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di A. Tartaro
Primogenito del conte Monaldo e di Adelaide dei marchesi Antici,
nacque il 29 giugno 1798 a Recanati, alla periferia dello Stato
pontificio. Visse gli anni della fanciullezza in un clima
familiare improntato a un cattolicesimo reazionario e ancorato a
radicati pregiudizi nobiliari. In questo periodo fu centrale la
figura del padre che, interdetto dall'amministrazione domestica e
sostituito dalla moglie, seguì personalmente l'educazione
dei figli maggiori, Carlo e Paolina oltre al L., coadiuvato da
precettori ecclesiastici (G. Torres, V. Diotallevi e, dal 1807, S.
Sanchini). I giochi infantili, le inclinazioni testimoniate dal
padre e dai fratelli, i saggi annuali alla presenza dei parenti
sulle materie di studio costituiscono un patrimonio aneddotico
certo insufficiente a chiarire la rapida evoluzione della sua
personalità.
Nel 1812 il padre prese atto che il L. non aveva più nulla
da imparare dal modesto Sanchini. Già da tre anni egli
mostrava una precoce passione per lo studio, che lo spingeva a
isolarsi nella biblioteca paterna (apprese da solo greco e
ebraico) e ai cui eccessi imputò in seguito la
fragilità fisica e l'avergli reso "l'aspetto miserabile, e
dispregevolissima tutta quella gran parte dell'uomo, che è
la sola a cui guardino i più" (lettera a P. Giordani, 2
marzo 1818).
Prose e poesie del 1809-10 documentano la fase dell'istruzione
scolastica del L., dedicata all'apprendimento del latino e agli
studi retorico-letterari, sulla scorta del De arte rhetorica di
Domenico da Colonia. I temi arcadici (nelle canzonette de La
campagna), classici e biblico-religiosi evidenziano la tendenza a
ripercorrere strade già battute, anche minori (favolistica
morale in versi, versi burleschi), con l'obiettivo di mostrarsi
padrone di un'intera tradizione tecnico-espressiva. Forse su
suggerimento del canonico G.A. Vogel, profugo alsaziano allora
residente a Recanati, cui sembra risalire anche
l'idea dello Zibaldone, il L. tradusse le Odi e l'Arte poetica di
Orazio nella metrica "barbara" di G. Fantoni; mentre la sua
materia andava dilatandosi nella struttura del poemetto narrativo
(Il Baalamo, Le notti puniche, Il diluvio universale) o nel
composito disegno del Catone in Affrica, vero campionario di forme
poetiche.
Di uno stadio scolastico più avanzato sono le Dissertazioni
filosofiche (1811-12) su questioni di logica, di metafisica, di
fisica e di morale (la felicità, le virtù etiche e
intellettuali). A parte la prontezza con cui il L. affronta una
problematica del tutto nuova, le Dissertazioni si muovono nel
solco della teologia cattolica sei-settecentesca (F.
Suárez, F. Jacquier, J. Sauri, il cardinale M. de Polignac
ecc.), dalla quale il giovane L. trae le ragioni di una
verità affrancata dagli esiti del materialismo sensistico e
in grado di competere con l'Illuminismo e con il razionalismo.
L'esperienza letteraria degli scritti puerili si prolunga nelle
tragedie in tre atti La virtù indiana (1811, che riprendeva
l'esotismo del Montezuma di Monaldo) e Pompeo in Egitto (1812).
Sulla scia dei più recenti studi filosofici, il L.
confutava intanto i negatori del libero arbitrio (Dialogo
filosofico sopra un moderno libro intitolato "Analisi delle idee
ad uso della gioventù", 1812), puntando sulla leggerezza
della forma dialogica, secondo modelli antichi e moderni (Platone,
Cicerone, Luciano, Fontenelle, F. Algarotti). Ma nel 1813
rivelò i suoi principali interessi nella Storia della
astronomia dalla sua origine fino all'anno 1811.
La Storia ribadiva la fede nel progresso, nell'ottica di una
sapienza coincidente con gli insegnamenti della religione. Il
punto di vista, illuministico-cristiano, si univa a una minuziosa
esplorazione di testimonianze erudite, accompagnate a loro volta
da un vivo interesse filologico. Il L. fu anche un filologo in
senso tecnico, attivo soprattutto tra 1813 e 1815, poi nel
1816-17, 1822-23 e 1827, con lavori su autori e opere della tarda
grecità (Esichio Milesio, la Vita Plotini di Porfirio, i
retori e gli scrittori di storia ecclesiastica dei primi secoli).
Corredava i testi, originali o tradotti, con commentari per lo
più in latino, elenchi di varianti e ingenti note
bio-bibliografiche. L'impegno filologico affiorava quando il L.
avanzava le proprie congetture. Su questo terreno dette il meglio
di sé, senza confronti. Anche A. Mai, alle cui scoperte di
codici si collegò molta sua produzione filologica (dai
lavori su Frontone e su Dionigi d'Alicarnasso del 1816-17 a quelli
sulla Cronica di Eusebio e sul De re publica di Cicerone del
1823), fu mediocre conoscitore delle lingue classiche (specie del
greco); le sue cure si esaurivano nell'illustrazione dei dati
puramente esterni, storico-geografici e antiquari. Oltre che nei
contributi legati a Mai - prima ammirato ma, dopo la canzone a lui
dedicata, giudicato con il tempo in termini aspramente liquidatori
- le qualità della filologia leopardiana si confermarono
nel periodo romano, culminando nello studio di moralisti e
satirici dell'antichità classica, nelle osservazioni
testuali su Libanio e i retori greci e in quelle suggerite
dall'edizione dei Papiri torinesi curata da A. Peyron (1824-27).
Già nel 1815 l'attività filologico-erudita del L.
ebbe qualche risonanza fuori di Recanati. A Roma lo zio materno,
Carlo Antici, aveva sottoposto i suoi scritti all'esame di F.
Cancellieri. Questi ne parlò nella Dissertazione intorno
agli uomini dotati di gran memoria (Roma 1815), enfatizzando il
parere equilibratamente elogiativo sul Porfirio dell'epigrafista e
diplomatico svedese J.D. Akerblad (che però aveva anche
espresso alcune sostanziali riserve su un'opera che prima di
essere pubblicata richiedeva una più estesa consultazione
del materiale manoscritto). Antici, apprese dal Cancellieri le
obiezioni di Akerblad, le comunicò al cognato (che ne rese
edotto il L.), non senza auspicare che il figlio lasciasse la
filologia per la carriera ecclesiastica, cui sembrava portato e
nella quale era prevedibile per lui un avvenire ricco di
soddisfazioni.
Consapevole o meno del suggerimento, il L. continuò a
coltivare gli interessi eruditi nel Saggio sopra gli errori
popolari degli antichi (1815): quasi in coincidenza del suo
"passaggio […] dall'erudizione al bello" (Zibaldone, 1741).
Rispetto alla Storia della astronomia, da cui provengono alcuni
dei temi trattati, la prosa del Saggio acquista in scioltezza e
mobilità; nel gioco fra il puntiglio dell'informazione
(attinta in prevalenza ai poeti greci e latini) e la
varietà dei toni - ironici, riflessivi o coinvolti
nell'intrinseca suggestione dei miti - si intravede la via alle
Operette morali. L'attenzione formale è tutt'uno con
un'ideologia sensibilmente mutata. Ferma restando l'inclinazione
illuministico-cristiana del discorso, l'inventario degli "errori
popolari" (le superstizioni che ostano alla conoscenza del "vero"
metafisico, fisico o naturale) si sottrae all'idea provvidenziale
di un progresso immancabile. L'ignoranza degli antichi, per quanto
confutata e corretta, si protraeva ancora nei pregiudizi di un
secolo che pure si diceva "illuminato"; allo scrittore altro non
restava se non farsi banditore della ragione cristiana contro la
credulità del volgo, arroccandosi nella fiducia che il
"vivere nella vera Chiesa è il solo rimedio contro la
superstizione" (Tutte le opere, I, p. 867).
Il distacco del Saggio dall'ottimismo provvidenziale e apologetico
della Storia della astronomia annuncia l'emancipazione del L.
dall'ideologia familiare. La strada imboccata male si conciliava
con la precedente professione di una milizia cattolica volta alla
celebrazione del progresso umano sotto le bandiere della fede.
L'ultimo suo tributo alle posizioni paterne fu l'orazione
Agl'Italiani, in occasione della liberazione del Piceno (1815),
per la vittoria degli Austriaci su Gioacchino Murat a Tolentino.
Il L. vi condannò la "tirannia" di Napoleone e dei suoi;
con la Restaurazione l'Europa tornava alla pace dopo lo
sconvolgimento della Rivoluzione. Da ciò l'immagine
idilliaca di un'Italia sotto l'"amministrazione paterna di Sovrani
amati e legittimi", garanti della pace e quindi della vera
felicità dei popoli, contro ogni illusoria promessa di
libertà e indipendenza; alla luce di un patriottismo diviso
fra pragmatismo benpensante ("Italiani! rinunziamo al brillante ed
appigliamoci al solido") e orgogliosa rivendicazione di un primato
artistico resistente ai saccheggi perpetrati dalle armi francesi
(Tutte le opere, I, pp. 872, 873).
Il "passaggio" al bello, "non subitaneo, ma gradato" (Zibaldone,
1741), significava intanto, nel 1816, la conversione alla poesia.
Tale passaggio si rispecchia in una serie di impegnate versioni
poetiche, oltre che nelle contraffazioni di un Inno a Nettuno
(1816) e di due anacreontiche (le Odae adespotae) fatte passare
per antiche (1816), e ha i primi significativi sbocchi
nell'idillio funebre Le rimembranze e soprattutto nella cantica
Appressamento della morte (fine 1816).
Rispetto alla versione delle Odi di Orazio, ferma al gusto
genericamente classicheggiante di tanta Arcadia, le traduzioni del
1815-17 mostrano una sensibile correzione teorica. Tradurre
è ora, per il L., riprodurre i colori dell'età
classica, piegando la lingua alla "naturalezza" e
"semplicità" del greco di Mosco o affrancandola da frigide
interpretazioni letterali nel caso della burlesca
Batracomiomachia, senza rinunciare al "sapor greco" dell'originale
(Tutte le opere, I, p. 388). Tale fu il criterio della traduzione
del I libro dell'Odissea, del II libro dell'Eneide, del
volgarizzamento del Moretum (La torta) e della successiva versione
della Titanomachia, dove un linguaggio studiatamente energico mira
a riprodurre il primitivismo che sarebbe stato di Esiodo. Allo
stile delle traduzioni si collegano i componimenti originali alle
soglie della maggiore stagione leopardiana. Nei limiti del
divertimento letterario (che sostenne anche il falso
volgarizzamento del Martirio de' Santi Padri, scambiato per
autenticamente trecentesco da A. Cesari e pubblicato nel 1826) il
suo classicismo torna nel dettato solenne e favoloso dell'Inno a
Nettuno, denso di grecismi e latinismi, e in odi in greco sul
modello di Anacreonte intessute di ricordi da Omero, Saffo,
Euripide, Teocrito e Virgilio. Un ricordo della versione di Mosco
resta nella fattura de Le rimembranze, debitrice della
raffinatezza di S. Gessner (mediata dalla traduzione di F. Soave),
sul registro elegiaco poi costitutivo degli Idilli. Sta a
sé l'Appressamentodella morte, dove l'esperienza di
traduzione si innesta nel tentativo di una poesia autobiografica
che si leva a denunciare i mali dell'esistenza, dalla follia
amorosa all'empietà e violenza dei tiranni. Il poemetto
(cinque canti in terzine), carico di figurazioni allegoriche e
concitatamente predicatorio, deve molto a Dante, al Petrarca dei
Trionfi, alle Visioni di A. Varano e alla Bassvilliana di V.
Monti.
Per il L. l'Appressamento della morte fu un punto fermo della sua
"carriera poetica"; ne pose l'inizio, ritoccato, tra i Frammenti
che chiudono il libro maggiore, ma già nel 1820 ne
citò la conclusione a prova della propria capacità
di dare voce a "certi affetti" quando "le sventure [lo]
stringevano e [lo] travagliavano assai" (Zibaldone, 144). La
testimonianza riguardava in effetti un momento fondamentale. Pur
con enfasi moralistica e artificialità d'impianto,
l'Appressamento della morte rifletteva una crisi profonda; le
precarie condizioni fisiche portavano al pensiero assillante di
una fine vicina (ripreso, nel 1817, nel sonetto Letta la vita
dell'Alfieri scritta da esso), mentre nuove, irrinunciabili
esigenze - a partire da quella di lasciare Recanati - rafforzavano
la percezione di una felicità negata.
In questo quadro ha grande importanza la corrispondenza epistolare
con P. Giordani, intanto per la cordialità con cui lo
scrittore affermato, avuta in omaggio dal L. la traduzione del
libro II dell'Eneide, si dispose verso il giovane. Le lettere del
L., particolarmente fitte fra 1817 e 1821, rivelano una fiduciosa
espansività. Le confidenze personali (l'insopportabile
costrizione recanatese, la precarietà fisica, il desiderio
di veder riconosciute le proprie qualità, il tarlo della
malinconia) si intrecciano con riflessioni e progetti letterari.
Il L., eletto a guida l'interlocutore, lesse i trecentisti con
l'interesse prima riservato agli autori del Cinquecento ma
soprattutto colse l'occasione di aprire un varco nella propria
solitudine intellettuale. A Giordani egli parve il "perfetto
scrittore d'Italia", il nobile virtuoso e dotto a lungo
vagheggiato, l'ottimo conoscitore delle lingue classiche persuaso
che "il solo scriver bello italiano può conseguirsi
coll'unire lingua del trecento a stile greco" (lettera del 21
sett. 1817). Il L., lusingato, non tardò a indirizzarsi
all'eloquenza civile, che nel settembre-ottobre del 1818, poco
dopo una visita dell'amico a Recanati, dette forma al patriottismo
di marca liberale delle canzoni politiche (All'Italia, Sopra il
monumento di Dante).
Il poeta si sentì ufficialmente introdotto nella cultura
letteraria neoclassica, in appoggio della quale era intervenuto
con una Lettera (non pubblicata) alla Biblioteca italiana, in
risposta all'articolo di madame de Staël Sulla maniera e
l'utilità delle traduzioni (1816). Gli interessi comuni lo
collegavano già a Mai, allora bibliotecario
dell'Ambrosiana, successivamente prefetto della Vaticana, ma
Giordani lo mise in relazione con numerosi intellettuali del
côté classicista: lo storico e filologo greco A.
Mustoxidi (dedicatario del Saggio sopra gli errori popolari degli
antichi), D. Strocchi, lo storico C. Rosmini, C. Arici, F. Reina
(editore di Parini), G. Mezzofanti, B. Borghesi, A. Peyron, e poi
ancora G.B. Niccolini, M. Angelelli, F. Schiassi, G. Marchetti, G.
Roverella, G. Grassi, L. Trissino (a cui il L. dedicò la
canzone Ad Angelo Mai). Alla stessa cerchia apparteneva G.
Perticari, genero e collaboratore di Monti, del quale il L.
cercò l'amicizia attraverso il cugino F. Cassi; il loro
legame sarà però superficiale e in definitiva
deludente. Altra consistenza ebbe l'amicizia con G. Montani,
legato al gruppo del Conciliatore, poi a quello fiorentino
dell'Antologia. Questi intuì lo spessore delle canzoni
civili ("mi conferma nell'opinione, che allora avremo grandi poeti
quando avremo gran cittadini": lettera del 5 maggio 1819); e nel
1827, recensendo le Operette morali, colse l'originalità di
quella "musica - altamente melanconica - le cui voci tutte si
rispondono e recano all'anima la più grave delle
impressioni" (Scritti letterari, a cura di A. Ferraris, Torino
1980, p. 197). Tra gli amici di Giordani e presto del L. fu
infine, a Bologna, il servizievole P. Brighenti, cultore di
letteratura e musica, ex giacobino e funzionario napoleonico poi
divenuto, dopo rovesci economici, confidente della polizia
austriaca.
L'amicizia non cancellava la sostanziale differenza fra il
classicismo di Giordani, eminentemente accademico, e quello del
L., che prese le distanze dalla sua poetica astrattamente
normativa difendendo la legittimità del "brutto" in sede
estetica e ne respinse il consiglio di esercitarsi nelle
traduzioni in prosa prima di tentare le difficoltà del
linguaggio poetico (lettera del 30 apr. 1817).
Il L. continuava a sperimentare le risorse del linguaggio in
più direzioni: da quella tragica dell'appena abbozzata
Maria Antonietta (1816) a quella comica dei Sonetti in persona di
ser Pecora fiorentino beccaio (1817) contro G. Mansi,
bibliotecario romano colpevole di "parole indegne" verso Giordani
e Monti (Tutte le opere, I, p. 318), a quella introspettiva,
vistosamente petrarcheggiante (diversa dal contemporaneo diario in
prosa, teso alla schiettezza del resoconto sentimentale)
dell'Elegia I, intitolata poi Il primo amore - cui seguì
nel 1818 l'Elegia II - collegata all'infatuazione per Geltrude
Cassi Lazzari, cugina del padre, di passaggio a Recanati (1817).
In quest'ambito le canzoni All'Italia e Sopra il monumento di
Dante che si preparava in Firenze si offrono come altrettante
incursioni nella lirica eloquente, sulla scia del Petrarca civile
ma con l'occhio ai pindarici seicenteschi (G. Chiabrera, F.
Testi); assunta a chiave interpretativa dell'attualità
politica, la classicità si tradusse in vibrata esortazione
civile. L'impostazione parenetica delle due canzoni (che aprirono
i Canti, avviando la cronologia ideale del capolavoro) fa leva sul
contrasto con la stagione del patriottismo, smarrito nei tempi
perversi della Restaurazione. Nella seconda canzone il L. si
identifica con Dante, nuovo Omero; ma soprattutto nella prima,
rifacendo il canto di Simonide di Ceo, il poeta tenta di rivivere
la dimensione dell'antichità, oggetto di una nostalgia
culturale e morale le cui motivazioni riguardano c0ncetti
fondamentali del suo pensiero.
Lo Zibaldone di pensieri - l'imponente diario steso dal
luglio-agosto del 1817 al 1832, documento insostituibile della sua
storia intellettuale - esordisce perentoriamente: "La ragione
è nemica d'ogni grandezza: la ragione è nemica della
natura: la natura è grande, la ragione è piccola"
(14). Quasi identicamente si esprime il Discorso di un italiano
intorno alla poesia romantica (1818). La fedeltà ai
classici e alla tradizione nazionale, proclamata nella risposta
alla Staël, è argomentata più ampiamente, in
polemica con le Osservazioni di L. di Breme. Ai romantici il L.
risponde contrapponendo alla condizione moderna, dominata dalla
ragione, l'aurora del genere umano, l'età felice della
fantasia e delle illusioni non compromesse dall'incivilimento. La
poesia, destinata a dilettare con gli inganni dell'immaginazione e
perciò contraria al vero razionale, deve ispirarsi alla
natura; i poeti moderni, guastati dalla civiltà e
dall'intelletto, devono calarsi nel primitivismo di Omero, Esiodo,
Anacreonte, Callimaco. È questo il nodo di un classicismo
innervato di passione patriottica e politica (nell'apostrofe ai
giovani italiani alla conclusione del Discorso e nelle canzoni
civili), volto a privilegiare il postulato antropologico della
polemica letteraria, quel conflitto natura-ragione che, causa
dell'infelicità umana, è presto al centro
dell'indagine pessimistica del Leopardi.
Egli situò nel 1819 un altro passaggio, quello dal bello al
vero filosofico: una "mutazione totale", identica al trapasso
dell'umanità dalla condizione primigenia alla moderna. Un
forte abbassamento della vista, impedendogli la lettura, gli fece
sentire l'infelicità in modo "assai più tenebroso",
e lo portò a "riflettere profondamente" e a provare
"l'infelicità certa del mondo, in luogo di conoscerla"
(Zibaldone, 143-144).
La nuova conversione comportò una sorta di paralisi della
fantasia, il venire meno della capacità di reagire anche a
spettacoli naturali; escluso perciò l'accesso alla poesia
vera, quella antica e dell'immaginazione, non restava che
attingere alla materia sentimentale e filosofica, sola consentita
a un moderno. Esemplificando l'accaduto, il L. citava la sua
produzione del 1819, dove la facoltà inventiva si sarebbe
limitata ad "affari di prosa", mentre nei versi le immagini
sarebbero sgorgate a stento, lasciando posto esclusivamente al
sentimento. L'allusione alla prosa riguardava i cosiddetti Ricordi
d'infanzia e di adolescenza, una congerie di appunti
autobiografici per un romanzo di argomento amoroso e politico, in
parte epistolare, sul modello del Werther e dell'Ortis. Egli
intendeva riprodurre i momenti salienti di una vita interiore
dominata dall'attesa della morte, ma palpitante di passione
antitirannica e attratta dalla bellezza femminile e dal desiderio
d'amore, evocando esperienze anche minime - sensazioni visive e
acustiche, raccordi spontanei, fantasie - del proprio passato
intimo. Sul progetto tornò in seguito (nel 1825
pensò a una Storia di un'anima scritta da Giulio Rivalta),
non andando oltre rapide annotazioni. L'accenno ai versi alludeva
a due canzoni poi rifiutate, Per una donna inferma di malattia
lunga e mortale e Nella morte di una donna fatta trucidare col suo
portato dal corruttore per mano ed arte di un chirurgo, nelle
quali l'"infelicità certa del mondo", verificata e non solo
nota concettualmente, si era espressa come effusione sentimentale
a forti tinte emotive, incline nella seconda canzone a certa
crudezza patetica già rimproverata ai romantici. Lo
sperimentalismo leopardiano, ribadito peraltro dalla Telesilla
(dramma pastorale incompiuto ricavato dal poema cinquecentesco
Girone il cortese di L. Alamanni, riletto in chiave tragicamente
conflittuale), risultava qui scarsamente produttivo: gli spunti di
una problematica esistenziale destinata a grandi sviluppi
riuscivano banalizzati, come sopraffatti dalla concitazione.
Altrimenti redditizio fu il percorso avviato sempre nel 1819 da
L'infinito e proseguito probabilmente nello stesso anno da Alla
luna e dal Frammento XXXVII (originariamente: Lo spavento
notturno). Il L. intraprendeva il ciclo che disse degli Idilli e
che avrebbe pubblicato solo nel 1825, dedicato a rappresentare
"situazioni, affezioni, avventure storiche del [suo] animo" (Tutte
le opere, I, p. 372).
Sciolto l'ingorgo sentimentale delle canzoni rifiutate, il L.
fissò alcune intense sensazioni e suggestioni: il perdersi
nella dimensione mentale, prelogica, dell'infinito
spazio-temporale (L'infinito); il piacere del ricordare, pur nella
coscienza di un destino doloroso, nel passato come nel presente
(Alla luna); l'attrazione culturale del primitivo, recuperato
nelle movenze di una svagata fantasia pastorale (Frammento
XXXVII). Le avventure idilliche non eludevano le verità
generali su cui andava costruendo un "sistema" di pensiero,
perché ne accertavano l'urgenza e fondatezza razionale,
verificandole sul terreno del vissuto. In questa prospettiva il
confronto con il "ver0" poté trapassare dalle emozioni
private a considerazioni di assoluta portata storico-morale (La
sera del dì di festa, 1820); oppure insinuarsi nella trama
letteraria de Il sogno (1820-21), dove il tema petrarchesco
convoglia motivi e toni del Monti dei Pensieri d'amore; o infine
scandire drammaticamente le ore del giorno su una traccia che
tradisce l'influenza congiunta di Parini e di Pindemonte (La vita
solitaria, 1821).
Intanto un ingenuo tentativo di fuga, nel luglio del 1819, era
stato la spia di una situazione fattasi insostenibile. Non appena
maggiorenne il L. si risolse a rompere con la famiglia e con
Recanati. Un conoscente del padre, S. Broglio d'Ajano, gli ottenne
il passaporto per il Lombardo-Veneto, ma Monaldo bloccò
l'iniziativa. In una lettera al padre acclusa a un'altra
indirizzata al fratello Carlo, il L. lo accusò di
condannarlo a "vivere e morire come i [suoi] antenati";
abbandonarsi "a occhi chiusi" - scrisse a Carlo - "nelle mani
della fortuna" era l'unico modo di sottrarsi a una miserabile vita
di "orribili malinconie", laddove egli preferiva "essere infelice
che piccolo" (lettera a Carlo e Monaldo, fine luglio 1819). Il
padre si convinse ancor più che il figlio fosse male
influenzato da Giordani; il L. tornò a sperimentarne
l'ingombrante tutela quando, nel 1820, composta la canzone Ad
Angelo Mai, la inviò a Brighenti con le due dell'anno
precedente in vista di una pubblicazione a Bologna. Quando Monaldo
si oppose a questo e a una ristampa di All'Italia e Sopra il
monumento di Dante, egli poté solo protestare contro
l'interferenza, estesa anche a Nella morte di una donna, il cui
titolo avrebbe fatto immaginare al genitore "mille sozzure
nell'esecuzione, e mille sconvenienze del soggetto". Il L.
stampò la sola canzone a Mai (presto vietata nel
Lombardo-Veneto), il cui titolo non poteva impensierire il padre,
non sospettandone questi l'"orribile fanatismo" (lettera a P.
Brighenti, 28 apr. 1820).
Enunciando nello Zibaldone il passaggio dal "bello" al "vero",
egli mise a fuoco l'aspetto forse più delicato della
propria identità di scrittore: il nesso strettissimo tra
riflessione filosofico-morale e miti poetici, dato acquisito dalla
critica postidealistica contro una lettura frammentaria intesa (da
F. De Sanctis a B. Croce) a sorprendere nei Canti una
liricità indenne da sovrastrutture intellettualistiche, ma
anche contro semplicistiche riduzioni della poesia a meccanico
rispecchiamento delle idee. La poetica del vero sottendeva una
funzione conoscitiva, intrinsecamente filosofica, della
letteratura e diveniva base di un pensiero a cui concorrevano il
momento zibaldoniano della concettualizzazione e quello che
diremmo della riflessione lirica, condotta con gli strumenti della
poesia (si rimanda agli studi di W. Binni, C. Luporini, S.
Timpanaro; e fra i più recenti a quelli di C. Galimberti,
L. Blasucci, A. Dolfi, M. Santagata). L'impossibilità di
rivivere la condizione degli antichi avviò la fase di
rimpianto dello stato naturale, che durò nella storia del
L. fino al 1822. La natura, madre benefica e previdente, aveva
garantito un'esistenza felice all'umanità primitiva, ignara
della verità ma animata da illusioni e passioni; il
prevalere della ragione in età moderna aveva inaridito le
facoltà vitali e introdotto, con l'egoismo, la noia, il
vuoto e la nullità del mondo. Su questa tematica e le sue
articolazioni nello Zibaldone ruotano le canzoni degli anni
1820-22. In Ad Angelo Mai, quand'ebbe trovato i libri di Cicerone
della Repubblica (1820), l'impegno civile illustra la frattura fra
passato e presente con un motivo foscoliano, la rassegna dei
grandi italiani (da Dante ad Alfieri), testimoni di una
realtà decaduta nell'attuale squallore. La condanna del
"secol morto", nel ritrovato impianto parenetico delle canzoni del
1821, Nelle nozze della sorella Paolina e A un vincitore nel
pallone, addita gli esempi da seguire nella classicità: la
romana Virginia, per le donne consapevoli del ruolo di spose e di
madri; la "sudata virtude", principio di una pedagogia che,
valorizzando l'esercizio fisico e l'agonismo, educhi la
gioventù italiana alla virile abnegazione dei Greci a
Maratona. Nel Bruto minore (pure del 1821) alla delusione
dell'eroe dopo la battaglia di Filippi seguono il rinnegamento
della virtù e la denuncia della sua illusorietà, con
la scelta alfieriana e ortisiana di darsi la morte per una
passione libertaria che non sottostà a proibizioni
religiose. La nostalgia dell'età perduta si accampa nella
canzone Alla Primavera, o Delle favole antiche (1822), dove con
ricercata eleganza il L. collega i miti classici alla stagione
della piena armonia degli esseri umani con la natura, quando
quest'ultima, fantasticamente animata, non era ancora resa
estranea dall'"atra face del ver". Nello stesso anno l'Ultimo
canto di Saffo, denso di elementi ossianici e preromantici,
presentò il suicidio in termini diversi dal Bruto minore.
Lo stato d'animo che aveva portato la poetessa, priva di bellezza
e non corrisposta nell'amore per Faone, a togliersi la vita era
più teneramente dolente e ricco di sfumature. La
requisitoria contro la natura, pervasa del sentimento di
un'ingiusta esclusione, era ristretta a un caso personale
(leggibile peraltro in chiave autobiografica) ma sul punto sempre
di divenire larga considerazione dell'esistenza e del dolore
umano. L'Ultimo canto fa intravedere il ribaltamento del concetto
della natura materna. Ma la felicità primitiva ridiventa,
nello stesso 1822, oggetto di rimpianto nell'Inno ai patriarchi, o
De' principii del genere umano: grandioso affresco biblico, dove
l'idea originaria di un canto religioso (secondo un progetto di
Inni cristiani risalente al 1819) diviene rimpianto dei tempi
propizi all'"umana stirpe" e polemica verso i moderni, che in nome
di una pretestuosa missione civilizzatrice esportano la propria
infelicità presso popoli che vivono nella beata
inconsapevolezza voluta dalla "saggia natura".
Per quanto esposta a dubbi fin dal 1819, la concezione positiva
della natura resisté nel L. finché ritenne che
l'umana sofferenza nascesse alla fine dell'antichità, con
l'avvento della ragione e del vero. Un primo mutamento è
implicito nella "teoria del piacere", riconoscimento su basi
sensistiche (in pagine dello Zibaldone del 1820-21) del meccanismo
psicologico che, stimolando i viventi a cercare una
felicità senza limiti, li condanna alla frustrazione di un
desiderio fatalmente inappagato. Esso divenne radicale con la
scoperta del pessimismo antico, accennata nella Comparazione delle
sentenze di Bruto minore e di Teofrasto vicini a morte (1822) e
confermata nel soggiorno romano dalla lettura del Voyage du jeune
Anacharsis di J.-J. Barthélemy e di Plutarco.
L'infelicità era insita nella natura; non poteva non cadere
ogni nostalgia verso il passato.
Dal 23 nov. 1822 al maggio 1823 il L. fu a Roma presso lo zio
Antici. Le lettere ai genitori e ai fratelli testimoniano una
grande delusione; la grande città lo sgomentò e i
monumenti lo lasciarono indifferente, ma fu deluso soprattutto
dalla cultura romana, che lo accolse come filologo ed erudito. Nel
1819 aveva richiesto a Broglio il passaporto per il
Lombardo-Veneto o in alternativa per la capitale pontificia, dove
sperava di esprimere le sue inclinazioni meglio che a Recanati, ma
ora Cancellieri gli parve "un coglione, un fiume di ciarle, il
più noioso e disperante uomo della terra" (lettera a Carlo
Leopardi, 25 nov. 1822). Giudicò negativamente, con qualche
ingiustizia, la moda antiquaria e archeologica; al senso di
estraneità si accompagnava in lui solo il "piacere delle
lagrime", come dinanzi al sepolcro del Tasso (allo stesso, 15
febbr. 1823). Apprezzò invece gli intellettuali stranieri
conosciuti perlopiù attraverso J.G. Reinhold,
plenipotenziario dei Paesi Bassi: il grecista F.W. Thiersch,
professore a Monaco, suo convinto estimatore, l'archeologo C.
Bunsen, B.G. Niebuhr, ministro di Prussia, il belga A. Jacopssen.
Con un nuovo interesse per la filologia prese a catalogare i
codici greci della Barberiniana e accolse l'offerta di F. De
Romanis, editore delle Effemeridi letterarie e del Giornale
arcadico, di tradurre tutti i dialoghi di Platone. Ma il progetto
non ebbe seguito, così come cadde la speranza di ottenere
un impiego a Roma.
Il L. aveva rinunciato all'aspirazione a lungo coltivata - per la
quale chiese aiuto allo zio, a Perticari e a Mai - di una
collocazione alla Biblioteca Vaticana; la morte di Pio VII e la
sostituzione di E. Consalvi alla segreteria di Stato vanificarono
anche le promesse fatte al Niebuhr (e, dopo la partenza di questo,
a Bunsen) di sistemarlo come cancelliere del Censo, mentre
seguitò a rifiutarsi di prendere i voti in vista della
carriera ecclesiastica vagheggiata per lui da Antici. Il ritorno a
Recanati gli riservò un'ulteriore delusione. Nella
Barberiniana aveva scoperto un'orazione di Libanio, che avrebbe
voluto pubblicare, ma fu preceduto da Mai, imbattutosi nello
stesso testo in altri manoscritti; a torto o a ragione il L.
pensò a un "dispetto" personale (lettera a G. Melchiorri
del 14 luglio 1823) e interruppe i rapporti con Mai.
Con il mito della natura materna poté pensare che venisse
meno anche la condizione della poesia, travolta da una
problematica a cui più si addicevano la ragionevolezza e il
distacco della prosa. Siamo vicini alle Operette morali e al
periodo del silenzio poetico, che sarebbe terminato nel 1828.
Prima dell'interruzione la canzone Alla sua donna (1823),
deponendo la sostenuta eloquenza e gli ardimenti stilistici delle
precedenti, proclamò un'aspirazione assoluta di bellezza e
di amore e, a fronte della negatività del reale,
rivendicò la consistenza e l'autosufficienza della pura
creazione mentale, fuori da evasioni metafisiche, platoniche e
spiritualeggianti, precluse dall'abbandono (fra 1821 e 1822) della
fede religiosa. Solo nelle Operette morali, nel 1824, il L.
corresse espressamente la sua posizione sulla natura; la
correzione venne in corso d'opera con il Dialogo della Natura e di
un Islandese, affidata all'immagine mostruosa e smisurata di una
donna indifferente alla sorte delle sue creature e unica
responsabile delle loro sofferenze.
Il disegno delle Operette, risalente al 1819-20 ("Dialoghi
satirici alla maniera di Luciano": Tutte le opere, I, p. 368) era
stato avviato in abbozzi di "prosette satiriche" di cui il L.
accennò a Giordani il 4 sett. 1820 (Novella: Senofonte e
Niccolò Machiavello, Dialogo… Filosofo greco, Murco
senatore romano, popolo romano, congiurati, Dialogo di un cavallo
e un bue, Dialogo Galantuomo e mondo). Intendeva trattare in
chiave comica la corruzione morale dei moderni, anticipando
rispetto al Bruto minore il tema della virtù rinnegata e
dando risalto a un'aspra critica contro l'antropocentrismo. Le
Operette stemperarono l'aggressività in ironia sulla
presunzione degli uomini, non rassegnati alla loro infima parte
nell'universo; la brama di felicità si commisurò
alla realtà disperante del "tedio"; la distinzione fra
"esistere" e "vivere" culminò nell'individuazione di rimedi
solo negativi al supremo patimento della noia (distrazione,
ebbrezza, ricerca del pericolo, "dimenticanza di se medesimi"). Il
discorso - di volta in volta narrazione, apologo, dialogo, brano
lirico-riflessivo - si aprì con l'allegoria solenne della
Storia del genere umano, tramata di ricordi platonici;
proseguì sulla falsariga comico-realistica del modello
lucianeo (Dialogo d'Ercole e di Atlante) e con spunti paradossali
e satirici di derivazione più vicina (pariniana nel Dialogo
della Moda e della Morte; da T. Boccalini nella Proposta di premi
fatta dall'Accademia dei Sillografi e forse da Voltaire nel
Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo). Accantonata l'irrisione,
ma non la reinvenzione fantastica, affrontò il problema
della felicità e del piacere (Dialogo di Malambruno e di
Farfarello, Dialogo della Natura e di un'Anima), tornando quindi
alla maniera ironica di Luciano (Dialogo della Terra e della Luna,
La scommessa di Prometeo) prima di ritrovare le ragioni di un
fermo scetticismo verso gli illusori progressi della scienza
(Dialogo di un Fisico e di un Metafisico), come già della
tecnica. Personaggi storici, a partire dal Tasso, furono
introdotti a esemplificare gli assunti del poeta: il confronto fra
la realtà e l'immaginazione o il sogno, in rapporto alla
noia (Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare); la
scoraggiante difficoltà di conseguire la gloria
specialmente nella letteratura filosofica (Il Parini, ovvero Della
gloria); la piacevole naturalezza del trapasso dalla vita alla
morte, paragonabile a quello dalla veglia al sonno (Dialogo di
Federico Ruysch e delle sue mummie). Interrotti dalla "singolare"
filosofia socratica di un personaggio d'invenzione (Detti
memorabili di Filippo Ottonieri), gli exempla riprendono a
proposito dell'utilità del rischio per vincere la noia
dell'esistenza (Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro
Gutierrez); mentre alla remota sapienza del neoplatonico Amelio
l'Elogio degli uccelli attribuisce l'esaltazione, fra seria e
paradossale, di una vita totalmente affrancata dai pesanti
condizionamenti terreni. Alla luce della verità
antinaturalistica emersa nel frattempo nel Dialogo della Natura e
di un Islandese, il L. suggellò l'opera in senso
apocalittico accreditando fantasticamente una tradizione
cabalistica conveniente allo "spaventoso" mistero dell'esistere
(Cantico del gallo silvestre). Ma a chiudere il libro
nell'edizione del 1827 provvede il Dialogo di Timandro e di
Eleandro, per il carattere apologetico e insieme di consuntivo:
non l'odio verso i suoi simili ha ispirato le Operette, ma
l'insofferenza per ogni infingimento e la constatazione della
"infelicità necessaria di tutti i viventi", da cui discende
la scelta di rispondere con il riso ai mali comuni.
L'edizione del '27 comprese anche il Dialogo di un lettore di
umanità e di Sallustio, escluso in quella napoletana del
1835. La seconda edizione fiorentina (1834) incluse due operette
composte nel 1832 (Dialogo di un venditore d'almanacchi e di un
passeggere, Dialogo di Tristano e di un amico); invece dopo
qualche incertezza il L. risolse di non pubblicarne due del 1827
(Il Copernico, dialogo e il Dialogo di Plotino e di Porfirio): nel
1835 una stampa napoletana, che le prevedeva assieme al Frammento
apocrifo di Stratone da Lampsaco del 1825, anch'esso inedito, fu
bloccata a causa della censura.
La sofferenza umana è intrinseca a un "perpetuo circuito di
produzione e distruzione" (Tutte le opere, I, p. 117) ordinato
alla conservazione dell'universo, che solo interessa alla natura.
Il Dialogo della Natura e di un Islandese formula l'interrogativo
ultimo: a chi giova che il mondo si conservi "con danno e con
morte di tutte le cose che lo compongono"? L'assenza di risposta
rivela il punto di vista ormai seccamente antiprovvidenziale del
L.; un pessimismo "cosmico", che B. Zumbini distinse da quello
"storico" precedente, rimasto definitivo nel suo pensiero.
Il L. trasse i termini di una spiegazione scientifica e atea del
male di esistere dalla cultura settecentesca, specie sensistica;
suoi interlocutori più o meno diretti furono Rousseau,
Montesquieu, Voltaire, Condillac, Verri, Beccaria,
Helvétius, Holbach, La Mettrie. La denuncia del degrado
etico-esistenziale dei moderni divenne odio per la natura; la
commiserazione della condizione umana si unì alla negazione
del principio, sia illuministico sia cattolico-liberale, della
perfettibilità e del progresso; la vana tensione dell'uomo
al piacere esaltò la contraddizione fra la consapevolezza
che il bene autentico consiste nella morte e il tenace
attaccamento alla vita, l'istinto attraverso il quale la natura
perpetra un suo orrido inganno per assicurarsi il mantenimento
della specie.
Il materialismo meccanicistico, ribadito nel Frammento apocrifo di
Stratone da Lampsaco (1825), si accordava con l'interesse del L.
per la morale ellenistica e segnatamente stoica, durato fin verso
il 1827 e certificato dalle traduzioni di Isocrate e soprattutto
del Manuale di Epitteto. Pur credendo impossibile l'atarassia,
l'imperturbabilità stoica gli sembrò l'atteggiamento
migliore, per i moderni più che per gli antichi; se la
realtà consente solo una rassegnata accettazione, la morale
dell'astensione è scelta obbligata per un "animo forte e
grande" (la definizione è nel Parini), cosciente che ogni
pretesa di incidere sui fatti del vivere è fallace. La
polemica con il razionalismo e la indiscriminata avversione per
gli effetti dell'incivilimento trapassarono in una valutazione
più articolata. Anche se fa "strage delle illusioni", il
sollevarsi dei popoli alla cognizione della vanità delle
cose è un valore intrinseco, ancorché nel caso
italiano origini un cinico allentamento dei legami sociali: in
un'ottica, comunque, non disposta a confondere l'ingenuità
degli antichi con la "barbarie" delle superstizioni e pregiudizi
medievali, dai quali ci avrebbero liberato Rinascimento e
Illuminismo (Discorso sopra lo stato presente dei costumi
degl'Italiani, 1824 o forse 1826; Tutte le opere, I, pp. 969,
978). L'avvenuta riabilitazione della ragione illuministica, in
senso chiaramente laico e antispiritualistico (sulla linea
già dei Paralipomeni della Batracomiomachia e de La
ginestra), si associò alla più recente persuasione -
testimoniata nell'Epistola al conte Carlo Pepoli (1826), unica
eccezione (di gusto tra oraziano e pariniano) al silenzio poetico
di quegli anni - circa i "diletti" del vero: quelli della
filosofia, cui il L. pensava di dedicare "l'ingrato avanzo della
ferrea vita" (vv. 139, 152).
Nel frattempo si era data la tanto desiderata opportunità
di lasciare Recanati. Invitato dall'editore A.F. Stella a dirigere
un'edizione delle opere di Cicerone, il L. partì per Milano
nel luglio 1825, giungendovi il 30 dopo un breve soggiorno a
Bologna. Per circa due mesi fu ospite dello Stella; dal tardo
settembre al 3 nov. 1826 fu a Bologna dove, trascorsi alcuni mesi
in famiglia, tornò il 26 apr. 1827; il 20 giugno
proseguì per Firenze, dove rimase fino all'ottobre, quando
si trasferì a Pisa, attratto dal clima, fino agli inizi di
giugno del 1828. Rientrato nel capoluogo toscano, ne
ripartì nel novembre per Recanati in compagnia di V.
Gioberti, conosciuto un mese prima al Gabinetto Vieusseux.
L'incontro con Milano fu negativo. A parte il vecchio Monti, che
il L. visitò appena arrivato, la cultura milanese,
manzoniana e romantica, gli rimase estranea, così come
quella della Biblioteca italiana, che non gli era stata né
gli sarebbe stata mai amica, a partire dal direttore G. Acerbi
(l'"infame diffamato mascalzone […] che tutti predicano per spia
pubblica": lettera di P. Giordani del 31 dic. 1817). Isolato, e
pentito di avere accettato l'incarico dello Stella, dopo aver
redatto due Manifesti e la Notizia bibliografica per un'edizione
di tutte le opere di Cicerone ripartì per Bologna. Qui
intraprese per lo stesso Stella l'ingrato commento alle Rime di
Petrarca (pubblicato nel 1826), cui seguirono presso il medesimo
editore la Crestomazia italiana della prosa (1827) e la
Crestomazia italiana poetica (1828); tradusse poi, fra novembre e
dicembre del 1825, il Manuale di Epitteto. A Bologna vide la luce
anche la raccolta dei Versi (Stamperia delle Muse, 1826), che
affiancarono le dieci Canzoni edite nel 1824 nella stessa
città (per i tipi del Nobili, a spese dell'autore e con la
mediazione del Brighenti); e dove ripubblicò i sei Idilli
apparsi nel 1825 sul milanese Nuovo Ricoglitore, le due Elegie, i
Sonetti in persona di ser Pecora fiorentino beccaio, la Guerra dei
topi e delle rane (e cioè la traduzione della
Batracomiomachia già stampata nel 1816) e il
volgarizzamento della Satira di Simonide sopra le donne. Vi
stampò infine l'Epistola all'amico Pepoli, letta dal L.
nell'Accademia dei Felsinei il lunedì di Pasqua del 1826.
A Bologna il poeta si invaghì della quarantunenne contessa
fiorentina Teresa Carniani Malvezzi, colta traduttrice di Cicerone
e di A. Pope, amica di Monti; non ricambiato, ruppe presto ogni
rapporto. Nello stesso periodo svanì la speranza nel posto
di segretario della Accademia di belle arti, per il quale il
Bunsen gli aveva procurato l'appoggio del cardinale G.M. Della
Somaglia, segretario di Stato di Leone XII; stesso esito ebbe
l'aspettativa per una cattedra di eloquenza latina e greca nella
Sapienza romana o di qualche sistemazione nella Biblioteca
Vaticana. Agli ostacoli burocratici una relazione del cardinale
P.F. Galeffi a Leone XII unì riserve sul L., amico di
"persone già note per il loro non savio pensare" e che
aveva rivelato "sentimenti assai favorevoli alle nuove opinioni
morali e politiche in certe odi italiane da lui stampate" (le
Canzoni del 1824); le sue qualità avrebbero dato più
frutto nella capitale, sotto gli "occhi del Governo" (A. Giuliano,
G. L. e la Restaurazione, pp. 105-110).
Dopo il rientro a Recanati e il secondo soggiorno bolognese il L.
entrò in diretto contatto con la fiorentina Antologia.
Già nel 1824 Vieusseux lo aveva invitato a fornire alla
rivista articoli sulle "novità scientifiche e letterarie
dello Stato pontificio"; ma il poeta, oltre ad alcune sensate
osservazioni, aveva fatto presente la difficoltà per lui di
un'adeguata informazione nel "deserto" in cui viveva (lettere di
Vieusseux, 15 genn. 1824, e del L., 2 febbraio). Nel 1826,
inviandogli il numero dell'Antologia dove (su pressioni di
Giordani) erano apparse tre delle Operette morali, Vieusseux gli
aveva di nuovo prospettato una collaborazione fissa con scritti
satirici di impegno sociale, ma il L. si era detto "nella
filosofia sociale […] un vero ignorante", condannato alla
solitudine ("anche in mezzo alla conversazione, nella quale, per
dirlo all'inglese, io sono più absent di […] un cieco e
sordo") e la cui filosofia non era del "genere che si apprezza ed
è gradito in questo secolo" (lettere di Vieusseux, 1°
marzo 1826, e del L., 4 marzo). A Firenze, oltre a Vieusseux,
conobbe di persona i cattolico-liberali della sua cerchia, in
particolare G. Capponi, G. Montani, G.B. Niccolini, P. Colletta e
N. Tommaseo (che gli fu sempre ostile, forse per il giudizio
giustamente severo da lui formulato, senza conoscerne l'autore,
sui criteri dell'edizione ciceroniana elaborati per lo Stella).
Incontrò anche Manzoni e avvicinò alcuni degli esuli
napoletani allora a Firenze (C. Troya, G. e A. Poerio, P.E. e M.
Imbriani); nel 1828, tramite A. Poerio, conobbe A. Ranieri,
compagno nell'ultima parte della vita.
La permanenza a Pisa, pur turbata al termine dalla morte del
fratello Luigi (4 maggio 1828), fu di eccezionale benessere fisico
e psicologico. Il L., confortato dalla mitezza del clima, fu
finalmente a suo agio in una città di dimensioni umane: "un
misto di città grande e di città piccola, di
cittadino e di villereccio, un misto così romantico, che
non ho mai veduto altrettanto" (lettera a Paolina Leopardi, 12
nov. 1827). Pisa fu anche un luogo di relativa spensieratezza
mondana e di cordiali amicizie. Vi consolidò il legame con
lo scienziato e linguista G. Cioni, conosciuto a Firenze
nell'ambiente dell'Antologia, tramite il quale entrò in
familiarità con G. Carmignani, insigne giurista
appassionato di letteratura. Ma soprattutto divenne amico di G.
Rosini, docente di eloquenza italiana e scrittore eclettico, della
cui Monaca di Monza (composta in quel periodo) rivide poi la
forma.
L'Epistola a Pepoli annunciò le Operette morali, apparse
nel 1827 (ed. Stella); e corrispose, per l'esplicita rinuncia alla
poesia, a una decisione che il L. poté credere definitiva.
Ancora nel 1827, d'altra parte, incrementò il numero delle
prose filosofiche. Ne Il Copernico la satira dell'antropocentrismo
lasciò spazio, fra l'altro, a giocose osservazioni sul
ruolo della poesia e della filosofia, in rapporto rispettivamente
alla giovinezza e all'età matura; mentre la ripresa del
tema del suicidio, nel Dialogo di Plotino e di Porfirio, se fu
occasione di ampliare (e rafforzare) la visuale del Bruto minore,
accolse anche motivazioni sentimentali che, connesse con il "senso
dell'animo" che ci sollecita a perseverare nella vita, militano
contro l'"atto fiero e inumano", egoisticamente dimentico del
dolore provocato in amici e parenti. Sulla poesia, però, il
L. continuava a riflettere, affermando nel 1826 il primato della
lirica ("espressione libera e schietta di qualunque affetto vivo e
ben sentito": Zibaldone, 4234), in sintonia con ragioni teoriche
che, riassunte nel titolo Canti, informano specialmente i
componimenti pisano-recanatesi del 1828-30. A parte la
constatazione semiseria di quanto poco conti il lavoro di lima per
uno scrittore moderno (Scherzo, 1828), il ritorno alla poesia -
confidato alla sorella Paolina in una lettera da Pisa del 2 maggio
1828 ("ho fatto dei versi quest'aprile; ma versi veramente
all'antica […]") - è fatto coincidere con la rinascita del
cuore, la rinnovata capacità di sentire, su cui insiste Il
Risorgimento (1828) nelle agili movenze di una canzonetta arcadica
modellata su Il brindisi di Parini. La recuperata vitalità
e reattività affettiva non riaccende la speranza,
perché coesiste con l'"infausta verità" sempre
immanente. La fine della capacità di sognare e sperare,
all'"apparir del vero", si fissò poi nella figura di una
giovane morta precocemente, nel gioco fra ricordo autobiografico e
trasposizione simbolica. In A Silvia (1828) riemergono gesti e
pensieri della giovinezza, restituendo al poeta - nel metro di una
canzone libera, affabilmente discorsiva - il calore della loro
beata, virginale inesperienza, drammaticamente confrontata con la
scoperta degli inganni della natura. Su un'altra delicata immagine
femminile, Nerina, si condensa la tensione memoriale negli
endecasillabi sciolti de Le ricordanze (1829): nella piacevolezza
e anzi dolcezza del ricordare (indipendenti dai ricordi in se
stessi), consistenti nell'illusione di rinverdire la fiducia nel
futuro propria della fanciullezza, irrompono "il pensier del
presente", la certezza dell'irrevocabilità del passato, la
straziata percezione del finito per sempre, che trasformano il
"dolce rimembrar" in "rimembranza acerba". Alle esperienze
personali il L. continuerà ad attingere nei canti seguenti,
riproducendo scene di vita borghigiana, evidentemente recanatese,
a cui si collegano - nella struttura della canzone libera,
bipartita fra un momento descrittivo e uno ragionativo -
inconfutabili verità: il carattere solo negativo del
piacere, sensisticamente inteso come privazione del dolore (La
quiete dopo la tempesta, 1829); e, ancora, l'illusorietà
della speranza, esemplificata nell'aspettativa del giorno festivo,
posta a confronto con la "tristezza e noia" che questo
puntualmente arreca (Il sabato del villaggio, 1829). Deposta la
materia autobiografica e la connessa poetica della ricordanza, nel
Canto notturno di un pastore errante dell'Asia (1829-30) il L.
ritrova il proprio pessimismo radicale, che chiude una lunga
elaborazione lirico-concettuale, tesa a imprimere nelle strofe
libere (o lasse, propriamente) i segni di una sapienza remota,
collocata fuori di un tempo determinato e di uno spazio
circoscritto.
Dedicando la prima edizione dei Canti (ed. G. Piatti, Firenze
1831) agli "amici suoi di Toscana" il L. sciolse un debito di
gratitudine per la generosa iniziativa che gli aveva consentito di
vivere per un anno a Firenze a loro spese e si accomiatò
"dalle lettere e dagli studi", compromessi dalle peggiorate
condizioni fisiche, nella prospettiva di ripiombare peraltro
nell'inferno recanatese (Tutte le opere, I, p. 53). Ma a Recanati
non tornò più. Al seguito di Ranieri si aprì
il travagliato periodo conclusivo di un'esistenza afflitta dalle
difficoltà economiche oltre che dallo stato di salute, che
lo vide diviso tra Firenze e Roma e poi a Napoli, dal 1833 alla
morte.
Dalla fine del 1828 alla primavera del 1830 era tornato a
sperimentare la costrizione di una vita alla quale pareva
impossibile sottrarsi. Venuto meno il compenso pattuito con lo
Stella ed escluso il ricorso all'aiuto paterno, per lasciare
Recanati gli occorreva un lavoro compatibile con le precarie
condizioni fisiche, l'ufficio pubblico che non aveva ottenuto
né nello Stato pontificio, "dove ogni cosa è per li
preti e i frati", né fuori, dove "un forestiero" non aveva
"speranza d'impieghi" (lettera a P. Colletta, 16 genn. 1829).
Andati a vuoto ripetuti tentativi di Bunsen, compresa
l'eventualità - frustrata nel 1826 dalle solite ragioni di
salute - di una cattedra di letteratura italiana a Berlino o a
Bonn, non rimase al L. che sperare nell'aiuto degli amici. Nel
1829 F. Maestri, genero del medico e scienziato G. Tommasini,
conosciuto a Bologna, cercò di sistemarlo
nell'Università di Parma come insegnante di storia
naturale; Colletta ipotizzò un insegnamento a Livorno,
nell'ateneo di cui riteneva prossima l'apertura; Giordani,
sconsigliandogli per il clima l'offerta parmense, del resto presto
sfumata, insisté con Vieusseux su un trasferimento a
Firenze. E proprio alla volta di Firenze, accettando - dopo che
alle Operette morali non andò il premio di 1000 scudi
bandito dall'Accademia della Crusca (vinto dalla Storia d'Italia
di C. Botta: il L. ebbe forse l'appoggio del solo Capponi) - un
sussidio mensile per un anno offertogli da Colletta a nome di un
gruppo di "amici", il L. partì da Recanati il 29 apr. 1830;
vi giunse il 10 maggio, dopo una breve sosta a Bologna.
Nell'estate A. Poerio lo presentò a Fanny Targioni Tozzetti
nata Ronchivecchi, donna in vista nella società fiorentina,
assai probabile ispiratrice dei canti del cosiddetto "ciclo di
Aspasia"; strinse inoltre amicizia con il filologo svizzero L. de
Sinner e dette inizio al settennale sodalizio con Ranieri, che
vorrà farsene memorialista in un infelice scritto
pubblicato nel 1880.
Il 20 marzo 1831 il L. fu nominato rappresentante di Recanati
nell'Assemblea convocata dal governo provvisorio delle Provincie
unite a Bologna, ma il mandato fu vanificato dal ritorno degli
Austriaci. Apparve intanto la prima edizione dei Canti, accolti
con freddezza da Colletta per la loro "medesima eterna, ormai non
sopportabile, melanconia" (Lettere di G. Capponi e di altri a lui,
I, Firenze 1884, pp. 331 s.). Nell'ottobre lasciò Firenze
per Roma con Ranieri, che voleva raggiungere un'attrice sua
amante, l'ungherese Maria Maddalena Signorini di Pelzet. Tornato a
Firenze nel marzo del 1832, in una lettera al Vieusseux pubblicata
nell'Antologia smentì la paternità degli anonimi
Dialoghetti sulle materie correnti nell'anno 1831 ("quei sozzi,
fanatici dialogacci": lettera a G. Melchiorri, 15 magg. 1832).
Infine il 2 sett. 1833 partì con Ranieri per Napoli, dove
giunse il 2 ottobre dopo una sosta a Roma. Anche Napoli
finì per deluderlo. I cattolico-liberali della rivista Il
Progresso (fondata nel 1832 e diretta da G. Ricciardi sulla linea
dell'Antologia, nel frattempo soppressa) gli furono subito ostili,
respingendone l'ideologia pessimistica e materialistica.
Già prima del suo arrivo C. Dalbono lo aveva escluso da una
rassegna della poesia lirica contemporanea; altrettanto fece
Matteo Baldacchini, malgrado la simpatia personale di cui
darà prova in alcuni versi a lui dedicati; R. Liberatore
uscì invece allo scoperto, mettendo a confronto l'Inno ai
patriarchi con quello omonimo di T. Mamiani ed esprimendo la sua
preferenza per l'autore degli Inni sacri (destinato, certo non
casualmente, a esemplificare ne La ginestra l'insulso ottimismo
degli spiritualisti). Gli umori antileopardiani, testimoniati nel
1836 da una lettera di A. Poerio - di recente rientrato a Napoli -
a Tommaseo, rifluiscono in scritti di S. Baldacchini, come la
novella in versi Claudio Vanini e soprattutto il saggio Del fine
immediato d'ogni poesia (1836). S. Baldacchini (fratello di
Matteo), amico di C. Troya e anticipatore di ideali neoguelfi, nel
proprio modello culturale commisto di platonismo cristiano e
vichismo, segnato da gusto antiromantico e segnatamente
antibyroniano, tracciava una linea maestra della nostra
letteratura moderna che da Parini, Alfieri e Monti giungeva al
culmine con Manzoni, lasciando fuori Foscolo e il Leopardi. La
solitudine intellettuale del poeta non fu risarcita dalle rare
manifestazioni di simpatia, come quelle di A. von Platen, autore
nel suo diario di un indimenticabile ritratto leopardiano, o di T.
Gargallo, umanamente solidale dinanzi alle reazioni negative a
Napoli alla II edizione dei Canti (ed. S. Starita, 1835). Una
calorosa pubblica dichiarazione di stima di F. Fuoco non fu
raccolta, e assolutamente episodica restò la buona
accoglienza ricevuta nella visita alla scuola di B. Puoti,
rievocata da De Sanctis ne La giovinezza. La delusione del L. fu
accentuata dalla forzata rinuncia a stampare le proprie opere con
il libraio Starita. Alla nuova edizione delle poesie (estesa al
cosiddetto ciclo di Aspasia, al dittico delle "sepolcrali" e alla
Palinodia al marchese Gino Capponi, oltre a Il passero solitario)
sarebbe dovuta seguire una terza edizione in due volumi delle
Operette morali (con l'inclusione del Copernico, del Dialogo di
Plotino e di Porfirio e del Frammento apocrifo di Stratone da
Lampsaco). Ma il progetto, che prevedeva altri tre e forse quattro
volumi di scritti pubblicati sparsamente o ancora inediti, come i
Pensieri, fu interrotto dall'intervento della censura ("La mia
filosofia è dispiaciuta ai preti, i quali e qui ed in tutto
il mondo, sotto un nome o sotto un altro, possono ancora e
potranno eternamente tutto": lettera a L. de Sinner, 22 dic.
1836).
A smentire presto il congedo dalla letteratura nella dedica agli
"amici suoi di Toscana" avrebbero provveduto i canti del ciclo di
Aspasia, legati all'amore per la Targioni Tozzetti: espressione di
una poetica che, lasciata alle spalle l'esperienza
pisano-recanatese, fece leva sulla recente lettura della lirica
predantesca - Cavalcanti oltre a Dante e a Petrarca (D. De
Robertis) - alla luce di una rinnovata sperimentazione stilistica
e di un atteggiamento energicamente contestativo che segna
l'intero ultimo tempo della poesia leopardiana.
Il ciclo di Aspasia ricostruì - in strofe libere di
endecasillabi sciolti - le fasi della passione per Fanny: dallo
"stupendo incanto" dell'animo che si inebria del sentimento
amoroso, pur conoscendone la natura illusoria, fino a dimenticare
"tutto quanto il ver" (Il pensiero dominante, forse 1831); al
desiderio di morire, imparentato al "fier desio" dell'amore in
quanto promessa di pace nella consapevolezza della vanità
delle cose (Amore e Morte, forse 1832); all'oggettivazione della
propria avventura sentimentale, nelle linee di una patetica
proiezione narrativa (Consalvo, forse 1832); al disinganno
conclusivo, esteso dalla vicenda personale alla certezza della
negatività del vivere (A se stesso, forse 1833); all'acre
sfogo misogino che, tornando sul tema svolto in Alla sua donna,
contrappone alla passione esaurita l'intatta verità
dell'idealizzata immagine femminile (Aspasia, forse 1834).
Il disprezzo dell'età presente e dei suoi miti
utilitaristici, congiunto al coraggio di guardare in faccia la
realtà nella serena attesa della morte, è il tratto
saliente dell'immagine di se stesso che L. ora propose.
Un'immagine alleggerita nella controfigura affabilmente ironica
del Dialogo di un venditore d'almanacchi e di un passeggere
(1832), ma ricondotta, sempre nel 1832, al ben altrimenti grave
Dialogo di Tristano e di un amico, sunto estremo del suo
pessimismo. Qui la finale implorazione della morte scioglie la
finzione palinodica cui è consegnata la polemica contro la
cultura imperante, che emarginando il poeta lo isola negli
interrogativi la cui sola risposta, nelle canzoni "sepolcrali",
è la rinnovata denuncia della crudele illogicità
della natura (Sopra un basso rilievo sepolcrale, dove una giovane
morta è rappresentata in atto di partire, accommiatandosi
dai suoi; Sopra il ritratto di una bella donna scolpita nel
monumento sepolcrale della medesima: 1834-35). Ancora a una finta
ritrattazione affidò dal 1830 la ferma polemica con
l'ottimismo spiritualistico dei cattolico-liberali toscani e
napoletani. Negli endecasillabi sciolti della Palinodia al
marchese Gino Capponi (1835) il L. dette fondo alle ragioni del
suo materialismo e laicismo, rovesciando il mito di una virgiliana
età dell'oro e ribadendo, in un probabile cenno a Tommaseo,
l'intento di sfidare l'impopolarità con un atteggiamento
radicalmente negativo, impermeabile a mode, alle suggestioni del
progresso tecnico-scientifico e a ogni soluzione religiosa. Il suo
sentimento verso il destino, aveva confidato a L. de Sinner,
sarebbe rimasto quello del Bruto minore: alieno dal cercare
conforto in una pretesa felicità futura e ancorato ai
risultati di una "philosophie désespérante" (la
stessa invocata nel Tristano), che chiedeva ai lettori di
discutere nei suoi fondamenti razionali, astenendosi da
spiegazioni riduttive, biografiche e psicologiche (lettera del 24
maggio 1832). Nell'emblema de Il passero solitario, scritto
verosimilmente dopo il 1831 - forse a Firenze o forse a Napoli, in
prossimità dell'edizione Starita - ma risalente a uno
spunto più antico, addirittura del 1819, ritrasse la
condizione innaturale di una giovinezza schiacciata dalla
consapevolezza del futuro. La retrodatazione del testo alla
stagione idillica dissimulava l'anacronismo tecnico (il metro
della canzone libera, di là da venire), accreditando uno
stato d'animo anticipatamente senile, sordo ai richiami della
natura e delle illusioni. Al dramma dell'incomprensione e
dell'alterità dal resto degli uomini, che l'afflisse in
particolare negli anni napoletani, il poeta tentò di
reagire con l'arma della caricatura nel capitolo bernesco I nuovi
credenti (1835-36), escluso dai Canti, e con quella della satira
nei Paralipomeni della Batracomiomachia, il "libro terribile"
(Gioberti) composto in otto canti fra il 1831 e il 1836, sul
modello degli Animali parlanti di G. Casti: documento di un
ostinato razionalismo che dagli obiettivi immediati dell'allegoria
politica (la vacuità dei topi liberali, a fronte delle rane
legittimiste e all'ottuso dispotismo degli Austriaci, raffigurati
dai granchi) giunge a una larga e aspra diagnosi comica delle
deformazioni mentali - soprattutto le mistificazioni
dell'ottimismo progressista e dello spiritualismo - che si
frappongono alla conoscenza del vero. Sul registro dell'aforisma e
della prosa morale il L. redasse infine fra 1832 e 1836 i
centoundici Pensieri "sur les caractères des hommes et sur
leur conduite dans la Société" (lettera a Sinner, 2
marzo 1837). Il materiale, ricavato in buona parte dallo
Zibaldone, restituiva una riflessione oscillante fra la pensosa
severità della critica di costume e la più
distaccata ironia di chi osserva, sulla scena del mondo, i
meccanismi che presiedono ai comportamenti degli individui. Il L.
ne smascherava l'orgoglio e la vanità, la tendenza alla
sopraffazione inseparabile dalla proterva ricerca dell'utile
personale, e quindi la congenita asocialità riconoscibile,
ancorché dissimulata, negli esseri umani. La spinta di una
collaudata vocazione alla scrittura satirica (dalle "prosette" del
1820 ai Paralipomeni, attraverso la scattante incisività di
"detti memorabili" al modo dell'Ottonieri), esaltava i contrasti
fra il dire e il fare, le situazioni oggettivamente paradossali
prodotte dall'impostura o dall'autoinganno.
Nell'aprile del 1836, per sfuggire al colera imperversante a
Napoli, il poeta si rifugiò con Ranieri nella villa di un
cognato di questo, G. Ferrigni, alle pendici del Vesuvio, fra
Torre del Greco e Torre Annunziata.
Vi scrisse gli ultimi canti, La ginestra o Il fiore del deserto e
Il tramonto della luna, che volle includere nel libro maggiore -
riedito postumo nel 1845 - ma in ordine inverso. Nella poderosa
tessitura logico-fantastica e simbolica de La ginestra, accanto al
tema centrale dell'ostilità della natura, ritrovò i
motivi della polemica contro l'antropocentrismo e il sarcasmo
verso le "superbe fole" (v. 154) consolatorie di un risarcimento
ultraterreno. All'ottimismo dei cattolico-liberali continuò
a contrapporre il vero laico del materialismo e dell'Illuminismo,
pur esente dall'illusione del progresso e sulla scorta della
cognizione che la feroce legge naturale permette ai viventi solo
di fronteggiare solidalmente; era così recuperata l'urgenza
del patto sociale. Questo il messaggio della Ginestra, provvisto
del rigore logico di un teorema, di qua da istanze o presagi
etico-politici (il socialismo di cui avrebbe parlato G. Carducci;
lo Stato scientifico o la Società delle nazioni invocati da
L. Salvatorelli). Il L. lo inscriveva in una utopia
filosofico-morale di conversione dell'umanità al vero: la
coscienza del negativo, innervata di memoria storica e
dall'esperienza concreta dell'effimero, segnava il discrimine fra
la rassegnazione e l'atteggiamento, simboleggiato dalla ginestra,
di virile opposizione al male di vivere. La ginestra, come vide
l'autore, era il naturale punto di arrivo dei Canti, anche se
l'itinerario era suscettibile - come dimostrò Il tramonto
della luna - di ulteriori riprese e scavi.
Di ritorno a Napoli, il L. vi morì dopo qualche mese, il 14
giugno 1837, amorevolmente assistito da Ranieri e da una sorella
di questo, Paolina. Il corpo, sottratto dall'amico alla fossa
comune cui erano destinate le vittime dell'epidemia, fu tumulato
nella chiesa di S. Vitale sulla via di Pozzuoli. Sulla tomba una
lapide, dettata da Giordani, ne celebrò la grandezza di
filologo, di "scrittore di filosofia" e di poeta "da paragonare
solamente coi greci". Nel 1939 i resti furono trasferiti presso la
cosiddetta tomba di Virgilio, nel parco di Piedigrotta.