio è passivo); l’altro studio, diretto dal prof. Ciro Papi e compiuto dai dottori Filippo Scarponi e Achille Grimaldi tratta del bilancio di una famiglia di mezzadri in provincia di Perugia nella media valle del Tevere. La famiglia del mezzadro è in condizioni migliori di quella del piccolo proprietario, ma anche questo bilancio è tutt’altro che sicuro. Si tratta di due pubblicazioni dell’Istituto Nazionale di Economia Agraria, che ha pubblicato anche un’inchiesta sulla nuova formazione di piccola proprietà coltivatrice nel dopoguerra. I libri sono in vendita presso Treves‑Treccani‑Tumminelli.

§18 Passato e presente. Santi Sparacio. Nel capitolo XXII della seconda parte del Don Chisciotte: «l’humanista» che accompagna Don Chisciotte e Sancio alla «cueva de Montesinos».

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§60 Passato e presente. Del sognare a occhi aperti e del fantasticare. Prova di mancanza di carattere e di passività. Si immagina che un fatto sia avvenuto e che il meccanismo della necessità sia stato capovolto. La propria iniziativa è divenuta libera. Tutto è facile. Si può ciò che si vuole, e si vuole tutta una serie di cose di cui presentemente si è privi. È, in fondo, il presente capovolto che si proietta nel futuro. Tutto ciò che è represso si scatena. Occorre invece violentemente attirare l’attenzione nel presente così come è, se si vuole trasformarlo. Pessimismo dell’intelligenza, ottimismo della volontà.

«En el camino preguntó Don Quijote al primo de qué género y calidad eran sus ejercicios, sus profesion y estudios. A lo que él respond’o que su profesion era ser humanista, sus ejercicios y estudios componer libros para dar á la estampa, todos de gran provecho y no menos entretenimiento para la repòblica: que el uno se intitulaba El de las libreas, donde pintaba setecientas y tre libreas con sus colores, motes y cifras, de donde podian sacar y tomar las que quisiesen en tiempo de festas y regocijos los caballeros cortesanos, sin andarlas mendigando de nadie, ni lambicando, como dicen, el cerbelo por sacarlas conformes á sus deseos y intenciones; porque doy al zeloso, al desdeñado, al olvidado y al ausente las que les convienen, que les vendrán mas justas que pecadoras. Otro libro tengo tambien, á quien he de llamar, Metamorfóseos, ó, Ovidio español, de invencion nueva y rara; porque en él, imitando á Ovidio à lo burlesco, pinto quién fué la Giralda de Sevilla y el ángel de la Magdalena, quién el caño de Vecinguerra de Córdoba, quién es los toros de Guisando, la Sierra Morena, las fuentes de Leganitos y Lavapiés en Madrid, no olvidándome de la del Piojo, de la del Caño dorado y de la Priora; y esto con sus alegor’as, metáforas y translaciones, de modo que alegran, suspenden y enseñan á un mismo punto. Otro libro tiengo, que le llamo Suplemento á Virgilio Polidoro, que trata de la invencion de las cosas, que es de grande erudicion y estudio, á causa que las cosas que se dejó de decir Polidoro de gran sustancia, las averiguo yo, y las declaro por gentil estilo. Olvidósele à Virgilio de declararnos quién fué el primero que tuvo catarro en el mundo, y el primero que tomó las unciones para curarse del mor bo gálico, y yo lo declaro al pie de la letra, y lo autorizo con mas de veinte y cinco autores, porque vea vuesa merced si he trabajado bien, y si ha de ser òtil el tal libro á todo el mundo».

Sancio si interessa, com’è naturale, specialmente a quest’ultimo libro, e pone delle quistioni all’«humanista»: «¿Quién fué el primero que se rascó en la cabeza?» …. «¿quién fué el primer volteador del mundo?» e risponde che il primo fu Adamo, che avendo testa e capelli, certo tal olta dovette grattarsi la testa, e il secondo Lucifero, che espulso dal cielo, cadde «volteando» fino agli abissi dell’inferno.

Il tipo mentale dell’humanista ritratto dal Cervantes si è conservato finora e così si son conservate nel popolo le «curiosità» di Sancio, e ciò spesso appunto viene chiamato «scienza». Questo tipo mentale, in confronto a quelli tormentati, per esempio, dal problema del moto perpetuo, è poco conosciuto e troppo poco messo in ridicolo, perché in certe regioni è un vero flagello.

Al carcere di Palermo, nel dicembre 1926, ho visto una dozzina di volumi, scritti da siciliani, e stampati in Sicilia stessa, ma alcuni in America da emigrati (certo inviati in omaggio al carcere o al cappellano). Il più tipico di essi era un volume di certo Santi Sparacio, impiegato della ditta Florio, il quale appariva autore anche di altre pubblicazioni. Non ricordo il titolo principale del libro; ma nei sottotitoli si affermava che si voleva dimostrare: I l’esistenza di Dio, II la divinità di Gesù Cristo, III l’immortalità dell’anima. Nessuna di queste quistioni era realmente trattata, ma invece nelle circa 300 pagine del volume, si contenevano le quistioni più disparate su tutto lo scibile: per esempio si trattava come fare per impedire la masturbazione nei ragazzi, come evitare gli scontri tranviari, come evitare che nelle case si rompano tanti vetri alle finestre ecc. Questo della «rottura dei vetri» era trattato così: si rompono tanti vetri, perché si pongono le sedie con lo schienale troppo vicino ai vetri, e, sedendosi, per il peso lo schienale si abbassa e il vetro è rotto. Quindi bisogna curare, ecc.; ciò per pagine e pagine. Dal tono del libro si capiva che lo Sparacio nel suo ambiente era ritenuto un gran saggio e sapiente e che molti ricorrevano a lui per consigli ecc.

§24 Passato e presente. Aneddoto contenuto nell’Olanda di De Amicis. Un generale spagnolo mostra a un contadino olandese un arancio: «Questi frutti il mio paese li produce due volte all’anno». Il contadino mostra al generale un pane di burro: «E il mio paese produce due volte al giorno questi altri frutti».

Txt.: De Amicis - Olanda

§26 Passato e presente. Economismo, sindacalismo, svalutazione di ogni movimento culturale ecc. Ricordare polemica, prima del 1914, tra Tasca e Amadeo [Bordiga ndc], con riflesso nell’«Unità» di Firenze. Si dice spesso che l’estremismo «economista» era giustificato dall’opportunismo culturalista (e ciò si dice per tutta l’area di conflitto), ma non si potrebbe anche dire il viceversa, che l’opportunismo culturalista era giustificato dall’estremismo economicistico? In realtà né l’uno né l’altro erano «giustificabili» e sono mai da giustificare. Saranno da «spiegare» realisticamente come i due aspetti della stessa immaturità e dello stesso primitivismo.

§33 Passato e presente. Élite e decimo sommerso1. È da porsi la domanda se in qualsivoglia società sia possibile la costituzione di una élite, senza che in essa confluiscano una gran quantità di elementi appartenenti al «decimo sommerso» sociale. Ma la domanda diviene necessaria se la élite si costituisce sul terreno di una dottrina che può essere interpretata fatalisticamente: allora affluiscono credendo di poter giustificare idealmente la loro povertà d’iniziativa, la loro deficiente volontà, la loro mancanza di paziente perseveranza e concentrazione degli sforzi, tutti i falliti, i mediocri, gli sconfitti, i malcontenti che la manna non piova dal cielo e le siepi non producano salsicce, che anche essi sono una forma di «decimo sommerso» delle società in cui la lotta per l’esistenza è accanita e nei paesi poveri, in cui ci si può fare un posto al sole solo dopo lotte accanite. Così si può avere una élite alla rovescia, una avanguardia di invalidi, una testa‑coda.

Note

§36 Passato e presente. Sull’apoliticismo del popolo italiano. Tra gli altri elementi che mostrano manifestamente questo apoliticismo sono da ricordare i tenaci residui di campanilismo e altre tendenze che di solito sono catalogate come manifestazioni di un così detto «spirito rissoso e fazioso» (lotte locali per impedire che le ragazze facciano all’amore con giovanotti «forestieri» cioè anche di paesi vicini ecc.). Quando si dice che questo primitivismo è stato superato dai progressi della civiltà, occorrerebbe precisare che ciò è avvenuto per il diffondersi di una certa vita politica di partito che allargava gli interessi intellettuali e morali del popolo. Venuta a mancare questa vita, i campanilismi sono rinati, per esempio attraverso lo sport e le gare sportive, in forme spesso selvagge e sanguinose. Accanto al «tifo» sportivo, c’è il «tifo campanilistico» sportivo.

§51 Passato e presente. In un articolo di Mario Bonfantini, L’arte di Carlo Bini, nell’«Italia Letteraria» del 22 maggio 1932, sono citati questi due versi (o quasi): «La prigione è una lima sì sottile, – che temprando il pensier ne fa uno stile». Chi ha scritto così? Lo stesso Bini? Ma il Bini è stato davvero in prigione (forse non molto).

La prigione è una lima così sottile, che distrugge completamente il pensiero; oppure fa come quel mastro artigiano, al quale era stato consegnato un bel tronco di legno d’olivo stagionato per fare una statua di S. Pietro, e taglia di qua, togli di là, correggi, abbozza, finì col ricavarne un manico di lesina.

Txt.: Carlo Bini - Manoscritto di un prigioniero

§52 Passato e presente. Nel secondo volume delle sue Memorie (ed. francese, II, pp. 233 sgg.) W. Steed [Henry Wickam Steed, direttore del Times da 1919 al 1922 ndc] racconta come il 30 ottobre 1918 il dottor Kramář, capo del partito giovane‑czeco, che era stato imprigionato e condannato a morte in Austria, si incontrò a Ginevra con Benèš. I due fecero una grande fatica a «comprendersi». Dal 1915 Benèš aveva vissuto e lavorato nei paesi dell’Intesa e si era assimilato il modo di pensare di essi, mentre Kramář, restato in Austria, aveva, nonostante tutto, ricevuto la maggior parte delle sue impressioni di guerra per il tramite della cultura e della propaganda tedesca e austriaca.

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«A mano a mano che la conversazione durava, Benèš comprese quale largo fossato separasse i punti di vista di guerra degli alleati e dell’Europa centrale. Mi comunicò le sue impressioni al suo ritorno a Parigi ed io compresi che se la differenza di pensiero poteva essere così grande tra due patriotti czechi, tanto più grande doveva essere tra gli alleati e i popoli germanici, così grande, invero, da escludere ogni possibilità d’intesa tra essi finché non fosse stato formulato un vocabolario o un gruppo di pensieri comuni». Perciò Steed propone a Northcliffe di trasformare l’ufficio di propaganda e di dedicarlo a questo fine: creare la possibilità di far comprendere ai tedeschi ciò che era successo e perché, in modo, per così dire, da «disincantare» il popolo tedesco e renderlo passibile di accettare come necessaria la pace che l’Intesa avrebbe imposto.

Si tratta, come si vede, di due ordini di fatti e di osservazioni: 1°) Che uomini il cui pensiero sia fondamentalmente identico, dopo aver vissuto staccati e in condizioni di vita tanto diverse, finiscono col durar fatica ad intendersi, creandosi così la necessità di un periodo di lavoro comune necessario per riaccordarsi allo stesso diapason. Se non si capisce questa necessità si incorre nel rischio banale di impostare polemiche senza sugo, su quistioni di «vocabolario», quando ben altro occorrerebbe fare. Ciò rinforza il principio che in ogni movimento il grado di preparazione del personale non deve essere inteso astrattamente (come fatto esteriormente culturale, di elevazione culturale) ma come preparazione «concorde» e coordinata, in modo che nel personale, come visione, esista identità nel modo di ragionare e quindi rapidità di intendersi per operare di concerto con speditezza.

2°) Che non solo due campi nemici non si comprenderanno più per lungo tempo dopo la fine della lotta, ma non si comprenderanno neanche gli elementi affini tra loro che esistono nei due campi come massa e che dopo la lotta dovrebbero amalgamarsi rapidamente. Che non bisogna pensare che, data l’affinità, la riunione sia per avvenire automaticamente, ma occorre predisporla con un lavoro di lunga mano su tutta l’area, cioè in tutta l’estensione del dominio culturale e non astrattamente, cioè partendo da principii generali sempre validi, ma concretamente, sull’esperienza dell’immediato passato e dell’immediato presente, da cui i principii devono sembrar scaturire come ferrea necessità e non come a priori.

§53 Passato e presente. Un dialogo. Qualcosa c’è di mutato fondamentalmente. E si può vedere. Che cosa? Prima tutti volevano essere aratori della storia, avere le parti attive, ognuno avere una parte attiva. Nessuno voleva essere «concio» [concime ndc] della storia. Ma può ararsi senza prima ingrassare la terra? Dunque ci deve essere l’aratore e il «concio». Astrattamente tutti lo ammettevano. Ma praticamente? «Concio» per «concio» tanto valeva tirarsi indietro, rientrare nel buio, nell’indistinto. Qualcosa è cambiato, perché c’è chi si adatta «filosoficamente» ad essere concio, che sa di doverlo essere, e si adatta. È come la quistione dell’uomo in punto di morte, come si dice. Ma c’è una grande differenza, perché in punto di morte si è ad un atto decisivo che dura un attimo; invece nella quistione del concio, la quistione dura a lungo, e si ripresenta ogni momento.

Si vive una volta sola, come si dice; la propria personalità è insostituibile. Non si presenta, per giocarla, una scelta spasmodica, di un istante, in cui tutti i valori sono apprezzati fulmineamente e si deve decidere senza rinvio. Qui il rinvio è di ogni istante e la decisione deve ripetersi ogni istante. Perciò si dice che qualcosa è cambiato. Non è neanche la quistione di vivere un giorno da leone o cento anni da pecora. Non si vive da leone neppure un minuto, tutt’altro: si vive da sottopecora per anni e anni e si sa di dover vivere così. L’immagine di Prometeo che invece di essere aggredito dall’aquila, è invece divorato dai parassiti. Giobbe l’hanno potuto immaginare gli ebrei: Prometeo potevano solo immaginarlo i greci; ma gli ebrei sono stati più realisti, più spietati, e anche hanno dato una maggiore evidenza al loro eroe.

§56 Passato e presente. Il culto provinciale dell’intelligenza e la sua retorica.

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Cfr la lettera‑prefazione di Emilio Bodrero alla rivista «Accademie e Biblioteche d’Italia», vol. I, p. 5, dove si dice press’a poco che l’Italia «non ha nulla da esportare se non intelligenza». (Cfr «il rutto del pievano» di Maccari). Nei libri di Oriani questo elemento è frenetico. Ricordare l’aneddoto di Oriani che domandato se aveva da daziare risponde: «se l’intelligenza paga dazio, qui ce n’è a quintali». Sarà da notare che tale atteggiamento è degli intellettuali mediocri e falliti.

§35 Passato e presente. Nel «Corriere della Sera» del 1° giugno sono riassunte dalla pubblicazione ufficiale le nuove norme per l’impiego delle truppe regolari in servizio di P. S. Alcune disposizioni innovatrici sono di grande importanza, come quella per cui l’autorità militare può decidere il suo intervento di propria iniziativa, senza essere chiamata dall’autorità politica. Così l’altra disposizione per cui la truppa interviene solo con le armi cariche, per agire, e, come pare, non può perciò essere impiegata alla formazione di cordoni ecc.

§61 Passato e presente. Inghilterra e Germania. Un raffronto dei due paesi per riguardo al loro comportamento di fronte alla crisi di depressione del 1929 sgg.

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Da questa analisi dovrebbe risultare la reale struttura dell’uno e dell’altro e la reciproca posizione funzionale nel complesso economico mondiale, elemento della struttura che non è, di solito, attentamente osservato. Si può iniziare l’analisi dal fenomeno della disoccupazione. Le masse di disoccupati in Inghilterra e in Germania hanno lo stesso significato? Il teorema delle «proporzioni definite» nella divisione del lavoro interno si presenta allo stesso modo nei due paesi? Si può dire che la disoccupazione inglese, pur essendo inferiore numericamente a quella tedesca, indica che il coefficiente «crisi organica» è maggiore in Inghilterra che in Germania, dove invece il coefficiente «crisi ciclica» è più importante. Cioè nell’ipotesi di una ripresa «ciclica», l’assorbimento della disoccupazione sarebbe più facile in Germania che in Inghilterra.

Da quale elemento della struttura dipende questa differenza: dalla maggiore importanza che ha in Inghilterra il commercio in confronto della produzione industriale, cioè dall’esistenza in Inghilterra di una massa di «proletari» legati alla funzione commerciale superiore a quella tedesca, dove invece è maggiore la massa industriale. Composizione della popolazione attiva e sua distribuzione nelle diverse attività.

Molti commercianti (banchieri, agenti di cambio, rappresentanti ecc.) determinano un largo impiego di personale per i loro servizi quotidiani: aristocrazia più ricca e potente che in Germania. Più numerosa la quantità di «parassiti rituali» cioè di elementi sociali impiegati non nella produzione diretta, ma nella distribuzione e nei servizi personali delle classi possidenti.

§63 Passato e presente. Contro il bizantinismo. Si può chiamare bizantinismo o scolasticismo la tendenza degenerativa a trattare le quistioni così dette teoriche come se avessero un valore di per se stesse, indipendentemente da ogni pratica determinata. Un esempio tipico di bizantinismo sono le così dette tesi di Roma1, in cui alle quistioni viene applicato il metodo matematico come nella economia pura.

 Si pone la quistione se una verità teorica scoperta in corrispondenza di una determinata pratica può essere generalizzata e ritenuta universale in una epoca storica. La prova della sua universalità consiste appunto in ciò che essa diventa: 1) stimolo a conoscere meglio la realtà effettuale in un ambiente diverso da quello in cui fu scoperta, e in ciò è il suo primo grado di fecondità; 2) avendo stimolato e aiutato questa migliore comprensione della realtà effettuale, si incorpora a questa realtà stessa come se ne fosse espressione originaria. In questo incorporarsi è la sua concreta universalità, non meramente nella sua coerenza logica e formale e nell’essere uno strumento polemico utile per confondere l’avversario.

Insomma deve sempre vigere il principio che le idee non nascono da altre idee, che le filosofie non sono partorite da altre filosofie, ma che esse sono espressione sempre rinnovata dello sviluppo storico reale. L’unità della storia, ciò che gli idealisti chiamano unità dello spirito, non è un presupposto, ma un continuo farsi progressivo. Uguaglianza di realtà effettuale determina identità di pensiero e non viceversa. Se ne deduce ancora che ogni verità, pur essendo universale, e pur potendo essere espressa con una formula astratta, di tipo matematico (per la tribù dei teorici), deve la sua efficacia all’essere espressa nei linguaggi delle situazioni concrete particolari: se non è esprimibile in lingue particolari è un’astrazione bizantina e scolastica, buona per i trastulli dei rimasticatori di frasi.

Note

§65 Passato e presente. La storia maestra della vita, le lezioni dell’esperienza ecc. Anche Benvenuto Cellini (Vita, Libro secondo, ultime parole del paragrafo XVII), scrive: «Gli è ben vero che si dice: tu imparerai per un’altra volta. Questo non vale, perché la (fortuna) viene sempre con modi diversi e non mai immaginati».

Si può forse dire che la storia è maestra della vita e che l’esperienza insegna ecc. non nel senso che si possa, dal modo come si è svolto un nesso di avvenimenti, trarre un criterio sicuro d’azione e di condotta per avvenimenti simili, ma solo nel senso che, essendo la produzione degli avvenimenti reali il risultato di un concorrere contradditorio di forze, occorre cercare di essere la forza determinante. Ciò che va inteso in molti sensi, perché si può essere la forza determinante non solo per il fatto di essere la forza quantitativamente prevalente (ciò che non è sempre possibile e fattibile) ma per il fatto di essere quella qualitativamente prevalente, e questo può aversi se si ha spirito d’iniziativa, se si coglie il «momento buono», se si mantiene uno stato continuo di tensione alla volontà, in modo da essere in grado di scattare in ogni momento scelto (senza bisogno di lunghi apprestamenti che fanno passare l’istante più favorevole) ecc. Un aspetto di tal modo di considerare le cose si ha nell’aforisma che la miglior tattica difensiva è quella offensiva.

Noi siamo sempre sulla difensiva contro il «caso», cioè il concorrere imprevedibile di forze contrastanti che non possono sempre essere identificate tutte (e una sola trascurata impedisce di prevedere la combinazione effettiva delle forze che dà sempre originalità agli avvenimenti) e possiamo «offenderlo» nel senso che interveniamo attivamente nella sua produzione, che, dal nostro punto di vista, lo rendiamo meno «caso» o «natura» e più effetto della nostra attività e volontà.

§67 Passato e presente. Nell’esposizione critica degli avvenimenti successivi alla guerra e dei tentativi costituzionali (organici) per uscire dallo stato di disordine e di dispersione delle forze, mostrare come il movimento per valorizzare la fabbrica in contrasto (o meglio autonomamente) con la (dalla) organizzazione professionale corrispondesse perfettamente all’analisi che dello sviluppo del sistema di fabbrica è fatta nel primo volume della Critica dell’Economia Politica.

Che una sempre più perfetta divisione del lavoro riduca oggettivamente la posizione del lavoratore nella fabbrica a movimenti di dettaglio sempre più «analitici», in modo che al singolo sfugge la complessità dell’opera comune, e nella sua coscienza stessa il proprio contributo si deprezzi fino a sembrare sostituibile facilmente in ogni istante; che nello stesso tempo il lavoro concertato e bene ordinato dia una maggiore produttività «sociale» e che l’insieme della maestranza della fabbrica debba concepirsi come un «lavoratore collettivo» sono i presupposti del movimento di fabbrica che tende a fare diventare «soggettivo» ciò che è dato «oggettivamente».

Cosa poi vuol dire in questo caso oggettivo? Per il lavoratore singolo «oggettivo» è l’incontrarsi delle esigenze dello sviluppo tecnico con gli interessi della classe dominante. Ma questo incontro, questa unità fra sviluppo tecnico e gli interessi della classe dominante è solo una fase storica dello sviluppo industriale, deve essere concepito come transitorio. Il nesso può sciogliersi; l’esigenza tecnica può essere pensata concretamente separata dagli interessi della classe dominante, non solo ma unita con gli interessi della classe ancora subalterna.

Che una tale «scissione» e nuova sintesi sia storicamente matura è dimostrato perentoriamente dal fatto stesso che un tale processo è compreso dalla classe subalterna, che appunto per ciò non è più subalterna, ossia mostra di tendere a uscire dalla sua condizione subordinata. Il «lavoratore collettivo» comprende di essere tale e non solo in ogni singola fabbrica ma in sfere più ampie della divisione del lavoro nazionale e internazionale e questa coscienza acquistata dà una manifestazione esterna, politica, appunto negli organismi che rappresentano la fabbrica come produttrice di oggetti reali e non di profitto.

§71 Passato e presente. (Cfr p. 58). Un aspetto essenziale della struttura del paese è l’importanza che nella sua composizione ha la burocrazia. Quanti sono gli impiegati dell’amministrazione statale e locale? E quale frazione della popolazione vive coi proventi degli impieghi statali e locali? È da vedere il libro del dottor Renato Spaventa, Burocrazia, ordinamenti amministrativi e Fascismo, 1928, editori Treves.

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Egli riporta il giudizio di un «illustre economista» che 17 anni prima, cioè quando la popolazione era sui 35 milioni, calcolava che «coloro che traggono sostentamento da un impiego pubblico, oscillano sui due milioni di persone». Pare che in esse non fossero calcolati gli impiegati degli enti locali, mentre pare fossero calcolati gli addetti alle ferrovie e alle industrie monopolizzate che non possono calcolarsi come impiegati amministrativi, ma devono essere considerati a parte, perché bene o male, producono beni controllabili e sono assunti per necessità industriali controllabili con esattezza.

Il paragone tra i vari Stati può essere fatto per gli impiegati amministrativi centrali e locali e per la parte di bilancio che consumano (e per la frazione di popolazione che tappresentano), non per gli addetti alle industrie e ai servizi statizzati che non sono simili e omogenei tra Stato e Stato. Per questa stessa ragione non possono includersi fra gli impiegati statali i maestri di scuola, che devono essere considerati a parte ecc. Bisogna isolare e confrontare quegli elementi di impiego statale e locale che esistono in ogni Stato moderno, anche nel più «liberistico», e considerare a parte tutte le altre forme di impiego ecc.

§80 Passato e presente. Quando fu pubblicata la prima edizione del Chi è?, dizionario biografico italiano dell’editore Formiggini, il Capo del Governo osservò che mancava un paragrafo per il generale Badoglio. Questa accuratezza del Capo del Governo fu riportata dal Formiggini nell’«Italia che scrive» del tempo, ed è un tratto psicologico di grande rilievo.

§85 Passato e presente. Tendenza al pettegolezzo, alla maldicenza, alle insinuazioni perfide e calunniose in contrapposto alla possibilità di discussione libera ecc. Istituto della «farmacia di provincia» che ha una sua concezione del mondo che si impernia sul cardine principale che se le cose vanno male, significa che il diavolo ci ha messo la coda, e gli avvenimenti sono giudicati dagli uomini, che sono tutti mascalzoni, ladri ecc. Se poi si scopre che un uomo politico è corrotto, tutto diventa chiaro.

Richiamare il costume della così detta «briglia della comare» che era un modo di mettere alla berlina le donne pettegole, mettimale e rissose. Alla donna si applicava un meccanismo che, fissato alla testa e al collo, le teneva fermo sulla lingua un listello di metallo che le impediva di parlare.

§125 Passato e presente. Da Virgilio Brocchi, Il Volo Nuziale (cfr nel «Secolo Illustrato», 1° ottobre 1932): «Il governo pareva incerto, e negoziava la neutralità e la guerra: ma perché i negoziati fossero realmente proficui doveva dare al mondo e soprattutto agli alleati di ieri la sensazione o la prova che esso non poteva contenere oramai la volontà esasperata della nazione che scoppiava in mille incendi, dal più umile borgo alla capitale e divampava perfino dentro i ministeri. Sulle fiamme, ogni giornale – anche quelli che fino al giorno innanzi avevano esaltato la magnifica violenza degli imperi centrali – gettava olio e polvere esplosiva: contro tutti contrastava un solo giornale; ma chi lo dirigeva, se pur era uomo di indefettibile fede e di sicuro coraggio, mancava di virtù simpatiche e di sufficiente accorgimento, così che parve difendere, più che un supremo ideale umano, e l’istinto della civiltà minacciata, il pavido egoismo di proletari per cui la patria è solo la patria dei signori e la guerra una speculazione infame di banchieri».

§130 Passato e presente. Ottimismo e pessimismo. È da osservare che l’ottimismo non è altro, molto spesso, che un modo di difendere la propria pigrizia, le proprie irresponsabilità, la volontà di non far nulla. È anche una forma di fatalismo e di meccanicismo. Si conta sui fattori estranei alla propria volontà ed operosità, li si esalta, pare che si bruci di un sacro entusiasmo. E l’entusiasmo non è che esteriore adorazione di feticci. Reazione necessaria, che deve avere per punto di partenza l’intelligenza. Il solo entusiasmo giustificabile è quello che accompagna la volontà intelligente, l’operosità intelligente, la ricchezza inventiva in iniziative concrete che modificano la realtà esistente.

§131 Passato e presente. L’attuale generazione ha una strana forma di autocoscienza ed esercita su di sé una strana forma di autocritica. Ha la coscienza di essere una generazione di transizione, o meglio ancora, crede di sé di essere qualcosa come una donna incinta: crede di stare per partorire e aspetta che nasca un grande figliolo. Si legge spesso che «si è in attesa di un Cristoforo Colombo che scoprirà una nuova America dell’arte, della civiltà, del costume». Si è letto anche che noi viviamo in un’epoca pre‑dantesca: si aspetta il Dante novello che sintetizzi potentemente il vecchio e il nuovo e dia al nuovo lo slancio vitale. Questo modo di pensare, ricorrendo a immagini mitiche prese dallo sviluppo storico passato è dei più curiosi e interessanti per comprendere il presente, la sua vuotezza, la sua disoccupazione intellettuale e morale. Si tratta di una forma di «senno del poi» delle più strabilianti.

In realtà, con tutte le professioni di fede spiritualistiche e volontaristiche, storicistiche e dialettiche ecc., il pensiero che domina è quello evoluzionistico volgare, fatalistico, positivistico.

Si potrebbe porre così la quistione: ogni «ghianda» può pensare di diventar quercia. Se le ghiande avessero una ideologia, questa sarebbe appunto di sentirsi «gravide» di querce. Ma, nella realtà, il 999 per mille delle ghiande servono di pasto ai maiali e, al più, contribuiscono a crear salsicciotti e mortadella.

§138 Passato e presente. Aneddoto di Giustino Fortunato. Pare sia del 1925 o 1926. Raccontato da Lisa1. Pare che si parlasse col Fortunato della lotta politica in Italia. Egli avrebbe detto che, secondo lui, c’erano in Italia due uomini veramente pericolosi, uno dei quali era il Miglioli. Sarebbe stato presente, oltre il Lisa, un certo avv. Giordano Bruno, di cui non ho mai sentito parlare nonostante il suo tragico nome. Il Bruno avrebbe detto: «Ma, senatore, sono due uomini di grande ingegno!» ingenuamente, perché di solito «pericoloso» ha un significato strettamente «poliziesco». E il Fortunato, ridendo: «Appunto perché sono intelligenti sono pericolosi». Non so se l’aneddoto sia vero, e dato che sia vero, il Lisa l’abbia vissuto o solamente «sentito dire». Ma è verosimile e si inquadra perfettamente nel modo di pensare del Fortunato.

Ricordare la lettera del Fortunato riportata da Prezzolini nella prima edizione del suo volume La Cultura italiana, e ricordare il necrologio di Piero Gobetti scritto dall’Einaudi (e mi pare anche che il Fortunato abbia scritto qualcosa nello stesso numero unico del «Baretti»); in ogni modo il Fortunato si teneva in rapporti col Gobetti e cercava di immunizzarlo dall’influsso della gente «pericolosa».

Note

Americanismo e fordismo

§72 Argomenti di cultura. Americanismo e fordismo. (Cfr p. 58). In alcune note sparse in diversi quaderni sono stati segnati alcuni aspetti del fenomeno industriale rappresentato dal fordismo, specialmente per ciò che riguarda il significato degli «alti salari» pagati dal Ford. La tesi è questa: che tutta l’ideologia fordiana degli alti salari è un fenomeno derivato da una necessità obbiettiva dell’industria giunta a un determinato grado di sviluppo e non un fenomeno primario (ciò che non esonera dallo studio dell’importanza e delle ripercussioni che l’ideologia può avere per conto suo). Intanto cosa significa «alto salario»? È «alto» il salario pagato dal Ford solo in confronto alla media dei salari americani, o è alto come prezzo della forza di lavoro che gli operai impiegati dal Ford consumano nelle fabbriche Ford? Questa ricerca non consta sia stata ancora fatta sistematicamente, ma pure essa sola potrebbe dare una risposta conclusiva. La ricerca è certo difficile, ma le cause stesse di questa difficoltà sono una risposta indiretta.

La risposta è difficile perché la maestranza Ford è molto instabile. Non è perciò possibile stabilire una media di mortalità razionale tra di esse da porre in confronto con la media delle altre industrie. Ma perché questa instabilità? Come mai un operaio preferisce un salario più basso a quello dato dal Ford? Non significa cio che i così detti alti salari sono meno convenienti a ricostituire la forza di lavoro consumata di quanto non siano i salari più bassi delle altre industrie? Questa stessa instabilità dimostra che le condizioni normali di concorrenza tra gli operai non operano per ciò che riguarda l’industria Ford che entro limiti ristretti: non opera il livello diverso tra le medie di salario e non opera la armata di riserva di disoccupati.

Ciò significa che nell’industria Ford è da ricercare un elemento nuovo, che sarà la ragione reale sia degli «alti salari» che degli altri fenomeni accennati (instabilità ecc.). Questo elemento non può essere ricercato che in ciò: l’industria Ford richiede una discriminazione nei suoi operai che le altre industrie non richiedono, un tipo di qualifica di nuovo genere, una forma di consumo di forze e una quantità di forza consumata nello stesso tempo medio che è più gravosa e più grave che altrove e che il salario non riesce a compensare, a ricostituire nelle condizioni date dalla società.

Poste queste ragioni, si presenta il problema: se il tipo di industria e di organizzazione della produzione e del lavoro proprio del Ford sia «razionale», possa e debba cioè generalizzarsi, o se invece si tratta di un fenomeno morboso da combattere con la forza sindacale e con la legislazione.

Se cioè sia possibile, con la pressione materiale della società, condurre gli operai come massa a subire tutto il processo di trasformazione necessario per ottenere che il tipo medio dell’operaio Ford diventi il tipo medio dell’operaio moderno o se ciò sia impossibile perché porterebbe alla degenerazione fisica e al deterioramento della razza, cioè distruggerebbe l’operaio come tale, ogni forza di lavoro sociale.

§74 Argomenti di coltura. Americanismo e Fordismo. (Cfr p. 56). In misura piccola, ma tuttavia rilevante, fenomeni simili a quelli che si verificano presso il Ford, si verificavano e si verificano in determinati rami di industrie o in singoli stabilimenti. Formare una maestranza di fabbrica o una squadra di lavorazione specializzata non è cosa semplice e una volta formate esse finiscono talvolta col beneficiare di un salario di monopolio, non solo, ma non vengono licenziate in caso di arresto temporaneo della produzione, perché gli elementi che la costituiscono si disperderebbero e sarebbe impossibile riaccozzarli insieme, mentre la ricostruzione con elementi nuovi, di fortuna, costerebbe tentativi e spese non indifferenti.

Poiché non funziona mai e non funzionava una legge di equiparazione perfetta della produzione e dei metodi produttivi in tutte le aziende di un determinato ramo, ne viene che ogni azienda, almeno in una certa misura, è unica e si forma una maestranza con una qualifica di azienda particolare (segreto di fabbricazione e di lavoro ecc.); spesso si tratta di «trucchi» che sembrano trascurabili, ma che, ripetuti infinità di volte, hanno una portata economica ingente. Un caso particolare si può vedere nel lavoro dei porti, specialmente in quelli in cui esiste squilibrio tra imbarco e sbarco di merci o dove si verificano ingorghi stagionali di lavoro. È necessario creare una maestranza che sia sempre disponibile (non si allontani, come avviene per gli avventizi) per il minimo di lavoro stagionale o d’altro genere, quindi i ruoli chiusi, gli alti salari e altri privilegi in contrapposizione ai così detti avventizi.

Scuola e Educazione

§119 Quistioni scolastiche. Nel «Marzocco» del 13 settembre 1931, G. Ferrando esamina un lavoro di Carleton Washburne, pedagogista americano, che è venuto appositamente in Europa per vedere come funzionano le nuove scuole progressiste, ispirate al principio dell’autonomia dell’alunno e della necessità di soddisfare per quanto è possibile i suoi bisogni intellettuali (New Schools in The old World by Carleton Washburne, New York, The John Day Company, 1930).

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Il Washburne descrive dodici scuole, tutte diverse fra loro, ma tutte animate da uno spirito riformatore, che in alcune è temperato e si innesta sul vecchio tronco della scuola tradizionale, mentre in altre assume un carattere addirittura rivoluzionario. Cinque di queste scuole sono in Inghilterra, una nel Belgio, una in Olanda, una in Francia, una in Svizzera, una in Germania e due in Cecoslovacchia e ognuna ci presenta un aspetto del complesso problema educativo.

La Public School di Oundle, una delle più antiche scuole inglesi, si differenzia dalle scuole dello stesso tipo solo perché accanto ai corsi teorici di materie classi che, ha istituito dei corsi manuali e pratici. Tutti gli studenti sono obbligati a frequentare a loro scelta un’officina meccanica o un laboratorio scientifico: il lavoro manuale si accompagna col lavoro intellettuale e sebbene non ci sia nessuna relazione diretta tra i due, pure l’alunno impara ad applicare le sue cognizioni e sviluppa le sue capacità pratiche. (Questo esempio mostra come sia necessario definire esattamente il concetto di scuola unitaria in cui il lavoro e la teoria sono strettamente riuniti: l’accostamento meccanico delle due attività può essere uno snobismo. Si sente dire di grandi intellettuali che si divagano facendo i tornitori, i falegnami, i legatori di libri ecc.: non si dirà per questo che siano un esempio di unità del lavoro manuale e intellettuale. Molte di tali scuole moderne sono appunto di stile snobistico che non ha niente che vedere – altro che superficialmente – colla quistione di creare un tipo di scuola che educhi le classi strumentali e subordinate a un ruolo dirigente nella società, come complesso e non come singoli individui).

La scuola media femminile di Streatham Hill applica il sistema Dalton (che il Ferrando chiama «uno sviluppo del metodo Montessori»); le ragazze sono libere di seguire le lezioni, pratiche e teoriche, che desiderano, purché alla fine di ogni mese abbiano svolto il programma loro assegnato; la disciplina delle varie classi è affidata alle alunne. Il sistema ha un grande difetto: le allieve in genere rimandano agli ultimi giorni del mese lo svolgimento del loro compito, ciò che nuoce alla serietà della scuola e costituisce un inconveniente serio per le insegnanti che debbono aiutarle e sono sopraffatte dal lavoro, mentre nelle prime settimane hanno poco o nulla da fare. (Il sistema Dalton non è che l’estensione alle scuole medie del metodo di studio seguito nelle Università italiane, che all’alunno lasciano tutta la libertà per lo studio: in certe facoltà si danno venti esami al quarto anno di Università e poi la laurea, e il professore non conosce neanche l’alunno).

Nel piccolo villaggio di Kearsley E. F. O’Neill ha fondato una scuola elementare in cui è abolito «ogni programma e ogni metodo didattico». Il maestro cerca di rendersi conto di quello che i bambini hanno bisogno di apprendere e comincia poi a parlare su quel dato argomento, mirando a risvegliare la loro curiosità e il loro interesse; appena vi è riuscito, lascia che essi continuino per conto proprio, limitandosi a rispondere alle loro domande e a guidarli nella loro ricerca. Questa scuola, che rappresenta una reazione contro tutte le formule, contro l’insegnamento dommatico, contro la tendenza a rendere l’istruzione meccanica, «ha dato risultati sorprendenti»: i bambini si appassionano talmente alle lezioni che talvolta rimangono a scuola fino a sera tardi, si affezionano ai loro maestri che sono per loro dei compagni e non degli autocratici pedagoghi e ne subiscono l’influenza morale; anche intellettualmente il loro progresso è assai superiore a quello degli alunni delle scuole comuni (è molto interessante come tentativo, ma potrebbe essere universalizzato? si troverebbero i maestri sufficienti numericamente allo scopo? e non ci saranno inconvenienti che non sono riferiti, come per esempio quello di bambini che devono abbandonare la scuola ecc.? Potrebbe essere una scuola di élites o un sistema di «doposcuola», in sostituzione della vita famigliare).

Un gruppo di scuole elementari ad Amburgo: libertà assoluta ai bambini; nessuna distinzione di classi, non materie di studio, non insegnamento nel senso preciso della parola. L’istruzione dei bambini deriva solo dalle domande che essi rivolgono ai maestri e dall’interesse che dimostrano per un dato fatto. Il direttore di queste scuole, signor Gläser, sostiene che l’insegnante non ha diritto neppure di stabilire quello che i ragazzi debbono imparare; egli non può sapere quello che essi diverranno nella vita, come ignora per quale tipo di società essi debbono essere preparati; l’unica cosa che egli sa è che essi «posseggono un’anima che deve esser sviluppata e quindi egli deve cercare di offrir loro tutte le possibilità di manifestarsi». Per Gläser l’educazione consiste «nel liberare l’individualità di ogni alunno, nel permettere alla sua anima di aprirsi e di espandersi». In otto anni gli allievi di queste scuole hanno ottenuto risultati buoni.

Le altre scuole di cui il Washburne parla sono interessanti perché sviluppano certi aspetti del problema educativo; così per esempio la scuola «progressista» del Belgio si fonda sul principio che i bambini imparano venendo in contatto con il mondo e insegnando agli altri. La scuola Cousinet in Francia sviluppa l’abitudine allo sforzo collettivo, alla collaborazione. Quella di Glarisegg in Svizzera insiste in special modo nello sviluppare il senso della libertà e responsabilità morale di ciascun alunno ecc.

(È utile seguire tutti questi tentativi che non sono altro che «eccezionali» forse più per vedere ciò che non occorre fare, che per altro).

Scienza

§58 La «nuova» scienza. Borgese e Michel Ardan. Nel romanzo di Verne Dalla terra alla Luna Michel Ardan nel suo discorso, dice liricamente che «lo spazio non esiste» perché gli astri sono talmente vicini gli uni agli altri che si può pensare l’universo come un tutto solido, le cui reciproche distanze possono paragonarsi alle distanze esistenti fra le molecole del metallo più compatto come l’oro o il platino.

Il Borgese, sulle traccie di Eddington ha capovolto il ragionamento del Verne e sostiene che la «materia solida» non esiste perché il vuoto nell’atomo è tale che un corpo umano, ridotto alle parti solide, diverrebbe un corpuscolo visibile solo al microscopio. È la fantasia di Verne applicata alla «Scienza» degli scienziati e non più a quella dei ragazzi. (Il Verne immagina, nel momento in cui l’Ardan espone le sue tesi, che Maston, una delle figurette con cui rende arguti i suoi libri, nel gridare con entusiasmo: «Sì, le distanze non esistono!» stia per cadere e provare così, sulla sua pelle, se le distanze esistono o no).

Nozioni enciclopediche

§1 Nozioni enciclopediche. Il galletto rosso. Dal francese le coq rouge, termine che deve essere d’origine contadina e indica l’incendio appiccato per ragioni politiche nelle lotte di fazione e nelle jacqueries. Si potrebbe ricordare la così detta tattica del fiammifero predicata da Michelino Bianchi e Umberto Pasella nelle campagne emiliane durante il predominio sindacalista verso il 19061.

Note

§3 Nozioni enciclopediche. Angherie. Il termine è ancora usato in Sicilia per indicare certe obbligazioni alle quali è sottoposto il lavoratore nei suoi rapporti col proprietario o gabellotto o subaffittario nei contratti così detti di mezzadria (e che sono contratti a partecipazione o di semplice affitto con pagamento in natura fissato con la metà del raccolto o anche più, oltre le «prestazioni speciali» o angherie). Il termine è ancora quello dei tempi feudali, da cui è derivato il suo significato nel linguaggio comune (vessazione, ecc.).

   continua

Per ciò che riguarda la Toscana è da citare un brano di un articolo di F. Guicciardini (Nuova Antologia, 16 aprile 1907), Le recenti agitazioni agrarie in Toscana e i doveri della proprietà: «Fra i patti accessori del contratto colonico, non accenno ai patti che chiamerò angarici, in quanto costituiscono oneri del colono, che non hanno per corrispettivo alcun vantaggio speciale; tali sarebbero i bucati gratuiti, la tiratura dell’acqua, la segatura di legna e fascinotti per le stufe del padrone, il contributo in grasce a favore del guardiano, la somministrazione di paglia e fieno per la scuderia di fattoria e in generale tutte le somministrazioni gratuite in favore del padrone. Io non potrei affermare se questi fatti siano ultimi resti del regime feudale sopravvissuti alla distruzione dei castelli e alla liberazione dei coloni, oppure se siano incrostazioni formatesi per abuso dei padroni e ignavia dei coloni, in tempi più vicini a noi sul tronco genuino del contratto».

Secondo il Guicciardini queste prestazioni sono sparite pressoché ovunque (nel 1907), ma la cosa è dubbia. Non solo in Toscana, ma in Piemonte (almeno per gli schiavandari) fino al 1906 era diffuso il diritto del padrone di chiudere i coloni dentro casa a una certa ora della sera e così avveniva nell’Umbria ecc.

§41 Nozioni enciclopediche. «Paritario». Il siginficato di paritario è dei più interessanti e curiosi. Paritario significa che 1 000 000 ha gli stessi diritti di 10 000 ecc., talvolta che 1 ha gli stessi diritti di 50 000. Cosa significa paritario nelle officine Schneider del Creusot? Cosa significa nel Consiglio nazionale per l’industria delle miniere di carbone, esistente in Inghilterra? Cosa significa nel Consiglio direttivo dell’U.I.L. di Ginevra? ecc.

§47 Nozioni enciclopediche. Tempo. In molte lingue straniere, la parola italiana tempo, introdotta attraverso il linguaggio musicale, ha assunto un significato, anche nella terminologia politica, determinato, che la parola tempo in italiano, per la sua genericità, non può esprimere (occorrerebbe dire «Tempo» in senso musicale, nel senso in cui è adoperato in musica ecc.) e che pertanto occorre tradurre; «velocità del ritmo», mi pare la spiegazione del termine tempo nel senso musicale, che può dare questa traduzione, che però sarà solo «ritmo» quando il termine tempo è aggettivato: «ritmo accellerato», «ritmo rallentato» ecc. (velocità del ritmo in senso ellittico, «misura di velocità del ritmo»).

§59 Nozioni enciclopediche. Empirismo. Significato equivoco del termine. Si adopera il termine di empirismo, comunemente, nel senso di non‑scientifico. Ma lo si adopera anche nel senso di non categorico (proprio delle categorie filosofiche) e quindi di «concreto» e reale nel senso «corposo» della parola. Realtà empirica e realtà categorica ecc. Per il Croce, per esempio le scienze filosofiche sono le sole e vere scienze, mentre le scienze fisiche o esatte sono «empiriche» e astratte, perché per l’idealismo la natura è una astrazione convenzionale, di «comodo», ecc.

Bibliografia

§54 Nozioni enciclopediche. Bibliografia. Société française de philosophie. Vocabulaire technique et critique de la philosophie, publié par A. Lalande, ive édition, augmentée, Parigi, Alcan, 1932, in 8°, volumi tre, Fr. 180.

§73 Passato e presente. La burocrazia (cfr p. 55). Studio analitico di F. A. Leonida Rèpaci, Il costo della burocrazia dello Stato nella «Riforma sociale» del maggio‑giugno 1932. È indispensabile per approfondire l’argomento. Elabora il materiale complesso dei volumi statistici sulla burocrazia pubblicati dallo Stato.

§75 Bibliografie. Al XII Congresso Internazionale di Scienze Storiche che si terrà a Varsavia dal 21 al 28 agosto 1933 saranno presentate, da studiosi italiani, queste relazioni che interessano alcune rubriche trattate in questi quaderni:

1°) Piero Pieri, La scienza militare italiana nel Rinascimento (per le note sul Machiavelli).

2°) F. Chabod, Il Rinascimento nelle più recenti interpretazioni (per la rubrica «Riforma e Rinascimento» e sul carattere cosmopolitico degli intellettuali italiani).

3°) Aldo Ferrabino, La Storia come scienza della politica.

§78 Bibliografie. Michel Mitzakis, Les Grands Problèmes italiens, 1931, fr. 80; Gustave Le Bon, Bases scientifiques d’une philosophie de l’histoire (15 fr.). (Il capo del governo è un grande ammiratore del Le Bon; cfr l’intervista del Le Bon nelle «Nouvelles Littéraires» con F. Lefèvre)1.

Note

§5 Risorgimento italiano. Sommossa di Palermo del 1866. Era prefetto a Palermo Luigi Torelli, sul quale cfr Antonio Monti, Il conte Luigi Torelli, Milano, R. Istituto Lombardo di Scienze e Lettere, 1931, in 8° pp. 513, L. 30. Dopo la repressione il Torelli ebbe la medaglia d’oro al valor civile. Si dovrà vedere il libro anche perché il Torelli ebbe una funzione abbastanza significativa in tutto il Risorgimento.

§91 2. Interpretazioni del Risorgimento. Bisogna ricordare anche lo scritto di Vincenzo Cardarelli Parole all’Italia (ediz. Vallecchi, 1931).

§98 Mazzini e Garibaldi. Cfr l’articolo di A. Luzio nel «Corriere della Sera» del 31 maggio 1932, Garibaldi e Mazzini.

§100. Bibliografia. Francesco Lemmi, Le origini del Risorgimento italiano, Milano, Hoepli. Dello stesso Lemmi, La Bibliografia del Risorgimento italiano, Società Anonima Romana. C. Morandi, Idee e formazioni politiche in Lombardia dal 1748 al 1814, Torino, Bocca. Massimo Lelj, Il Risorgimento dello spirito Italiano (1725- 1861), Milano, L'Esame, Edizioni di storia moderna, 1928.

§109 Bibliografia. Al XII Congresso internazionale di Scienze Storiche che si terrà a Varsavia dal 21 al 28 agosto 1933 saranno presentate le seguenti relazioni sul Risorgimento: 1°) G. Volpe, I rapporti politici diplomatici tra le grandi potenze europee e l’Italia durante il Risorgimento; 2°) A. C. Jemolo, L’Italia religiosa del secolo XVIII; 3°) Pietro Silva, Forze e iniziative nazionali ed influenze straniere nell’opera dell’assolutismo illuminato in Italia.

§129 Risorgimento. Il nodo storico 1848‑49. Per i movimenti popolari di sinistra del 48‑49 è da vedere Nicola Valdimiro Testa, Gli Irpini nei moti politici e nella reazione del 1848‑49, Napoli, R. Contessa e Fratelli, 1932, in 8°, pp. 320, L. 15.

§82 Passato e presente. Luigi Orsini, Casa paterna. Ricordi d’infanzia e di adolescenza, Treves, 1931. Luigi Orsini è nipote di Felice. Ricorda le descrizioni sull’adolescenza di Felice, narrate dal fratello, padre di Luigi. Pare che il libro sia interessante per il quadro della vita romagnola di villaggio di qualche decina di anni fa.

§83 Bibliografie. Sull’Impero Britannico: 1) Alfred Zimmerman, Il terzo Impero Britannico, traduzione di Mario Zecchi, Roma, Formiggini, 1931; 2) Fabio Mann, La posizione dei Dominions e dell’India nel Commonwealth Britannico, Roma, Società Ed. del Foro Italiano, 1931. (Pare che siano molto ben fatti e di grande interesse. Il Mann è della scuola dello Jemolo che ha scritto la prefazione per il volume postumo del suo allievo).

§86 Letteratura di funzionari. Il ministro plenipotenziario Antonino D’Alia ha scritto un Saggio di scienza politica (Roma, Treves, 1932, in 8°, pp. XXXII‑710) che sarebbe insieme una storia universale e un manuale di Politica e di Diplomazia (secondo Alberto Lumbroso, che lo esalta nel «Marzocco» del 17 aprile 1932).

Miscellanea

§46 Ricciotti Garibaldi. Non è apparso nelle cerimonie commemorative del 1932 (almeno il suo nome non si trova nel «Corriere» di quei giorni). Ma si trova in Italia. In una cronaca di Luciano Ramo nel «Secolo Illustrato» dell’11 giugno 1932 Garibaldi fra le quinte… (dove si descrivono le prove per un dramma, Garibaldi di Italo Sulliotti) si accenna al fatto della presenza di Ricciotti (le prove si facevano a Milano).

§49 Apologhi. Il Cadì, il sacchetto rubato, i due Benedetti e i cinque noccioli d’olive. Rifare la novellina delle Mille e una Notte.

§76 Passato e presente. Nelle Satire (satira IX) l’Alfieri scrisse dei napoletani che sono «bocche senza testa». Ma di quanta altra gente si potrebbe ciò dire, mentre non è certo si possa dire dei napoletani.


Lista dei nomi

Lista degli eventi, movimenti, ecc.