Internazionalismo

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Entrato nel vocabolario politico nel corso del 19° sec., il termine è stato usato per designare i numerosi movimenti ideali e politici che si proponevano di unire forze individuali o collettive al di là delle differenze nazionali. L'i. è stato uno dei tratti salienti del movimento socialista, anche se esso non era del tutto assente dalla tradizione liberale e da quella democratica. Agli antipodi dell'i. furono invece, per ovvie ragioni, i movimenti nazionalisti.


Enciclopedia del Novecento (1978)

Internazionalismo politico, di René Rémond

Sommario: 1. Introduzione. 2. L'internazionalizzazione: a) l'allargamento dell'orizzonte territoriale; b) il ruolo del progresso tecnico. 3. L'internazionalizzazione dell'economia: a) multinazionali e crisi; b) l'istituzionalizzazione. 4. Le organizzazioni internazionali interstatali. 5. Religione e internazionalismo. 6. L'internazionalismo e le internazionali: a) la Seconda Internazionale e la guerra mondiale; b) la Terza Internazionale. Komintern e Kominform; c) le internazionali sindacali; d) le altre internazionali di partito; e) considerazioni conclusive. □ Bibliografia.

1. Introduzione

Il termine si riferisce a uno dei maggiori fenomeni della storia contemporanea: la tendenza a superare i limiti delle frontiere nazionali. Il fatto non è nuovo - le sue origini risalgono all'Ottocento - ma da cinquant'anni a questa parte esso ha assunto un'ampiezza senza precedenti sotto la doppia spinta delle realtà oggettive e delle aspirazioni ideologiche.

La nozione di internazionalismo ricopre un campo esteso e differenziato. Come la maggior parte dei vocaboli che terminano con il suffisso -ismo (liberalismo o socialismo), si iscrive in una sfera ideologica e qualifica una dottrina, una corrente filosofica, un insieme di aspirazioni o un atteggiamento dello spirito. Su questo piano l'internazionalismo è l'esatto contrario del nazionalismo, cui si oppone sotto tutti gli aspetti. Il nazionalismo esalta il fatto nazionale e innalza la grandezza della nazione a valore supremo: è un assoluto al quale tutto deve essere subordinato, sia l'individuo, sia le altre nazioni, sia i rapporti con esse.

L'internazionalismo relativizza le nazioni. Non implica necessariamente una loro negazione, anche se, per affermarsi, ha spesso dovuto cominciare con la critica della loro realtà: i primi internazionalismi, e in particolare gli internazionalismi di ispirazione socialista, che scoprivano la solidarietà del proletariato e opponevano l'universalismo del movimento operaio alla ristrettezza dello Stato-nazione dominato dal capitalismo, hanno proclamato il carattere artificiale delle unità nazionali.

Di conseguenza internazionalismo e realtà nazionale sembrarono per molto tempo escludersi a vicenda come termini antagonisti. Ma questo è l'effetto di una definizione troppo ristretta dell'internazionalismo, il quale non può richiamarsi a un'ideologia distruttiva delle nazioni e proporsi semplicemente come loro superamento. Pur non partendo da un'ispirazione negatrice, l'internazionalismo si oppone certamente al nazionalismo: rifiuta infatti di riconoscere al fatto nazionale il carattere di sacralità attribuitogli dal nazionalismo; il suo orizzonte non si ferma alle frontiere nazionali, ma abbraccia spontaneamente una prospettiva più larga.

La dimensione ideologica non esaurisce il significato del termine, che non si definisce unicamente nell'opposizione, tratto per tratto, alle dottrine del nazionalismo. Esso si riferisce anche alla sfera delle realtà oggettive, indipendentemente da prese di posizione ideologiche. Sotto certi riguardi lo stesso vale anche per il nazionalismo, che può indicare comportamenti oggettivi, per esempio nel campo economico. Su questo piano non è sempre facile discernere la linea di confine tra internazionalismo e internazionalizzazione, fenomeno parzialmente indipendente dalla volontà esplicita degli uomini, e che può essere estraneo a qualsiasi ispirazione filosofica: si tratta della moltiplicazione delle relazioni tra insiemi organizzati nel quadro delle unità statali, della formazione di legami che tessono una trama sempre più stretta al di sopra delle frontiere nazionali. L'internazionalismo, così concepito, non è più soltanto un'affermazione dottrinale, una posizione di principio o un'aspirazione: è, a suo modo e nel suo ordine, una realtà altrettanto concreta che la nazione. Si traduce in scambi di prodotti, di uomini, di idee, in incontri, in una circolazione a livello sovrannazionale. Può far nascere istituti permanenti o temporanei, dar vita a organizzazioni, ecc. L'iniziativa può venire da gruppi privati o da governi.

Ma - e la precisazione non ci sembra superflua - non si dà internazionalizzazione se non a partire da una pluralità di nazioni. In ogni tempo le nazioni hanno intrattenuto rapporti reciproci: salvo eccezioni, non sono mai vissute in uno stato di completo isolamento reciproco. Si sono sempre verificati contatti, scambi, circolazione da un paese all'altro. L'internazionalizzazione è però cosa radicalmente diversa da queste relazioni bilaterali, dalle quali si distingue per una novità irriducibile. Presupponendo una pluralità di nazioni, le relazioni internazionali in gioco nell'internazionalizzazione sfuggono al carattere limitativo dei colloqui bilaterali e costituiscono una realtà affatto autonoma e specifica.

Oggi questa internazionalizzazione è di fatto presente in ogni aspetto della realtà: non vi è alcuna dimensione della vita collettiva, alcuna categoria di fatti sociali che le sfugga. Essa riguarda il lavoro e la produzione dei beni, l'attività intellettuale e la ricerca scientifica, la politica e la religione; il tempo libero e la salute, le credenze e i comportamenti. Ognuno è oggi membro di una società nazionale, racchiusa entro frontiere delimitate, spazialmente circoscritta, e insieme cittadino di un raggruppamento più vasto, i cui confini variano a seconda del tipo di attività considerata e a seconda della natura del fenomeno preso in esame. Un tale ampliamento di prospettiva, per lo più avvenuto in modo occasionale sotto la spinta della necessità, è potuto sembrare il compimento delle aspirazioni espresse dalle dottrine dell'internazionalismo, o la verifica delle loro affermazioni sull'irrealtà delle nazioni: dal momento che il movimento naturale della storia scompigliava le frontiere, l'ideologia che ne proclamava l'artificialità o la ‛malvagità' cessava di essere un'utopia; era invece la verità dell'avvenire.

Il confronto fra l'evoluzione delle dottrine dell'internazionalismo e il processo dell'internazionalizzazione mostra tuttavia che i rapporti tra questi due termini sono più complessi. La moltiplicazione dei rapporti internazionali non ha portato con sé la scomparsa delle nazioni. La solidarietà nazionale ha retto la concorrenza. Nel corso di tutte le grandi prove, e in particolare nei due grandi conflitti mondiali, si è rivelata più forte di ogni altra solidarietà di classe o di religione.

L'internazionalizzazione non ha dunque cancellato le realtà nazionali. La società internazionale si è sviluppata a lato o, se si preferisce, al di sopra di esse. Si è così stabilita, contrariamente alle convinzioni e all'aspirazione della maggior parte dei fautori dell'internazionalismo, che invocavano il superamento dello Stato-nazione e lavoravano per la sua fine, una coesistenza di due ordini di realtà, coesistenza la cui fine non è prevedibile. E così pure, schematicamente parlando, l'evoluzione dei due internazionalismi ha seguito strade divergenti nel corso del secolo.

L'internazionalizzazione ‛pratica' e istituzionale non ha cessato di progredire, rinforzarsi, allargare la propria area, diversificando le proprie forme e modalità: essa è senza dubbio quel tratto fondamentale della società contemporanea cui accennavamo all'inizio. Quanto alle dottrine dell'internazionalismo, esse, al contrario, hanno perso di forza: la loro credibilità è messa in questione; le organizzazioni cui avevano dato vita si sono lacerate, frantumate, o sono entrate in letargo. Certamente, questa contrapposizione non va esente da sfumature; nondimeno, la distinzione tra questi due livelli di internazionalismo sarà alla base di questo articolo.

2. L'internazionalizzazione

a) L'allargamento dell'orizzonte territoriale

L'internazionalizzazione è una tappa - e una conseguenza - di un processo avviato già da lungo tempo: l'allargamento progressivo dell'orizzonte all'interno del quale gli uomini vivono, lavorano, prendono coscienza della loro appartenenza a un'entità sociale.

Per secoli, è stata la nazione - piccola o grande che fosse, coincidesse o no con lo Stato - a costituire tale orizzonte. L'apparizione dello Stato moderno, il rafforzamento delle sue strutture, l'identificazione sempre più generalizzata dello Stato con la nazione, e quindi l'universalizzazione dello Stato-nazione, hanno accentuato l'ampliamento della sfera delle relazioni. In precedenza, essa si limitava a uno spazio assai più ristretto: la signoria, la provincia, la città, il cantone. Per molto tempo l'orizzonte nazionale, anticipando lo sviluppo futuro delle relazioni e l'allargamento del loro raggio d'azione, è stato in un certo senso troppo vasto. L'unità nazionale in questo modo precorreva, all'interno di molti paesi, un'effettiva coscienza di tale unità. L'unificazione andò di pari passo con l'ampliamento della sfera della vita pratica, fino a far coincidere la realtà con la costruzione politica.

Poco a poco, all'interno dello Stato nazionale si è operato il risveglio del senso di appartenenza a una comunità estesa, si è effettuato il noviziato politico, si è assicurata la difesa della collettività contro le minacce e le ambizioni provenienti dall'esterno, si è costituito un mercato nazionale ed è infine fiorita una cultura comune. L'Ottocento, dominato dai movimenti nazionalisti e caratterizzato dalla costituzione delle unità nazionali, è stato per l'Europa il periodo decisivo della realizzazione di questa tappa.

Il fenomeno prosegue attualmente nei continenti che prima erano sottomessi alla colonizzazione europea e che recentemente sono giunti all'indipendenza: è il loro momento di costituirsi in unità nazionali all'interno di nuovi Stati, la cui affermazione precede spesso la nascita del sentimento nazionale. Questo ritardo ha per loro come conseguenza quella di vivere simultaneamente due fasi che l'Europa ha vissuto in tempi successivi: la formazione di entità nazionali sempre più omogenee a causa della loro unificazione e il superamento di queste stesse entità a causa della crescente internazionalizzazione di scambi e relazioni.

Dopo aver proposto alle attività delle società umane un orizzonte più vasto di quello fornito dalle precedenti strutture, lo Stato nazionale è diventato poco a poco, in certi casi, un quadro troppo ristretto. Ciò è vero, naturalmente, anzitutto per le nazioni più piccole: vaste entità politiche come gli Stati Uniti, il Canada o l'Unione Sovietica dispongono di territori abbastanza estesi (milioni di chilometri quadrati) per non percepire direttamente quel senso di angustia che, al contrario, rappresenta un'espenenza immediata per i popoli abitanti su spazi più ristretti.

b) Il ruolo del progresso tecnico


Il progresso tecnico ha avuto una parte decisiva in questo allargamento degli orizzonti abituali: in particolare, ha reso possibile l'accorciamento delle distanze, la riduzione dei tempi di percorso e, al limite, l'abolizione dello spazio. Tra gli altri, due aspetti del progresso sono stati determinanti: la rivoluzione dei trasporti e quella dei mezzi di comunicazione dell'informazione e delle idee.

Volta a volta, il vapore e l'elettricità, la navigazione, il treno e l'aeroplano hanno avvicinato gli uomini: dopo aver contribuito a unificare le nazioni, ne hanno favorito le comunicazioni. Le reti ferroviarie si sono raccordate le une alle altre; i ritardi sono diminuiti, le tariffe si sono abbassate. Il volume delle merci trasportate è cresciuto in misura impressionante, la mobilità delle persone gli ha fatto seguito. Venendo a mancare l'ostacolo della distanza, l'industria e poi l'agricoltura hanno cominciato a lavorare per mercati sempre più lontani: una volta conquistata la totalità del mercato nazionale, si sono lanciate alla conquista dei mercati esteri, internazionalizzandosi. Il viticoltore italiano o l'agricoltore francese, che per secoli avevano coltivato la terra solo per l'autoconsumo e per barattare l'eventuale eccedenza di produzione con i pochi beni indispensabili alla loro sussistenza, e quindi per approvvigionare il mercato regionale o nazionale, oggi lavorano per l'esportazione. Di conseguenza essi sono tributari dei gusti, delle possibilità di acquisto e della domanda dell'estero: basta una riduzione della domanda o una lievitazione dell'offerta perché i loro prodotti rimangano privi di sbocchi. Può bastare una variazione dei tassi di cambio, per esempio una svalutazione imprevista, per ridurli in miseria. L'internazionalizzazione comporta anche conseguenze di questo tipo, che ne illustrano la realtà e l'incidenza sul lavoro e sull'esistenza di ognuno.

Le frontiere sono diventate permeabili anche agli uomini. Gli uomini hanno sempre viaggiato per vedere paesi e per trovare lavoro. Ma oggi i movimenti migratori, ormai facilitati dalla rivoluzione dei trasporti, si sono intensificati: riguardano milioni di individui. I paesi industriali dell'Europa settentrionale, bisognosi di mano d'opera supplementare, hanno così accolto, all'epoca del boom economico, tra il 1950 e il 1973, considerevoli masse di lavoratori venuti prima dall'Europa meridionale, poi dall'Africa del Nord, dall'Africa nera e dall'Asia Minore.

L'internazionalizzazione è forse ancor più evidente nello sviluppo dei viaggi. Il turismo ha giocato un ruolo di estrema importanza nell'internazionalizzazione. Alla vigilia della seconda guerra mondiale il viaggio all'estero era un'avventura ancora abbastanza eccezionale: solo una minoranza aveva varcato i confini del proprio paese e la stragrande maggioranza non conosceva l'estero che per sentito dire; oggi, nelle giovani generazioni, è molto elevata la percentuale di quelli che hanno varcato le frontiere e visitato paesi stranieri. In due decenni il raggio d'azione si è considerevolmente allargato: grazie all'aereo, all'abbassamento dei prezzi, allo sviluppo della formula dei charters, per un europeo andare in America o in Asia è divenuto altrettanto facile e banale che per un francese di vent'anni fa andare in Spagna o in Italia.

Si può anche viaggiare col pensiero. Le invenzioni susseguitesi nel campo dei mezzi di comunicazione nel corso dell'ultimo mezzo secolo hanno avuto, per l'internazionalizzazione, altrettanta importanza che la rivoluzione dei trasporti. Il telefono, le telecomunicazioni, il dominio delle onde hertziane, la radio, la televisione, l'uso dei satelliti artificiali hanno cancellato le barriere spaziali, ridotto gli ostacoli, dilatato il ‛vicinato' di ciascuno sino agli estremi confini del mondo. Ancora meno di cent'anni fa, l'orizzonte familiare all'uomo medio non andava oltre ciò che il suo sguardo poteva abbracciare quando alzava la testa dal suo campo: il suo villaggio e i pochi villaggi vicini. Oggi si può affermare che l'intero universo è diventato, soprattutto grazie alla televisione, un grande villaggio. L'informazione fa il giro del mondo in un istante, cosicché tutti i popoli vivono con uno stesso ritmo. L'avvenimento è conosciuto dappertutto nello stesso momento: esso si internazionalizza e ogni popolo può considerare come parte della propria storia avvenimenti che si riferiscono principalmente ad altri popoli. I mezzi audiovisivi, cinema e televisione, comunicano anche le sensibilità, le culture, i costumi: prodotti di esperienze singole e separate, elaboratesi lentamente all'interno di specifiche comunità, sono oggi ‛in piazza', manipolati, scambiati, internazionalizzati. L'occidentale si commuove di fronte a film giapponesi e l'egiziano assiste alla rappresentazione di una commedia americana. Si delineano così i tratti di una sorta di cultura universale, una vulgata o koiné del XX secolo, che è l'espressione più completa dell'internazionalizzazione: essa spazza via i particolarismi culturali, scavalca le differenze linguistiche, si fa gioco delle frontiere.

Lo stesso progresso tecnico che ha reso possibile la mobilità di persone, cose e idee, ha promosso innovazioni di ordine istituzionale che hanno creato una dimensione internazionale. Per esempio, via via che le reti ferroviarie si allungavano - per così dire alla ricerca le une delle altre - diventava sempre più necessario un loro coordinamento, volto a definire regolamenti comuni, uniformare gli scartamenti e i materiali, armonizzare gli orari, allineare le tariffe. Lo stesso discorso vale per la navigazione aerea e, parallelamente, per i mezzi audiovisivi: radio e televisione. Incontri di tecnici hanno dato vita a organismi internazionali che si riuniscono periodicamente in congressi. L'Ottocento aveva visto nascere un'Unione telegrafica universale e un'Unione postale universale. Nel XX secolo le organizzazioni di questo tipo sono proliferate: dall'Unione internazionale delle telecomunicazioni all'Organizzazione dell'aviazione civile internazionale. Non esiste oggi un settore di attività che non abbia alle spalle un'istituzione internazionale di carattere tecnico e con competenza specialistica.

3. L'internazionalizzazione dell'economia.

L'internazionalizzazione, resa possibile - o anche necessaria - dal progresso tecnico, ha raggiunto tutti i settori e toccato tutti gli aspetti della vita collettiva: politica, cultura, economia, ecc.

Fermiamoci un attimo a considerare alcune delle conseguenze del fenomeno in campo economico. Abbiamo già parlato dell'allargamento dei mercati agricoli e della ricerca di sbocchi all'estero per i prodotti della terra, come anche della circolazione della mano d'opera attraverso le frontiere. All'internazionalizzazione non sfugge alcun settore dell'attività produttiva. Non è motivo di sorpresa che il commercio s'internazionalizzi: lo scopo del commercio è sviluppare gli scambi e in ogni epoca c'è stato commercio per mare in direzione di altri paesi e altri continenti. La novità del nostro secolo consiste nel crescente volume degli scambi e nel ruolo sempre più importante dell'esportazione rispetto agli sbocchi interni. Anche il credito si internazionalizza: già da tempo, in mancanza di impieghi rimunerativi nel paese d'origine, i capitali venivano dirottati verso investimenti esteri; questo fenomeno, attualmente, ha assunto tuttavia un'ampiezza senza precedenti ed enormi quantità di capitale si spostano da un continente all'altro; eurodollari e petrodollari costituiscono oggi un dato fondamentale delle relazioni economiche internazionali.

a) Multinazionali e crisi.

Un altro fenomeno contribuisce a rendere unica rispetto al passato la situazione presente: quello delle multinazionali. Se è vero che l'esistenza di filiali all'estero di ditte con sede in altro paese rappresenta un fatto economico diffuso da tempo, dopo la seconda guerra mondiale queste reti si sono moltiplicate, diventando delle potenze internazionali che sfuggono alla sorveglianza dei poteri pubblici e al controllo degli Stati. Le multinazionali hanno una loro propria politica e le loro decisioni, prese in conformità al loro esclusivo interesse, hanno ripercussioni sull'occupazione, sulla produzione, sul livello di vita, sul reddito nazionale degli Stati, senza che questi abbiano il modo di influire sulle loro scelte nè di limitarne le conseguenze.

Le precedenti osservazioni aiutano a comprendere qualcuno degli effetti dell'internazionalizzazione crescente della vita economica. Essa crea strette solidarietà tra le entità nazionali. In questo processo i protagonisti del gioco economico trovano spesso il loro tornaconto, a cominciare dagli Stati. Il rapido e notevole sviluppo degli scambi è stato indubbiamente un fattore decisivo dell'era di prosperità, durata circa venticinque anni, fino al 1973. Ma queste relazioni non si stabiliscono quasi mai sulla base di una stretta reciprocità: se non altro perché, all'inizio, le diverse economie nazionali non sono allo stesso livello di sviluppo, nè hanno uguali riserve di ricchezze naturali o accumulate. Il risultato, dunque, è di riprodurre o accrescere l'ineguaglianza.

L'internazionalizzazione rivela in questo modo la dipendenza dei paesi poveri da quelli meno poveri. La crisi del 1973 ha brutalmente evidenziato la povertà energetica dell'Europa e rivelato la sua assoluta dipendenza dai paesi del Medio Oriente, suoi fornitori di petrolio. Certi paesi del Terzo Mondo, la cui economia è dominata da una monocultura, sono alla mercé dei paesi che ne acquistano i prodotti: se questi sospendono gli acquisti oppure si verifica un crollo della valuta, si determina un disastro nazionale.

Niente può illustrare la realtà dell'internazionalizzazione meglio dell'andamento delle crisi economiche. Esse interessano il mondo intero e nessun paese è al riparo dalle ripercussioni delle catastrofi originatesi in un altro paese. La grande crisi del 1929 cominciò in ottobre negli Stati Uniti e dilagò in pochi anni nell'intera Europa, paralizzando le economie, facendo vacillare l'ordine sociale, indebolendo i regimi e contribuendo alla rovina del sistema internazionale. La crisi scoppiata nell'autunno del 1973 conferma questa esperienza. L'Unione Sovietica e i Paesi del blocco comunista sfuggono alle sue conseguenze solo al prezzo di un relativo isolamento: neppure loro, comunque, sono completamente risparmiati dall'inflazione e il loro indebitamento con l'Occidente si avvicina ai 40 miliardi di dollari. Se si paragonano i comportamenti degli Stati nel corso delle due crisi, emerge indirettamente, a mezzo secolo di distanza, lo sviluppo dell'internazionalizzazione della vita economica. Alle prese con la grande depressione, la reazione di tutti gli Stati negli anni trenta fu il ritiro all'interno delle frontiere nazionali, la chiusura ai prodotti esteri, in conclusione, l'autarchia. Negli anni di crisi seguiti al 1973, invece, gli Stati evitano di ricorrere alla stessa prassi e vincono la tentazione dell'isolamento: in parte perché non hanno perso il ricordo delle sue disastrose conseguenze per la democrazia e per la pace, ma anche perché, ai nostri giorni, gli scambi hanno assunto una tale ampiezza e le economie si sono rese a tal punto interdipendenti, che non è più possibile un ritiro dal sistema.

Oggi le economie hanno bisogno di ambiti più larghi di quello nazionale. Nell'Ottocento, principati e piccoli Stati costituivano un quadro troppo angusto per le potenzialità delle economie e per questo le spinte economiche svolsero un ruolo importante nella formazione dell'unità nazionale in Germania e in Italia; allo stesso modo, oggi, i confini degli Stati nazionali comprimono le energie potenziali. Per questo l'internazionalizzazione è probabilmente un fatto irreversibile, per questo essa resiste ai rovesciamenti congiunturali che, in altri tempi, ne avrebbero interrotto il cammino.

b) L'istituzionalizzazione.

Un altro fenomeno attesta la profondità dell'internazionalizzazione delle economie e mette in rilievo la novità delle sue più recenti manifestazioni: la sua istituzionalizzazione, da parte dei governi, mediante strutture giuridico-politiche. In precedenza le relazioni economiche erano oggetto di accordi bilaterali, ma non internazionali. I pochi tentativi di organizzazione dei mercati o di regolamentazione degli scambi erano avvenuti il più delle volte per iniziativa di gruppi economici, che costituivano cartelli per spartirsi il mercato: così per l'acciaio, il petrolio e lo zucchero.

Dopo la seconda guerra mondiale si sono costituite per iniziativa dei governi organizzazioni economiche regionali, dotate di importanti poteri espressamnte loro delegati dai governi stessi. La cooperazione economica si è organizzata nel quadro di comunità la cui originaria ispirazione tendeva a creare qualcosa di più che zone di libero scambio: si mirava cioè a organismi solidali capaci di definire e mettere in opera una politica concertata in tutti i settori: produzione agricola e industriale, trasporti, politica fiscale e monetaria. Gli esempi più sviluppati vengono dalla Comunità Economica Europea (che ha continuato l'opera della Comunità Europea del Carbone e dell'Acciaio), costituita con i trattati di Roma del 1957 e comprendente all'inizio sei paesi, diventati poi nove con l'ingresso della Gran Bretagna, della Danimarca e dell'Irlanda; e dal Comecon, che ne è la replica orientale promossa dai paesi a democrazia popolare e dall'URSS.

Esistono pure organizzazioni particolari, come quella dei paesi produttori di petrolio che si sono associati per fissare il prezzo di vendita ed esercitare una pressione sui paesi importatori dell'oro nero.

Vari sono dunque i criteri che presiedono a tali associazioni: l'interesse comune riguardo a un prodotto, criteri regionali o infine l'affinità delle posizioni entro la gerarchia del potere economico - com'è il caso dei paesi in via di sviluppo, che finora subiscono, senza potersene difendere, tutti i contraccolpi delle decisioni prese da altri.

L'internazionalizzazione della vita economica produce così, simultaneamente, i più svariati effetti. Fa esplodere le anguste solidarietà nazionali e suscita invece solidarietà regionali, creando orizzonti più vasti e più adeguati alle nuove condizioni dell'economia; rivela o suscita nuovi antagonismi che attraversano vecchie solidarietà: come, dopo l'inizio della guerra, fredda tra Est e Ovest, l'opposizione tra il blocco atlantico, formatosi attorno agli Stati Uniti e all'Europa occidentale, e il blocco sovietico; come il gap Nord-Sud, la cui importanza sta eclissando l'opposizione Est-Ovest, e che contrappone l'emisfero settentrionale, più sviluppato, ricco di capitali, forte del suo vantaggio, all'emisfero meridionale, composto principalmente di paesi fornitori di materie prime. Si tratta di un'altra conseguenza dell'internazionalizzazione degli scambi.

L'internazionalizzazione ha anche l'effetto di sostituire alle solidarietà di tipo tradizionale, formatesi nel quadro delle unità politiche storiche, solidarietà di nuovo tipo che indeboliscono le vecchie. Per esempio, i risultati della divisione del lavoro si dispiegano su scala internazionale: la distinzione di lavoro e capitale, che all'interno dei rapporti sociali si presenta come opposizione tra salariati e capitalisti, dà luogo a una solidarietà internazionale. Al di sopra delle frontiere i lavoratori prendono coscienza dell'analogia delle loro situazioni, scoprono un'identità d'interessi di fronte ai datori di lavoro. Quando ci occuperemo delle dottrine dell'internazionalismo, vedremo quale giustificazione teorica ne ha dato il socialismo e indicheremo le basi teoriche sulle quali si è costituito il movimento operaio internazionale. Ma anche in assenza di tali riferimenti filosofici, il fenomeno dell'internazionalizzazione non avrebbe mancato di suscitare, al di là delle frontiere nazionali, un movimento di solidarietà tra tutti coloro che sono accomunati da una medesima condizione.

Il sindacalismo internazionale è sorto dalla convergenza di una spontanea presa di coscienza e dell'apporto del pensiero socialista. La sua nascita è lontana nel tempo: è un'eredità trasmessa dall'Ottocento al Novecento. La celebrazione nel mondo intero di una giornata dei lavoratori (il 1 maggio) data dal 1889.
Se i salariati dell'industria sono stati i primi a tradurre questa solidarietà di classe in organizzazioni professionali, dopo di loro anche le altre categorie si sono organizzate, adottando strutture modellate su quelle del movimento operaio. Si sono così costituite organizzazioni internazionali che dividono orizzontalmente le società nazionali, contrapponendo una solidarietà ‛trasversale' alla coesione delle società politiche.

L'internazionalizzazione opera quindi su due piani che concorrono a destabilizzare le unità nazionali: da un lato essa tende al loro superamento operando per la formazione di grandi entità politiche in cui le diverse unità si integrino; dall'altro favorisce l'esplosione degli antagonismi sociali, che le disintegrano dall'interno accentuando divergenze e dissensi.

4. Le organizzazioni internazionali interstatali.

Il progresso dell'internazionalizzazione e, implicitamente, il successo dell'idea internazionalista si sono manifestati nel Novecento - su di un altro piano - con la nascita di organizzazioni internazionali aventi il compito di coordinare le relazioni tra Stati. In precedenza le relazioni internazionali, antiche quanto gli Stati stessi, si sviluppavano principalmente sotto forma di rapporti bilaterali: quando riguardavano più di due paesi, il fatto rientrava generalmente nel quadro di un sistema di alleanze multilaterali. La novità rivoluzionaria del XX secolo è la costituzione di organizzazioni politiche aperte in linea di principio a tutti gli Stati, con vocazione universale - e questo le distingue radicalmente dalle organizzazioni di carattere tecnico e con finalità limitate - e permanenti.

La prima organizzazione di questo tipo fu la Società delle Nazioni. Prefigurata nei ‛quattordici punti' di Wilson, all'indomani della prima guerra mondiale, essa rappresentò l'embrione di un'organizzazione giuridico-istituzionale internazionale. Per vent'anni tentò di dar corpo al sogno del superamento delle sovranità statali. Il primo decennio della sua esistenza sembrò giustificare in parte le speranze dei popoli. Ma a partire dal 1932 divenne evidente la sua impotenza di fronte ai maggiori pericoli e alle volontà egemoniche dei regimi autoritari. La guerra condotta dall'Italia fascista contro un altro Stato membro - l'Etiopia -, il rifiuto italiano di ottemperare alle ingiunzioni ginevrine, lo scacco delle sanzioni decise contro l'aggressore: tutto questo riassume il fallimento della Società delle Nazioni. Essa non era mai riuscita a far coincidere la sua aspirazione all'universalità con la sua composizione fin dall'inizio il rifiuto americano di ratificare il Trattato di Versailles, e dunque di farne parte, le aveva inferto un grave colpo. La Società delle Nazioni non raggruppò mai più di una cinquantina di Stati e quando alcuni grandi paesi si decisero a chiedere l'ammissione, come l'Unione Sovietica nel 1934, altri ne erano usciti o erano sul punto di farlo, come la Germania, il Giappone o l'Italia.

Alla Società delle Nazioni subentrò verso la fine della seconda guerra mondiale l'Organizzazione delle Nazioni Unite, la cui Carta fu elaborata a San Francisco dai vincitori e la cui sede è a New York. Malgrado alcuni fallimenti, l'ONU esercita un'indubbia attrazione: il primo atto di ogni nuovo Stato, dopo la conquista dell'indipendenza, è quello di sollecitare la propria ammissione. A eccezione della Confederazione Elvetica che, a causa del suo modo di concepire la neutralità, non ha voluto sinora farne parte, non vi è quasi Stato che non ne sia membro. Al 30 settembre 1977 il numero degli Stati membri era di 149; il confronto con la cifra indicata per la Società delle Nazioni dà la misura del cammino percorso.
Società delle Nazioni e ONU sono i cardini del sistema internazionale, le chiavi di volta di questa forma di istituzionalizzazione del fenomeno dell'internazionalizzazione. Esse non sono però il solo elemento di tale sistema, che comporta almeno due altre specie di organizzazioni: le une specializzate per settori e tipi di attività, le altre a base regionale.

Prima intorno alla Società delle Nazioni e poi intorno all'ONU si è dispiegata tutta una costellazione di organizzazioni specializzate: l'UNESCO, per l'istruzione e la cultura; la FAO, per l'alimentazione e l'agricoltura; l'OIL, per l'organizzazione del lavoro e i rapporti sociali; l'OMS, per la salute. Ne fanno parte press'a poco gli Stati membri dell'ONU. Queste organizzazioni ammettono anche, a titolo di osservatori, i rappresentanti di organizzazioni private non statali che vengono consultati e associati ai lavori. In questo modo l'internazionalizzazione istituzionale oltrepassa il quadro degli Stati e trascina con sé anche altre forze.

Con la loro tendenza all'universalità l'ONU e le sue organizzazioni specializzate rappresentano la forma più ampia assunta dall'internazionalizzazione; un'altra è quella delle organizzazioni regionali.

Il panamericanismo, che tende a riunire l'intero continente americano e a promuovere una collaborazione politica e tecnica tra gli Stati delle due Americhe, è il più antico tentativo di dar vita a un'organizzazione regionale: i primi incontri risalgono alla fine del XIX secolo. Esso è fortemente segnato dal predominio degli Stati Uniti d'America e dallo squilibrio tra il peso della loro superiorità e la debolezza della gran parte degli altri partners. La cooperazione delle due Americhe ha inizio nel 1948 nel quadro dell'Organizzazione degli Stati americani, creata dalla Carta di Bogotà, che comprende tutti gli Stati delle due Americhe, eccettuata Cuba. La sua sede è a Washington e convoca conferenze periodiche.

Dopo la seconda guerra mondiale, le organizzazioni di questo tipo si sono moltiplicate, seguendo il ritmo dell'emancipazione delle ex colonie. La Lega araba, nata sotto gli auspici della Gran Bretagna, ha accolto uno dopo l'altro nelle sue file i nuovi Stati a maggioranza musulmana, che facevano della solidarietà islamica una delle regole della loro politica estera: essa comprende quindi numerosi paesi etnicamente estranei al mondo arabo, ma a esso collegati dalla comunanza di fede e di cultura.
L'Organizzazione africana e malgascia di cooperazione economica riunisce la maggior parte degli Stati francofoni nati dal vecchio impero coloniale francese; essa si è aperta ad altri paesi francofoni già sottoposti alla dominazione coloniale belga o britannica. Costituita nel 1961, anch'essa convoca conferenze periodiche.

Il Commonwealth raccoglie paesi in precedenza appartenenti all'Impero britannico e rappresenta il più compiuto esempio di quegli organismi che perpetuano in epoca postcoloniale una certa comune eredità politica. Associa nazioni di tutte le razze e di tutti i continenti: ne fanno oggi parte circa una quarantina di Stati.

L'Organizzazione dell'unità africana parte da un concetto completamente opposto: cancellando le separazioni dovute ai colonizzatori, raggruppa la totalità dei paesi africani e afferma, attraverso la sua stessa esistenza, l'unità del continente. Conta una quarantina di Stati.

Che si iscrivano in un determinato spazio geografico - emisfero o continente - o che si rifacciano a un principio comune - religione, nel caso dell'Islam; eredità culturale, nel caso della francofonia in Africa o nel caso della tradizione britannica - lo sviluppo delle organizzazioni regionali, mediatrici tra la proliferazione delle entità nazionali e le strutture a vocazione universale che gravitano attorno all'ONU, costituisce un capitolo fondamentale dell'internazionalizzazione contemporanea.

Queste organizzazioni, tuttavia, non costituiscono una tappa sulla via dell'unificazione: certo, esse superano i limiti nazionali, ma per integrarli in entità altrettanto gelo- se della loro sovranità e ugualmente animate da volontà di potenza, dal momento che spesso trovano il principio della loro coesione nel risentimento o nell'adesione a una delle grandi ideologie che si affrontano e si disputano il dominio del mondo e la fedeltà dei popoli. Il desiderio di prendersi una rivincita sugli antichi dominatori non è del tutto assente nell'Organizzazione dell'unità africana e la denuncia dell'imperialismo o del neocolonialismo permette di passare sopra ai dissensi tra Stati che si proclamano progressisti e Stati considerati conservatori. Quanto al blocco dei quattordici paesi che in tutto il mondo si richiamano al comunismo - blocco che raggruppa, oltre alle democrazie popolari dell'Europa orientale raccolte attorno all'Unione Sovietica, la Mongolia Esterna, la Corea del Nord, il Vietnam e Cuba -, l'adesione al marxismo-leninismo non lo porta né a dissolversi in un insieme più ampio né a collaborare senza reticenze con organizzazioni più vaste: l'ONU è considerata da questi paesi una valida tribuna, dalla quale mettere gli avversari in stato di accusa e far ascoltare al mondo intero le loro tesi.

La formazione di blocchi - o continentali, su base geografica, o legati da un'identica posizione ideologica - è una delle modalità dell'internazionalizzazione contemporanea. Essa fa emergere l'ambivalenza del fenomeno: superamento dei particolarismi nazionali, ma anche affermazione di antagonismi altrettanto tenaci e temibili di quelli degli Stati nazionali. La differenza è solamente di scala.

La formazione di blocchi, però, esprime anche, confusamente, un'aspirazione al superamento di orizzonti troppo ristretti e alla costituzione di aree politiche più ampie e meglio adeguate alle esigenze odierne. La costituzione di queste organizzazioni di natura prevalentemente politica è parallela alla formazione delle grandi unità economiche. Su entrambi i versanti c'è la stessa tendenza a dotare l'internazionalizzazione di strutture istituzionali. Se in un primo tempo il fenomeno obbedisce a spinte spontanee o cede a costrizioni occasionali, la seconda fase è caratterizzata dall'intervento della volontà politica, dalla ricerca di formule giuridiche, di un progetto di organizzazione razionale, dalla definizione di un programma in grado di raccogliere le energie. Dall'internazionalizzazione di fatto si è passati a un'internazionalizzazione esplicita. Gli eventi sono andati incontro alle idee ispiratrici. L'internazionalizzazione, dopo averlo in parte preceduto e in parte seguito, incontra qui l'internazionalismo.

5. Religione e internazionalismo.

Tra tutte le forze che hanno favorito l'internazionalizzazione, tra le correnti che hanno contribuito all'internazionalismo, il fattore religioso occupa un posto cospicuo. Ciò è vero da quando la religione ha cessato di essere legata a un gruppo o a una città; finché si è confusa con il patriottismo locale o etnico, infatti, la religione ha impresso sui particolarismi il suggello di una legittimità trascendente e ha sacralizzato l'attaccamento esclusivo dell'individuo alla propria collettività: si è opposta insomma a ogni internazionalismo. È stata l'apparizione delle grandi religioni universali che ha annunciato il superamento delle divisioni nazionali: i loro adepti sono membri di una comunità che trascende le frontiere e che comunica a tutti i credenti il senso di una fratellanza universale.

Le grandi religioni sono state effettivamente le prime ‛internazionali'. Tanto nella civiltà cristiana che nei paesi islamici si è avuto, nella pratica, un processo di internazionalizzazione. I grandi santuari hanno attirato da tutte le nazioni folle di pellegrini che vi si sentivano a casa loro. Le università accoglievano professori e studenti provenienti da ogni dove, e il loro carattere universalistico era nel Medioevo più pronunciato che oggi. Le crociate furono imprese internazionali che mobilitarono l'Europa intera. I grandi ordini religiosi sono sciamati per il continente: in certi casi la regola prescriveva l'accettazione dell'autorità di superiori stranieri senza che nessuno, eccettuati i governi, ci trovasse nulla da ridire.

La natura delle relazioni tra religione e realtà nazionali non è tuttavia così semplice come l'aspirazione universalistica delle grandi religioni potrebbe far credere: la storia dei loro rapporti è assai complessa, né è sempre stato vero che l'influenza delle credenze religiose si sia esercitata nel senso del superamento dei particolarismi nazionali. Al contrario, in più di una circostanza ha lavorato al loro consolidamento. Le dimostrazioni di internazionalismo cui si faceva cenno risalgono tutte a un periodo relativamente antico, anteriore alla formazione delle nazioni e alla comparsa dello Stato moderno. Non soltanto l'universalismo religioso non ha potuto impedire la frantumazione di entità religiosamente omogenee, ma la stessa unità religiosa ha subito il contraccolpo delle fratture politiche.

La Riforma è stata, per un certo aspetto, l'espressione di aspirazioni nazionali dirette contro la dominazione di Roma e ha sortito quindi l'effetto di fortificare il sentimento nazionale. A partire dal Cinquecento la religione conclude dunque delle alleanze con le nazioni: il senso religioso alimenta il patriottismo e questo trova a sua volta nella fede il fondamento della sua identità nazionale. Per l'Irlanda sottomessa all'Inghilterra protestante, per la Polonia assoggettata alla Russia ortodossa e alla Prussia luterana, la fedeltà al cattolicesimo romano è un mezzo per affermare la propria originalità e per preservare la propria anima. Lo stesso vale per le nazionalità cristiane inglobate nell'Impero ottomano. Lungi dall'indebolire l'attaccamento alla comunità nazionale, la fede religiosa s'identifica con la patria. La realtà nazionale diviene nell'Ottocento così forte che, nei conflitti che oppongono due Stati le cui popolazioni hanno la stessa religione, le Chiese si prestano a essere arruolate, mettendo il loro prestigio al servizio dell'ambizione nazionale: da entrambe le parti si mobilita Dio e si presenta la guerra come una santa causa.

Nel Novecento, e soprattutto dopo la seconda guerra mondiale, i rapporti tra religione e realtà nazionali si sono ulteriormente evoluti. Le religioni tendono a ritrovare la loro vocazione universalistica e battono in breccia l'esclusivismo dei nazionalismi. Quest'orientamento non cancella completamente le vestigia del passato; l'analisi deve tener conto anche delle diversità tra le varie religioni.

Il giudaismo è la più antica tra le religioni universalistiche: non ne derivano forse il cristianesimo e l'islamismo? Ora, il giudaismo ha riunito e continua tuttora a riunire in sé due tratti complementari: da un lato afferma, a differenza delle religioni pagane, la fede in un Dio unico, il Dio dell'intera umanità, la cui Rivelazione si rivolge a tutti gli uomini, in tutte le nazioni; d'altro lato, però, tra tutti i popoli Dio ne ha scelto uno, il popolo eletto, il suo preferito, al quale si è manifestato e che guida attraverso la storia. Così si afferma insieme il privilegio di un popolo e l'universalità della sua religione (il giudaismo contava numerosi proseliti anche tra persone di discendenza non ebraica).

Questi due tratti si ritrovano lungo la storia della Diaspora: dispersi nel mondo, gli Ebrei conservano la loro identità culturale e religiosa, pur assimilandosi ai popoli dei quali condividono l'esistenza e senza d'altra parte cessare di essere sensibili a preoccupazioni di più larga portata. La coscienza di appartenere a una comunità dispersa nel mondo intero spiega in parte il ruolo storicamente giocato dagli Ebrei nel progresso dell'economia, nello sviluppo delle conoscenze, nelle trasformazioni sociali. Il problema dei rapporti tra giudaismo e internazionalismo è oggi complicato dalla restaurazione di uno Stato-nazione, cioè dall'esistenza di Israele. Il sionismo che ha presieduto alla formazione di questo Stato è un nazionalismo per certi versi paragonabile a tutti i nazionalismi che, nel corso dell'Otto e Novecento, hanno mirato a far coincidere Stato e nazione, combattendo per l'indipendenza e l'unità. Si tratta però, in questo caso, di un nazionalismo ‛universale': il popolo che intende liberare e riunire è un popolo disperso su tutta la terra e, se è vero che soltanto una minoranza di Ebrei ha ripreso la strada della Palestina e si è stabilita sulla terra dei suoi padri, la maggior parte degli altri Ebrei, che continuano a vivere nei paesi ai quali si sono assimilati, si sentono solidali con i loro fratelli israeliani: sono membri di una sorta di ‛internazionale'. Lo Stato di Israele deve la sua sopravvivenza all'aiuto materiale e al sostegno morale degli Ebrei del mondo intero. Senza identificarsi con il giudaismo - religione universale - il sionismo è senza dubbio un fenomeno internazionale che, attraverso il mondo intero, tesse i legami tra tutti gli Ebrei (v. giudaismo; v. sionismo).

Il contributo portato all'internazionalismo dall'Islām presenta aspetti alquanto differenti. Certamente, come il giudaismo, l'Islām è sorto in un preciso punto dello spazio (poco lontano, del resto, dalla Palestina) al quale resta attaccato da legami sentimentali: le città sante, dove il Profeta visse, continuano a calamitare lo sguardo del credente, che si volge in direzione della Mecca durante le sue preghiere quotidiane. Nella prima fase della sua espansione, l'Islām si è identificato con l'elemento arabo e ancor oggi, essendo l'arabo la lingua religiosa del Corano, ogni progresso dell'islamismo si accompagna a una certa arabizzazione culturale e forse anche politica. Assai presto l'Islām ha raggiunto popoli, paesi, continenti diversi: ha integrato in una comunità di fede popoli lontani tra i quali ha tessuto legami internazionali.

L'Islām ha creato in un certo senso una civiltà comune che si estende oggi dalle rive atlantiche dell'Africa fino all'Indonesia, dall'Africa nera alla Cina e all'Unione Sovietica, e che comprende più di mezzo miliardo di uomini. La religione musulmana è la religione dominante in una quarantina di paesi. Essa si spinge anche al di fuori della sua area specifica con l'immigrazione nei paesi industrializzati di una mano d'opera proveniente da paesi poveri e con la scelta volontaria di una minoranza negro-americana, che ha visto nell'affermazione dell'Islām un mezzo per affermare la propria identità in contrapposizione a quella della maggioranza bianca degli Stati Uniti. Attraverso questo vasto spazio esiste una comunità di credenti che è un potente fattore di internazionalizzazione.

Questa unità di natura religiosa ha operato come una spinta al risveglio dei nazionalismi arabi o africani. Il senso della specificità musulmana ha suscitato la formazione di nazioni distinte all'interno di aree geografiche prima politicamente indivise, com'è stato il caso del Pākistan al tempo dell'indipendenza dell'India. Esso ha inoltre ispirato programmi politici: perché - infatti - non prolungare l'unità religiosa in un'unità politica e non tradurne la realtà in una costruzione sovrannazionale? Fino a oggi però tutti i tentativi in questa direzione sono falliti. Il mondo musulmano resta frammentato, diviso in entità politiche nazionali, lacerato dalle ripercussioni degli scontri ideologici tra Stati rivoluzionari e Stati conservatori, dilaniato tra i blocchi e i sistemi d'alleanza. Ritrova tuttavia la sua unità nell'affrontare gli imperialismi stranieri, il neocolonialismo e soprattutto il sionismo. Come un tempo contro la cristianità, l'Islām ricostituisce oggi la sua unità e la sua solidarietà contro il piccolo Stato di Israele, incuneatosi sul fianco della sua area d'espansione. Sotto questo aspetto l'Islām si può considerare oggi a buon diritto una grande forza internazionale (v. islamismo).

La recente evoluzione delle Chiese cristiane illustra il ritorno delle religioni alla loro vocazione universale. Ciò si manifesta, contemporaneamente, nelle strutture, nei rapporti reciproci e nelle relazioni col mondo.

Consideriamo anzitutto le strutture. Esse hanno sempre avuto una propensione al superamento dei particolarismi nazionali. Nessuna Chiesa ha mai accettato di limitare il suo campo d'azione a un solo paese. Anche le Chiese nazionali nate dalla Riforma, che riconoscevano l'autorità del sovrano, anche le Chiese autocefale dell'ortodossia hanno cercato di fare opera di evangelizzazione oltre i loro confini originari. La storia delle missioni è inseparabile da quella delle Chiese cristiane. Tutte hanno accolto l'invito rivolto loro dal Cristo: ‟Andate, evangelizzate tutte le nazioni della terra". La partecipazione all'azione missionaria ha avuto come conseguenza che ogni Chiesa ha diramazioni al di là dei confini nazionali: per esempio la Chiesa d'Inghilterra ha delle Chiese sorelle in tutti i continenti.

Queste nuove Chiese, all'inizio completamente dipendenti dalle Chiese-madri per la sopravvivenza materiale, per il reclutamento del clero e per le direttive, a poco a poco si sono emancipate. In taluni casi l'emancipazione è stata una scelta autonoma, in altri il frutto di una decisione venuta dall'alto. Quest'ultimo è il caso della Chiesa cattolica, le cui strutture sono più marcatamente gerarchiche di quelle di altre Chiese cristiane. È stato per iniziativa della Santa Sede che la maggior parte dei territori di missione sono stati costituiti in Chiese responsabili del proprio avvenire. Nel 1919 Benedetto XV annunciava in un enciclica l'intenzione del papato di affidare progressivamente al clero indigeno la responsabilità della Chiesa. In seguito, la formazione di episcopati nazionali, la creazione di cardinali di ogni razza e colore ha fatto della Chiesa cattolica, che era potenzialmente una società internazionale, un'‛internazionale' effettivamente realizzata.

Il confronto di alcune cifre relative a tempi abbastanza vicini ci dà la misura della sua internazionalizzazione e sottolinea nel contempo la rapidità dell'evoluzione. Nel 1936 il Sacro Collegio comprendeva 66 cardinali, 37 dei quali, cioè più della metà, erano italiani. Gli europei erano 59.1 rimanenti 7 erano americani: 4 dell'episcopato degli Stati Uniti, 1 canadese, 1 brasiliano e 1 argentino: tutti di razza bianca. Quarant'anni più tardi, nel 1977, il Sacro Collegio annovera 137 cardinali, tra i quali i 69 europei rappresentano una maggioranza ridottissima; gli altri continenti si dividono gli altri 68 seggi: 39 le due Americhe, 12 l'Africa, 12 l'Asia e 5 l'Oceania. Più di cinquanta Stati sono rappresentati in seno a questo supremo consesso. Questa internazionalizzazione, che è anche universalizzazione, ha una portata simbolica: nell'incontro degli uomini esprime un'aspirazione; ha anche una portata effettiva: si tratta infatti del consesso che elegge il papa.

L'internazionalizzazione del Sacro Collegio, che si riunisce al completo solo eccezionalmente e non detiene un potere permanente, è stata accompagnata, sotto il pontificato di Paolo VI, da uno sforzo sistematico per internazionalizzare il governo della Chiesa cattolica con l'introduzione nella Curia - alla testa della Segreteria di Stato e nei principali dicasteri - di personalità chiamate dall'esterno e provenienti dagli episcopati nazionali. Le istituzioni pontificie sono oggi più conformi alla vocazione universale della Chiesa cattolica e, per quanto riguarda la loro composizione, meglio preparate a ragionare e ad agire in una prospettiva internazionale.

Per molti secoli, dalle lacerazioni della Riforma ai giorni nostri, le divisioni delle Chiese cristiane hanno approfondito le opposizioni nazionali: da un lato gli Stati hanno spesso preso parte alle dispute religiose, dall'altro le Chiese hanno fatto causa comune con le ambizioni dei governi. La rottura dell'unità cristiana ha così fatto regredire l'internazionalizzazione. Al contrario, ogni avvicinamento tra le Chiese ha contribuito indirettamente all'internazionalizzazione. Il progresso avvenuto nel XX secolo con l'ecumenismo si è ripercosso dunque sull'internazionalismo (v. ecumenismo).

Dopo secoli di discordie o di guerre di religione uno sforzo notevole è stato compiuto in direzione dell'unità. In un primo tempo, si sono riavvicinate le Chiese della Riforma; in seguito, si sono loro associate le Chiese ortodosse. Oggi il Consiglio Ecumenico delle Chiese raggruppa qualche centinaio di Chiese cristiane. Dal canto suo la Chiesa di Roma ha invitato le altre Chiese a inviare osservatori al Concilio Vaticano II e ha inoltre accettato di entrare in relazione con il Consiglio Ecumenico. I rappresentanti di Roma lavorano assieme con quelli delle Chiese protestanti o ortodosse in seno a organismi misti che raggruppano tutte le Chiese cristiane. Localmente gli episcopati firmano, insieme con le autorità religiose di altre confessioni, documenti comuni in cui si definiscono atteggiamenti simili di fronte ai grandi problemi del mondo contemporaneo. Per lungo tempo ostacolo al progresso dell'internazionalizzazione, la diversità delle confessioni religiose è diventata un fattore di avvicinamento tra i popoli e di superamento degli egoismi nazionali o regionali.

Parallelamente all'internazionalizzazione di vertice e allo sforzo per superare i dissensi storici, le Chiese cristiane hanno preso posizione in favore del superamento degli egoismi nazionali e hanno intrapreso un'opera di educazione dei loro fedeli. A poco a poco hanno preso le distanze dai particolarismi e rotto con le compiacenze dimostrate in passato verso il nazionalismo.

Per la Chiesa cattolica il pontificato di Pio XI ha segnato una tappa decisiva in questa direzione. Il suo immediato predecessore, Benedetto XV, aveva già dissociato la causa della Chiesa da quella dei governi stabilendo una distinzione tra evangelizzazione e colonizzazione. Pio XI ha condannato gli eccessi del nazionalismo generatore di conflitti: contro il pensiero di Ch. Maurras e l'Action française in Francia, contro la statolatria del fascismo, contro il paganesimo del razzismo nazista egli emanò documenti molto duri. Condannando il ricorso alla guerra, rifiutando il vecchio adagio secondo cui per avere la pace bisogna preparare la guerra, il papa approvò gli sforzi della Società delle Nazioni per edificare un ordine giuridico che fondasse la pace sul diritto; risvegliò la coscienza dei cattolici riguardo alle implicazioni della loro fede nella sfera delle relazioni internazionali: come i suoi predecessori avevano cominciato a convincere i fedeli dell'esistenza di una morale sociale, così Pio XI si adoperò per mostrar loro come il cattolicesimo implicasse una morale internazionale.

I suoi successori hanno continuato e approfondito questa stessa linea d'azione. Paolo VI ha visitato nel 1965 l'Organizzazione delle Nazioni Unite e l'Organizzazione Internazionale del Lavoro, e in quell'occasione ha pronunciato parole di elogio per il lavoro compiuto da quelle organizzazioni. Il papa stesso in documenti ufficiali (come la Populorum progressio), il Concilio in dichiarazioni solenni, le conferenze episcopali nazionali, le autorità di diverse Chiese vanno moltiplicando da circa due decenni i richiami alla coscienza cristiana, le implorazioni a lavorare per lo sviluppo dell'internazionalizzazione e la pace tra i popoli. Denunciando l'orgoglio e l'amor proprio nazionale, condannando senza riserve l'uso della violenza e la corsa agli armamenti, come anche la vendita di armi da parte dei paesi produttori ad altri paesi, invitando gli Stati e i popoli a collaborare a una pacifica spartizione delle ricchezze del mondo, il cristianesimo rappresenta oggi una forma di internazionalismo in atto e non soltanto una ‛internazionale'. Ci si può persino chiedere, tenuto conto del declino degli internazionalismi d'ispirazione socialista, se l'internazionalismo cristiano, più recente e quindi immune da fallimenti, non possa oggi essere un fermento di internazionalizzazione più attivo delle internazionali operaie. Il solo fatto che ci si possa porre una tale domanda rivela l'ampiezza dei mutamenti che da mezzo secolo a questa parte hanno investito i rapporti tra le grandi forze ideologiche e religiose come anche il rapporto tra queste stesse forze e la sfera internazionale: ieri più che circospette riguardo a tutto ciò che poteva indebolire gli Stati o offuscare il patriottismo, le Chiese considerano oggi positivo tutto quello che favorisce e sviluppa le relazioni tra i popoli. È dunque anche questo un segno della crescente intensificazione del fenomeno internazionalistico.

6. L'internazionalismo e le internazionali.

A differenza dell'internazionalizzazione - fenomeno oggettivo, più spesso subito che voluto - che è il risultato della naturale spinta delle società, l'internazionalismo, nel senso proprio del termine, muove da una teoria, s'iscrive in un sistema, ispira un'azione di tipo politico.

Così definito, il fenomeno è antico: in un certo senso la Rivoluzione francese, a partire dal momento in cui le sue armate passano le frontiere e distruggono le monarchie, è un internazionalismo: essa risveglia simpatie in tutti i paesi e crea una costellazione di repubbliche sorelle che rappresenta una sorta di internazionale. Anche la Giovane Europa di Mazzini, che federa una serie di movimenti: Giovane Italia, Giovane Ungheria, ecc., fa pensare alle internazionali più recenti. Ogni ideologia, se si presenta come una spiegazione e giustificazione globale e insieme come un progetto di trasformazione della società, è un potenziale fattore di internazionalizzazione. Senonché talune ideologie possono lasciar sussistere intatti gli orizzonti nazionali e limitare il proprio progetto a una federazione; altre invece postulano la fine o almeno il superamento delle entità nazionali.

L'internazionalismo più coerente, nel senso di una più decisa negazione del fattore nazionale, è quello associato al socialismo, che ha trovato la sua espressione più sistematica negli scritti di Marx e che la storia ha legato al destino del movimento operaio. Le principali internazionali hanno in comune questi caratteri.

Questo tipo di internazionalismo deriva direttamente dalle sue premesse dottrinali, premesse che distinguono anzitutto tra realtà effettive e apparenze illusorie. Le sole realtà effettive sono quelle direttamente connesse con la struttura dei rapporti di produzione a un dato stadio dello sviluppo tecnologico: la posizione nel sistema produttivo, il ruolo sociale determinato dalla divisione del lavoro, le classi. Soltanto due classi, direttamente antagoniste per interessi, vengono riconosciute in quest'analisi allo stesso tempo dualistica e dialettica: capitalisti e proletari. L'identità di condizione nei diversi paesi genera l'identità delle alleanze. La lotta di classe è la prima e ultima parola della realtà sociale.

La nazione è un'unità artificiale che giustappone elementi che tutto il resto separa: i capitalisti di due paesi diversi sono più vicini tra loro di quanto non lo siano ai loro salariati; la stessa solidarietà esiste tra i proletari, i quali non hanno patria, sono spontaneamente internazionalisti. Orizzonte fittizio, la nazione è un'invenzione della borghesia, alla quale essa stessa non crede né è disposta a sacrificare i propri interessi di classe è un'esca destinata a distrarre il proletariato dalla sola lotta motivata, è un mezzo inventato per mantenere lo sfruttamento della classe operaia. La nazione dunque è nello stesso tempo un'illusione e un avversario.

Il movimento operaio è naturalmente internazionalista. La sua internazionalizzazione precede la sua organizzazione nell'ambito nazionale. Un'internazionale socialista, nella impostazione originaria, non è la federazione di movimenti già costituiti all'interno di entità politiche definite; il processo è inverso: è l'internazionale che si articola in sezioni corrispondenti alla segmentazione temporanea in unità nazionali. Internazionalista nei suoi principî e nelle sue strutture, il movimento proletario deve combattere la nazione senza riguardi né compiacenze: essa infatti non può che ritardare l'ora della fine della lotta di classe.

Tali sono i postulati che hanno presieduto all'organizzazione delle internazionali. Dal momento che in questa sede ci occupiamo dell'internazionalismo nel Novecento, ci limitiamo a un brevissimo cenno sulla Prima Internazionale. Nata nel 1864 a Londra dalla confluenza di realtà molto diverse (sindacati, partiti, movimenti nazionali in lotta per l'indipendenza), la Prima Internazionale fu lacerata dalle controversie Marx-Proudhon e Marx-Bakunin, e non sopravvisse alla guerra franco-prussiana e all'annientamento della Comune. Trasferita a New York, si sciolse poco dopo. Per circa due decenni l'aspirazione dei movimenti operai e delle scuole socialiste a un'organizzazione internazionale resterà priva di espressione.

a) La Seconda Internazionale e la guerra mondiale.

Preparata dal Congresso tenuto a Parigi nel 1889 in occasione dell'Esposizione Universale, la ricostituzione di un'internazionale diviene un fatto compiuto con il Congresso di Bruxelles dell'agosto 1891. La Seconda Internazionale è assai diversa dalla Prima. È più omogenea, comprendendo soltanto partiti politici; inoltre, mentre la Prima era stata continuamente lacerata da controversie dottrinali, la Seconda adotta il marxismo come base ideologica comune. D'altro canto, essa rinuncia a certe pretese della Prima Internazionale: rifiuta di darsi una struttura troppo centralizzata e lascia una grande autonomia ai partiti nazionali federati. Ogni tre anni tiene congressi internazionali in cui i rappresentanti dei singoli paesi cercano di definire le prospettive d'azione ed elaborano risposte comuni ai problemi della conquista del potere. Con gli anni l'Internazionale si rafforza, la sua autorità cresce e le sue istituzioni si consolidano mano a mano che il movimento socialista si espande nel mondo.

Al Congresso di Parigi, nel 1900, nasce un Ufficio socialista internazionale, composto di due delegati per ogni paese aderente; la sua sede è a Bruxelles e dispone di un segretariato permanente. Quest'organo assicura la continuità negli intervalli tra un congresso e l'altro, e provvede all'esecuzione delle decisioni prese. L'Internazionale acquista un'autorità arbitrale le cui sentenze hanno valore vincolante per i membri. I congressi triennali (Stoccarda, 1907; Copenaghen, 1910) e il congresso straordinario convocato a Basilea nel 1912 per salvare la pace rappresentano tappe importanti della storia mondiale. Essi precisano punti dottrinali, ma esprimono anche una speranza crescente. Alla vigilia della prima guerra mondiale, la Seconda Internazionale raccoglie insieme le aspirazioni del proletariato internazionale e le speranze dei popoli: simboleggia la volontà di edificare un ordine sociale basato sulla giustizia e sull'uguaglianza e il desiderio di fondare la pace internazionale. Riunendo partiti nazionali profondamente affermati in vari paesi (alcuni contano centinaia di migliaia di aderenti e dispongono di cospicue rappresentanze parlamentari), la Seconda Internazionale, all'inizio dell'estate 1914, è una forza considerevole. L'aspirazione socialista al superamento degli Stati nazionali sembra alla vigilia di affermarsi sovrapponendo alle nazioni una realtà internazionale.

Mettendo alla prova la forza, la coesione, la realtà stessa dell'internazionalismo, la guerra si ripercuote in vario modo sulla Seconda Internazionale. In primo luogo va in pezzi la convinzione che la solidarietà della classe operaia possa opporre un ostacolo decisivo alla volontà di guerra attribuita ai governi e alla borghesia capitalista: l'Internazionale si rivela impotente a bloccare il meccanismo che trascina l'Europa intera in un conflitto fratricida. In secondo luogo l'Internazionale si frantuma: i diversi partiti socialisti fanno causa comune con i governi e le altre forze politiche; partecipano all'union sacrée; votano i bilanci militari; si associano allo sforzo bellico; invitano i lavoratori a mettere tutte le loro energie al servizio della patria in pericolo. Questo avviene in tutti i paesi e in entrambi gli schieramenti.

Questo imprevisto rovesciamento, che sconfessa tutte le prese di posizione dell'Internazionale, ha un significato fondamentale: quando entrano in conflitto la solidarietà di classe - che unisce, al di sopra delle frontiere, i proletari - e la solidarietà nazionale - che unisce, nel quadro delle comunità storico-politiche, un'intera popolazione - è la seconda che prevale nettamente.

L'esperienza smentisce dunque la tesi dell'internazionalismo, secondo la quale le entità nazionali avrebbero un carattere artificiale. Forse però gli avvenimenti presero questa direzione perché le nazioni erano realtà più antiche dell'internazionalismo, e non è escluso che esso preannunci l'avvenire più di quanto faccia presumere la presa che attualmente lo Stato-nazione ha sui propri cittadini. La guerra del 1914 dimostra comunque che questo avvenire è ancora lontano e che, di fronte al comune destino nazionale, la solidarietà di classe non è in grado di resistere: la seconda guerra mondiale confermerà questa lezione.

La vittoria dell'Intesa sugli Imperi centrali e le disposizioni dei trattati di pace rappresentano il trionfo del principio di nazionalità. Esse conducono infatti a termine lo smembramento degli imperi plurinazionali, che vanno in pezzi per far posto a nuovi Stati fondati sull'omogeneità etnica. La formazione della Società delle Nazioni controbilancia solo parzialmente questo nuovo successo delle unità nazionali, dal momento che, pur tentando di creare un diritto superiore alla ragion di Stato, presuppone nondimeno l'esistenza dei singoli Stati, sulla cui adesione si fonda.

Infine l'atteggiamento adottato dai socialisti nei confronti della guerra e dell'union sacrée ha irriducibilmente diviso l'Internazionale, dando l'avvio a un antagonismo le cui conseguenze non si sono ancora cancellate. In realtà una minoranza rifiutò di associarsi allo sforzo bellico. Quella minoranza ha continuato a considerare una sola guerra come giusta e legittima: quella che oppone il proletariato internazionale al capitalismo. La guerra mondiale, voluta dalla borghesia, serve gli interessi della borghesia, è il prodotto dell'imperialismo. Non soltanto i lavoratori non devono prendervi parte, ma, praticando un disfattismo rivoluzionario, devono preparare la presa del potere, la rovina degli Stati, la vittoria dell'Internazionale. È la posizione di Lenin, quella che trionfa in Russia con la rivoluzione dell'ottobre 1917.

Analisi divergenti, differenze di comportamento, mutui risentimenti hanno introdotto nell'internazionalismo socialista una divisione insanabile. Vi saranno d'allora in poi almeno due internazionalismi rivali.
La Seconda Internazionale si ricostruirà lentamente, finita la guerra. Una prima conferenza, tenuta a Berna nel febbraio 1919, si risolve in un mezzo scacco: l'attrazione esercitata sul movimento operaio internazionale dall'esperienza rivoluzionaria sovietica divide i partiti socialisti.

È solo ad Amburgo nel maggio 1923, dopo la costituzione della Terza Internazionale e il definitivo fallimento delle trattative per la riunificazione del movimento operaio internazionale, che si ricostituisce la Seconda Internazionale. La rottura tra le due Internazionali è ormai consumata sia sul piano mondiale che nei singoli paesi, con la scissione - all'interno dei partiti socialisti - tra quanti si allineano sulle posizioni dell'Unione Sovietica, accettando i 21 Punti richiesti per aderire alla Terza Internazionale, e quanti intendono realizzare la trasformazione sociale senza sacrificare le libertà della democrazia politica nè subordinare la propria azione alla strategia dello Stato sovietico.

La Seconda Internazionale non ritroverà mai più il prestigio di cui godeva prima del 1914. Continuerà a riunire periodicamente i rappresentanti dei principali partiti socialisti, ma non coordinerà più la loro attività. Non riuscirà a fissare una linea di condotta comune di fronte all'ascesa del fascismo e neppure a proporne un'adeguata spiegazione.

Tra il 1930 e il 1939 la Seconda Internazionale rinnovata inciampa sulla sfida del fascismo come la sua precedente versione si era incagliata sullo scoglio della guerra: nell'un caso come nell'altro lo schema d'analisi proposto dal marxismo - cui la Seconda Internazionale resta fedele - che vede nel fascismo un sottoprodotto del capitalismo adottato dalla borghesia per prolungare il suo dominio (come faceva della guerra un prodotto della lotta di classe su scala internazionale), non ha aiutato i partiti socialisti nazionali nè l'Internazionale a percepire la natura della minaccia fascista. Presa tra i due fuochi dei regimi totalitari e del comunismo, la Seconda Internazionale viene sorpresa dalla seconda guerra mondiale in uno stato di smarrimento.

Dopo la seconda guerra mondiale essa si ricostituirà su basi ancora più modeste. Sotto la sigla di Comisco (Comittee for the International Socialist Conference) riunirà di volta in volta i dirigenti dei partiti socialisti.

Nel marzo 1951 si ricostituisce l'Internazionale socialista, che oggi raggruppa una cinquantina di partiti. L'attività dell'istituzione internazionale riflette in modo assai imperfetto quella dei partiti nazionali. In numerosi paesi il socialismo è al potere: lo conserva in Svezia, lo conquista o lo riconquista in Gran Bretagna e nella Germania Occidentale; è associato al potere in Francia, in Italia, in Belgio. I legami internazionali restano però assai lenti. Da una decina d'anni a questa parte, sotto l'impulso di alcuni leaders il cui prestigio supera le frontiere dei rispettivi paesi - il tedesco Willy Brandt, lo svedese Olof Palme, il francese Mitterrand - la Seconda Internazionale ha ritrovato un certo dinamismo: i responsabili dei partiti si riuniscono per confrontare le rispettive analisi e scambiarsi le loro riflessioni. Si sono anche formati gruppi di studio per elaborare risposte ai grandi problemi del mondo contemporaneo. Ma l'Internazionale non ha alcuno specifico potere proprio, non ha alcun mandato per definire una strategia e non dispone di alcun mezzo per imporre i suoi orientamenti. Non è raro che due capi di governo, che si richiamano entrambi al socialismo, affermino posizioni contraddittorie. Appunto perché sono investiti di responsabilità di governo, negli incontri internazionali si comportano da capi di governo, proprio come si comportano da capi di governo nelle conferenze diplomatiche in cui rappresentano i loro Stati.

La storia della Seconda Internazionale è dunque la storia del lento deperimento di un'istituzione la cui ambizione al superamento dei particolarismi nazionali è stata prima battuta in breccia e quindi abbandonata. Sopravvive l'internazionalizzazione, ma l'internazionalismo si è dileguato. La resistenza delle nazioni ha avuto l'ultima parola.

b) La Terza Internazionale. Komintern e Kominform.

Assai diversa - nella sua costituzione - dalla Seconda, la Terza Internazionale ha descritto in un mezzo secolo una parabola che presenta qualche somiglianza con quella della sua precorritrice.
La nascita della Terza Internazionale è direttamente legata alla Rivoluzione sovietica e segue abbastanza da vicino la presa del potere da parte dei bolscevichi. Traendo le conclusioni dal fallimento della Seconda Internazionale, una conferenza comunista internazionale riunita nel marzo 1919 decide di costituirsi in Terza Internazionale. L'iniziativa ha una portata ancora limitata: nessuno dei grandi partiti socialisti dell'Europa occidentale vi si è fatto rappresentare; la conferenza riunisce solo una cinquantina di delegati, la maggior parte dei quali, esclusi i Russi, non rappresentano che se stessi. A quell'epoca, la Rivoluzione sovietica è ancora isolata. Ma gli avvenimenti non tardano a conferire a quest'iniziativa un significato storico: nelle settimane seguenti la rivoluzione scoppia in Ungheria e in Baviera; in Cina dilaga il movimento del 4 maggio. All'appello di Mosca i partiti comunisti nazionali si moltiplicano.

Il secondo congresso dell'Internazionale comunista, nel luglio-agosto 1921, enuncia i 21 Punti, che stabiliscono le condizioni poste ai partiti socialisti che sollecitano la propria ammissione. I 21 Punti definiscono un tipo di organizzazione totalmente differente da quella precedente; essi mirano a costituire un'armata disciplinata dotata di una struttura centralizzata e di una disciplina di ferro. Impressionante è il contrasto con il funzionamento dell'Internazionale socialista, che si ispirava alla prassi delle democrazie parlamentari. L'Internazionale comunista non è una federazione di partiti nazionali: è un'armata omogenea, articolata in sezioni corrispondenti alle divisioni nazionali. Convinta che le nazioni non abbiano realtà propria e che la lotta opponga il proletariato mondiale contro una classe capitalista ugualmente mondiale, essa agisce nel quadro di una strategia di portata planetaria le cui direttive, elaborate dall'organo esecutivo che ha sede a Mosca, capitale del primo Stato proletario, i diversi partiti sono tenuti a eseguire alla lettera.

Lo scacco dei movimenti rivoluzionari europei dopo il 1920, il riflusso dell'ondata di agitazioni che ha scosso vincitori e vinti, il consolidamento dei regimi capitalistici e la conseguente scelta dell'Unione Sovietica di ‟edificare il socialismo in un solo paese" hanno per effetto di unire strettamente il destino della Terza Internazionale a quello dell'URSS, che diviene il modello e il quartier generale della rivoluzione. L'Unione Sovietica è ormai la sola patria del proletariato internazionale. Il Programma dell'Internazionale comunista, adottato nel suo VI Congresso mondiale del settembre 1928, lo dice chiaramente: ‟Il proletariato internazionale, che vede nell'URSS la sua sola patria, il baluardo delle sue conquiste, il fattore essenziale del suo affrancamento internazionale, ha il dovere di contribuire al successo dell'edificazione del socialismo in URSS, e di difenderla con tutti i mezzi contro gli attacchi delle potenze capitalistiche".

La strategia dell'Internazionale è sempre più subordinata agli interessi dello Stato sovietico. L'iniziale equilibrio tra la Rivoluzione russa e l'attività dell'Internazionale è rotto a vantaggio della prima. Attraverso la mediazione del Komintern i diversi partiti comunisti si allineano sulle posizioni della diplomazia sovietica, che prescrive ora l'irrigidimento ora l'apertura. Nel modo di vedere dei dirigenti, la contraddizione o la conciliazione tra punto di vista sovietico e punto di vista dei partiti comunisti è una questione priva di senso: è anzitutto dalla sopravvivenza dello Stato sovietico, e quindi dal suo rafforzamento, che dipende l'avvenire della rivoluzione mondiale. Anche i partiti comunisti giustificano i cambiamenti di strategia decisi dalla Terza Internazionale o da Stalin: la formazione dei fronti popolari, approvata dal VII Congresso dell'Internazionale nell'agosto 1935, come la firma, nell'agosto 1939, del patto tra Germania e Unione Sovietica, per ritrovarsi poi al fianco dell'Unione Sovietica attaccata, il 22 giugno 1941, dal Terzo Reich. Pur attraverso tutte queste vicissitudini, l'analisi della situazione resta immutata e identico l'obiettivo: il mondo è diviso dalla lotta di classe; tutti coloro che non sono incondizionatamente solidali con l'Unione Sovietica fanno, consapevolmente o no, il gioco dei suoi nemici; lo scopo dell'azione dei comunisti nel mondo è quello di consolidare l'URSS per preparare la rivoluzione comunista.

Il 15 maggio 1943 Stalin decreta lo scioglimento dell'Internazionale comunista, che è annunciato da una dichiarazione firmata dai rappresentanti dei principali partiti comunisti. La ragione addotta è che i partiti hanno raggiunto una sufficiente maturità politica. È una mossa volta a rassicurare gli alleati, Gran Bretagna e Stati Uniti? In ogni caso l'Internazionale è sciolta ‟come centro di guida del movimento operaio internazionale, e le sezioni dell'Internazionale sono dispensate dagli obblighi statutari e dagli impegni assunti nei congressi dell'Internazionale". La scomparsa dell'organo di coordinamento non cancella immediatamente il ricordo di venticinque anni di lotte comuni né le abitudini nate da una lunga familiarità. Si tratta nondimeno, alla luce dell'ulteriore evoluzione, di una prima tappa nel processo di allentamento dei legami con l'Unione Sovietica.

Ma poco dopo le redini vengono nuovamente riprese in pugno. Nel settembre 1947, alla conferenza che riunisce in Polonia i rappresentanti dei partiti comunisti occidentali e quelli del Partito comunista sovietico, questi ultimi impongono la propria visione conflittuale della situazione internazionale e obbligano i partiti fratelli a uniformarsi alla strategia dell'URSS. La guerra fredda divide il mondo in due blocchi: l'uno, guidato dall'Unione Sovietica, difende la democrazia e la pace; l'altro, asservito all'imperialismo statunitense, incarna oppressione e guerra. La partecipazione a governi di coalizione sarebbe, da parte dei comunisti occidentali, un grave errore e una pesante colpa. La conferenza crea un organo di coordinamento: l'Ufficio di informazione dei partiti comunisti europei, noto comunemente in Occidente sotto il nome di Kominform; ha sede a Bucarest e pubblica un bollettino periodico. Ma, a dispetto della somiglianza di denominazione, il Kominform non ha molto in comune con il Komintern: non è che un organo di collegamento, privo di potere decisionale.

Nello stesso periodo un mutamento capitale investe la natura della solidarietà internazionale comunista: la presa del potere in vari paesi. Fino al 1945 i partiti comunisti erano tutti all'opposizione, aperta o più spesso clandestina, e si raccoglievano attorno all'unico partito che era giunto al potere, quello dell'Unione Sovietica. All'indomani della seconda guerra mondiale, grazie alla presenza dell'Armata Rossa in numerosi paesi, i comunisti si impadroniscono successivamente del potere in Polonia, Romania, Ungheria e Bulgaria. In Iugoslavia arrivano al potere con le sole loro forze; in Cecoslovacchia il processo è un po' diverso. In ogni modo, a partire dal 1948 l'Unione Sovietica si trova circondata da una cintura di Stati in cui il comunismo è la dottrina ufficiale. L'Internazionale comunista diviene, in parte, un'internazionale di Stati, associando ormai Stati e partiti, partiti al potere e partiti all'opposizione. Il fatto che la direzione dello Stato sia ormai, in vari paesi, in mano comunista, non attenua il predominio dell'Unione Sovietica sui partiti fratelli: al contrario, la sua autorità ha modo di esercitarsi ancor più pesantemente attraverso gli apparati statali.

Il blocco comunista, che nel 1948 comprende, con la Repubblica Democratica Tedesca e l'Albania, otto Stati dell'Europa orientale, si rafforzerà con l'ingresso della Mongolia Esterna, della Cina continentale (interamente passata sotto il controllo comunista nel 1949), di Cuba (primi anni sessanta), del Vietnam e degli Stati dell'Indocina ex francese. In questo modo si costituisce per aggregazione un'‛internazionale' di Stati, la cui unità poggia sull'adesione al marxismo-leninismo ed è cementata dal primato dell'Unione Sovietica: un primato non soltanto onorifico, ma esercitato con arrogante autorità. L'Unione Sovietica è riconosciuta dagli Stati e dai partiti comunisti come la guida infallibile e il modello esemplare; è qualificata a definire gli obiettivi e a fissare la strategia comune. Essa è il cardine e il centro del sistema. Stabilisce con i suoi satelliti rapporti di dipendenza e di disuguaglianza: è il governo di Mosca che fissa i termini degli scambi economici e il loro volume.

Si è così costituita, attorno a un'esperienza unica, quale quella della Rivoluzione russa, una costellazione di Stati e partiti che rappresenta una prima realizzazione dell'internazionalismo annunciato dal marxismo-leninismo. All'interno del blocco così costituito, l'internazionalismo proletario giustifica la tesi della sovranità limitata e legittima gli interventi sovietici volti a prevenire le deviazioni e a preservare intatta la coesione del sistema. È in nome di queste valutazioni che le forze armate di cinque paesi membri del Patto di Varsavia sono entrate in Cecoslovacchia nell'agosto 1968 per mettere fine all'esperienza del ‛socialismo dal volto umano', che costituiva agli occhi dei dirigenti sovietici un pericolo per il mondo comunista. Dodici anni prima, l'Armata Rossa era già entrata in Ungheria per ristabilire il suo controllo. Questi due esempi illustrano una concezione dell'internazionalismo che abolisce la sovranità degli Stati nazionali. Ma il fatto che la potenza egemone si sia trovata per ben due volte nella necessità di ricorrere alla forza delle armi contro governi comunisti e partiti fratelli rivela anche come la coesione del blocco sia stata sottoposta a dure prove e minacciata da forze centrifughe.

Tali forze vengono alla luce già all'indomani della conferenza convocata in Polonia per la costituzione del Kominform. È in effetti nel giugno 1948 che la Iugoslavia è messa al bando dai partiti comunisti. Lo scisma di Tito - il quale rifiuta di piegarsi - è la prima breccia aperta nel sistema comunista internazionale. Contro ogni previsione, Tito resta al potere nonostante la formidabile pressione dei suoi vicini ortodossi e il popolo iugoslavo fa causa comune con lui. Col passare degli anni, il sistema di Tito afferma sempre più la sua specificità per prendere le distanze dalla burocrazia sovietica. Nel 1955 i dirigenti sovietici faranno onorevole ammenda e forniranno a Tito una patente di socialismo.

Dopo il XX Congresso del Partito Comunista Sovietico, segnato dal Rapporto Chruščëv che apre la strada alla destalinizzazione, comincia un processo di diversificazione del blocco comunista. Per primo, il Partito Comunista Italiano rivendica, con Palmiro Togliatti, il diritto di ogni paese a seguire la sua propria via al comunismo e sostiene una concezione policentrica. Pur senza dirlo esplicitamente, altri paesi prendono la stessa strada. Se nella sua sfera d'influenza immediata l'Unione Sovietica può contenere le forze centrifughe e imporre una linea comune, al di là di essa non è più in grado di far prevalere le sue idee: la libertà dei diversi partiti comunisti è assai maggiore di quella dei governi comunisti delle democrazie popolari. Essi usano questa libertà in modo assai ineguale: se dal 1956 il Partito Comunista Italiano avvia una liberalizzazione, il Partito Comunista Francese aderisce solo con ritardo e con grande riluttanza al processo di destalinizzazione. In certi paesi accade persino che il partito si divida e che molte formazioni che si richiamano tutte al marxismo-leninismo seguano tuttavia linee divergenti. La rottura tra l'Unione Sovietica e la Cina è l'ultimo colpo al sistema. L'ideologia che aveva cementato il blocco è diventata il principio della sua disgregazione.

Gli sforzi dell'Unione Sovietica per ristabilire un minimo di unità e ricostituire un insieme omogeneo sono stati vani. Alla conferenza che nel 1969 ha riunito un'ottantina di partiti, molti dei partecipanti hanno rifiutato di firmare la dichiarazione finale comune. La Conferenza paneuropea comunista del giugno 1976 ha sostituito all'internazionalismo proletario la nozione più vaga e meno vincolante di solidarietà internazionalista. Il governo sovietico ha dovuto rinunciare a convocare un'altra conferenza plenaria, non avendo la sicurezza di ottenere il consenso dei partiti comunisti.

Quale fattore avrà la meglio in questa vicenda di contrasti tra elementi che accomunano Stati e partiti comunisti e elementi che invece li separano? La risposta dipende da troppe variabili - l'evoluzione dell'URSS, la parabola delle relazioni all'interno del blocco delle democrazie popolari, l'andamento delle relazioni internazionali - perché si possa azzardarla con qualche plausibilità; ma il fatto che oggi, sessant'anni dopo la Rivoluzione d'Ottobre, ci si possa porre questa domanda sottolinea il regresso dell'idea internazionalista nel mondo comunista. L'internazionalismo proletario della Terza Internazionale ha fatto la stessa esperienza di quello della Seconda: anch'esso si è scontrato contro la resistenza del fattore nazionale, si è dovuto misurare con la distanza che separa le aspirazioni internazionaliste dalle realtà storiche e politiche.

Non sono mancati altri tentativi, in genere più modesti, che hanno tratto, talora anche in anticipo sugli avvenimenti, la lezione dallo scacco dell'internazionalismo di stampo sovietico. Così Trotzki, che lasciò l'URSS nel 1929, non rinunciò all'idea della rivoluzione mondiale: disapprovò totalmente l'opzione di Stalin in favore dell'edificazione del socialismo in un solo paese e impiegò tutto il suo talento e tutta la sua energia per suscitare un movimento a livello internazionale. Nel 1933 il Plenum internazionale dell'opposizione bolscevica getta le fondamenta di una Lega comunista internazionale, che nel 1938 si ribattezza Quarta Internazionale. L'internazionalismo resta oggi uno degli orientamenti principali del trotzkismo, il quale però, se da una decina d'anni conosce un sorprendente ritorno di fortuna, in realtà - lacerato da controversie e polemiche - non è mai stato in grado di darsi un'organizzazione efficace sul piano internazionale.

Sia il maoismo che il castrismo hanno formato discepoli e ispirato emuli, tanto che è possibile, per analogia, parlare di un internazionalismo maoista o castrista. Essi non hanno però creato niente di paragonabile a quello che è stato, ed è tuttora, ancorché indebolito e smantellato, l'internazionalismo nato dalla Rivoluzione russa. Cuba ha tentato di dar vita a un internazionalismo del Terzo Mondo. Riprendendo e ampliando il movimento generato dalla conferenza che nel 1955 aveva riunito a Bandung una trentina di paesi asiatici e africani di recente emancipazione o da poco liberati dalla tutela occidentale, paesi che andavano dall'Egitto di Nasser alla Cina di Mao - movimento ripreso poi dalla Conferenza del Cairo, cui avevano partecipato i rappresentanti di poco meno di una cinquantina di governi e di movimenti di liberazione -, nel 1966 viene convocata a L'Avana una Conferenza intercontinentale; più di ottanta delegazioni vi partecipano, provenienti dai tre continenti che per molto tempo avevano subito e in parte ancora subiscono il giogo della dipendenza coloniale: Asia, Africa, America latina. Quest'incontro, pur avendo un significato simbolico e suscitando una grande eco in tutti i paesi del Terzo Mondo, non ha quasi conseguenze pratiche: non ne escono che dichiarazioni di principio e manifestazioni di simpatia. Questo tipo di internazionalismo si frantuma in varie forme di solidarietà regionali o continentali. È battuto in breccia dalle divisioni ideologiche, minato dalle gelosie, dai risentimenti o dalle rivendicazioni nazionalistiche. La moltiplicazione degli internazionalismi, se testimonia il permanere di una speranza, testimonia anche la difficoltà di inserirli nella realtà dell'azione politica internazionale.

c) Le internazionali sindacali.

L'internazionalismo operaio ha suscitato, a lato delle internazionali politiche, che trovavano nell'adesione al socialismo il movente della loro azione, anche internazionali sindacali; si riproduceva così sul piano internazionale la divisione dei compiti operatasi - nell'ambito delle entità nazionali - tra partiti politici e organizzazioni professionali. Tale raggruppamento internazionale si realizza comunque sulla base delle centrali nazionali.

Due ordini di fattori, due tipi di considerazioni hanno presieduto alla nascita di queste internazionali. Fra tutti i lavoratori di una medesima branca professionale esiste sin dall'inizio un'ovvia solidarietà, che è andata accentuandosi via via che l'internazionalizzazione delle economie moltiplicava le interdipendenze transnazionali; tutti i salariati di una stessa categoria sono ugualmente interessati all'adozione di una regolamentazione uniforme che accordi garanzie analoghe, come sono tutti ugualmente interessati al successo dello sciopero indetto in un dato paese: è il loro interesse, non meno che il senso della fraternità, che li spinge a concertare le loro azioni. Questa solidarietà si è in un primo momento fatta sentire nei settori che gravitavano verso l'estero, per i quali gli scambi erano attività abituali (portuali, marittimi), ma si è via via allargata a tutti i settori professionali, dando origine ad altrettante federazioni internazionali: dei marittimi, dei metallurgici, dei chimici ecc.

L'ideologia non meno che la strategia ha contribuito alla nascita delle internazionali sindacali: esse nascono dalla stessa convinzione che fu alla base delle internazionali socialiste, e cioè che la solidarietà di classe è più importante della solidarietà nazionale, perché la lotta delle classi è la realtà essenziale. La parentela ideologica dei due tipi di internazionale è così stretta che la storia delle internazionali sindacali ha direttamente subito il contraccolpo delle controversie dottrinali di cui le internazionali politiche sono state insieme la posta e il teatro: essa ha fedelmente riprodotto le loro scissioni e le loro riconciliazioni. Esistono perciò diverse internazionali sindacali, contrariamente a quella che dovrebbe essere la logica conseguenza dell'affermazione della profonda unità del proletariato. La Terza Internazionale fu quasi subito affiancata da un'Internazionale sindacale rossa, sua emanazione e strettamente subordinata alle sue direttive, mentre i sindacati che rifiutavano questo infeudamento si raggruppavano in una Federazione Sindacale Internazionale.

Dopo un tentativo di riunificazione, nell'euforia dell'immediato dopoguerra, intorno alla Federazione Sindacale Mondiale (fondata nel 1945), le divergenze della guerra fredda hanno fatto rinascere la concorrenza tra organizzazioni rivali. Di contro alla Federazione Sindacale Mondiale, cui fanno capo circa 150 milioni di aderenti, la Confederazione Internazionale dei Sindacati Liberi (sorta nel 1947) ha raggruppato le organizzazioni che militavano nel campo avverso al comunismo. Una terza internazionale confederava, sin dal 1919, i sindacati che si richiamavano alla dottrina sociale della Chiesa, rifiutando la lotta di classe. Nel 1968 questa organizzazione si è deconfessionalizzata: senza rinnegare l'ispirazione a un certo universo di valori morali, ha sciolto gli ultimi legami con le Chiese, prendendo il nome di Confederazione Mondiale del Lavoro. Così tre grandi confederazioni, corrispondenti a tre grandi correnti ideali, organizzano oggi parecchie centinaia di milioni di lavoratori. Esse sono ben lontane dall'essere omogenee; ciascuna è travagliata da forze centrifughe e sperimenta al suo interno alcune delle tensioni che - nel mondo intero - contrappongono i continenti, le economie, le ideologie. Al pari delle internazionali politiche, neppure l'internazionalismo sindacale sfugge al peso delle solidarietà nazionali e alla pressione degli antagonismi che dividono dall'interno le categorie socioprofessionali ritenute solidali.

d) Le altre internazionali di partito.

Benché siano le più antiche, le più compenetrate di spirito internazionalista, le più solidamente costituite e le più note, le internazionali di ispirazione socialista non sono però le sole. Ogni grande corrente ideale che ispiri l'azione politica e si disputi l'adesione dei popoli tende a darsi una certa struttura politica internazionale. La generalizzazione dei legami internazionali è uno dei sintomi più indiscutibili del carattere insieme universale e irreversibile del fenomeno dell'internazionalizzazione; ma il grado di organizzazione varia notevolmente da un'internazionale all'altra, e nessuna si avvicina - per coesione e disciplina - al modello delle internazionali socialiste. L'analogia tra queste ultime e quelle di altra matrice non va dunque molto lontano.

Tra le due guerre le affinità dottrinali tra i regimi autoritari accreditarono l'idea di un'internazionale di destra. L'avvicinamento tra l'Italia mussoliniana e la Germania hitleriana, con la conseguente formazione dell'Asse Roma- Berlino suggellata dal Patto d'Acciaio, al quale aderirono altri paesi ugualmente anticomunisti, diede qualche consistenza a questa idea, come anche l'aiuto militare dei due Stati fascisti ai nazionalisti nella guerra civile che lacerò la Spagna tra il 1936 e il 1939. Le Croci Frecciate in Ungheria, la Guardia di Ferro rumena, i piccoli partiti nazisti norvegese e olandese ostentavano la loro simpatia per le dottrine ispiratrici del fascismo italiano e del nazismo tedesco. Ma l'affinità dei movimenti non si espresse mai in un organizzazione internazionale. Se qualche legame è sopravvissuto alla caduta di quei regimi dopo la seconda guerra mondiale si è trattato unicamente di una collaborazione clandestina, mirante ad aiutare i responsabili ricercati per crimini di guerra.

Del tutto differenti sono le internazionali di partito che sono andate fiorendo da una trentina d'anni a questa parte parallelamente allo sviluppo delle istituzioni internazionali. L'Unione internazionale democratico-cristiana raggruppa dal 1961 varie organizzazioni regionali: l'Unione europea cristiano-democratica, l'Organizzazione democratico-cristiana d'America, che riunisce i partiti democratici di ispirazione cristiana dell'America Latina, e l'Unione cristiano-democratica dell'Europa orientale, che raccoglie i resti di partiti la cui attività è stata sospesa dalle democrazie popolari. Debole è la coesione di questa internazionale e assai tenui i suoi legami. Ciò dipende dal fatto che i partiti membri sono per molti versi differenti: alcuni sono apertamente confessionali, altri deliberatamente interconfessionali, altri ancora hanno messo da parte ogni riferimento confessionale; alcuni poi sono nettamente conservatori, mentre altri hanno tendenze più progressiste. Tutti hanno in comune la convinzione che il quadro internazionale debba essere allargato, e sostengono di conseguenza tutte le iniziative favorevoli all'internazionalizzazione: i partiti europei hanno entusiasticamente combattuto in favore dell'unificazione dell'Europa occidentale e in ogni circostanza si fanno appassionati difensori delle istituzioni sovrannazionali.

All'Unione liberale mondiale aderiscono le formazioni che si richiamano alla tradizione liberale. Fondata a Londra nel 1947, raggruppa poco meno di venti partiti che si riconoscono in alcuni principi comuni: riserve nei confronti del potere statale, fiducia nel valore dell'iniziativa privata, attaccamento alle libertà tradizionali: d'impresa, di coscienza, d'espressione, d'associazione.

Il bilancio delle internazionali di partito è, al giorno d'oggi, assai modesto: quelle che all'inizio avevano le maggiori ambizioni hanno dovuto rinunciarvi e hanno dovuto ripiegare su realizzazioni limitate; le altre, almeno fino a questo momento, non sono riuscite a superare lo stadio di una semplice concertazione. Si è lontani dalle speranze e dalle aspirazioni dell'inizio del secolo. È lecito pensare che la costituzione di assemblee rappresentative di un quadro regionale più ampio e l'estensione delle loro competenze accelereranno il processo di formazione di raggruppamenti politici sovrannazionali. Il giorno in cui i membri del Parlamento europeo, per esempio, saranno eletti a suffragio universale si verranno certamente a costituire gruppi parlamentari internazionali.

e) Considerazioni conclusive.

La storia dell'internazionalismo nei primi tre quarti del Novecento si è quindi snodata simultaneamente lungo varie direttrici il cui intreccio ha disegnato parabole più complesse di quelle previste dai suoi profeti e dai suoi ideologi.

L'internazionalizzazione ha fatto straordinari progressi. La crescita delle economie, il progresso tecnologico, la moltiplicazione degli scambi di tutti i tipi hanno sovrapposto alle attività nazionali una dimensione reale in cui l'idea internazionale prende concretamente corpo. Ogni individuo vive oggi su due piani: quello della sua comunità nazionale e quello della vita internazionale. A questo riguardo, l'utopia di ieri è diventata la realtà di oggi.

L'internazionalismo si è dato delle istituzioni e il trionfo del bolscevismo in Russia l'ha in breve dotato - con il Komintern, sostenuto dallo Stato sovietico - di uno strumento di potenza incomparabile. Ma poco a poco lo Stato sovietico si è ripiegato sulle sue posizioni e l'Internazionale ha dovuto rassegnarsi a vedere allentati i legami annodati tra i partiti comunisti nazionali. Si è così ripetuta la vicenda della Seconda Internazionale, la cui coesione non aveva saputo resistere alla prova della guerra e al peso delle solidarietà nazionali.

Alla prova dei fatti, l'internazionalismo ha sperimentato la resistenza delle realtà storiche. Ha fatto nascere solidarietà nuove, incapaci però di sradicare le antiche. E più di una volta si è riscontrato che erano proprio quelle antiche solidarietà a disgregare le internazionali. Un'attività come lo sport, che per sua natura dovrebbe essere refrattaria all'infiltrazione delle passioni politiche, costituisce un esempio tipico della potenza delle solidarietà nazionali. Anche lo sport aveva creato la sua internazionale con i Giochi Olimpici: l'ambizione di Pierre de Coubertin, che li aveva ripristinati alla fine dell'Ottocento, era quella di offrire un luogo d'incontro alla gioventù di tutto il mondo al di fuori di ogni ambizione egemonica. Ottant'anni più tardi, la celebrazione dei Giochi Olimpici è diventata una delle occasioni in cui si affrontano gli orgogli e gli amor propri nazionali. Questa evoluzione, come il decadimento delle internazionali, ci impartisce una lezione.

Le nuove solidarietà non cancellano le antiche. Le solidarietà nazionali, forgiate dalla storia, radicate nella sensibilità, custodite nella memoria, hanno una forza che le rende capaci di resistere ancora molto a lungo alle forze contrapposte.

Questa constatazione non rende vana la speranza degli internazionalismi: li obbliga soltanto a tener conto dell'esistenza delle patrie e a riconciliarsi con quanto esse significano. Ieri gli internazionalisti credevano che l'internazionalismo sarebbe sorto sulle rovine delle nazioni; oggi è evidente che non le soppianterà, ma dovrà piuttosto superarle senza per questo cessare di rispettarle.