Francesco Mastriani

 

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di Tommaso Scappaticci

Nacque a Napoli il 23 nov. 1819, terzo dei sette figli di Filippo e Teresa Cava. Agli studi presso istituti privati affiancò presto interessi che gli fornirono un bagaglio culturale esteso alle materie mediche, storiche, letterarie e gli consentirono di avviare una precoce attività di insegnante privato di grammatica e di lingue (francese, spagnolo, inglese). Al 1836, anno della morte della madre per colera, risalgono il primo scritto (un’ode densa di echi manzoniani) e l’inizio di un’attività impiegatizia nella Società industriale partenopea che si interruppe nel 1844 dopo l’affermazione nel campo del giornalismo; in questo stesso anno sposò Concetta Mastriani, figlia di un cugino, da cui ebbe quattro figli.

Il successo letterario, tuttavia, non lo sollevò mai da condizioni di precarietà economica, e il suo ritmo quasi frenetico di produzione fu motivato non solo da ragioni di mercato, per le pressanti richieste del pubblico e degli editori, ma anche dalle costanti difficoltà finanziarie.

A partire dal 1838 il M. collaborò a giornali locali con una eterogenea produzione di articoli di costume, di attualità, di critica teatrale, di bozzetti, che lo proposero nel ruolo di garbato commentatore e intrattenitore della società napoletana: note di colore e descrizioni di paesaggio si affiancarono a rappresentazioni di figure esemplari dell’ambiente cittadino e a intenti pedagogici spesso risolti nell’impostazione enciclopedica di ambiziose rubriche. Contemporaneamente compose drammi rappresentati con successo (il primo fu Vito Bergamaschi, rappresentato nel 1840 al teatro Fiorentini dalla compagnia Monti e Alberti e stampato a Napoli nel 1841), rivelando un interesse che, negli anni successivi, lo portò ad allestire personalmente o a favorire riduzioni teatrali dei suoi più famosi romanzi (V. Viviani parla di una «età mastrianesca» nel teatro popolare napoletano del secondo Ottocento).

Nel 1848 pubblicò a Napoli il primo romanzo, Sotto altro cielo, ma fu La cieca di Sorrento (ibid. 1852) a segnare l’inizio di un successo clamoroso, destinato a prolungarsi anche dopo la morte del M. (quando comparvero numerosi plagi presentati come opere inedite del defunto scrittore) e a diventare un autentico fenomeno di costume, tanto da entrare anche nel repertorio dei cantastorie, in concorrenza con i tradizionali motivi cavallereschi.

Per quanto contraddistinto da una sostanziale uniformità di atteggiamenti e dal rispetto dei clichés della narrativa d’appendice, l’itinerario artistico del M. evidenzia la disponibilità ad adeguarsi alle mutate condizioni storiche e alle nuove funzioni dell’intellettuale attento ai gusti del pubblico e ai problemi della società. Nelle scelte tematiche e nella strutturazione dei romanzi si colgono variazioni che consentono di tracciare una storia della sua attività letteraria e di articolarla in tre fasi, corrispondenti a fondamentali esperienze biografiche.

Il primo periodo coincise con l’ultimo decennio borbonico e fu contrassegnato da riconoscimenti e incarichi ufficiali, concessi allo scrittore legittimista, estraneo alle idee risorgimentali e pronto, nei suoi scritti, a condannare l’eredità dell’illuminismo e della Rivoluzione francese, in una prospettiva conservatrice di invito alla rassegnazione e al rispetto dell’ordine e dei valori costituiti.

Di qui la distribuzione sociale dei protagonisti dei primi romanzi, prevalentemente scelti nel ceto aristocratico non solo per affascinare i lettori piccolo-borghesi con un modello di vita elegante e sfarzosa, ma anche per sottolineare la centralità della classe aristocratica nella società. Alla rimozione degli scontri politico-sociali corrispondeva l’accettazione di una struttura gerarchica presentata come necessaria e provvidenziale, mentre le insurrezioni di piazza e le congiure di palazzo erano proiettate in una dimensione paurosa e fallimentare.

Dal 1851 il M. collaborò a fogli ufficiali, come Il Giornale del Regno delle Due Sicilie e L’Ordine, e nel 1858 fu chiamato a far parte della commissione di censura.

Fino al 1860 scrisse tredici romanzi che, dapprima pubblicati nei giornali e poi raccolti in volume, proponevano vicende esotiche e avventurose, ricche di intrighi e soluzioni patetiche, in cui si sfruttavano ampiamente gli ingredienti gotici dell’orrore, dell’abnorme, delle atmosfere di terrificante ossessione. Il personaggio più ricorrente era quello satanico e tenebroso, avvolto da un’aura di mistero e di abitudine al delitto, disposto a tutto per soddisfare le sue ambizioni. Esemplare è, in tal senso, la vicenda narrata ne Il mio cadavere (Napoli 1851-52), ma analoghi motivi si ritrovano negli altri romanzi, soprattutto Federico Lennois (I-II, ibid. 1852-53) e La poltrona del diavolo (I-III, ibid. 1859). Della narrativa gotica, però, venivano rifiutate le componenti moralmente più eversive, quali i temi del sacrilegio, dell’incesto, della connessione eros-religione: a prevalere era la prospettiva moralistica che implicava il rispetto dell’etica tradizionale e la soluzione positiva di vicende manicheisticamente incentrate sul contrasto bene-male. L’amore era sempre romanticamente sublime, carico di intensità sentimentale, ma senza concessioni all’erotismo. Il M. difendeva i valori della famiglia e della religione, e la positività dei personaggi era connotata anche dall’adesione alla morale cattolica. Il meccanismo colpa-castigo si inseriva in una tecnica basata soprattutto sul ritmo dell’azione, con intrecci ricchi di agnizioni, colpi di scena, accumuli di tensione, in cui la struttura costantemente oppositiva (bene-male, buoni-malvagi, purezza-corruzione, ecc.) mirava a suscitare forti emozioni consentendo un’agevole identificazione con i personaggi. Mentre adattava all’ambiente napoletano le tematiche del gotico e del feuilleton, sfruttando le possibilità narrative offerte da una città ricca di forti contrasti, il M. coinvolgeva il lettore in un congegno romanzesco in cui tutto, per quanto prevedibile, doveva sorprendere. Perciò, accanto a elementi romantico-byroniani, a frequenti rimandi a I promessi sposi di A. Manzoni e a una rilettura, in Angiolina (ibid. 1857), della Ginevra di A. Ranieri, utilizzava gli ingredienti canonici del genere letterario: suspense, ridondanze, monodimensionalità psicologica dei personaggi, alternanza di toni fra drammatico ed elegiaco. Si cimentò anche, con scarsi risultati, nel genere umoristico (Un destino color di rosa, ibid. 1857, Quattro figlie da maritare, ibid. 1859, Il mal di denti, ibid. 1860) e in romanzi «storici» (a partire da La comare di Borgo Loreto, I-III, ibid. 1854), che riducevano la storia a una dimensione aneddotico-pittoresca, adeguata ai moduli e agli intenti della narrativa d’appendice.

La scrittura del M. assunse connotati diversi dopo l’Unità; rimasto estraneo al processo risorgimentale, nel 1860, pochi giorni prima dell’arrivo di G. Garibaldi a Napoli, si arruolò nella guardia nazionale, dichiarandosi pronto a morire «nella piena fede della Religione cattolica, apostolica, romana»: fu sottoposto poi a una epurazione che lo privò degli impieghi e lo tagliò fuori dal giornalismo di ampia diffusione.

Tuttavia, gli anni Sessanta segnarono la fase più inquieta della carriera del M., la più vivace e originale per la varietà delle sperimentazioni tematico-strutturali e l’unica, per la presenza della cosiddetta «trilogia socialista», ad attirare l’attenzione della critica successiva. Interpretando le frustrazioni di una società meridionale delusa nelle speranze di emancipazione, il M. si volse alla ricognizione della realtà socio-economica della sua città e scrisse romanzi-inchiesta, che, attraverso una contaminazione di saggistica e letteratura, miravano a servirsi degli schemi romanzeschi per denunciare inadempienze e sollecitare la risoluzione di problemi collettivi.

Ne derivò una serie di novità tematico-strutturali, che non escludeva la fedeltà alle tipologie e ai moduli del romanzo d’appendice, ma li finalizzava a intenti educativi e polemici. Cambiò l’ambientazione delle vicende, con l’attenzione rivolta ai quartieri malfamati della città e al sottoproletariato napoletano assurto al ruolo di protagonista di storie la cui finalità era di disvelare e contestare il «male sociale». In questa prospettiva didattico-documentaria si spiega lo smisurato ampliarsi della dimensione meditativa e delle digressioni etico-sociali, incentrate su temi vicini all’esperienza comune del lettore (le bische, la camorra, l’affitto delle case, le epidemie, la prostituzione, il gioco del lotto, i bassi, ecc.). Le tonalità oscillavano fra il distacco scientifico dell’antropologo-giornalista e l’intensa partecipazione sentimentale alle vicende, con le due componenti che si rimandavano e si sostenevano a vicenda, in un rapporto di cosciente e ricercata interscambiabilità. Le tre opere maggiori di questo periodo furono I vermi. Studi storici su le classi pericolose in Napoli (I-X, ibid. 1863-64), I figli del lusso (I-IV, ibid. 1866), concepito come seguito de I vermi, e Le ombre: lavoro e miseria (ibid. 1867-68). Una sorta di libro onnicomprensivo furono poi I misteri di Napoli: studi storico-sociali (I-II, ibid. 1869-70), che, unificando le molteplici soluzioni espressive e tematiche delle opere precedenti, esaltavano le capacità registiche dell’autore impegnato a costruire due saghe familiari, quelle dei contadini Onesimi e degli aristocratici Massa-Vitelli.

Si è a lungo parlato, per questi romanzi, di «trilogia socialista», scambiando l’attenzione al sociale per adesione a una ideologia politica. In realtà, dopo l’unificazione il M. collaborò a giornali socialisti (Libertà e lavoro, Libertà e giustizia, La Campana), ma il suo fu un umanitarismo cattolico-moderato, che aveva come riferimento la piccola e media borghesia urbana, impiegatizia e professionale, e proiettava il riscatto dei ceti inferiori in una dimensione interclassista fondata sul contemporaneo rifiuto del capitalismo e della lotta di classe. Prendendo le distanze dal borbonismo, compose qualche romanzo di argomento patriottico (I lazzari, ibid. 1865, tracciavano l’evoluzione socio-politica del popolano napoletano dalla condizione di «lazzaro» a quella di «industrioso operaio»), mentre continuò il filone umoristico, adeguandone le tematiche al nuovo impegno sociale (Le anime gemelle, I-II, ibid. 1865; I vampiri, I-II, ibid. 1868).

Nel 1866 il M. fondò il settimanale La Domenica, nel quale, in qualità di unico redattore, pubblicò articoli e romanzi (La Brutta, La figlia del croato, Una martire), ma si trattò di un’esperienza di breve durata, conclusasi nel 1868. Il definitivo reinserimento nel mondo giornalistico si ebbe nel 1875, quando iniziò la collaborazione a Il Roma, destinata a continuare fino alla morte e contrassegnata da una fluviale produttività, con una media di quasi cinque romanzi all’anno. In quest’ultimo periodo della sua attività vennero meno l’impegno polemico-sociale e lo sperimentalismo narrativo degli anni Sessanta, mentre si accentuò la disponibilità a trarre spunto dalla cronaca quotidiana e dai tanti mestieri e vicoli napoletani, spesso indicati anche nei titoli dei romanzi (nel 1881, per esempio, pubblicò, sempre ibid., La sonnambula di Montecorvino, La Medea di Porta Medina, L’Ebreo di Porta Nolana; nel 1883 Caterina la pettinatrice di via Carbonara, Compar Leonardo di Pontescuro, La pazza di Piedigrotta, ecc.).

Erano storie di amori e delitti, adatte a lettori alla ricerca di forti emozioni e a volte ispirate a casi giudiziari (Il bettoliere di Borgo Loreto, ibid. 1880, La Medea di Porta Medina, ecc.), che sembravano preludere ai meccanismi del romanzo poliziesco. Le questioni socio-politiche erano riservate ad altri collaboratori del giornale, mentre ai romanzi del M. era assegnata una funzione di piacevole intrattenimento, con la conseguenza di escludere le lunghe pause meditative e di ridurre drasticamente le dimensioni dei volumi (nella «fase sociale» si arrivava spesso alle 500 pagine). Il connotato «napoletano» della sua narrativa si orientò adesso in direzione di un folclorismo evasivo e pittoresco, con una serialità ripetitiva ai limiti dell’autoplagio, ma sempre capace di attirare l’interesse del pubblico (B. Croce afferma che era letto da «tutta Napoli, all’infuori della gente letterata») e, magari, di solleticare orgogli municipalistici.

Il M. morì a Napoli il 5 genn. 1891.

Nel corso della sua vita il M. pubblicò più di cento romanzi, ignorati dalla critica ufficiale (significativo il silenzio di F. De Sanctis, che provocò una risentita reazione dello stesso Mastriani). A interessarsi della sua produzione fu solo la pubblicistica locale, quasi costretta dall’imponenza del caso letterario, ma incline a subordinare l’immagine del romanziere d’appendice a quella, più qualificante, del meridionalista e presunto iniziatore del naturalismo, come se si potesse difendere il M. solo distaccandolo dal genere di appartenenza e collegandolo a tendenze artistiche più «alte».

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Francesco Mastriani - uno che ha sfornato 114 romanzi in 43 anni, dal 1848 al 1891, e ciononostante è morto poverissimo e cieco e ha avuto bisogno di una colletta per avere un funerale decente - è stato uno dei titani del cosiddetto 'romanzo d'appendice' italiano ed europeo. La cieca di Sorrento, uno dei suoi titoli più fortunati (numerose infatti sono state anche le versioni teatrali e cinematografiche) esce a puntate nel 1851 sull'Omnibus politico-letterario napoletano e in volume l'anno successivo. Del romanzo esistono numerose ristampe, ma dal 1973 ad oggi era rintracciabile in libreria o sulle bancarelle dell'usato soltanto un'edizione Bietti indegnamente massacrata di tagli, e quindi giunge particolarmente a proposito lo sforzo della Avagliano che grazie all'input di Riccardo Reim sta portando avanti una coraggiosa opera di riscoperta dell'800 letterario italiano, troppo spesso sminuito dai critici, ignorato dai programmi scolastici, sconosciuto al pubblico dei lettori. Suona infatti purtroppo ancora oggi profetico quanto scrisse Benedetto Croce nel 1909 nella sua celebre opera in sei volumi La letteratura della Nuova Italia: "Si fanno tante ricerche e saggi critici su argomenti poco interessanti, ma nessuno ha pensato ancora a dedicare un saggio al povero Mastriani, che lo meriterebbe". Il feuilleton dello scrittore napoletano ha tutti ma proprio tutti gli ingredienti del genere: delitti, drammi familiari, povertà, amori infelici e/o intricati, vendette, e gestisce il plot (che è su diversi piani temporali) con la maestria di un marionettista politically uncorrect.

Trama

1840. Nelle sale di Anatomia dell'Ospedale degli Incurabili di Napoli decine di studenti di Medicina stanno aspettando l'inizio della lezione. Parlano ad alta voce e scherzano in modo anche volgare nonostante a pochi metri da loro giaccia sul tavolo anatomico il cadavere di una giovanetta, pronto per la dissezione. Solo uno di loro, Gaetano, tace pensieroso e cupo. Quando viene annunciato che la lezione non avrà luogo a causa dell'assenza del professore, gli studenti si apprestano ad uscire dall'aula, ma Gaetano li blocca: farà lui lezione quel giorno, sostiene con voce profonda e insospettabile carisma. Perché quella giovanetta altri non è che sua sorella Caterina, morta di tubercolosi a 18 anni nonostante le sue cure e i suoi sforzi. Tutti ascoltano in un silenzio teso questa storia di povertà e malattia, la storia di una famiglia calabrese costituita da una bambina, un ragazzo e la loro anziana nonna, che si è trasferita nel capoluogo partenopeo in cerca di fortuna e non l'ha trovata affatto. Gaetano inoltre è orfano, e in particolare cova dentro di sé la vergogna e il dolore della fine di suo padre Nunzio, impiccato nel 1828 per il tentato stupro e l'omicidio di una giovane nobildonna francese, Albina di Saintanges, moglie del marchese Paolo Alfonso Rionero, assalita nella sua villa di Portici davanti agli occhi della figlioletta Beatrice, che per lo shock è diventata cieca. Ora che deve affrontare l'ennesima disgrazia, lo studente di Medicina conquista però l'affetto e l'ammirazione dei suoi compagni di corso. Per vivere l'aspirante medico lavora come commesso presso il notaio Tommaso Basileo, uomo gretto e avarissimo che vive come fosse un barbone e paga una miseria il povero Gaetano. Un giorno allo studio del notaio - in quel momento assente - si presenta un giovane nobile che chiede a Gaetano l'originale di un testamento del '700: una procedura illegale, ma che è disposto a pagare molto bene (e le cui conseguenze penali peraltro cadrebbero sul notaio Basileo, verso cui Gaetano nutre un sordo rancore). Il giovane commesso accetta l'offerta del cliente, e sottrae di nascosto con uno stratagemma la cartella che contiene il testamento. Sfogliandola a casa, scopre però che contiene anche una lettera del 1827 nella quale suo padre Nunzio si rivolge a Basileo, che si deduce essere il mandante dell'omicidio per il quale il delinquente calabrese sarebbe stato in seguito impiccato. Sconvolto e ansioso di vendicarsi, Gaetano si reca in casa del notaio, e messolo alle strette lo ricatta, sottraendogli una ingente somma di denaro...