ALGAROTTI, Francesco.
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Scrittore italiano (Venezia 1712-Pisa 1764).
Nato da ricca famiglia dedita al commercio, ricevette un'educazione
umanistica e insieme scientifica. A Bologna, dove aveva avuto come
maestri E. Manfredi e F. Zanotti, concepì il Newtonianismo per le dame,
condotto a termine a Parigi nel 1733 e stampato a Milano nel 1737, dopo
anni di viaggio in patria e in Europa: in questo celebre dialogo,
Algarotti divulgò in forma limpida e spigliata le teorie newtoniane,
ispirandosi alle Conversazioni sulla pluralità dei mondi di Fontenelle.
Tornato in Francia e in Inghilterra, nel 1739 raggiunse, attraverso il
Baltico, Pietroburgo: di questo viaggio tracciò una relazione nelle sei
lettere dei Viaggi di Russia, alle quali, nel 1750, ospite di Federico
II a Potsdam, ne aggiunse altre quattro, relative al ritorno e al
soggiorno in Sassonia. Brevi e piacevoli, tali lettere conciliano gli
indugi di un prosatore raffinato con le curiosità di un osservatore
malizioso e spregiudicato dei costumi contemporanei.
Del 1744 sono le
nove Lettere sulla traduzione dell'Eneide del Caro, il più
significativo dei suoi saggi letterari; ma altrettanto indicativi della
sua intelligenza critica sono il Saggio sopra la necessità di scrivere
nella propria lingua (1750), quello Sopra l'opera in musica (1755), in
cui precorre la riforma del melodramma di Glück auspicando un'opera in
cui vi fosse armonia ed equilibrio tra musica e poesia, recitativo,
danza e apparato scenico, quello Sopra l'architettura (1753), in
polemica con le tesi antibarocche di Lodoli propugnanti il
funzionalismo architettonico, e, per i precorrimenti del gusto
neoclassico, il Saggio sopra la pittura (1756).
La critica moderna ha
riconosciuto in questa attività di saggista di Algarotti il momento più
alto della sua vita di garbato divulgatore, di intelligente mediatore,
di scrittore cosmopolita, preoccupato del rapporto tra la cultura
europea e quella italiana, prudente partecipe del clima illuministico.
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DBI
di Ettore Bonora
Nacque a Venezia l'11 dic. 1712 da Rocco, facoltoso mercante, e da
Maria Mercati. Dopo aver fatto i primi studi nella città nativa, fu per
un anno a Roma al Collegio Nazareno, e a tredici anni tornò a Venezia
dove ebbe primo maestro di greco Carlo Lodoli. Mortogli l'anno seguente
il padre, passò a Bologna e in quella città il suo gusto e la sua
cultura ricevettero un impulso decisivo, tanto che, pur tra le varie
esperienze europee attraverso le quali doveva passare negli anni
maturi, egli poté restare a lungo fedele agli insegnamenti ricevuti
durante i sei anni che studiò in quella città e serbare un sentimento
di grata amicizia per quelli che allora gli furono maestri: E. Manfredi
e F. M. Zanotti. A Bologna nei primi decenni del sec. XVIII al
classicismo pittorico della scuola di Guido Reni e del Guercino faceva
riscontro l'elegante e consapevole classicismo di letterati arcadi e di
poeti petrarchisti, ma i maestri più autorevoli di letteratura erano al
tempo stesso scienziati insigni, non solo il Manfredi e lo Zanotti, ma
anche I. B. Beccari, che indirizzò l'A. agli studi di fisica
sperimentale e di medicina, per non dire di coloro che per età furono
più compagni di studio che maestri del nostro scrittore: L. M. A.
Caldani, valente studioso di anatomia e fisiologia, ed E. Zanotti,
successore poi del Manfredi.
Negli Atti dell'Istituto bolognese l'A.
pubblicò le sue prime memorie di astronomia; ma dell'adesione alla
scienza newtoniana, considerata a Bologna quale diretta continuatrice
della corrente galileiana, dava anche prova componendo in latino una
dissertazione sull'ottica newtoniana a confutazione del De luminis
affectionibus di G. Rizzetti e stendendo nel 1729 il Saggio sopra la
durata de' regni de' re di Roma, nel quale applicava alla storia "il
sistema cronologico del Neutono". Né dall'insegnamento bolognese si
allontanò quando, per dedicarsi allo studio del greco, andò per alcuni
mesi a Padova alla scuola del Lazarini e passò poi a Firenze a quella
di A. M. Ricci, ché anzi quegli studi valsero ad approfondire il gusto
classicheggiante e ad arricchire la sua stessa rimeria arcadica di
ricercatezze linguistiche che troveranno svolgimento ben più ardito,
negli scrittori neoclassici.
A Bologna fu anche concepita e abbozzata l'opera che per prima assicurò
rinomanza allo scrittore: il Newtonianismo per le dame. Continuata durante un breve soggiorno romano, questa fu terminata a
Parigi, dove l'A. si trasferì nell'autunno del 1733, e fu più volte
ripresa, corretta, perfezionata, non solo nel titolo - Dialoghi sopra
l'ottica newtoniana, meno brillante ma più preciso -, ma nel contenuto
(fu poi aggiunto un nuovo dialogo) e nello stile. Serio, nonostante la
apparenza di mondanità e galanteria, era il proposito dell'autore nei
dialoghi che intreccia con la bella marchesa per convertirla dalle
fantastiche opinioni cartesiane alle verità positive dell'ottica
newtoniana; né si deve discorrere di una infatuazione per le cose
d'oltralpe, se nel Newton si riconosceva il vero continuatore della
scienza fondata dal Galilei, il primo filosofo moderno.
Sui veri limiti
dell'operetta ben c'informa invece un giudizio di Voltaire. Questi
aveva conosciuto e apprezzato l'A. nel suo soggiorno parigino, mentre
egli stesso attendeva con Mine du Châtelet agli studi di fisica e
scienze naturali e veniva preparando i suoi Eléments de la philosophie
de Newton; poté anzi conoscere i Dialoghi via via che erano composti. Ma
quando essi furono pubblicati, e il filosofo ebbe dato alle stampe i
suoi Eléments, in una lettera al Thieriot del giugno del 1738 così
precisava il suo parere: "Il poco che leggo del suo libro di corsa, mi
conferma nella mia opinione. È press'a poco in italiano l'equivalente
della Pluralità dei mondi in francese. L'aria di copia domina troppo; e
il grosso guaio è che vi è molto spirito inutile. L'opera non è più
profonda della Pluralità dei mondi...Credo che vi sia più verità in
dieci pagine dei miei Elementi che in tutto il su0 libro".
Ed era
veramente così; perché gli Eléments volteriani venivano dopo le acute e
corrosive Lettres philosophiques;i Dialoghi segnavano piuttosto lo
spostamento dall'Arcadia dei poeti a quell'. Arcadia di filosofia, che
stava tuttavia al di là del vero e proprio illuminismo e dalla quale
l'A. non si allontanò nemmeno in altri scritti scientifici posteriori:
il dialogo Caritea "in cui si spiega come da noi si veggano diritti gli
oggetti, che nell'occhio si dipingono capovolti", e il Saggio sopra il
Cartesio (1754), nel quale, riconosciuti i meriti della geometria
cartesiana, di nuovo erano discussi i limiti del razionalismo e la sua
importanza storica.
Tuttavia la fama dell'A. era assicurata: già nel 1735 a Parigi il
Maupertuis l'aveva invitato ad accompagnarlo nella spedizione che
intraprendeva per determinare sperimentalmente la depressione dei poli;
ma preso dalla stesura del Neutonianismo egli rifiutò l'invito. Quando
poi ebbe terminata la sua opera, compì un primo viaggio in Inghilterra,
dove soggiornò sei mesi e approfondì lo studio dell'inglese già
iniziato in Italia ed ebbe consigli ed aiuti da Lady Montagu e da Lord
Hervey. Là conobbe anche il Pope e visitò la nipote ed erede del grande
Newton, la Conwitt. Tornato quindi in Italia, stette a Bologna, a
Venezia, e infine a Milano, dove curò la prima edizione del
Neutonianismo (1737); poi passò in Francia e di nuovo in Inghilterra
nel 1738: qui l'anno seguente s'imbarcò sulla galea "The Augusta" di
Lord Baltimore, che il 21 maggio salpava da Gravesend alla volta del
Baltico. La relazione di quel viaggio l'A. lasciò scritta nei Viaggi di
Russia,composti in forma di lettere indirizzate a Lord Hervey.
Il giornale della navigazione nel Mare del Nord, con le notizie
sull'Olanda, la Danimarca, le coste svedesi sino all'ingresso nel
Baltico, è contenuto nelle prime due lettere datate rispettivamente da
Helsingör e da Reval. La terza lettera, da Cronstadt, mentre informa
ancora della navigazione nel Baltico, porta già all'argomento specifico
dei Viaggi: l'esame della struttura militare, politica ed economica
dell'impero russo, che dai tempi dello zar Pietro il Grande era
divenuto un tema interessante per la società colta europea.
Già
dall'attenzione che il Seicento rivolse alla politica contemporanea era
venuto lo stimolo ad occuparsi della storia russa, e a una Storia della
Moscovia s'era accinto Tommaso Tomasi, che rinunziò a portarla a
termine quando apparve la storia romanzesca di M. Bisaccioni, Il
Demetrio Moscovita. Ma l'A., fedele interprete degli spiriti del suo
tempo, fece si buona parte alla trattazione della politica russa
(l'intera lettera settima e parte dell'ottava sono una relazione sulla
guerra russo-turca degli anni 1736-39), ma soprattutto indugiò sugli
aspetti della geografia, del costume, dell'economia. Nè egli poteva
ambire a dare un'opera sistematica sulla Russia contemporanea, anche
perché, non essendosi spinto oltre Pietroburgo, solo in parte descrisse
cose viste, e molto riferì di ciò che era venuto a sapere da letture e
informazioni indirette. Il che non toglie, anzi aggiunge al tono da
"inviato speciale" che hanno le pagine del libretto, sia dove si
illustravano i grandi progressi compiuti dai Russi per l'opera
riformatrice degli ultimi zar, e le grandi riserve di ricchezze
naturali del paese le quali facevano anche più stridente il suo stato
di arretratezza rispetto all'Occidente, sia dove si dava conto dì
quello che di più pittoresco era nei Tatari e in altre popolazioni
selvagge, non senza secondare anche in questo l'interesse proprio della
cultura settecentesca per i popoli d'Oriente e in genere per i
primitivi. La mancanza di vera organicità consentì poi allo scrittore
di aggiungere alle otto lettere scritte nel 1739 altre quattro stese
fra il 1750 e il 1751 e indirizzate a S. Maffei per discorrere del
tentativo dell'Elton di stabilire un monopolio inglese nel commercio
del Caspio e, avendo accennato alla configurazione di quel mare, per
rivedere le opinioni degli scienziati sulla sua progressiva tendenza
all'aumento del livello.
Fu nel ritorno da Pietroburgo per la via di Danzica, Dresda, Berlino,
che l'A. conobbe a Reinsberg il principe ereditario di Prussia, il
futuro Federico II, il quale l'anno seguente, incoronato re, lo invitò
alla sua corte e lo tenne presso di sé dal 1740 al 1742, impiegandolo
anche in un importante incarico diplomatico presso il re di Sardegna
quando occupò il territorio della Slesia (1741). Dal 1742 al 1746
stette presso l'elettore di Sassonia, Augusto III, col titolo di
consigliere di guerra, e ricevette l'incarico di raccogliere in Italia
opere d'arte per la Galleria di Dresda: per questa mansione, che gli
valse la deplorazione di suoi contemporanei, soggiornò ancora in Italia
e più a lungo a Venezia nel 1744, acquistando dai privati quei quadri,
dei quali lasciò poi l'elenco nella lettera a Giovanni Manette del 13
febbr. 1751.
Importa però notare che nemmeno quello di collezionista di opere d'arte
fu un episodio senza addentellati precisi con gli interessi culturali
dell'A., il quale anzi entra a buon diritto nel novero dei critici
d'arte settecenteschi per i suoi scritti sulle arti figurative e per le
Lettere sopra la pittura e le Lettere sopra l'architettura che già
nella prima edizione delle Opere costituirono un Volume nutrito - il
sesto -, e, soprattutto, per i due trattati Sopra l'architettura (1756)e
Sopra la pittura (1762).
Nel primo egli riprendeva le idee del suo maestro Lodoli, che contro il
gusto barocco aveva difeso il principio di un funzionalismo puro
nell'architettura, e temperandole e correggendole in parte dava la
misura di quello che fu il gusto non solo suo ma del suo tempo. Più
importante tuttavia resta il Saggio sopra la pittura, nel quale, mentre
tendeva ad accomunare l'intento pedagogico d'un trattato istituzionale
sui vari requisiti necessari all'educazione d'un buon pittore e quello
critico delle discussioni sull'essenza della pittura, illustrava il suo
gusto nelle arti figurative, gusto sostanzialmente classicheggiante,
avverso al manierismo e disposto ad accettare con largo eclettismo
tutta la migliore tradizione della pittura moderna da Raffaello a
Rembrandt e a Poussin. L'A. restava così sulla linea fissata dai
maggiori trattatisti del secolo precedente, il Baldinucci e, sopra
tutti, il Bellori; ma l'originalità e il pregio maggiore del Saggio
consistono nella più chiara impostazione del problema estetico, perché
dal ripensamento dei trattatisti antichi e rinascimentali di poesia e
dai loro paralleli tra poesia ed arti figurative lo scrittore fu
portato a risalire ai principî aristotelici, alla distinzione tra il
vero della storia e il venisimile dell'arte, e ad affermare per la
pittura il principio dell'imitazione ideale che "è più filosofica, più
instruttiva, e più bella della storia". I due trattati sono del resto
posteriori ai più impegnati scritti di critica letteraria del nostro
autore.
Proprio del 1744 è il più significativo tra i saggi dell'A. critico: le
nove Lettere sulla traduzione dell'Eneide del Caro (il titolo originale
è Lettere di Polianzio ad Ermogene intorno alla traduzione dell'Eneide
del Caro), nelle quali non si dà solo un registro dei veri e propri
errori del Caro traduttore, ma se ne caratterizza acutamente lo stile,
più conforme al genio di Ovidio e di Lucano che non a quello di
Virgilio, per le tendenze proprie del secondo Cinquecento.
Se è vero infatti che l'idea della poesia virgiliana che ebbe l'A. fu
tale da fargli scorgere nel classicismo di Virgilio castità e purezza
non disgiunte da vigore e robustezza, ma anche una specie di eleganza
levigata tutta settecentesca (non per nulla nelle Lettere è lodata la
versione delle Georgiche del Frugoni), e perciò la critica al Caro
trova un suo limite nel gusto arcadico del nostro autore, l'A. ebbe
tuttavia il merito di non limitarsi a pedanteschi riscontri: egli seppe
anzi porsi il problema del vero pregio dell'arte del Caro e della
possibilità di tradurre testi di poesia, per riconoscere nel letterato
marchigiano il migliore traduttore di Virgilio e dichiarare la sua
versione inferiore solo a quella del Dryden, di quel Dryden dal quale,
come da un altro scrittore inglese, il conte di Roscommon autore
dell'Essay on translated Verse,egli toglieva con intelligenza i
concetti sui limiti e i doveri dei traduttori.
Nel 1746 l'A. tornò alla corte di Federico II, il quale lo nominò suo
ciambellano, lo elesse cavaliere dell'Ordine del Merito con una
cospicua pensione annua e gli conferì il titolo di conte col diritto di
trasmetterlo ai suoi eredi. Salvo l'interruzione d'un lungo soggiorno
in Italia nel 1749 e di un altro a Dresda, sette anni rimase alla corte
del re di Prussia. Là dal commercio con scienziati e uomini di lettere
e dalla rinnovata amicizia col Voltaire ebbe incentivi a scrivere nuovi
saggi e a raccogliere idee e spunti per altri che doveva scrivere più
tardi, seguendo un eclettismo in parte dilettantesco, ma anche
informandosi a un'idea della necessità d'affiatare la cultura italiana
con quella straniera che non fu il frutto di sprovveduta infatuazione
per le cose di Francia e d'Inghilterra, ma pure consapevolezza del
nuovo dialogo che doveva aprirsi tra le varie culture nazionali. É a
questo proposito significativa l'Epistola in versi indirizzata appunto
nel 1746 a Voltaire, nella quale vanno colti accenti non del tutto
retorici sulla decadenza italiana e l'augurio di un prossimo
rinnovamento.
Come intendesse la possibilità d'una rinascita culturale è detto meglio
nella lettera allo stesso Voltaire del 10 dic. 1746, nella quale e
l'ammirazione per Parigi e l'esperienza della vita di corte gli
suggerivano, contro il frazionamento provinciale della cultura
italiana, l'idea che "la vera accademia è una capitale, dove i comodi
della vita, i piaceri, la fortuna vi chiamino da ogni provincia il
fiore di una gran nazione, dove otto in novecento mila persone si
elettrizzino insieme".
Certamente se badiamo agli argomenti che l'A.
trattò nei suoi scritti allora e poi, non risulta un coerente ordine di
sviluppo, anzi una dispersione che sa di mondana superficialità, e non
diciamo di un'operetta più giovanile e intenzionalmente leggera come Il
congresso di Citera (1745), ma anche di saggi di contenuto storico ed
erudito composti negli anni di Berlino e nell'ultimo decennio trascorso
in Italia: Saggio sopra la giornata di Zama (1749), Saggio sopra
l'Imperio degl'Incas (1753), Saggio sopra il Gentilesimo (1754), Saggio
sopra quella quistione perchi i grandi ingegni a certi tempi sorgano
tutti ad un tratto e fioriscano insieme (1754), Saggio sopra Orazio
(1760), Saggio sopra la quistione se le qualità varie de' popoli
originate siano dallo influsso del clima, ovveramente dalle virtù della
legislazione (1762), Saggio sopra il commercio (1763), Saggio sopra
l'Accademia di Francia che è in Roma (1763), nei quali è dato
soprattutto ritrovare l'eco di questioni di moda nelle discussioni dei
circoli settecenteschi.
Né gli storici dell'arte militare hanno
accordato il loro interesse a quegli scritti di scienza militare che
insieme con le Lettere sopra la scienza militare del Segretario
fiorentino (1759) costituiscono una sezione a sé nelle opere
dell'Algarotti. Si può si cogliere qua e là qualche tratto originale:
ha, per esempio, una sua importanza l'interesse spregiudicato per il
Machiavelli, e non s'è mancato di rilevare che tra i primi l'A. additò
l'importanza dell'Africa come campo della politica coloniale europea;
ma questa ed altre opinioni disseminate qua e là non trovano uno
svolgimento, nè si innestano efficacemente nel processo di
chiarificazione della cultura settecentesca.
L'A. restò sostanzialmente
un letterato: questo carattere che lo accosta, nonostante le vaste e
varie esperienze culturali, più agli scrittori d'Arcadia che agli
illuministi, fa sì che la sua maggiore originalità si riconosca tuttora
negli scritti in cui con abito e metodo di critico letterario che
sapeva assumere anche vedute di storico del costume, egli affronta
questioni di letteratura traendo profitto, oltre che dal generico clima
razionalistico e classicheggiante del tempo, dalla buona conoscenza
degli scrittori e dei critici inglesi e francesi.
Merita perciò
particolare attenzione il Saggio sopra la lingua francese (1750) per la
chiarezza con la quale vi è fissata la diversa storia delle lingue
italiana e francese ed è spiegata la diversa funzione dell'Accademia
francese e dell'Accademia della Crusca in fatto di lingua; ma più
ancora il breve Saggio sopra la necessità di scrivere nella propria
lingua che a quello strettamente si collega, ispirato dal principio di
Locke che la lingua risponde al "genio", cioè alla formazione storica
dei popoli, e dal concetto che i grandi scrittori possono arricchire
una lingua nata povera, ma che solo l'uso corrente "è il vero padron
delle lingue", e che di quest'uso si rende ragione solo chi per nativa
consuetudine ha fatto veramente sua una lingua: pensieri sui quali non
cessò poi di esercitarsi la riflessione dei nostri letterati sino al
Saggio sulla filosofia delle lingue di Melchiorre Cesarotti.
Nell'ambito della letteratura, pur sfruttando la specifica competenza
acquisita nelle arti figurative, resta anche il Saggio sopra l'opera in
musica (1762), altrettanto notevole per la storia delle controversie
settecentesche sul melodramma, quanto infelici furono i due tentativi
teatrali che lo precedettero: una specie di abbozzo scenico Enea in
Troia ricavato dal II libro dell'Eneide e, in francese, l'Iphigénie en
Aulide ricalcata su Euripide e Racine.
In questo saggio sono importanti per la conoscenza del costume del
tempo i capitoli dedicati alla scenografia e all'architettura teatrale;
ma più acuti e più utili per la storia del gusto e della critica
riescono i capitoli nei quali l'autore discute della natura del
melodramma, la cui unità deve essere fissata dal libretto; della scelta
dei soggetti adatti, che devono fondarsi su un'azione "seguita in tempi
o almeno in paesi da' nostri molto remoti ed alieni, che dia luogo a
più maniere di maraviglioso"; della musica, che deve subordinarsi alla
poesia e non blandire le orecchie ma commuovere gli animi; delle arti
del canto e della recitazione, che devono aspirare ad una naturalezza
educata e non obbedire ai capricci dei virtuosi; infine delle scene di
danza, che non dovrebbero essere gratuiti divertimenti ma inserirsi a
proposito nell'azione: che. son tutte idee che ben si collegano ai
propositi di A. Zeno e dì P. Metastasio di ridare dignità all'opera in
musica.
Quando nel 1753 lasciò la corte di Prussia, l'A. contava di curare nel
clima d'Italia la malferma salute e di dedicarsi con maggior calma agli
studi prediletti, e le date anche degli scritti qui citati dimostrano
che di fatto la sua attività di scrittore continuò alacre. Visse i
primi anni dopo il ritorno parte a Venezia parte in villa, poi fra il
1757 e il 1762 fu per lo più a Bologna dove volle istituire
un'Accademia da lui denominata degli Indomiti, intesa a incoraggiare
gli studiosi giovani. L'episodio più memorabile di questo periodo fu il
seguito che ebbe la pubblicazione dei Versi sciolti di tre eccellenti
moderni autori (Frugoni, Algarotti, Bettinelli) che recavano come
introduzione le Lettere virgiliane del Bettinelli (1757). Infatti l'A.,
che pure era l'autore di un Saggio sopra la rima (1752), nel quale
aveva difeso i diritti del verso sciolto, si rammaricò dell'audacia del
Bettinelli e sconfessò pubblicamente la sua iniziativa nella lettera
dedicatoria delle sue Epistole in versi a Mme Du Boccage (28 dic.
1758). Il che non gli valse la benevolenza dell'amico gesuita;
tutt'altro: ché questi non gli risparmiò i suoi strali neppure dopo la
sua morte, nella VI e nella VII delle Lettere inglesi (1766).
Più
importante comunque di questo episodio, per l'attività dello scrittore,
fu la cura data alla prima edizione delle sue Opere, cui attese fino
agli ultimi giorni di vita, a Pisa, dove s'era trasferito per godere
dell'aria mite di quella città, e la non mai intermessa consuetudine
d'intrattenere corrispondenza con letterati, uomini politici,
scienziati: nell'epistolario, infatti, ricco e vario, ottima fonte di
notizie anche per la vita dell'autore, si trovano non poche delle
pagine significative dell'A., il quale, sia per il suo abito mondano
sia per il breve respiro dei suoi pensieri, trovò nella lettera un
genere letterario a lui singolarmente congeniale.
Morì il 3 maggio 1764
e fu sepolto nel Camposanto di Pisa; sulla sua tomba fu posta questa
epigrafe: "Algarotto Ovidii aemulo, Neutonii discipulo, Fridericus rex".