Alfieri, Vittorio.

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 Poeta (Asti 16 genn. 1749 -Firenze 8 0tt. 1803). Scrittore di alti ideali, ha precorso le istanze politiche e morali del Risorgimento. Autore di numerose raccolte di versi (Rime, 1804) e di un'autobiografia (Vita), dal 1776 al 1786 compose diciannove tragedie in endecasillabi sciolti, tra le quali il Saul e la Mirra sono considerate i suoi capolavori. Ai temi della libertà e della lotta contro la tirannia dedicò due trattati: Della tirannide (1777) e Del principe e delle lettere (1778-86). Nelle tragedie (oltre alle due citate si ricordano l'Antigone, La congiura de' Pazzi, la Virginia, il Timoleone) l'indole eroica e appassionata di A. si manifesta più intensamente. Un animo assetato di alte imprese, una superba indomita volontà, e quindi l'insofferenza di ogni forma di servitù, insieme con una profonda malinconia e un senso di vuoto e di solitudine: tali i caratteri più profondi dell'A., che a ragione è definito anima protoromantica. I sentimenti di libertà e d'indipendenza, l'esaltazione della personalità, la certezza della risurrezione della nazione italiana espressi nella sua opera, fecero di lui uno dei più efficaci educatori delle generazioni del Risorgimento.

VITA E OPERENato dalla famiglia A. di Cortemilia (v. Alfieri), fu avviato alla carriera militare, che ben presto abbandonò. Il viaggiare fu per lui un bisogno precoce e perpetuo; egli visitò non solo le principali città italiane sino a Napoli, ma quasi tutta l'Europa. In Olanda e in Inghilterra ebbe due incontri amorosi; un terzo, a Torino, con la marchesa Gabriella Turinetti, fu indiretta cagione della sua definitiva conversione alla letteratura, alla quale già l'aveva indirizzato la lettura delle Vite di Plutarco.

Assistendo la Turinetti durante una sua malattia, aveva abbozzato una tragedia, Antonio e Cleopatra, che poi, condotta a termine, fu rappresentata con lieto successo (1775): l'A. giudicò immeritati gli applausi e decise di far qualcosa di veramente degno. Cominciò allora a studiare furiosamente e si recò due volte in Toscana per meglio apprendere la lingua: a Siena conobbe un ricco e colto mercante, Francesco Gori-Gandellini, col quale strinse l'unica forte amicizia della sua vita e che, morto, esaltò come uomo perfetto in un dialogo, La virtù sconosciuta (1786); e, a Firenze, Luisa Stolberg, moglie di Carlo Eduardo Stuart, conte di Albany, con la quale visse maritalmente fino alla morte; e questo fu il "degno amore", l'ultimo dell'A. L'anno dopo, per svincolarsi da ogni soggezione al retrivo governo piemontese, donò tutta la sua proprietà alla sorella Giulia, contro il corrispettivo di una rendita vitalizia.

Firenze, Roma, Siena, Pisa, furono i suoi soggiorni più importanti fra il '78 e l'85. Tra l'85 e l'87 alternò principalmente le dimore di Martinsburg presso Colmar, in Alsazia, e di Parigi, dove nell'87 si stabilì con l'Albany e restò sino al '92; dove anche assistette, ammirato, ai primordî della rivoluzione, che placarono per un momento la sua radicata avversione alla Francia, patria dell'illuminismo. Questo, sostanzialmente ottimistico, non lo soddisfaceva; ostacolava, secondo l'A., il risorgimento d'Italia. Ma gli eccessi rivoluzionarî presto lo disgustarono. Fuggito da Parigi, si stabilì definitivamente con la sua donna a Firenze.

OPEREL'odio ai tiranni e l'amore delle libertà repubblicane sono il suo tema dominante. Ne ragionò sistematicamente in due trattati: Della tirannide (1777), e Del principe e delle lettere (cominciato nel '78, ma scritto per la maggior parte nell'85-86). Nel primo giudica il dispotismo immorale anche quando è illuminato; nel secondo dimostra come non sia affatto vero che esso giovi alle lettere. Di affine argomento il Panegirico di Plinio a Traiano (1785). Nel poco felice poemetto L'Etruria vendicata (1778-84) idealizza il tirannicida Lorenzino de' Medici. Di scarsa importanza le cinque odi L'America liberata e l'ode a Parigi sbastigliata; documento dell'avversione alla Francia è il Misogallo, operetta composta di cinque prose e di versi, principalmente sonetti ed epigrammi.

La disposizione alla satira era innata nell'A.; ma soltanto nell'86 scrisse la Satira prima; poi tra il '93 e il '97 le altre sedici; sono in terza rima. La loro ispirazione è la vita politico-sociale dei suoi tempi: I re, I grandi, La plebe, La sesquiplebe (cioè la borghesia), Le leggi, a proposito dei delitti che funestavano l'Italia, L'educazione, L'antireligioneria, contro Voltaire, I pedanti, contro certa critica letteraria che aveva attaccato le sue tragedie, Il duello, in difesa di questa istituzione, La filantropineria, Il commercio, I debiti, La milizia, contro gli eserciti permanenti, Le imposture, contro la filosofia illuministica del Settecento, Le donne, in cui afferma che le donne sono migliori degli uomini, e, la più lunga di tutte, I viaggi, in cui racconta i suoi viaggi giovanili, criticando cose, popoli e persone, ma non risparmiando sé stesso.

L'ultima sua fatica letteraria sono quattro commedie politiche: L'uno, condanna della monarchia assoluta; I pochí, dell'oligarchia; I troppi, della democrazia; Tre veleni rimesta, avrai l'antidoto, in cui addita il rimedio in una fusione delle tre forme di governo. Di argomento morale e sociale altre due commedie: La finestrina e il Divorzio.

La Vita (la prima parte fu scritta nel '90 e giunge fino a quell'anno; la seconda è del 1803, l'anno stesso della morte), sostanzialmente e coraggiosamente veritiera, è, per consenso di tutti, un capolavoro, tanto è perfetta l'aderenza dello stile a quel misto di alta idealità entusiastica e d'ironia, di violenza appassionata e intima bontà, di furori e di malinconia, ch'era nel suo temperamento. Rime cominciò a scriverne subito dopo la conversione letteraria; l'A. prende il Petrarca a continuo modello soprattutto per essere il Canzoniere di lui il più illustre esempio d'una passione viva, ma letterariamente dominata. Molte sono le rime di argomento non amoroso; volutamente aspri e duri, ma con punte acutissime, gli epigrammi.

Dal '76 all'86 scrisse diciannove Tragedie, tra le quali il Saul e la Mirra sono concordemente ritenute i suoi capolavori: Filippo, Polinice, Antigone, Virginia,Agamennone, Oreste, Rosmunda, Ottavia, Timoleone, Merope, Maria Stuarda, La congiura de' Pazzi, Don Garzia, Saul, Agide, Sofonisba, Bruto primo, Mirra, Bruto secondo. Le prime dieci fece stampare a Siena nell'83; tutte presso Didot, a Parigi, tra l'87 e l'89, accompagnate da un coraggioso Parere dell'autore sui meriti e demeriti delle tragedie stesse. Dopo il 1789 compose la tramelogedia Abele e (1798) l'Alceste seconda.

Nelle tragedie più intensamente e in atto si manifesta l'anima eroica e appassionata dell'A.: essa si proietta così nella figura del tiranno, eroe del male, come in quella di coloro che al tiranno si oppongono, eroi della giustizia, della libertà, della purità, del sacrificio, giacché la tragedia alfierana è sostanzialmente il dramma della volontà indomita, sia che riesca a piegare gli uomini e gli eventi, sia che ad essi soccomba; sia che si rivolga al bene, e sia al male. Di qui il palpito eroico che anima tutte le tragedie, anche le più povere e nude, e l'insegnamento a fortemente sentire e operare.

DBI

di M. Fubini

Nacque in Asti il 16 genn. (non 17, come è detto nella Vita) 1749 da Antonio Alfieri e da Monica Maillard de Tournon: fu battezzato col nome dell'avo materno Vittorio Amedeo. Discendeva da due nobili famiglie: gli Alfieri, antica famiglia astigiana, di cui le memorie risalgono al sec. XII, e che era stata insignita nei secoli successivi di feudi e di onori (il ramo a cui appartenne il poeta e che con lui si estinse era quello degli Alfieri Bianco, a cui fu conferito nel sec. XVII il feudo di Cortemiglia), e i Maillard de Tournon, famiglia savoiarda cospicua nel sec. XVII sopra tutto per importanti cariche militari ricoperte da suoi membri e per la porpora cardinalizia di Carlo Tommaso, che fu tra i fondatori dell'Arcadia e missionario in Cina, stabilitasi in Torino all'inizio del Settecento; e della propria origine nobiliare sempre si compiacque, anche se ebbe a pronunciare severi giudizi sulla nobiltà cortigiana del tempo suo, riservando, però, soltanto ai nobili come egli era il diritto di farsi giudici dei propri simili, e, quale fosse il suo credo politico, portò nell'enunciarlo e nel dare un preminente rilievo all'aspetto individualistico, eroico, libertario delle rivendicazioni del secolo uno spirito caratteristicamente aristocratico, in cui riconosciamo noi pure il segno di una radicata consapevole tradizione nobiliare.

Gli fece difetto, più ancora che le costumanze del tempo non comportassero, il calore degli affetti familiari, mortogli il padre prima che compisse un anno, passata la madre a terze nozze (aveva sposato, prima del conte Antonio Alfieri, il marchese di Cacherano e sposò poi il cavaliere Giacinto Alfieri di Magliano): visse nel palazzo avito sino a nove anni, sotto la sorveglianza di un precettore, e a quell'età per volere del tutore, lo zio Pellegrino Alfieri (che si distinse per le sue qualità militari e fu governatore di Cuneo e poi viceré di Sardegna, dove morì nel 1763), fu fatto entrare nella Reale Accademia di Torino, destinata all'educazione dei «paggi e dei nobili di corte», ma anche ad accogliere come istituto scolastico e come pensionato nobili di tutte le nazioni sino a trent'anni (soltanto nel 1816 fu trasformata in Accademia militare). L'A. vi seguì gli studi di grammatica, retorica, umanità, filosofia, frequentando anche negli ultimi anni corsi nell'attigua università.

Conseguito nel 1762 il titolo di «maestro dell'arti» e rinunciato ad avviarsi, come prima pensava, agli studi della giurisprudenza, entrò nel «primo appartamento» dell'Accademia, in cui erano i pensionanti più anziani, non soggetti a una rigida disciplina, né a un corso di studi obbligatorio, e ne uscì definitivamente nel 1766, anno in cui fu nominato «portainsegna» nel reggimento provinciale di Asti. Come accadeva in periodi di pace, ben di rado ebbe a svolgere in tale ufficio... un qualsiasi compito (sembra che in tutto non prestasse più dì cinquanta giorni di servizio) e, raggiunto il grado di luogotenente nel 1774, lo abbandonò definitivamente dimettendosi dall'esercito.

Dell'educazione, o piuttosto dell'«ineducazione», ricevuta l'A. diede nella Vita giudizio severissimo, che taluni biografi tentarono di confutare: ma, a prescindere dai riecheggiamenti delle critiche illuministiche ai sistemi scolastici tradizionali, che in quelle pagine si avvertono, si deve tener conto di quella che il poeta sentì come vera e propria conversione e per la quale fu portato a giudicare con particolare severità di sé e degli altri, rilevando sopra tutto le manchevolezze della sua cultura, che gli apparvero palesi e singolarmente gravi quando si accinse alla nuova carriera di scrittore. Né può essere recata in dubbio l'esperienza dolente della puerizia e dell'adolescenza, quale ci è presentata nelle pagine dell'autobiografia, una sovrabbondante affettività non corrisposta (solo un affetto tenerissimo lo legò all'unica sorella Giulia, andata sposa al conte di Cumiana), le frequenti e lunghe infermità, la mancanza dì guida (mortogli lo zio tutore quando aveva quattordici anni, fu sottoposto alla tutela, in fondo puramente economica, di un curatore), il senso di abbandono e di solitudine che ebbe a provare sin dall'infanzia prima e poi anche frammezzo ai divertimenti sfrenati e alla dissipazione della giovinezza.

Certo più efficace dell'insegnamento dei maestri fu il contatto col vario mondo dei condiscepoli e particolarmente con gli stranieri dell'Accademia. Gliene venne, fra l'altro, il desiderio, anzi l'ansia di uscire dal suo Piemonte, di conoscere uomini e paesi d'Italia e d'Europa, e nel '66 a diciassette anni iniziò con un viaggio a Roma e Napoli quelle peregrinazioni che alternate con brevi periodi di sosta in patria lo presero tutto sino al 1772.

Del 1767-68 è il viaggio a Venezia, Bologna, Genova e poi in Francia, Inghilterra, Olanda e Svizzera; dell'anno seguente il viaggio in Germania, Danimarca, Svezia e Russia; del '71 il secondo viaggio in Inghilterra e il ritorno attraverso l'Olanda, la Francia, la Spagna e il Portogallo, concluso nella primavera del '72 quando prese stabile dimora a Torino. Anche di quest'esperienza nella Vita e più ancora nella satira I viaggi lo scrittore sottolineò la scarsezza dei frutti ricavati per la sua cultura, insistendo invece su quello che sarebbe stato il piacere più vivo, il continuo mutare di paese, e sulla perpetua impazienza che gli impediva di fissarsi in un luogo. Ma, a tacere del tesoro d'impressioni rimaste nel fondo del suo animo, quasi substrato della sua futura poesia e che prenderanno forma in rapidi vigorosi scorci della prosa autobiografica, dalla Vita stessa è facile desumere l'importanza che quei viaggi ebbero nella formazione del suo carattere e del suo ingegno, non per avergli offerto un corredo di cognizioni artistiche, archeologiche, storiche, bensì per la conoscenza diretta del mondo contemporaneo e dei problemi che vi si agitavano.

Gli fu facilitata dalla sua condizione, che gli imponeva di presentarsi agli ambasciatori del suo sovrano (al quale come nobile doveva volta per volta chiedere il permesso di uscire dai suoi stati), e presso di essi potè entrare in relazione ed anche in dimestichezza con diplomatici europei e con i frequentatori dei loro salotti. Trovò in uno di essi, don José D'Acunha, ministro del Portogallo in Olanda nel 1768, un intimo amico e confidente (purtroppo non sono state rintracciate le lettere che con lui dovette scambiare), e a Londra nel primo e nel secondo soggiorno divenne familiare del principe di Masserano, ambasciatore di Spagna, e del ministro di Napoli, il marchese Domenico Caracciolo, il futuro viceré della Sicilia, «uomo, egli scrisse, di alto, sagace e faceto ingegno»,.

Quasi ovvia fu per lui l'adesione a quelli che nelle conversazioni prima ancora che nei libri gli si presentavano come le idee e gli ideali più vivi del secolo: già nel '69 tornato in patria con un baule pieno di libri, in cui erano fra gli altri le opere di. Voltaire, Rousseau, Montesquieu, Helvétius, si era immerso in quelle letture e aveva scoperto con entusiasmo le Vite di Plutarco; e del gennaio '71, all'inizio del secondo soggiorno londinese, è una lettera ai fratelli Sabatier de Cabre (l'abate residente a Liegi in rappresentanza temporanea della Francia e il fratello Onorato Augusto in missione diplomatica a Pietroburgo), di singolare importanza perché discorrendo liberamente con quegli amici, non molto più anziani, di politica, di pettegolezzi mondani, di libertinaggio, lo scrittore giovanissimo non soltanto dimostra di aver accolto i motivi della più vivace polemica libertaria, ma di averli fatti propri improntandoli del suo caratteristico sentire, sicché vi riconosciamo l'A. della maturità e quel fondo da cui hanno origine così la sua poesia come la sua politica: sopra tutto per l'accento pessimistico, per lo sgomento di fronte alla dominante tirannia militare che si diffonde per l'Europa (che sarà se la stessa Inghilterra vien meno all'idea che se n'eran fatta i suoi ammiratori? ma che si può sperare da «un popolo di mercanti», da un parlamento corrotto?), e «che forse ci ritufferà, egli scrive, in una spessa barbarie, dalla quale è pur dubbio che noi siamo del tutto usciti».

È in questa lettera, da poco tempo divenuta di comune possesso, la testimonianza di una personalità ormai formata: a maturarla contribuirono pure gli amori, il primo in Olanda all'età di diciannove anni per la giovane sposa di un cospicuo cittadino olandese, Cristina Emerenzia Imholf, pacifico e idillico dapprima e troncato poi dalla forzata partenza della donna che lasciò sconvolto il poeta, e quello ricco di drammatiche vicende in Inghilterra, durante il suo secondo soggiorno, per Penelope Pitt, moglie del visconte Edoardo Ligonier, che si concluse con un duello col marito, un clamoroso processo per adulterio, il divorzio e la scoperta da parte del poeta di un rivale, un palafreniere, che divideva con lui i favori della gentildonna; persona non volgare del resto, come ci appare dalla sua franca confessione a lui che avrebbe voluto sposarla e poi dalla lettera che tanti anni dopo gli indirizzò in risposta a una sua, quando la rivide di sfuggita tornando in Inghilterra e che riportò in una nota dell'autobiografia.

Van pure ricordate insieme con le conversazioni dell'Aia, di Spa, di Londra, come precedenti dell'opera futura, i lunghi periodi di taciturnità e di melanconia, la traversata del Baltico gelato o dei deserti dell'Aragona, che più diedero al viaggiatore materia di fantasticare e meditare: gliene offriva anche soggetto il Montaigne, il compagno prediletto dei suoi lenti solitari viaggi. Importanza singolare poi egli attribuì all'incontro, avvenuto in Lisbona nel 1772, con l'abate Tommaso di Caluso (1737-1815), dal quale ebbe incitamenti e conforti a intraprendere una carriera letteraria e che doveva diventare suo amico fidato: un'amicizia fondata non sulla consonanza degli spiriti e delle idee, quanto sulla disparità dei caratteri, tanto lontano era l'erudito, oraziano, amabile Caluso, «un Montaigne vivo», a giudizio dell'amico, dall'ardente impetuoso Vittorio, che nell'amico più anziano trovò sempre un appoggio, un consigliere saggio ed accorto non soltanto in cose letterarie.

Né col ritorno a Torino, dove si allogò in una casa da lui magnificamente arredata in piazza S. Carlo (là dove oggi ha inizio la via Alfieri) e dove ebbe modo di distinguersi per la ricchezza, la prestanza fisica, - «bello come un Apollo» fu detto da una donna -, per le prodezze di appassionato cavaliere dai numerosi bellissimi cavalli, vennero meno gli interessi che si eran destati in lui coi viaggi e con le letture, e pur nella dissipazione del piccolo bel mondo torinese (non inferiore per corruzione a maggiori e più famosi centri) egli raccolse intorno a sé un crocchio di amici costituendo una sorta di accademia, nella quale si discutevano una volta alla settimana i componimenti presentati dai soci: testimonianza anche questa di un nuovo fervore culturale che si andava manifestando in Piemonte e particolarmente in alcune cerchie del ceto nobiliare, favorito anche dalla scomparsa del vecchio re Carlo Emanuele III (morto nel 1773) e dall'avvento di Vittorio Amedeo III, più tollerante (si potè fra l'altro allora aprire a Torino una loggia dei Liberi Muratori, a cui si ascrisse l'Alfieri).

A quella sua accademia domestica presentò l'Esquisse du Jugement Universel, risultante di più parti, uno schizzo di giudizio universale con una lettera introduttiva, una seconda sessione del giudizio, altre due lettere e una terza e ultima sessione, composto probabilmente in più momenti, dalla fine del '73 al principio del '75: la finzione del giudizio universale, che gli dà pretesto a qualche scherzo irriverente di ispirazione volterriana, si risolve in una serie di ritratti delle varie anime chiamate a confessarsi al Padreterno, da quella del sovrano defunto sino al poeta stesso: una rassegna in cui il pettegolezzo mondano ha parte abbondante accanto al filosofismo e al gusto del ritratto morale, la maldicenza di una brigata di giovinotti sulla società da cui provengono e che troppo ben conoscono dà luogo in qualche passo ad accenti più personali, in cui si avverte il desiderio dell'autore di rendersi conto con un giudizio anche severo, oltrechè del mondo in cui vive, di sé medesimo: vi compare alla fine anche Cleopatra per chiedere giustizia di un autore, che sta componendo su di lei una cattiva tragedia, l'Antonio e Cleopatra, dall'A, iniziata nel '74 e condotta a compimento attraverso tre redazioni nella primavera del 1775.

È questo il momento risolutivo della crisi da cui uscirà l'A. autore tragico e libero scrittore: vi ebbe una parte forse determinante un nuovo amore in cui si trovò invischiato per Gabriella Turinetti marchesa di Priè («di non troppo buon nome nel mondo galante ed anche attempatetta», leggiamo nella Vita: aveva dieci anni più di lui): una pesante servitù amorosa piuttosto che una passione come quella londinese.

Tanto più impellente gli si fece sentire il dovere di liberarsi dalla vita che conduceva per darsi tutto a un'attività che finalmente occupasse le forze del suo animo e del suo ingegno. I contrasti e le contradizioni non mai del tutto vinte di cui allora sofferse egli tentò di mettere in luce nei Giornali (scritti in francese) stesi negli ultimi mesi del '74 e nei primi del '75; li riprese poi in italiano quando ormai aveva trovato la sua via con alcune pagine dell'aprile-giugno 1777: strumento per rendersi ragione di sé stesso fissando con spirito polemico e sguardo acuto le proprie debolezze, i moti inconfessabili dell'animo, l'impulso segreto del suo agire, si da lasciarci intravedere sotto lo schema moralistico di questo esasperato esame di coscienza avvio ed anche taluno dei motivi del poeta tragico.

La stessa Cleopatra, da lui poi ripudiata, va per gran parte ricondotta a questo momento e a questo proposito di confessione: e ancor strettamente connesso all'origine autobiografica è il personaggio di Antonio che suo malgrado soggiace alla riconosciuta perfidia di Cleopatra, se pur, diversamente che nell'analisi dei Giornali, il protagonista della tragedia che mal si distingue dal suo poeta viene ad essere esaltato nonostante la sua debolezza, nonostante, anzi in grazia della sua sconfitta ad opera delle male arti di Cleopatra e di Augusto, al di sopra di chi lo ha vinto, nobile com'è nell'intimo e per questo stesso destinato a soccombere nel mondo che fatalmente è dei mediocri e dei vili. E l'interesse, così come (a parte l'inesperienza. letteraria) la debolezza della tragedia, è nel suo autobiografismo, in questa sua ambivalenza, per la quale vi riconosciamo insieme l'autore che ancora si dibatte in un suo personale dramma e dall'altra intravediamo, sopra tutto nella catastrofe, nella morte liberatrice, il mondo di eroismo e disperazione, in cui si sublimerà e troverà pace l'animo del poeta. Per il quale veramente la poesia rappresentò la liberazione da uno stato insostenibile, che gli farà dire nella Vita di essersi trovato nella condizione di «impazzire o scoppiare», e fu perciò in un'età di dominante e sovrabbondante letteratura tutt'altro che un pacifico esercizio letterario, bensì una necessità vitale.

Di fatto egli intraprendeva la carriera delle lettere con animo e preparazione ben diversa da tanti letterati del tempo suo, con una maturità ed esperienza superiori alla giovane età, con una cultura prevalentemente se non esclusivamente di opere francesi, con alcune convinzioni politiche e morali ormai salde, e privo invece quasi del tutto di quel bagaglio di frasi, di locuzioni, di ritmi che permetteva in un'età di superletteratura a persone anche mediocremente colte di comporre agevolmente discorsi poetici o pseudopoetici nei metri più svariati. Si rispecchia questa condizione negli abbozzi e stesure in prosa delle prime tragedie in lingua francese, ridotti poi in versi italiani: per cui ci è dato cogliere sensibilmente il trapasso dalla lingua consueta della conversazione e delle sue letture a quella che sola poteva essere la sua lingua letteraria, concedendogli di dare una forma sua propria all'indistinto mondo di sentimenti e di fantasmi che gli si agitava dentro e a un tempo di inserirsi in una solenne tradizione letteraria. L'esigenza intima, personale veniva a coincidere con la tendenza degli spiriti colti del suo paese che particolarmente in quel torno di tempo sentirono l'ambizione di far entrare definitivamente il Piemonte nell'ambito della letteratura nazionale, di promuovere in Torino «città anfibia» interessi e studi per la lingua e la letteratura italiane.

Tra questi letterati egli, incerto e malsicuro, trovò le sue guide e maestri (a parte il Caluso, che sarebbe tornato in patria soltanto nel '76 e coi suoi consigli lo avrebbe rafforzato nella conversione letteraria): il conte Agostino Tana (1745-91), suo compagno di studi e d'accademia, che scrisse poi egli pure tragedie, e l'anziano padre Paolo Maria Paciaudi (1710-85), torinese e da poco tornato nella città natia, che quand'era bibliotecario del duca di Parma aveva, col Programma offerto alle Muse italiane da lui steso, invitato gli scrittori a un concorso per una tragedia (1770). Si riconobbe debitore sopra tutto a questi due consiglieri e maestri per l'avviamento all'opera sua di tragico: e allora e poi dimostrò di sapere dominare la violenta passionalità che gli era propria con una parimenti vigorosa disciplina, gli spiriti di ribellione con la soggezione a maestri, a regole, a precetti, la predilezione per tutto quel che avesse di grande, di eccessivo, di enorme con un senso di autocontrollo quasi mai venuto meno così nella vita come nell'arte.

Recitata con successo la Cleopatra al teatro Carignano il 16 giugno 1775, ne trasse stimolo per sprofondarsi negli studi e insieme incentivo a nuove tragedie, il Carlo primo (abbandonato quand'era a mezzo della stesura in prosa), il Filippo, il Polinice; alle letture dei classici italiani e alla composizione delle tragedie attese nell'estate del '75 a Cesana in val di Susa e poi a Torino, dove si mise pure di proposito a ristudiare il latino, e infine nel 1776 a Firenze e a Pisa, dove fu attratto dal desiderio di ascoltare la parlata toscana e discorrere con professori di quell'università sull'arte sua; tradusse allora squarci di tragedie di Seneca per suo esercizio, cercando in quegli esperimenti il suo verso tragico e dimostrando pur nella provvisorietà di quelle prove un'autentica vocazione drammatica in contrasto con la sentenziosità moralistica del poeta latino; ideò in quel tempo l'Antigone, l'Agamennone, l'Oreste, il Don Garzia, e riprese la verseggiatura delle precedenti tragedie; di ritorno a Torino alla fine dell'anno tradusse gran parte della Guerra Catilinaria di Sallustio, il suo primo impegnativo lavoro di prosatore, in cui venne provando quelli che saranno i modi caratteristici sua prosa; verseggiò l'Antigone e la lesse alla «Società Sanpaolina», testé istituita dal conte G. E. Bava di S. Paolo.

Nonostante il successo riportato fra questi amici e conoscenti, egli decise di ritornare in Toscana per «italianizzare sempre più il suo concetto» ed anche per potersi dedicare all'opera propria senza essere distratto dalle consuetudini del piccolo mondo torinese, a lui troppo noto. Non pensava allora di staccarsene per sempre: ma partendo coi suoi cavalli e le tragedie fatte e da fare per «recitare» in altro ambiente «le parti», come egli scrisse, «di poeta e di signore», forse sentiva già con la più sicura coscienza del proprio valore e delle proprie capacità come gli fosse necessaria un'indipendenza più piena, mal conseguibile nella società troppo ristretta da cui proveniva.

Non a Pisa questa volta (dove preferì non fermarsi per non rivedere una giovinetta che l'anno precedente aveva pensato di chiedere in moglie, avendo ormai rinunciato a ogni disegno matrimoniale), ma a Siena prese soggiorno, chiamatovi dalla fama della bella lingua e in quella città, di antica tradizione repubblicana, divenne familiare di un «crocchietto di sei o sette individui dotati di un senno, giudizio, gusto e cultura», che lo accolsero con singolare favore sì che Siena potè essere per lui sempre la «patria del suo cuore». Lo fu sopra tutto per uno di quegli «individui», Francesco Gori-Gandellini, che gli si rivelò d'animo del tutto consonante col suo per conformità di principî e di sentire (benché il Gori dovesse attendere al commercio dell'azienda domestica e contentarsi di coltivare con letture il suo ingegno): ne nacque un'amicizia profonda e totale, la più grande amicizia del poeta, che schivo e solitario sentiva pur vivo quanto altri mai il bisogno di un animo fraterno a cui confidarsi appieno per averne conforto e liberarsi da quella melanconia che così sovente insorgeva a intorpidirgli la mente, a svogliarlo di ogni cosa.

E da quell'amicizia e dalle reciproche confidenze fu ravvivata la vena creativa del tragico e l'ardore suo di libertà: aveva durante il viaggio ideato una nuova tragedia, la Virginia: a Siena stese l'Agamennone e l'Oreste e, frutto delle conversazioni col Gori e della lettura del Machiavelli, ideò la più fervida e disperata tragedia antitirannica, la Congiura dei Pazzi: a un tempo sentì di dover esporre con disteso e concatenato raziocinio, ormeggiando il politico fiorentino, quel che era Stato implicito e sottinteso in tutta l'opera sua. Scrisse allora «d'un sol fiato» i libri Della tirannide, a cui nell'anno seguente pensò di affiancare un altro più ampio trattato, Del principe e delle lettere, che ne svolge un corollario trattando delle relazioni fra il principe e il letterato e dei doveri dell'uomo di lettere, e la cui composizione si protrasse per maggior tempo e in momenti diversi.

Con questi scritti l'A. acquistava consapevolezza intera di sè, dell'opera propria, della missione di «libero scrittore»: maturò allora un proposito che doveva segnare un distacco definitivo dalla sua patria e permettergli un'indipendenza di uomo signore di sé medesimo, superiorem non recognoscens. Vi concorse, si può ammettere, col movente da lui addotto, che mal da taluno si vorrebbe mettere in dubbio, il nuovo amore per la contessa d'Albany, moglie del pretendente al trono d'Inghilterra, Carlo Edoardo Stuart, la cui casa a Firenze egli prese a frequentare quando sulla fine di quell'anno passò ad abitarvi. Gli parve allora che a liberarsi dalla soggezione al suo sovrano, a cui come nobile doveva di volta in volta chiedere il permesso di lasciare i suoi stati ed anche di prolungare le sue dimore all'estero, e al quale come suddito avrebbe dovuto chiedere l'autorizzazione di stampare le sue opere, unico mezzo fosse di far donazione delle sue proprietà, tra cui erano beni feudali, alla sorella Giulia, riservando a sè stesso una pensione di parecchio inferiore al reddito che ne ricavava, e dopo lunghe trattative, iniziate nel marzo '78, non senza l'autorizzazione sovrana potè condurre a termine la pratica, che gli permise se non di «spiemontizzarsi», come talora affermò, certo di «disvassallarsi»: degna di ricordo la lettera che in quell'occasione scrisse ad un alto personaggio perché fosse mostrata al re, «notevole anche perché vi manca qualunque delle solite espressioni d'ossequio cortigianesco allora in uso» (Bertana), e che vorrebbe smentire le «sinistre interpretazioni» del suo atto: «Je vous prie, en attendant, si vous avez occasion de parler au Roi, et qu'il vous fasse mention de moi, je vous prie de l'assurer de ma part que dans tel part que je soye, je ne ferais jamais rien d'indigne ni de mes parens, ni de moi» - un dignitoso e nobile congedo di un aristocratico dal suo sovrano.

Veramente i liberi suoi spiriti furono messi a difficile prova dalla condizione in cui si trovò di corteggiatore assiduo della giovane consorte del vecchio pretendente: ma quell'amore contrastato per cui dovette allora e poi sottoporsi a umilianti finzioni e dissimulazioni divenne una necessità del suo spirito e in certo senso della sua stessa attività poetica. Di poco più giovane di lui, Luisa di Stolberg-Gedern, figlia di un generale austriaco morto al servizio di Maria Teresa, nata a Mons nel 1752, e andata ventenne in isposa a Carlo Edoardo Stuart, che giovane aveva suscitato l'ammirazione con l'impresa d'Inghilterra infelicemente finita nonostante l'ardimento suo e dei suoi seguaci, ma ridotto per le delusioni, le ripulse, le infermità a un misero avanzo d'uomo, aveva e nella giovinezza prima, rattristata dalle strettezze economiche di una famiglia decaduta e dai contrasti con la madre, e poi negli anni dello squallido matrimonio, accanto a un marito infermo e dedito al vino, temprato il proprio carattere, ricavandone nella difesa di sè medesima e dei propri interessi una precoce disincantata saviezza, un'accortezza e un buon senso non comune ed una forza che talora dimostrerà con una certa durezza, contrastante con l'avvenenza e la gentilezza degli anni suoi giovanili: aveva pure a conforto delle delusioni presa l'abitudine della lettura e la passione dei libri, e molto aveva letto e moltissimo leggerà durante tutta la sua vita, anche se mai non potrà dirsi persona veramente colta di una sua originale cultura. Ma colta oltre che bella apparve al poeta, il quale anche per questo ritenne di aver finalmente trovato il suo «degno amore», non più come le sue precedenti passioni un «intoppo», bensì uno sprone all'opera sua: certo la ragionevolezza e il buon senso dell'amata erano qualità tanto più preziose quanto più erano in contrasto con l'indole sua, ed essa poté per questo al pari dell'amico Caluso essergli di conforto, di sostegno, di aiuto.

Gli anni 1778-80 trascorsi a Firenze, dove per molto tempo stette pure il Caluso, furono anni di assiduo lavoro, di stesura di opere prima ideate e di piani di opere nuove, ben presto esse pure stese in prosa e poi in versi (l'iniziato poema L'Etruria vendicata, La Congiura dei Pazzi, il Don Garzia, la Maria Stuarda, la Rosmunda, l'Ottavia, il Timoleone); ne fu distolto quando l'Albany riuscì con uno stratagemma e con la protezione dello stesso governo granducale a liberarsi dal marito rifugiandosi in un convento, e poi a Roma presso il cognato cardinale, che la allogò nel convento delle orsoline e in seguito le concesse di prendere dimora nel suo appartamento al palazzo della Cancelleria.

Anche l'A. lasciò Firenze dopo qualche tempo recandosi a Napoli, e di lì a Roma, dove si stabilì a metà dell'anno seguente prendendo alloggio nella villa Strozzi presso le Terme di Diocleziano. Furono, come egli scrisse narrando della perduta felicità, quelli romani due anni veramente beati per la presenza della donna, a cui poteva rendere visita salvando le apparenze, per la ripresa attività di tragico, la revisione e il compimento delle precedenti tragedie e la rapida creazione delle due nuove, la Merope e il Saul, per le lunghe cavalcate per le «solitudini immense», della campagna romana. Roma gli offerse pure con le varie «conversazioni», in cui fu accolto e ove ebbe modo di conoscere letterati, artisti, eruditi, quasi una consacrazione ufficiale, prima della stampa, di poeta tragico: lesse fra l'altro in uno di quei salotti la Virginia, suscitando l'ammirazione del Monti; nel teatro dell'ambasciatore di Spagna duca Grimaldi fu recitata l'Antigone da nobili filodrammatici, impersonando il poeta stesso la parte di Creonte (ne fu scosso Alessandro Verri, che del nuovo poeta, del suo carattere singolare discorse in lettere al fratello Pietro); in Arcadia infine l'8 apr. 1783, dopo la lettura del Saul, il poeta fu accolto pastore col nome di Filacrio Eratrastico.

Preparava intanto, compiute in pochi anni quattordici tragedie, un'edizione del suo teatro (ne escludeva per ragioni di opportunità politica la Maria Stuarda, la Congiura dei Pazzi, il Don Garzia, e per non avergli dato ancora l'ultima rifinitura il Saul), e nella primavera dell'83 uscì a Siena, stampato dalla tipografia Pazzini, il primo volume comprendente il Filippo, il Polinice, l'Antigone e la Virginia; a cui seguirà nell'ottobre il secondo volume con l'Agamennone, l'Oreste e la Rosmunda, soltanto due anni dopo il terzo con l'Ottavia, il Timoleone, la Merope.

Ma una fiera tempesta venne a interrompere quel tenor di vita e a sconvolgerlo nell'intimo: venuto a conoscenza il cardinale delle vere sue relazioni con l'Albany, egli fu con accorta diplomazia invitato a lasciare Roma (partì il 4 maggio 1783), mentre la donna doveva rimanervi sotto la sorveglianza severa del cognato; ne nasceva uno scandalo clamoroso e, divulgato non da lui, sembra, bensì da altri maliziosamente il sonetto composto qualche anno prima sugli Stati pontifici, letterati romani, tra i quali si distinse il Monti, lo bersagliarono con vituperi rimati; e forse incoraggiati da uno scandalo tanto più offensivo quanto più ostentato ed ipocrita, i critici accolsero con severità e asprezza il volume delle tragedie, già di per sè ostico per certa durezza, ma più per la reale novità di quella poesia che urtava pigre e radicate consuetudini letterarie. A questi critici l'A. oppose pungenti epigrammi e trovò sfogo al proprio dolore per il forzato allontanamento dall'amata in sonetti composti durante il viaggio attraverso l'Italia.

Ma assai gradita gli riuscì la lettera dell'agosto 1783 di Ranieri de' Calzabigi, che nonostante critiche e riserve suonava alto riconoscimento della sua poesia, ed egli la premise poi con una sua risposta all'edizione definitiva delle tragedie: e il viaggio attraverso l'Italia fu ad un tempo pellegrinaggio di un innamorato infelice che cerca pascolo e conforto al proprio dolore, e una sorta di nuova più solenne consacrazione della sua opera poetica con le visite alla tomba di Dante, alla casa del Petrarca ad Arquà e ai letterati più illustri del tempo, tra i quali il Cesarotti a Padova e il Parini a Milano, con cui discorse della propria arte, di quelli che erano o parevano difetti (al Parini lesse verso per verso il Filippo, prendendo nota delle critiche): conobbe pure, presentato da una lettera di Alessandro Verri, il maggiore fratello Pietro e l'amico di lui Paolo Frisi, che per le sue relazioni con la cerchia di Enciclopedisti era in grado di far conoscere in Francia le sue tragedie, e partendo per la Francia recava con sè lettere di presentazione per l'Albergati, per il Goldoni e per il Mercier.

Riteneva di aver ormai terminata la carriera di autor tragico e andava soltanto crescendo il numero dei sonetti a sfogo del suo animo, mentre portava a compimento una sorta di poemetto lirico sulla guerra d'indipendenza d'America, L'America libera, con la quinta ode composta in quell'anno in occasione della pace, più significativa delle altre, perché vi dà voce alla sua delusione, al pessimismo che è al fondo della sua concezione politica, a cui nulla nel presente e forse in nessun tempo si poteva adeguare.

Egli lasciò infine l'Italia, distaccandosi dal Gori, il più caro consolatore delle sue tristezze, e ripartì per la Francia (dove visitò Valchiusa e la Grande Chartreuse) e l'Inghilterra, dove attese soltanto a comprar cavalli, ritornando poi con la sua scuderia attraverso le Alpi in patria. Assistette a Torino a una rappresentazione della Virginia: ma ormai era distaccato (tranne che dal Caluso) dagli amici d'un tempo e dalle consuetudini del suo piccolo paese. Tornò ancora una volta in Siena, mentre l'Albany otteneva per l'intercessione di Gustavo III di Svezia la separazione ufficiale dal marito e il consenso di lasciare Roma. Non si ricongiunsero però, sempre per rispetto delle convenienze e per la prudenza della donna che pur libera non voleva compromettere i propri interessi (fra l'altro fruiva di una pensione della corte di Francia ottenuta al momento delle nozze, all'insaputa del marito), e soltanto nell'agosto del 1784 poté rivederla in Alsazia a Martinsburg presso Colmar.

Si riaperse allora la sua vena tragica e rapidamente concepì e stese l'Agide, un rifacimento in veste greca del rifiutato Carlo primo, la Sofonisba e infine la Mirra.

Ma una nuova separazione s'impose, tanto più crudele per il poeta che in quei giorni apprese la morte quasi improvvisa del dilettissimo Gori e che non avendo cuore di tornare in Siena si stabilì nel 1785 in Pisa, mentre la sua donna, a cui era stato fatto obbligo di risiedere se non a Roma negli Stati pontifici, prendeva dimora in Bologna. Fu per lui questo, del 1785, uno dei periodi più tristi della sua vita: unico sfogo sempre le rime e, a distrarlo dai soliti pensieri che riversava nel suo diario in sonetti, l'ideazione e la composizione del Panegirico di Plinio a Traiano, che polemicamente aveva concepito in contrasto con quello dello scrittore latino, fingendo che Plinio inviti l'imperatore a un atto di inaudita magnanimità, la rinuncia ai propri diritti e la restituzione della libertà ai Romani.

Ma con rinnovata alacrità si diede al lavoro quando tornata l'Albany in Francia egli si stabilì di nuovo a Martinsburg, e accanto alla sua donna o lontano da lei che a lungo si trattenne a Parigi, non cessò di attendere all'opera propria componendo, «tributo all'adorata memoria» del Gori, il dialogo Della virtù sconosciuta, proseguendo e conducendo a termine il trattato Del principe e delle lettere, mettendo in versi le ultime tre tragedie e ideandone e stendendone due nuove, il Bruto primo e il Bruto secondo, con cui avrebbe voluto concludere la. sua carriera di tragico. Ideò pure, quasi appendice del suo teatro, una «tramelogedia», mista di parti liriche e parti drammatiche, che intitolerà Abele, e riprese un disegno antico dando inizio alle Satire, per tacere dei sonetti che continuava a comporre e che erano il diario fedele del suo spirito.

Ma sovra ogni cosa gli stavano a cuore le tragedie, che non cessava di rivedere e limare con ostinazione e vigile cura, e ne faceva oggetto di discussione stendendo le risposte al Calzabigi e al Cesarotti (che gli aveva indirizzato una lettera sulle tragedie del terzo volume), e i Pareri su ognuna di esse, sull'Invenzione, sulla Sceneggiatura, sullo Stile di tutte. Ne preparava l'edizione definitiva, che durante un suo soggiorno a Parigi decise di affidare al Didot. Anche l'87 passò tra queste occupazioni in Alsazia, interrotte soltanto per una gravissima malattia, durante la quale ebbe il conforto di avere presso di sé il Caluso. Si riebbe, per quanto da allora cominciasse la sua precoce vecchiaia, e si trasferì finalmente a Parigi per seguire da vicino la stampa del suo teatro e non essere lontano dalla sua donna, che aveva preso dimora in un palazzo di Rue de Bourgogne, dove, libera ormai di secondare la sua vocazione più vera, aveva aperto un salotto frequentato da letterati e da uomini di mondo.

Con non molti di essi l'A., di cui rimase nelle memorie di chi lo conobbe il ricordo della taciturnità e riservatezza, strinse relazione: ma fra quei pochi è da ricordare il Suard, con cui discusse delle sue tragedie, il Beaumarchais, alla cui tipografia di Kehl affidò la stampa de L'America libera, de La virtù sconosciuta, de L'Etruria vendicata, delle Rime, Del Principe e delle lettere, e sopra tutti Andrea Chénier, che gli dedicò una pagina calda d'entusiasmo nell'Essai sur la perfection des lettres et des arts, compiacendosi di aver trovato nel trattato Del principe e delle lettere idee conformi alle sue, se pur quelle idee non gli erano state ispirate o rafforzate dalla lettura che l'A. gli aveva fatto delle sue pagine, e riconoscendo l'origine della loro amicizia nella «unanimité des sentiments et d'opinions». E di quest'amicizia, una delle rare amicizie alfieriane, è pure documento il Capitolo in terza rima che nell'aprile del 1789 l'A. indirizzò al Chénier allora a Londra discorrendo col più giovane amico degli avvenimenti politici del giorno e delle loro occupazioni letterarie con una evidente simpatia, paternamente consigliandolo e confortandolo. «Tu scaccia intanto i pensamenti oscuri; / E allo scriver sol pensa, a scriver nato; / Che non è cosa al mondo altra che duri».

Gli avvenimenti di Francia, i fermenti che precedettero la convocazione degli Stati generali, i primi atti rivoluzionari colsero l'A. nel tempo in cui tutto era preso dalla revisione definitiva e dalla stampa della sua opera: perciò (come pur si vede dal Capitolo al Chénier) egli poté sì partecipare non senza consenso e speranza al moto generale degli spiriti e riecheggiarne in certo qual modo i presentimenti nelle ultime tragedie, il Bruto primo, uno spettacolo per un popolo ridesto a libertà, e il Bruto secondo, una sorta del Panegirico di Plinio, concluso non con la magnanima rinuncia del sovrano ma col tirannicidio, e più ancora nelle Dediche delle due tragedie, a Giorgio Washington e « Al popolo italiano futuro», e inviare al re Luigi XVI una copia del Panegirico con una lettera in cui lo invitava a compiere un simile gesto andando incontro ai desideri del suo popolo, e infine essere scosso dalla presa della Bastiglia mescolandosi alla folla esultante e celebrare l'avvenimento nell'ode Parigi sbastigliato; ma il suo cuore profondo era coi suoi libri, prossimi ormai al definitivo compimento della stampa e della pubblicazione, coi quali, sentiva, aveva adempiuto al compito suo di libero scrittore e già compiuto per quanto stava in lui quella rivoluzione che ora gli si presentava in terra straniera dinanzi ai suoi occhi. Non aveva scritto, nel primo libro Del principe e delle lettere, che «gli scrittori per quanto esser possano caldi ed anche entusiasti rarissimamente sono da temersi per sè stessi (dal principe)» sia per la loro consuetudine di vita che li rende poco atti all'azione, «sia perché lo sfogo del comporre indebolisce nella massima parte e minora il loro sdegno»?

Di fatto, uscendo da un lavoro intenso di poco più che un decennio, egli si trovava dinanzi a una situazione nuova a cui era e sarebbe sempre più stato estraneo, anche se da principio le speranze sue si confondevano con le speranze di tutti. E già cominciava col compimento della sua opera a fargli si sentire quello stato d'animo, a cui accennano in un foglietto d'abbozzo dell'autobiografia le parole ultime dell'anno 1789, «principio del disinganno». Ma prima che più aspro e irriducibile si facesse il contrasto col presente e più tormentoso il senso del «disinganno», in un momento di equilibrio e relativa serenità egli stese rapidamente dal 3 aprile al 27 maggio 1790 la Vita (né sembra di dover accettare l'ipotesi che questa non sia la redazione prima, mentre essa non è stata preceduta, a creder nostro, che da pochi appunti), quasi a concludere l'opera tutta ormai stampata sviluppando gli spunti autobiografici e i concetti della risposta al Calzabigi, dei Pareri sulle tragedie, della Virtù sconosciuta, del trattato Del principe e delle lettere, delle Rime in una narrazione continuata che presentasse come introduzione alle tragedie la figura dell'autore e la sua carriera contrastata e pur vittoriosa di libero scrittore. La riprenderà nel 1798, non per apportarvi aggiunte e correzioni sostanziali, ma per rielaborarla stilisticamente in ogni suo periodo, si da darle la sua caratteristica fisionomia, e ne proseguirà la narrazione sino al 1803 scrivendo in dieci giorni, a partire dal 10 maggio di quell'anno, i capitoli XX-XXXI.

La pubblicazione delle tragedie, la stampa delle altre opere (che non furono però allora pubblicate), la stesura dell'autobiografia segnano insieme con gli avvenimenti politici di quegli anni l'inizio di un nuovo periodo della vita e dell'attività dell'Alfieri. Nel 1791 accompagna l'Albany, con la quale ormai faceva vita comune (Carlo Edoardo Stuart era morto nel 1788), in Inghilterra, dove la donna si adoperò per ottenere una pensioné dalla corte inglese, essendo ormai più che dubbia quella francese (certo senza troppi scrupoli per la propria dignità, ma ancor meno li sentiva il cognato cardinale che, divenuto pretendente alla morte del fratello, riceveva pure una pensione dal sovrano «usurpatore»), e dall'Inghilterra attraverso l'Olanda e il Belgio ritorna in Francia sperando di riprendere fra i suoi manoscritti e i suoi libri il lavoro, per cui aveva steso un preciso programma da attuare ora che riteneva finita la sua stagione poetica. «Tragedia vuol dire entusiastica e bollente passione, il che vuol dire giovine.... Invecchiando si scrive meglio e si sente meno; c'è altre cose da scrivere per chi è in tale stato». Sono parole di una lettera del 1796: a quelle «altre cose» attese in Italia, dove tornò nel 1792 avendo lasciato Parigi poco prima delle stragi di settembre, divenuti ormai sospetti egli e la sua donna, dopo un viaggio attraverso il Belgio e la Germania. Si stabilì in Firenze, e nel 1793 prese dimora nel palazzo Gianfigliazzi sul Lungarno presso il ponte Santa Trinita. Tentò per mezzo del Carletti, diplomatico toscano a Parigi, di riavere i libri e le carte che gli erano state sequestrate, inutilmente (soltanto nel '98 il Ginguené, ambasciatore di Francia a Torino e futuro storico della letteratura italiana, non sollecitato da lui ma per sua iniziativa, gli fece avere i manoscritti): si diede perciò a rifarsi una biblioteca, proponendosi di accrescere la propria cultura che ora gli sembrava troppo scarsa, se pur, confessava, mai egli avrebbe potuto essere un uomo dotto. «Tardi or me punge del saper la brama...». Ma lo studio era per lui più ancora che per l'innanzi una necessità, poiché soltanto fra i libri, leggendo, componendo, traducendo – iniziò nel '96 lo studio del greco e lo proseguì con rabbiosa costanza – riusciva a sottrarsi a un mondo ostile e a lui incomprensibile. Alcuni suoi sonetti e certe testimonianze lascerebbero supporre che qualche distrazione egli trovasse anche in un amore diverso da quello per l'Albany: ma non fu quell'amore (o quegli amori) veramente se non una «distrazione», che non lo toccò certo nell'intimo. Altre distrazioni furono le recite in case private delle sue tragedie.

Ma sopra tutto gli importava opporre al presente il suo deciso rifiuto, dimostrare con altri scritti e di fronte ad altri nemici la propria coerenza. La «schiavesca tirannide inaudita» dei rivoluzionari di Francia prende nella sua mente il posto del «tiranno» d'un giorno: il suo scrivere è un armeggiare, un «conficcare al suolo», almeno a suo credere, gli avversari. Vien perciò componendo le Satire, antico disegno attuato in questo tempo, prosecucuzione e sviluppo dei trattati politici, e dal '92 in poi varie prose che insieme a sonetti ed epigrammi raccoglierà nel Misogallo, l'operetta che in poche copie manoscritte farà leggere ad amici fidati, dopo aver pubblicato in un opuscoletto, Contravveleno poetico per la pestilenza presente, una scelta di diciannove sonetti ed epigrammi di quel libro. «Ultime scintille d'un vulcano presso a spegnersi», come egli scrisse, gli verrà fatta dopo la traduzione dell'Alceste euripidea l'Alceste seconda, rielaborazione del mito antico razionalizzato e alfierianamente eroicizzato. Né tralascerà il suo diario in sonetti, sollevandosi talora in alcuni di essi così come nel più importante lavoro di questi tempi, la redazione definitiva della Vita, a una solenne e severa considerazione di sè medesimo, dell'opera compiuta, del suo intrinseco valore.

Nella coscienza della missione adempiuta, che traspare da queste pagine in prosa e in versi, era il suo più vero conforto, crescendo intorno a lui col susseguirsi degli avvenimenti il senso di isolamento. Tra le due parti che si combattevano egli non poteva essere né con gli uni né con gli altri: «Infami al par dei vincitori i vinti» è il suo giudizio sulla pace di Campoformio, e dei re e della plebe sentenzia in un sonetto: «Qual è miglior? Nessuno, ambo dan lutto»; tesse in un sonetto l'elogio del culto cattolico, ma si abbandona nel Misogallo a frizzi anticlericali di sapore volterriano e la religione non sa considerare se non come un «errore», sia pure «utile ai più».

Poteva accogliere con le lagrime agli occhi il suo sovrano esule in Toscana e ansiosamente attendere i successi dei generali austriaci e plaudire anche ai misfatti delle plebi reazionarie, ma nell'intimo rimaneva il ribelle di un giorno, accentuando ancor più il carattere pessimistico e negativo del suo credo libertario: e quando nel 1799 furono pubblicate dal Molini a Parigi le sue opere politiche, che aveva lasciate stampate in Francia, egli, pur esprimendo il proprio rincrescimento per quella pubblicazione, ribadiva le proprie convinzioni scrivendo al Caluso: «Interrogato su tali punti tornerei sempre a dire lo stesso ovvero tacerei... In due parole io approvo di bel nuovo solennemente tutto quanto o quasi è in quei libri...». Di qui la crescente misantropia (soltanto con alcuni nobili piemontesi, tra cui Prospero Balbo e Cesare d'Azeglio, padre di Massimo, profughi in Toscana, egli ebbe una certa familiarità, ritrovandosi in quel mondo da cui era uscito, ma ogni altro teneva da sé lontano rifiutando di vedere persona prima non conosciuta, come diceva un cartello apposto alla sua porta); - di qui il rinchiudersi ancor più esclusivamente nel lavoro che si era imposto quando la dominazione francese in Italia dopo Marengo parve definitivamente consolidata. In questi anni tutto s'immerse nella stesura e nella rielabotazione delle sei Commedie, con tanta applicazione che l'Albany attribuì a questo lavoro la causa della sua morte. Essa lo colse repentinamente dopo breve malore l'8 ott. 1803.

La contessa d'Albany provvide con l'aiuto del Caluso alla stampa delle opere inedite, che uscirono in tredici volumi a Firenze con la falsa data di Londra 1804 (il Misogallo fu pubblicato per prudenza come cosa a sé stante), e affidò al Canova l'incarico del monumento funebre in Santa Croce, inaugurato nel 1810. L'A. aveva preparato per sé questa epigrafe: «Quiescit. hic. tandem / Victorius. Alferius. Astensis / Musarum. ardentissimus. cultor / veritati. tantummodo. obnoxius / dominantibus. idcirco. viris / peraeque. ac. inservientibus. omnibus / invisus. merito / multitudini / eo. quod. nulla. unquam. gesserit / publica. negotia / ignotus / optimis. perpaucis. acceptus / nemini / nisi. fortasse. sibimet. ipsi / despectus / vixit. annos ... menses dies ... / obiit ... die ... mensis ... / Anno. Domini. MDCCC...»: fu sostituita invece dalla seguente: «Victorio. Alferio. Astensi / Aloisia. e. Principibus. Stolbergis / Albaniae. comitissa / M. P. C. An. MDCCCX», mentre sulla tomba di lei, che fu sepolta accanto al poeta, fu apposta con qualche modificazione l'epigrafe che insieme alla sua per lei l'A. aveva composto. In un sonetto il poeta aveva manifestato la volontà che i suoi libri fossero donati alla città natia: ma la contessa, sua erede universale, non tenne conto di quel proposito e morendo nel 1824 lasciò erede di ogni sua cosa, tra cui erano i libri e i manoscritti dell'A., il pittore Fabre, che dal 1796 frequentava la loro casa e che era divenuto suo intimo amico, da tutti riconosciuto come tale. Per una clausola del testamento, ispirata da Ludovico di Breme, i manoscritti avrebbero dovuto essere consegnati alla Biblioteca Braidense di Milano, la città culturalmente più viva d'Italia, a giudizio del Di Breme, e perciò la più degna di accogliere le carte del poeta: ma il Fabre, quale ne fosse la ragione (forse per un codicillo a noi ignoto scritto dopo la morte del Di Breme, il quale avrebbe dovuto curare la consegna di quelle carte alla biblioteca milanese), lasciò invece partendo da Firenze i manoscritti (ma non tutti) alla Biblioteca Laurenziana e le restanti carte e i libri, parecchi dei quali postulati, insieme a quelli della contessa, legò alla biblioteca della natia Montpellier, dove tuttora si conservano: furono però bruciate dal direttore di quella Biblioteca le carte che parvero troppo intime, e tra queste il carteggio dell'A. con la donna amata; alcune carte, abbozzi di poesie, minute di lettere, appunti, note di spese, ecc., tutto materiale di non grande importanza, furono nel 1923 dal comune di Montpellier donate alla città di Asti.

Opere:

L'opera dell'A. si riconnette per il suo impulso primo e lo spirito che l'informa a quel moto di idee e di propositi che si suol designare genericamente col nome di illuminismo, e più precisamente alla sua fase estrema, in cui, approssimandosi l'età della rivoluzione, se ne accentuò il vigore polemico e a un tempo la tensione dei diversi motivi. Se pur gli piacque contrapporsi al suo secolo, «ma non mi piacque il vil mio secol mai», e prima ancora della rivoluzione si dimostrò scontento dell'insegnamento dei filosofi, che del resto aveva accolto, la «semi-filosofia» che non poteva in tutto soddisfarlo, di fatto anch'egli credeva in una possibile palingenesi dell'umanità ricondotta al regno della ragione e della libertà mercé un rivolgimento politico, e l'ardore di rinnovamento, la polemica contro gli «abusi», i «pregiudizi», gli «errori» si continuava e si potenziava in lui scarsamente sensibile a problemi politici determinati e concreti, contro un unico avversario: quella tirannide da cui sentiva vulnerata nell'intimo la sua personalità d'uomo. D'un balzo egli va perciò al di là delle riforme che non lo interessano, come non lo può interessare nessun miglioramento parziale; mentre intorno a lui è il compiacimento per i beni che si credono conseguiti, per la instaurata età dei lumi, per la certezza di prossimi felici avvenimenti, egli, anche se talora non sa chiudere del tutto il suo animo al sentimento dei più, avverte sempre piuttosto con dolore quel che manca e rimane come smarrito di fronte alla forza del nemico contro cui combatte e che gli sembra dominare incontrastato. L'ottimismo del secolo viene con lui meno, e dà luogo a un pessimismo angoscioso, se pur irriflesso e non ancora sistematico: tanto più forte è l'impeto con, cui si volge verso il nuovo mondo della libertà, tanto maggiore è lo smarrimento di fronte alla realtà che lo nega; tanto più viva è la coscienza di sé medesimo, delle proprie forze e delle indefinite possibilità che ad esse si schiuderebbero in un mondo diverso dal presente, tanto più doloroso il riconoscimento di una condizione di cose che a lui sembra impedire e comprimere la personalità sua e di quanti (o dei pochi) «non usurpano il nome di uomini». Qui è la radice del suo pensiero (se così vogliamo chiamarlo) come della sua poesia, e in particolare della sua poesia tragica, nella quale assai meglio che nella prosa di un discorso politico, poco consono alla sua indole, gli era concesso dar voce al suo sentimento più profondo, lo sgomento di fronte a quella forza paurosa che egli sentiva incombere sul mondo e avvertiva in sé medesimo.

Egli ebbe a dire di aver scritto perché il suo tempo non gli aveva permesso di operare, e si ritenne per questo, dalla Stael ad esempio, che egli avesse asservito la poesia alla politica o che la poesia sua non fosse stata altro che un'azione, meritoria come tale, ma intrinsecamente impoetica. In realtà l'affermazione alfieriana ci attesta che la poesia non fu per lui pura letteratura, bensì espressione totale della sua personalità e che quindi in essa confluisce tutta la sua passione, il suo pensiero, il suo ardore d'azione: «E perciò appunto, commentò il Leopardi, egli fu vero scrittore, a differenza di quasi tutti i letterati e studiosi italiani del suo e del nostro tempo». Non un programma d'azione né una dottrina preesiste alla sua poesia, bensì quello stato d'animo che si è descritto, e le stesse tragedie sue più scopertamente politiche, quelle da lui designate «tragedie di libertà», anche se non sono le più poeticamente ispirate non sono opera didascalica, a somiglianza di parecchie tragedie del Voltaire, che offrono all'autore occasione di esporre per mezzo dei suoi personaggi massime e giudizi. Al principio di una tragedia alfieriana è un grido, voce della sua angoscia o di un indistinto disperato impeto d'azione, e questo grido egli affida a personaggi che gli danno una più vasta risonanza. E se talora, come nelle ricordate tragedie di libertà, egli rimane pago di un'esplosione di furore libertario, come nella Congiura dei Pazzi in cui, egli disse, l'autore è uno dei congiurati contro Lorenzo, o si compiace di porre innanzi a sé e al pubblico un mondo esemplare, incarnato m una famiglia eroica sullo sfondo di una Roma ideale, come nella Virginia, o un eroe di grandezza a suo credere più che umana, come nel Timoleone (eppure in queste stesse opere più sommarie o più rigide non manca un fondo di poesia), altra volta egli cerca di penetrare più addentro in quel suo sentimento per comprendere da poeta, e non da filosofo, e la sua angoscia e la realtà da lui avversata.

Si può dire che la forma teatrale gli si presentasse naturalmente in un secolo in cui tanta parte ebbe nella vita e nella cultura il teatro, e che veniva incontro sia a quel suo represso andito all'azione che al bisogno di proiettare sulla scena incarnandola in personaggi e in un'azione rapida, irruente la propria passione. Con la forma teatrale egli accoglieva una millenaria esperienza della tragedia greca, latina, francese e dei più recenti tentativi italiani, e pur avendo conoscenza dello Shakespeare preferì mettere da parte quell'autore perché «gli andava troppo a sangue»: troppo bene sentì che nel vasto quadro shakespeariano si sarebbe dispersa l'originalissima poesia sua, così come la stessa tragedia classicistica troppi elementi superflui per lui ancora portava con sé e doveva esser resa più scarnita e severa con l'eliminazione di personaggi non essenziali, di episodi secondari che ritardassero lo svolgimento dell'azione. Si conformava in questo alle esigenze critiche che si eran fatte sentire più volte nel corso del secolo e con più forza nel tempo suo col neoclassicismo, ma obbediva sopra tutto allo spirito profondo della poesia sua, che tendeva a quella grandiosa elementarità. Perciò la storia della sua poesia ci mostra come egli vada via via facendo cosa propria gli schemi e le situazioni della tragedia classica e a un tempo come in questo lavoro egli vada approfondendo la sua concezione tragica e sollevandosi da un iniziale indistinto moto dell'animo sino a una comprensione poetica di quel che all'inizio era stato un incubo pauroso.

Se angusto è il suo mondo poetico e breve il periodo della attività tragica, entro questi limiti è pure evidente una linea di sviluppo, e un carattere bene individuato ha ciascuna delle sue tragedie: il Filippo, in cui sono ancora troppi elementi estranei all'autentica poesia alfieriana, ma che vive per la disperazione eroica di Carlo e l'attonito sgomento di Isabella di fronte a quella forza inumana e paurosa, simile ad incubo, impersonata nel monarca spagnolo; il Polinice, in cui il poeta ritrae inorridito eppure affascinato la figura di Eteode, diverso nel suo impeto titanico dal cupo Filippo; l'Antigone, in cui campeggia la protagonista, vittima ed eroina a un tempo, intesa ad un'opera di pietà che è insieme una sfida al tiranno, con gli occhi fissi verso la morte, che sarà per lei la liberazione dalla vergogna della sua famiglia, la vittoria su Creonte e più ancora su sé medesima, su quella che essa sente come una colpa, l'amore per Emone; l'Agamennone, in cui è rappresentata con modi insolitamente analitici la fatale soggezione di Clitennestra alla volontà di Egisto e alla propria passione, condotta, senza aver la forza di resistere, al delitto; l'Oreste, la tragedia della «sublime vendetta» che i personaggi ci presenta come travolti da passioni gigantesche, cozzanti l'uno contro l'altro in un'azione frenetica; la Rosmunda, che la concezione dell'Oreste abbassa a modi melodrammatici, ma nonostante la debolezza dell'insieme ha accenti di bellezza vera nel furore di distruzione della protagonista e più ancora nella figura consapevole del proprio destino della sua vittima, Romilda; l'Ottavia, diseguale pur essa, ma da cui si leva fin dall'inizio la cupa figura di Nerone e più poeticamente compiuta anche qui la figura della vittima, Ottavia, alla quale come a tanti altri eroi ed eroine dell'A. non resta che attendere e desiderare la morte, ma che la morte non sa affrontare per un'invincibile debolezza e a Seneca si volge per essere da lui confortata e protetta; il Don Garzia, che ci mostra il protagonista simile al Carlo del Filippo, sopraffatto da una forza mostruosa, simile per la complicata vicenda e per la inaudita perfidia, da cui è travolto il nobile figlio del duca Cosimo, a situazioni dei drammi giovanili dello Schiller, I Masnadieri e Amore e raggiro; la Congiura dei Pazzi, la più poetica delle tragedie di libertà, che nell'ultimo atto almeno supera la polemica nella visione della catastrofe, nel grido di Raimondo ferito a morte, il quale alla moglie che gli chiede chi sia il traditore, contro cui il popolo tumultuante impreca, esclama: «Il traditor fia il vinto»; la Merope infine, con la quale il poeta conscio della propria originalità si è provato diremmo in una gara su di un tema tragico, soggetto di due celebrate tragedie del secolo, del Maffei e del Voltaire, e che perciò è nel complesso opera piuttosto letteraria che poetica, ma che con la figura di Merope, più vicina dei personaggi delle precedenti tragedie alla comune umanità, sembra annunciare la più complessa poesia del capolavoro, il Saul, tragedia nella quale mondo superumano e mondo umano coesistono non solo per la presenza intorno a Saul di creature estranee al suo folle sogno di grandezza superumana, ma nell'animo stesso del protagonista, aperto come non erano gli altri tiranni alfieriani agli affetti più umani.

Nel Saul, ideato e composto contemporaneamente alla Merope e a una certa distanza dalle prime dodici tragedie, il poeta ha superato quello che costituiva il limite della sua poesia nelle opere precedenti, in cui sempre rimaneva alcunché di immotivato e l'intuizione poetica non riusciva ad informare tutta la tragedia, cosicché l'autore si giovava più di una volta di procedimenti intellettualistici per condurre innanzi l'azione: vizio evidente anche nel linguaggio che si leva alla poesia nei momenti in cui i personaggi hanno dinanzi a sé la visione della propria rovina, e il poeta trova allora parole di assoluta e pura bellezza mentre altre volte si avviluppa in un frasario convenzionale non avvivato dalla voluta concisione e concitazione. Non per questo il Saul è, come credette il De Sanctis, un'eccezione nel suo teatro: il poeta a questa opera sua più compiuta è giunto rifacendosi al motivo primo del suo spirito e della sua poesia, il motivo della tirannide, vale a dire la brama di un'assoluta impossibile onnipotenza e l'intima contradizione che le è propria. Perciò anche il Saul è la tragedia dell'esasperata volontà di dominio che isola gli individui in una paurosa solitudine e non mai si queta perché non è mai veramente soddisfatta. Non diversi da lui gli altri tiranni: ma quegli altri l'A. ce li presenta di scorcio, quasi proiezione di un incubo angoscioso, in questa tragedia invece rivive con simpatia il dramma del suo protagonista, che per questo non si fissa in un atteggiamento immobile, come Filippo, Eteocle, Nerone, ma si disvela a noi con una varietà ammirevole di toni e di accenti: così l'odio per David non dissimile nella sua origine dall'odio di Filippo per il figlio, non è più sentito come affetto mostruoso e inspiegabile, bensì penetrato nella sua intima essenza e inteso nel complesso dei sentimenti che l'accompagnano e che con esso contrastano; l'impeto titanico di una volontà regale viene a contrasto con la coscienza di un'intima debolezza, l'incapacità di ritrovare la sicurezza di un fermo, deciso volere dà luogo a moti e impeti in apparenza incoerenti ma in cui si rivela l'energia di quella volontà spezzata. L'autore non deve più ricorrere a espedienti e ad artifici per costruire la tragedia: il ritmo dell'azione è il ritmo stesso dell'anima del protagonista, che anela a uscire dal cerchio in cui si è chiuso ed è sempre ricacciato nella solitudine e nel suo tormento, che sarà superato soltanto nella morte di fronte al nemico; negli accenti di lui non diversi dai gridi solitari delle altre tragedie e tanto più vari si dispiega tutta la gamma di sentimenti di un complesso e grande spirito. Intorno al protagonista si collocano gli altri personaggi, che partecipano alla sua vita pur serbando ben distinta la propria individualità, non travolti dalla sua tragedia: un piccolo mondo patriarcale che è come il motivo complementare dell'opera.

In Saul, «il mio personaggio più caro», scrisse il poeta nella Vita, «vi è di tutto di tutto assolutamente»: ma non si conclude con la tragedia del vecchio re biblico la ricerca poetica dell'A., quel suo progressivo svilupparsi dallo spirito primitivo dell'opera sua, in cui poesia e polemica si confondevano. Già nelle tragedie anteriori al Saul l'A. aveva intraveduto di quando in quando al di là della stessa politica e del contrasto tra tirannide e libertà una realtà tragica non dissimile da quella che gli era apparsa meditando su quel motivo dominante del suo intelletto e della sua fantasia. Già in quelle tragedie, tra i suoi tiranni e le loro vittime, si erano venuti a collocare altri personaggi su cui gravava una diversa e pur simile fatalità, e il motivo dell'amore vietato, che non si può né fuggire né appagare e si asside immoto nell'animo come forza distruggitrice, ora da solo come nell'Agamennone, ora congiunto al motivo politico come nel Filippo, si era presentato come motivo tipicamente suo, ma quando credeva di aver ormai compiuto la sua opera di tragico, due anni dopo il Saul, il poeta quasi sprofondandosi nel suo intimo, trovò una tragedia nuova tutta informata da quel motivo, la Mirra.

Con la Mirra la tragedia alfieriana ritraendosi dalla scena ed anche da ogni altro personaggio che non sia la protagonista si è come calata nell'intimo dell'animo di lei. Dileguate le immagini dei tiranni e delle loro stragi, come quelle più grandiose di enormi rovine e di delitti fatali, la forza nemica che l'A. sente incombere minacciosa sull'individuo gli si è presentata con l'immagine indistinta di un sogno peccaminoso, che si affaccia ad una mente giovinetta e prima ancora di allettarla la spaura, non lasciando in lei altro che una vergogna immensa e il rimpianto della purezza perduta. L'orrore che spirava dalle pareti delle funebri regge e dalle visioni allucinate dei personaggi si è concentrato nel cuore di questa giovinetta, che nemmeno può gridare, ma deve con sforzo unico reprimere dentro di sé e ne è perciò, come nessun altro personaggio alfieriano, penetrata. Di qui la funzione dell'ambiente borghese, da cui la fanciulla è circondata e che costituisce come uno sfondo neutro atto a far risaltare quell'intimo e segreto orrore, e il carattere di questa tragedia che è come un dialogo fra il coro e la protagonista, tutta intesa nella vana lotta per nascondere agli altri, alle loro inchieste affettuose e per lei terribili, il suo segreto. Anche Mirra altro scampo non avrà, come gli altri personaggi dell'A., che nel suicidio, ma non è il suo, come il loro, un suicidio eroico: abbandonata dai genitori inorriditi essa muore col rimpianto che anche la sua morte è stata inutile e inutile la sua ostinata eroica difesa, rivolgendo alla nutrice china su di lei in un gesto di muta pietà le estreme desolate parole.

La Mirra sembra concludere con accenti delicatissimi e in parte nuovi l'opera poetica alfieriana: nulla aggiunge di vitale a quell'opera l'Agide, e qualche frammento soltanto la Sofonisba, sopra tutto per gli accenti di magnanima rinuncia del personaggio di Siface. I Bruti non sono se non una tardiva ripresa delle tragedie di libertà, ed escono per più rispetti dallo schema consueto della tragedia alfieriana senza che questa novità risponda a un rinnovamento poetico, e il Bruto primo si presenta come uno spettacolo offerto dal poeta a un auspicato popolo rifatto per una felice rivoluzione signore di sé medesimo, e il Bruto secondo come una grande orazione rivolta «al popolo italiano futuro», a cui la tragedia è dedicata. Frutto poi di una nostalgia per il suo mondo tragico, da cui non sapeva del tutto staccarsi, sono l'Abele, designata da lui come «tramelogedia», «stravagante parola» per significare una «stravagante invenzione», ossia un dramma in cui si alternano parti liriche e parti tragiche e compaiono personaggi umani e personaggi fantastici, e che nella parte lirico-fantastica è al disotto della mediocrità, mentre soltanto si avviva per l'ossessione del delitto, da cui Caino è suo malgrado spinto all'uccisione del fratello; e l'altra tramelogedia, soltanto ideata, l'Ugolino, che rende più truce il truce dramma dantesco o La Scotta, di cui non tracciò se non una ancor più rapida «idea»; o la più tarda Alceste, in cui la protagonista, la figura meglio rilevata del dramma, riecheggia negli accenti più felici accenti di altre più originali eroine del suo teatro. E una tragedia mancata potrebbe esser definito quel poema L'Etruria vendicata, che ha per soggetto l'uccisione di Alessandro de' Medici, compiuta da Lorenzino trasfigurato in purissimo eroe di libertà, perché il furore antitirannico è stato come incanalato in una narrazione in ottave che gli toglie la sua giustificazione psicologica ed estetica e fa apparire esagerate e inumane le massime politiche che vi si predicano e del tutto gratuita l'azione.

Delle Rime l'A. nel dialogo La virtù sconosciuta fa dire all'amico che egli «fama da esse non pretende né aspetta» e che, per quanto esse siano «nobile e dolce sfogo» e perciò di inestimabile valore per lui, debbano pur sempre essere «il suo pensiero secondo»: «le tragedie vadano innanzi». Né diverso giudizio dovrebbero darne i critici, riconoscendo in queste rime che all'A. vennero scritte durante la composizione delle tragedie e in maggior numero nei periodi di pausa del lavoro tragico e quand'esso fu compiuto, opera secondaria rispetto alle tragedie o forse meglio complementare, «faville del maglio», sia quelle che più scopertamente si presentano come esercizio d'artefice, sia le più originali e numerose, in cui è il segno della personalità alfieriana, confessioni, giudizi, impressioni: testimonianza singolare di uno spirito singolare che si distingue come intimo diario poetico da tutta la lirica del secolo. Di esse l'A. curò due raccolte: la prima, stampata nel 1789, la seconda, comprendente i componimenti del decennio successivo, preparata da lui usci fra le opere postume. Sono nella prima, oltre componimenti di vario metro di scarso valore, e quarantaquattro epigrammi preceduti da un proemio, che si distinguono per il piglio incisivo e bizzarro, centonovantaquattro sonetti (il poema lirico L'America libera fu stampato a parte). Molti di essi sono dedicati all'amore per l'Albany, e fra questi sono non pochi fra i meno originali del nostro poeta, il quale accoglie spesso le espressioni convenzionali della poesia amorosa; ma quando non si propone di celebrare la sua donna, e dice invece la disperazione per la forzata lontananza di lei e la desolazione che di lui s'impadronisce, quando separato dall'amata, ritrova in sé stesso il senso della nullità della vita, esce in accenti indimenticabili, espressione di una nuova sensibilità, che già possiamo chiamare romantica. «Or ch'io son da mia donna allontanato / Intero il mondo a me un deserto farsi / Veggio»; «Te chiamo a nome il dì ben mille volte; / Ed in tua vece, morte a me risponde: / Morte che me di là dalle triste onde / Di Stige appella....»; «Gioia non v'ha che omai più il cor m'irragge: / Morte mi s'è d'intorno ad esso avvolta...». L'imitazione del Petrarca diventa allora uno stimolo per approfondire uno stato d'animo, una fantasia: e temi e motivi petrarcheschi risorgono rinnovati da uno spirito nuovo, da una nuova esperienza, volti di solito dal patetico al tragico, come il compiacimento della solitudine nel sonetto Tacito orror, o il gusto dell'ingannevole sogno nel Sonetto Solo fra' mesti, e la natura si profila con aspetti selvaggi, conformi allo spirito del poeta che tutta vorrebbe vederla improntata del proprio dolore: «Che? non ètutta la natura in pianto?». In questi sonetti il poeta ci si presenta simile a personaggi delle sue tragedie, sia che si rivolga come a un tiranno che lo domina alla Melanconia, sia che si mostri perseguitato, nuovo Oreste, dalle Furie, «Due fere donne, anzi due furie atroci...», o perennemente irrequieto senza pace o intento solo ad esasperare il proprio dolore entro cui si chiude, o con l'animo quasi ossesso da una soverchiante passione, «or cieca scorta odo il mio sol furore». Ma talora il suo discorso si fa più pacato e il poeta riesce a chiudere nei quattordici versi ben rilevandoli mercé gli accenti e le rime, un giudizio su sé stesso e sul mondo; nascono così il sonetto-ritratto, Sublime specchio di veraci detti (ma non a questo sonetto solo si conviene la definizione, bensì a non so quanti altri, anche a certuni dei più mossi e drammatici, sonetti-ritratti tutti dell'autore delle tragedie), nasce il sonetto sulle contradizioni della vita umana, Sperar, temere, rimembrar, dolersi, o quelli in cui si fissa il suo ideale morale e si spiegano le ragioni del suo volontario esilio, Chi 'l crederia pur mai che un uom non vile e Uom cui nel petto irresistibil ferve, e altri che suonano come condanna della patria ignava o quelli dedicati ai grandi del passato, nei quali il poeta ritrova sè stesso: Dante (O gran padre Alighier), il Petrarca, Michelangelo e il suo Mosè, artefice eroe non inferiore all'eroe da lui ritratto, o giudizi su personaggi del suo tempo, come l'omaggio dell'uomo libero Alfieri a Federico II morente: «Ma di non nascer re forse era degno».

Traspare di quando in quando dalle rime la consapevolezza che non soltanto dalla natura dei reggimenti politici derivi l'infelicità umana in genere e in particolare del poeta, bensì da una condizione intrinseca e insuperabile dell'uomo, e l'impeto antitirannico che sta all'origine dell'ispirazione tragica chiarendosi finisce per essere trasceso in opere, a tacer d'altre, come il Saul e la Mirra, e risolto in una visione insieme desolata ed eroica. Non i re soli hanno fatto un carcere di questa vita, questo terreno carcere dal quale il poeta anela di esser liberato, questa natura umana di cui sente irosamente la meschinità e la miseria: ciononostante con un moto deliberato della volontà egli ricaccia la tentazione ad abbandonarsi a una concezione pessimistica come sarà quella del Leopardi e che già in lui si presente, e riprende la sua polemica contro avversari che debbono essere vinti, perché gli uomini ed egli stesso per primo abbiano (quando?) la possibilità di dirsi liberi e signori di sè medesimi. Quella polemica serpeggia fra i suoi versi, ma soltanto nelle prose politiche si svolge o tenta di svolgersi con coerenza e sistematicità. Accantò all'opera poetica libri come Della tirannide, Del principe e delle lettere, La virtù sconosciuta, Il Panegirico di Plinio a Traiano rappresentano la «teoria», se così possiamo chiamarla, dell'A., la sua concezione politica e morale (ma è possibile separare in lui la morale dalla politica?), e da quei libri non si può prescindere per un estetismo fuor di luogo da chi studi l'opera sua, quasi che rispetto ai capolavori di poesia fossero soltanto l'espressione di una realtà contingente, e non invece di quella poesia il necessario complemento, e nemmeno considerarli anch'essi, insieme al resto dell'opera, esteticamente, voce dell'animus poetico del «più che uomo» Alfieri, isolato nel suo eroico individualismo. Se non si deve più consentire, come si è detto, al vieto giudizio di un A. che avrebbe asservito la poesia alla politica, non si deve nemmeno svalutare l'importanza e il significato storico di quel pensiero, così strettamente connesso al pensiero e ai sentimenti del tempo eppure improntato del caratteristico accento alfieriano. Quel che nei trattati non si deve cercare è un programma politico, come si fece nel secolo scorso quando si credette di ravvisare nelle operette politiche alfieriane, anteriori o posteriori alla rivoluzione, questo o quel regime politico preferito o propugnato dallo scrittore (la repubblica? la monarchia costituzionale?): ricerca antistorica e vana a cui si contrappose per confutarla la concezione di un A. anarchico (Calosso), concezione parimenti erronea se l'anarchia si concepisce come un sia pur negativo sistema di governo, o se del cosidetto anarchismo alfieriano si fa una sorta di anticipato superomismo fondamentalmente antipolitico. L'interesse dell'A. si appunta non sulle istituzioni meglio atte a garantire la libertà, non su problemi politici e giuridici, anche se riecheggia concetti vulgati sui tre poteri, sulla loro necessaria separazione ecc., bensì sull'individuo, sugli effetti della soggezione sua ad una volontà altrui onnipotente ed arbitraria, sulla possibilità che egli ha di riscattarsene salvando l'integrità del proprio essere, sul dovere prima che sul diritto che ogni uomo ha e più di altri chi più altamente sente di sé e della propria umanità, di essere libero. Lo soccorre nell'esame che egli fa dell'animo dei sudditi come di quello del tiranno parimenti avviliti dall'esercizio di un potere arbitrario, la letteratura politica del secolo (fu detto dal Bertana che si potrebbe ricomporre con passi di scritti francesi fioriti intorno all'Enciclopedia l'intero tessuto dei trattati alfieriani: ma è dubbio al Bertana stesso che quegli scritti egli conoscesse e sopra tutto presenti ebbe invece il Montesquieu, il Voltaire, l'Helvétius, e con gli autori del suo tempo il Machiavelli), ma più ancora un abito non comune dell'introspezione, per cui si direbbe che non fuori di sé, negato com'era alla pacata osservazione, insofferente come pochi nel suo secolo degli studi storici, ma dentro di sé egli abbia scoperto e il tiranno e i servi e l'uomo libero, mettendo in luce il male intrinseco in ogni soggezione dell'uomo all'uomo. Perciò gli spunti attinti dalle letture acquistano un accento personale di esperienza vissuta e sofferta e insieme un carattere di intransigenza e assolutezza che spesso non avevano in un sistema di pensiero più complesso o come motivi di critica e di discussione lasciati cadere fra altri e diversi motivi. Caratteristico per questo il capitolo Della paura, che è al centro del trattato antitirannico, e nel quale è ripreso, svolto, trasfigurato il concetto del Montesquieu della «crainte» come «ressort», base e molla del dispotismo: non più come nell'Esprit des lois un assioma scientifico, bensì un vasto angoscioso quadro dell'umanità avvilita, non più limitata la paura, come nel Montesquieu, ai pochi individui che stanno intorno ai despoti dell'Oriente, bensì sentimento dominante di tutti gli uomini, dei sudditi come del principe, legge universale che governa il mondo.

Più coerente e serrato di tutti questi scritti suoi, il trattato Della tirannide, composto di getto (qualche ritocco soltanto sembra esser stato fatto per la stampa): due libri che , mirano a porre in luce l'essenza e la ragione di quella aborrita realtà, la tirannide in sè stessa, i suoi necessari sostegni, i suoi aspetti diversi, e i mezzi (delineati nel secondo rapido libro) per sottrarlesi e per abbatterla, notevoli per la finezza con la quale l'autore persegue la degradazione morale che un simile potere porta con sé con l'affievolirsi di ogni nobile impulso, col ridursi degli affetti e degli interessi all'amore della pura vita animale, e in particolare negli aspetti con cui gli si presenta nel mondo contemporaneo, la nobiltà cortigiana a lui ben nota e gli eserciti, oggetto della sua costante avversione due dei sostegni delle moderne tirannidi. da rilevare il suo sprezzo per l'opera dei sovrani riformatori, che nemmeno degna far oggetto particolare di trattazione, nessun interesse avendo per riforme che non toccano la radice prima ed unica del male, il potere arbitrario, persuaso che anche se buono un tal principe «forse vuole il bene del corpo degli altri, cioè che non siano né nudi né mendici, ma, volendoli ciecamente ubbidienti all'arbitrio di un solo necessariamente li vuole ad un tempo e stupidi e vili e viziosi e assai men uomini insomma che bruti» e diffidente di quegli esseri ibridi, i «semitiranni», un prodotto dei «nostri costumi presenti che tutto a mezzo ci danno».

Più ampio il trattato Del principe e delle lettere in tre libri, ideato poco dopo il precedente e composto a più riprese, e anche per questo meno unitario, facendogli difetto quel calore continuato, quell'ostinato battere e ribattere su di un unico tema che è proprio dell'altro libretto, scaturito non da una meditazione pacata, a cui era negato il nostro autore, bensì da una ardente passione. «In quella bollente età, scriverà nella Vita a proposito della Tirannide, il giudicare e raziocinare non eran fors'altro che un puro e generoso sentire». Ma sentire e pensare furono in verità sempre per lui tutt'uno: di qui il carattere dell'una e dell'altra opera e di tutti gli altri suoi scritti politici, per cui il Foscolo ebbe a dire che essi dimostravano «che l'abilità dell'Alfieri consisteva molto più nella vigorosa energia dell'assalto che nella ponderazione di una ben preparata difesa», e, possiamo aggiungere, la forza della sua prosa si rivela nell'affermazione imperiosa, nel giudizio perentorio, nella massima singola piuttosto che nel tessuto del suo raziocinio e perciò quelle affermazioni, quei giudizi, quelle massime rimangono piuttosto che la pagina o il libro nella nostra memoria. Così è della Tirannide, così del Principe: ma nella seconda opera quei limiti dell'A. pensatore e prosatore hanno maggior risalto, perché, non dominato da un unico assillante tema, l'autore trae occasione dall'argomento del trattato, le relazioni fra i principi e i letterati, per tante altre osservazioni che a quell'argomento soltanto indirettamente o con sforzo si ricollegano, si da offrire una vera «summa» del suo pensiero morale, politico e letterario, non senza lasciar trasparire certe contradizioni (che del resto non erano soltanto sue, bensì del moto di idee e di spiriti a cui partecipava), più evidenti in questo procedere aforistico. Importante fra tutte quella tra la fiducia nei benefici effetti dei «lumi», che porterebbero l'avvento di un nuovo, giusto e libero ordinamento politico («L'opinione è la innegabile signora del mondo. L'opinione è sempre figlia in origine di una tal quale persuasione e non mai della forza... E in una moltitudine di uomini dal veramente conoscere i propri diritti al ripigliarseli e difenderli, egli è brevissimo il passo») e la convinzione espressa non soltanto nella Tirannide, ma in questa stessa opera, che soltanto una e sacra rabbia,, una azione violenta può condurre un popolo alla libertà. Non giunge a chiedersi se la cultura non finisca per affievolire l'entusiasmo necessario ad ogni grande azione, e quindi a quella che è per lui la più grande e più degna, la conquista della libertà? «Si esamini la storia, e si vedrà che i popoli tutti, ritornati di servitù in libertà, non lo furono già per via di lumi o verità penetrata in ciascun individuo, ma per un qualche entusiasmo, saputo loro inspirare da alcuna mente illuminata, astuta e focosa e neppure quella era una mente seppellita nell'ozio degli studi... Crederei anzi.., che i lumi moltiplicati e sparpagliati tra i molti uomini, li facciano assai più parlare, molto meno sentire, e niente affatto operare. Si parla e si legge e si scrive in Parigi, e ci si obbedisce pure, finora, quanto e più che a Costantinopoli». E se nella Tirannide l'autore aveva riconosciuto nella religione uno dei sostegni primi del potere assoluto e affermato che il cristianesimo non è per sé stesso favorevole al viver libero (e qui la derivazione dal Machiavelli è palese), ma con la libertà è addirittura incompatibile il cattolicesimo («Non si può essere a un tempo stesso un popolo cattolico veramente e un popolo libero»), in un capitolo (l. III, cap. V) del secondo trattato celebra fra gli uomini sommi, degni di esser posti accanto ai «sublimi scrittori» e fondatori di religioni, i santi e i martiri, condannando con parole severe l'irrisione illuministica delle cose religiose ed esaltando quei santi e quei martiri non per le loro credenze, da cui pur sempre si sentiva lontano, bensì per «l'impulso che li movea e la inaudita sublime tempera d'animo di cui doveano essere dotati».

Non per questo il Principe segna un ripiegamento o un'attenuazione delle idee e degli spiriti dell'altro libro: il trattato, che parte dalla premessa di un'assoluta irreducibile opposizione tra la «forza» e il «sapere» e quindi tra il «principe» e l'«uomo di lettere» si ricollega strettamente al libro II della Tirannide riprendendo per un caso particolare il problema di quel che deve fare l'individuo se si trova a vivere in uno stato non libero per salvare la propria indipendenza e adempiere il compito a cui si sente chiamato: un problema tanto più urgente ed imperioso per coloro che come l'autore si sentono chiamati a scrivere e sentono, o dovrebbero sentire, più di altri come esigenza prima la libertà. L'A. si propone di confutare l'opinione vulgata e ancor viva nel tempo suo dei benefici effetti del mecenatismo principesco e dimostrare che le lettere, per raggiungere la loro efficacia e perfezione non devono essere protette; i tre libri (dedicati rispettivamente Ai principi che non proteggono le lettere, Ai pochi letterati che non si lasciano proteggere, Alle ombre degli antichi liberi scrittori) vengono a delineare, lasciando da parte pensieri marginali, la figura del «libero scrittore», «uomo privato che potrà in sé stesso riunire la indipendenza tutta del principe e riunire in sé la educazione di cittadino, l'ingegno, i costumi, la conoscenza degli uomini, l'amor del retto e del vero». Della moralità intrinseca all'esercizio delle lettere, l'A. parla altamente con un discorso nutrito da un'intima originale esperienza: «Una moderna opinione, egli scrive fra l'altro, sfacciata a un tempo e timida e vile, asserisce che il lettore dee giudicare il libro e non l'uomo. Io dico e credo... che il libro è e dev'essere la quintessenza del suo scrittore, e che se non èt ale egli sarà cattivo, debole, volgare, di poca vita e di effetto nessuno». Unica fonte delle vere lettere, come di ogni grande azione, egli considera il «forte sentire» («Non si può fortemente ritrarre ciò che fortissimamente non si sente, e ogni gran cosa nasce pur sempre dal forte sentire»), e la poesia, che è per lui al vertice di ogni opera letteraria, definirà in un sonetto «del forte sentir più forte figlia»: ora ogni stato di dipendenza non può non rendere più debole il «sentire» e questa debolezza non può non riflettersi nella pagina di un autore per quanto colto e letterariamente dotato. La poesia perciò e le lettere in genere non sono dissociabili dalla libertà, e una qualsiasi protezione non può non essere di nocumento. Le stesse scienze, a cui può essere utile il favore di un principe per i loro perfezionamenti e sviluppi, richieggono per coloro che ne pongono i fondamenti e i principî una intera libertà, non diversamente dall'opera dei poeti e dei moralisti, a cui più particolarmente è rivolta l'attenzione dell'A., assai poco propenso a partecipare all'entusiasmo del tempo per le scienze esatte e per le loro scoperte e incline piuttosto ad avvertire dolorosamente il limite che i suoi autori gli hanno insegnato essere posti a ogni indagine della natura.

Converrà però distinguere fra gli scrittori mossi da «impulso naturale» e gli scrittori mossi invece da «impulso artificiale»: originali i primi, spiriti liberi per eccellenza e potenti sempre per vigore e novità di espressione, letterati i secondi di ispirazione riflessa, che possono raggiungere anche un'eleganza, una raffinatezza formale quale non si trova in quegli altri tanto più grandi, e che appunto per la natura della loro più debole ispirazione non soffrono per la protezione principesca – un rudimentale canone critico che vorrebbe conciliare opposte esigenze, del genio e del gusto, o del poeta e dell'artista (per dirla col De Sanctis) e permette all'A. di formulare sia pure approssimativamente il suo ideale di poesia, l'ammirazione per i grandi ingegni creatori come Dante, per troppo tempo posposti a poeti meglio graditi ai letterati, e a lettori da loro educati, per l'eleganza e la regolarità delle loro opere. Si afferma qui più esplicitamente il motivo preromantico del «genio», che serpeggia per tutta l'opera alfieriana e contribuisce a dare un vivo e personale risalto alla figura del «libero scrittore»; che resta peraltro sia pure alfierianamente eroicizzata un tipico portato dell'illuminismo, della sua fiducia nella forza rischiaratrice di scrittori illuminati e liberi. Se pur, come si è detto, quella fiducia talora sembra venir meno nel nostro autore, egli viene compendiando in questo suo «libero scrittore», illuminato a un tempo e ispirato, scrittore-tribuno e scrittore-vate, la fede del secolo, non tanto per un'opera quotidiana di rischiaramento, che valga a dissipare le ombre dell'«errore», degli «abusi», dei «pregiudizi,» quanto per una futura totale redenzione di un popolo, richiamato dal servaggio a una nuova, vera vita. E quella figura amorosamente delinea riconoscendo atti meglio di altri a tale missione alcuni pochissimi fra i letterati nobili, che saranno, egli si augura, «come i Deci della nascitura repubblica» e che «espatriandosi per cercare libertà dove ella si trova ogni loro propria presente cosa sacrificheranno alla futura lor patria».

S'inserisce qui, alla fine dell'opera, il capitolo che riprende il titolo del capitolo ultimo del Principe machiavellico, Esortazione a liberar l'Italia dai barbari: non tanto una «esortazione», a dire il vero, quanto l'espressione di una speranza indeterminata nella resurrezione del popolo italiano, che all'A. sembra nella sua stessa servitù più vigoroso di tanti altri popoli per una tempra naturale, da lui riconosciuta negli stessi «enormi e sublimi delitti che tuttodì vi si van commettendo» come è pur detto nel Parere sull'Agide, in cui sono le famose parole sulla «pianta-uomo, assai più robusta in Italia che altrove» e il presagio, sempre indeterminato, di una futura repubblica italiana che «spingerà certamente assai più oltre la libertà che non i nostri presenti eroi boreali (gli inglesi), fra cui essa si è piuttosto andata a nascondere, che non a mostrarsi in tutto il suo nobile immenso e sublime splendore». Siamo con questo vagheggiamento di un futuro indefinito, sublime per una astratta sublimità, in un mondo di pura immaginazione che col mondo reale non sembra avere nulla in comune: quel che è reale e storicamente importante è l'accento doloroso, personale, che nella prosa e nei versi dell'A. assume uno dei luoghi comuni della polemica illuministica, il principio che «non vi è patria dove non vi è libertà», e il conseguente ripudio da parte del poeta della sua piccola patria («patria non m'è benché natio terreno»), non in nome di un cosmopolitismo che egli neppur conosce o del diritto, di cui parlava il Voltaire, nell'art. Patrie del Dictionnaire philosophique («Tout homme est libre de se choisir une patrie»), bensì per farsi cittadino egli solo di una patria che ancora non esiste e che non può essere se non l'Italia quale egli ha sentito viva nei grandi del passato, a lui affini e che non ha relazione alcuna con gli stati esistenti. Perciò queste operette politiche, che trattano di problemi non peculiari a paesi determinati e in cui, tranne che nel capitolo sopra ricordato del Principe, non si fa neppure il nome d'Italia, segnano col resto dell'opera alfieriana il risoluto distacco del poeta dall'Italia politica contemporanea e l'esigenza di un'altra Italia, la sua patria vera e patria di un vero popolo (quel «popolo italiano futuro» a cui è dedicato il Bruto secondo): vano però sarebbe chiedergli una maggior determinazione del suo ideale patrio, dell'Italia futura e attribuirgli propositi e sentimenti che saranno di altri spiriti, di altre generazioni, anche se negli anni intorno alla rivoluzione e più ancora nei seguenti più fortemente gli si farà sentire l'amore delle cose italiane, e a quella sua vagheggiata Italia si stringerà come unico conforto e sostegno alle sue speranze in un avvenire sempre più lontano e mal definito. Soltanto nel suo individualismo, nel senso vivo del valore di quel che distingue individuo da individuo, popolo da popolo, nell'avversione alle tendenze livellatrici dell'illuminismo poteva trovare appoggio il suo ideale di patria-nazione: chi confesserà nella Vita la propria ammirazione per i popoli che si son serbati più fedeli ai loro costumi e caratteri peculiari, scrivendo ad esempio, a proposito degli Spagnoli, «Io ho sempre preferito originale anche tristo ad ottima copia», non poteva dare altra espressione al suo sentimento nazionale che col corollario a quella che fu sua norma costante nell'agire e nello scrivere, essere sé stesso: essere dunque italiano.
Anche in questo caso non programmi o conclusioni importano quanto il sentimento primo che ispira e regge i ragionamenti, se così possiamo chiamarli, dell'A.: una nuova prova ci è data dal Panegirico di Plinio a Traiano, la meno personale delle operette alfieriane, un esercizio oratorio su di un tema non da lui vissuto e sofferto, ma eco di generiche aspirazioni del tempo suo. L'utopia del principe che rinuncia ai suoi diritti restituendo al popolo la libertà dovette sembrare all'autore particolarmente consona agli avvenimenti e agli spiriti di quegli anni se questa sola fra le sue operette pubblicò nel 1787 e poi ancora nel 1789 unitamente all'ode Parigi sbastigliato.

Ma a quello che è il tema suo per eccellenza, l'individuo in regime non libero, si torna col dialogo La virtù sconosciuta, in cui nel celebrare la «virtù», singolare dell'amico estinto, l'autore viene delineando i modi di vivere e di pensare dei due amici, che diversamente son riusciti a salvare la propria libertà, Vittorio consacrandosi alla missione di scrittore, Francesco serbando nell'oscurità in cui si è chiuso e sotto un abito di riserbo e di tolleranza una assoluta libertà di giudizio e un animo incontaminato, di tanto superiore alla propria condizione e più ancora alla condizione dei tempi, anche se della sua «virtù sconosciuta» altra memoria non rimarrà che in queste pagine a lui dedicate. Per tal modo, oggetto di un colloquio che sembra continuare i colloqui d'un tempo, si fa cosa intima il problema dibattuto nella Tirannide e nel Principe, mentre l'autore ha modo di discorrere di sé, dell'opera a cui attende, dei fini a cui mira, e insieme di accennare alle proprie debolezze («... e se non sempre, anzi le più rade volte, scorgerai nel mio pur troppo picciolo cuore sane ed alte cagioni che il muovano»): un vero e proprio esame di coscienza compiuto insieme dai due amici, che viene ad essere l'avvio e il precedente primo della Vita. Agli spiriti della quale ci sembra di avvertire un accenno là dove discorrendo Francesco del «divino Plutarco» esce a dire che «a scrivere dei moderni.., non è sorto ancora un Plutarco novello». E una «vita» plutarchiana vorrà appunto essere l'autobiografia, se pur mirando a porre in risalto la magnanimità e la grandezza dell'impresa compiuta non tacerà di quelle debolezze a cui si allude nella Virtù sconosciuta, e che vi saranno ricordate con accenti sdegnosi e sprezzanti.

Il «libero scrittore» del trattato prende infatti nella Vita un nome: Vittorio Alfieri. Composta di getto, l'opera si è in realtà preparata lentamente e segna il culmine di quel periodo di riflessione e di ripiegamento su sé medesimo, seguito alla grande fiammata della tragedia. L'hanno preparata i sonetti sopra ricordati e i libri Del principe e delle lettere, e particolarmente quei capitoli in cui è già delineata nel suo impulso primo e nelle sue vicende l'opera del «libero scrittore»; l'hanno preparata i Pareri sulle tragedie, nei quali l'autore si pone di fronte ad esse e raffronta una per una le tragedie, uno per uno i personaggi all'idea che gli sta nella mente, e la risposta al Calzabigi, nella quale tra le affermazioni recise del credo estetico e morale dello scrittore si fa sentire una voce più intima di confessione: «Ciò che mi mosse a scrivere dapprima fu la noia e il tedio d'ogni cosa, misto a bollor di gioventù, desiderio di gloria e necessità di occuparmi in qualche maniera che fosse più confacente alla mia inclinazione».

Alla composizione dell'autobiografia furono forse anche uno stimolo le Confessions del Rousseau, pubblicate nel 1781 e nel 1788 (e questa seconda parte era stata oggetto di vivaci discussioni a Parigi negli anni in cui l'A. vi dimorava e certo negli stessi circoli da lui frequentati), ma se l'A. ne fu probabilmente incoraggiato a fare di sé stesso e dei suoi ricordi più intimi l'oggetto del suo scrivere (e un conforto all'opera trovò pure nei Mémoires goldoniani, pubblicati nel 1787, e nella Vita del Cellini, che si faceva leggere in quel tempo), dovette anche sentire repugnanza per la sincerità ostentata dal ginevrino, che sembra essere presa di mira nelle significative parole dell'Introduzione: e se io non avrò forse il coraggio o l'indiscrezione di dir di me tutto il vero, non avrò certamente la viltà di dir cosa che vera non sia,. E per vero a questa promessa rimase fedele nella narrazione, improntata da un aristocratico riserbo su certi fatti della vita sua, ma assai più sulle persone a cui egli è stato legato, e nella quale, se si può rilevare più d'una reticenza, non si è in fondo riusciti a scoprire una sola vera menzogna.

Non è la sua una confessione, ma una «vita», tutta illuminata dall'ideale a cui lo scrittore aveva tentato di uniformarsi e a cui, nonostante incertezze, erramenti, debolezze sentiva di essersi sostanzialmente conformato. Così la sua vita gli apparve dominata dalla missione del «libero scrittore», incerta dapprima quando quella missione ancora non gli si era fatta chiara, ma già ad essa disposta per la forte indole, le violente passioni, la stessa irrequietudine che trasparivano nella sua dissipazione, e tutta tesa poi verso un unico scopo, quando la coscienza della propria vocazione fece sì che lo scrittore indirizzasse tutte le sue forze al fine proposto e si procacciasse le condizioni necessarie per il libero esercizio della sua arte. Nelle quattro Epoche, Puerizia, Adolescenza, Giovinezza, Virilità vediamo dispiegarsi quella vita, più varia e complessa nelle prime tre, che narrano della remota vocazione, dell'incertezza, delle contradizioni dell'ancor inconscio poeta, monotona necessariamente la quarta, che ci mostra l'A. tutto assorbito nella sua opera di tragico: e la coerenza dell'uomo che guarda con uno sguardo fermo e sicuro al proprio passato, si riflette nell'unità dello stile, il caratteristico stile alfieriano che si libera da quel che di accademico aveva ancora nei trattati politici e nella stessa Virtù sconosciuta, e ben rende l'atteggiamento dello scrittore, giudice di sé medesimo, ora orgoglioso dell'opera compiuta, ora sorridente per le proprie tollerabili debolezze, ora irosamente sprezzante per la propria o altrui pusillaniniltà.

La concezione della Vita non concede indugi evocativi e descrittivi: il ricordo delle terre visitate o degli uomini conosciuti non deve far deflettere lo scrittore dal compito propostosi di dare un giudizio su sé medesimo, e l'A. infatti non abbandona nel parlare di episodi della fanciullezza e dei viaggi dell'adolescenza e della giovinezza il solito tono giudicante; tanto più suggestivi s'impongono quegli episodi, quelle fisionomie di città, di paesi, d'individui, rievocati di scorcio, chiusi in poche linee, in qualche epiteto, talora, personalissimo. Bellissime fra tutte – e qui l'A. sembra concedersi un maggiore indugio per la consonanza tra il paesaggio e il suo animo – le pagine sul «luoghetto graziosissimo» presso Marsiglia, dove il giovane ventenne soleva «passare una ora di delizie fantasticando», o sulla navigazione attraverso il Baltico gelato, e su «quel certo vasto indefinibile silenzio che regna in quella atmosfera, ove ti parrebbe quasi d'essere fuor del globo», o le altre sui «vasti deserti dell'Aragona», che lo scrittore attraversava a piedi accanto al suo cavallo, «ruminando fra sé stesso e piangendo alle volte dirottamente senza sapere di che e nello stesso modo ridendo»: «Due cose, conclude lo scrittore ritornando con un energico giudizio al motivo dominante dell'autobiografia, che se non sono poi seguite da scritto nessuno sono tenute per mera pazzia, e lo sono; se partoriscono scritti, si chiamano poesia, e lo sono».

Pazzia o poesia, sono gli opposti termini tra i quali si muove la vita deli'Alfieri: e le pagine più significative del libro sono quelle nelle quali più chiaro si profila quest'intimo dramma dello scrittore, le pagine sulle ineffabili angosce e malinconie della giovinezza, sui furibondi impeti d'ira e sulla perenne irrequietudine, e le altre della Epoca quarta, che dicono la gioia della scoperta vocazione e la volontà di impossessarsi dei mezzi per attuarla («Cadutomi dunque pienamente dagli occhi quel velo che fino a quel punto me li avea sì fortemente ingombrati, io feci con me stesso un solenne giuramento: che non risparmierei oramai né fatica né noia nessuna per mettermi in grado di sapere la mia lingua quant'uomo d'Italia... Fatto il giuramento, mi inabissai nel vortice grammatichevole, come già Curzio nella voragine, tutto armato, e guardandola»). Scialbe invece le pagine che ci allontanano da quel centro vivo dell'animo alfieriano, tutte quelle in special modo dedicate a persone care al poeta, la contessa d'Albany, l'abate di Caluso, lo stesso Gori, i quali nonostante gli elogi altisonanti rimangono nella Vita puri nomi: non soltanto per discrezione signorile, che senza dubbio ha avuto la sua parte in questa presentazione così generica, e tanto meno, come pur fu detto, perché la figura del protagonista dovrebbe campeggiare nel deserto che la circonda, simile a un personaggio delle sue tragedie, ma perché essi devono rimanere al di fuori di quel che è la sostanza della Vita, l'esame di coscienza dello scrittore.

È stato così concesso all'A. di dare un ritratto compiuto di sé medesimo, che si è subito imposto all'ammirazione dei lettori più ancora delle stesse tragedie, tanto che divenne un tempo vulgato il giudizio che l'autobiografia fosse il suo capolavoro: ma se il giudizio è contestabile, poiché nelle tragedie e in particolar modo in alcuni personaggi o scene o accenti è con la rivelazione del più intimo io dell'A. la sua poesia più profonda, la Vita è senza dubbio il capolavoro del prosatore, contemperando mirabilmente ricordo e giudizio, compendio del tutto armonico e fuso di quanto il poeta ha sentito e pensato, una prosa abbandonata e pur sostenuta, personale coi suoi incisi, epiteti, parole singole, così fortemente improntate dell'individualità dello scrittore, e pur tale da non urtare mai il lettore per un eccesso di singolarità che di troppo contrasti col linguaggio a cui è avvezzo. Se nella ricerca dell'espressione tragica il poeta aveva raggiunto una sua potente originalità, non senza però lasciar traccia più d'una volta dello sforzo e residui e scorie del tutto eterogenee al linguaggio suo, risolve invece nella Vita con apparente agevolezza la «crisi della lingua settecentesca», offrendo un esempio che subito divenne popolare di una prosa moderna insieme e rispettosa della tradizione linguistica.

Intorno alla Vita possiamo raccogliere le Rime della seconda parte, pubblicate postume e composte. dal 1789 al '99, i settantuno sonetti e la Teleutodia (oltre gli epigrammi e il già ricordato Capitolo ad Andrea Chénier): se più non vi si trovano gli accenti drammatici che si ammirano in qualche sonetto della prima parte, più rare si fanno le diseguaglianze e le asprezze, e domina invece di solito un tono riflessivo, lontano dall'impeto lirico ma non privo di una sua contenuta commozione. È in queste Rime come nella Vita la calma di chi guarda il cammino compiuto: un A. che riflette su sé stesso, sulla sua nobile origine, sulla sua arte, su quel che era stato per lui il sapere, non scienza ma passione, sulla gloria, illusione forse ma illusione benefica e vitale, sul sacro nome di poeta e su coloro che soli possono del poeta ergersi a giudici («Ma prezzar quelli, che il furor natio / sforza a dir carmi a Verità devoti, / non l'osi no chi non è Vate o Iddio»), sull'avversione sua alla storia, per cui si sente negato, e ancora una volta sull'ideale dell'uomo libero, di cui viene a comporre come un monumento («Uom di sensi e di cor libero nato»), e discorre senza gli accenti tragici di un giorno, della compagna della sua solitudine, la Melanconia, e sa come non mai per l'innanzi penetrare addentro nel proprio animo e scoprire la profonda ragione della sua costante tristezza, nell'ansia di una grandezza più che umana, non mai placata e non mai placabile («Cose omai viste, e a sazietà riviste, / sempre vedrai, s'anco mill'anni vivi: / e studia, e ascolta, e pensa, e inventa, e scrivi / mai non fia ch'oltre l'uom passo ti acquiste»). Ben si addice a queste rime l'epiteto di postume, non soltanto perché questa raccolta doveva nelle sue intenzioni essere pubblicata dopo la sua morte, ma perché componendola l'autore le pensa come tali, e alla sua vita guarda come cosa compiuta. Presente in tutte il pensiero della morte si fa più esplicito in alcuni sonetti: Pieno il non empio, Io 'l giurerò, Chiuso in sè stesso, Del mio decimo lustro, Già il feretro: ma non più come nei sonetti della prima parte o come nelle tragedie i suoi eroi, il poeta affretta la morte col desiderio, o la sfida o invoca; non più fantasma pauroso o affascinante essa gli sta ora dinanzi come la grande ministra di giustizia ed egli a lei si affida placati ormai i suoi fremiti e la sua angoscia. È questo il motivo di quel che doveva essere l'ultima sua composizione poetica, il congedo dalla poesia del poeta cinquantenne, che grecizzando la intitolò Teleutodia. Senonché rispetto ai sonetti il discorso poetico rimane estrinseco se non nei versi ultimi, in cui il motivo ispiratore si fissa come in un'epigrafe o in un monumento sepolcrale: «Ma di mia cetra orbato, / pago di sogni, or fia che intanto io resti, / muto aspettando il non lontan mio fato».

Non tutte le rime che egli veniva componendo in quegli anni compaiono in questo volume delle opere postume: prescindendo da alcune a cui non diede l'ultima mano e che furon pubblicate in tempo più recente, parecchie gli parvero più adatte ad essere raccolte in un libro a sé per il ricorrente motivo di polemica contro i rivoluzionari di Francia. L'idea di farne un libro accrescendolo di alcune prose gli venne pare intorno al 1793: un'«operuccia, per usare le sue parole, nata a pezzi ed a caso», si da presentarsi come «un mostruoso aggregato d'intarsiature diverse», il Misogallo, che sia nel titolo e nella stessa bizzarria della composizione che nel rame allegorico dell'antiporta rispecchia il carattere dell'A. in quegli anni e la lotta disperata e solitaria da lui intrapresa. Sono cinque prose, un'ode, quarantasei sonetti, sessantatré epigrammi con frequenti note, che ne ribadiscono i concetti. Uno sdegno rovente e nel profondo una segreta angoscia dominano queste pagine, che vogliono rivendicare l'ideale di libertà, tradito a giudizio del poeta da quegli stessi che se n'erano fatti apostoli e che egli qui con energia riafferma (per esempio nei sonetti Di libertà maestri i Galli ?; È repubblica il suolo ove divine): l'A. che odia i nuovi rivoluzionari e non può nemmeno consentire con coloro che la rivoluzione combattono, vorrebbe atteggiarsi eroicamente nella propria solitudine («Tenea '1 Ciel dai ribaldi, Alfier dai buoni»), ma finisce per irrigidirsi in uno sterile odio, sfogandosi in satire ed epigrammi talora feroci, talora meschini («Composti, scrisse il Foscolo, piuttosto con dispettosa stizza che con vivace acutezza»), contro i Francesi tutti, contro i capi e i generali della rivoluzione, senza risparmiare d'altra parte i loro nemici («Ben tutta è lezzo nostra Europa infame») e la gente di chiesa, satireggiata con motti pungenti come forse in nessun'altra precedente opera. Su questo stato d'animo doloroso e negativo l'autore tenta di sollevarsi rinfrancandosi nel pensiero dell'Italia, di quell'Italia a cui si rivolge nella «prosa prima», dedicata «Alla passata presente e futura Italia», auspicandone il risorgimento («Quella che un giorno – quando ch'ei sia – indubitabilmente sei per risorgere, virtuosa, magnanima, libera ed una»), e la cui immagine compare consolatrice nella profezia del sonetto composto nel 1795 con cui volle concludere il libricciolo: Giorno verrà, tornerà il giorno... Al cospetto delle presenti calamità si accentua in lui il sentimento nazionale, ed egli non si sente più solo quando invita gli Italiani tutti a far proprio il suo odio e a riconoscere sé stessi in questo sentimento, ritrovandosi finalmente uni contro lo straniero: ma proprio in questa prosa, in cui si celebrano gli «odi nazionali» come «parte preziosissima del paterno retaggio», ci mostra com'egli non sappia sollevarsi sopra una concezione puramente passionale e fondamentalmente individualistica della nazione, e se nel sonetto Di libertà maestri i Galli sembra riconoscere nei connazionali il suo stesso sentire: «Schiavi or siam sì; ma schiavi almen frementi» di fatto l'Italia è soltanto nella e prosa prima, e nel sonetto finale. Nel libro è l'A. solo nella sua vana donchisciottesca battaglia: «Nel fango i vili intanto al suol conficco», l'A. che ancora una volta ripete quanto già scrisse in passato in prosa e in rima: «Il mio nome è Vittorio Alfieri: il luogo dove io son nato, l'Italia: nessuna terra mi è Patria», e l'invasione dei Francesi non saprà commentare se non con questo mediocre epigramma: «Non è dai Galli, oibò, l'Italia invasa: / Gli è tutto pan di casa, / L'una fogna nell'altra si travasa».

Più conformi agli spiriti alfieriani dei tempi migliori sono per accenti di tragica grandezza sonetti come Impetuoso Borea stridente, in cui la tempesta della rivoluzione aborrita acquista una sua grandiosità, o quelli sulla morte della principessa di Lamballe, di Luigi XVI, di Maria Antonietta, e notevoli per più d'una pagina le prose, quella già ricordata All'Italia, La ragione dell'opera, Le ultime parole del re, il Dialogo fra un liberto ed un uomo libero, e particolarmente nella «Prosa prima» la narrazione dei primordi rivoluzionari e lo sforzo che l'A. fa di precisare ulteriormente il suo pensiero morale e politico, il principio del «forte sentire», da cui trae deduzioni di sapore machiavellico («Negli uomini in generale, principalmente amiam noi il forte sentire, che è il fonte verace d'ogni bene buono, come altresì d'ogni male buono; che io avrò pur la temerità di dar questo epiteto al male, allorché egli, da passioni ardenti ed altissime procreato, si fa di altissimi effetti cagione»), e il suo concetto di libertà: «Nella vera civil libertà, la storia di quei pochissimi popoli che la possedevano, mi facea chiaramente vedere compresa la massima possibilità per l'uomo di ottenere una più utile e più durevole gloria». Era qui la sua difesa estrema contro, per dirla col Carducci, «quegli avvocatucci di Parigi che gli aveano sequestrato, più ancora delle rendite e dei libri, la sua repubblica classica» e per i quali egli coniò ad esprimere il suo distacco e disprezzo («La mia repubblica non è la loro») il termine di «repubblichini».

Più antico degli avvenimenti di Francia era il disegno delle Satire, non soltanto perché, come egli ebbe a dire nella Vita, «per natura sua prima a nessuna altra cosa inclinava quanto alla satira», ma perché pur facendo forza a quella inclinazione aveva già nei primi anni dell'attività tragica, nel 1777, abbozzato una satira, Il galanteismo, intorno a quel vivere da cui appena si andava liberando, e poi quell'abbozzo aveva ripreso sulla fine del 1786 col titolo di Cavalier servente veterano, vagheggiando già forse sin d'allora un corpus satirico che avrebbe compiuto ed integrato in una nuova forma i pensieri dei trattati politici: il piano però fu ripreso soltanto nel 1793, nel tempo stesso in cui la sua vena polemica si andava sfogando negli epigrammi misogallici, e proseguito negli anni seguenti e con maggior alacrità e fecondità nel 1797, quando il Misogallo era ormai pressoché compiuto, sì che nel 1798 poté far copiare tutte le Satire, che compreso il Prologo, Il cavalier servente veterano, sono diciassette (I re, I grandi, La plebe, La sesquiplebe, Le leggi, L'educazione, L'antireligioneria, I pedanti, I maggi, I duelli, La filantropineria, Il commercio, I debiti, La milizia, Le imposture, Le donne), e compiacersi dell'opera propria come un saggio di quel che a lui pareva la vera satira richiesta dalle condizioni d'Italia, così correggendo nella redazione definitiva della Vita la semplice menzine del Panni: «L'originalissimo autore del Mattino, vero precursore della futura satira italiana».

Della sua nuova satira dice gli spiriti e gli intenti il Prologo, in cui il poeta finge di incontrare, mentre esce, nuovo Giovenale, a combattere con la spada contro i vizi e gli errori, un «cavalier servente veterano», l'eroe del Giorno, invecchiato e più che mai infemminito, creatura nulla, vittima di una vita misera e oziosa, e sdegnosamente se ne allontana, dichiarando di serbare la propria ira «a miglior tema e a men volgar nemico»: a una satira più radicale egli mira, che non indugi a ritrarre, come ha fatto il Parini, qualche aspetto della corruzione della società («O tu ch'effetto sei più che cagione / Dell'odierno italian fetore...»), ma colpisca quelle che per lui sono le cause della presente corruzione e dei mali tutti del tempo suo. Tale satira svolge, nel metro ormai tradizionale della terzina, in un discorso serrato, alieno dai quadretti e dai ritratti comuni agli altri poeti satirici, una prosa rimata sui generis, a cui il verso e la rima accrescono efficacia e che si aguzza in frequenti sentenze epigrammatiche. Ne balza, presente sempre, qualunque sia l'argomento del discorso, la figura dell'autore, il quale (sono sue parole) «sillogizza con severo brio o meglio armeggia come schermitore, orgoglioso della propria forza e della propria arte, contro gli uomini tutti che lo circondano, e il sorriso suo è sempre, diremmo, il sorriso con cui uno schermitore accompagna una botta bene assestata. Concepite in parte almeno prima della rivoluzione e composte quando si era ormai maturato il suo atteggiamento negativo di fronte ai rivoluzionari, le Satire sottolineano la posizione dell'A., avverso all'una e all'altra delle parti contendenti. Ai re sa dire soltanto: «Per far ottimo re convien disfarlo» (aggiungendo peraltro: «Sol osi i re disfare un popol fatto»), e delle monarchie europee colpisce ancora una volta con parole severe uno dei precipui sostegni, gli eserciti che si fan sempre più forti (La milizia); ma se mette a nudo l'abiezione della nobiltà cortigiana (I grandi), non risparmia d'altra parte la plebe e meno ancora l'aborrito ceto medio, la «sesquiplebe» e contro i predicatori delle nuove idee di libertà, uguaglianza, fratellanza scaglia le tre satire (L'antireligioneria, La filantropineria, Le imposture), in cui si contrappone l'opera dei fondatori di religioni, Mosè, Cristo, Maometto, ispiratori di forti fatti e di forte sentire, alla, a suo giudizio, sterile negazione del Voltaire, «disinventore od inventor del Nulla» e si fa scherno dell'umanitarismo settecentesco, che sembra tragicamente contradirsi nelle stragi della rivoluzione: «In nome della Santa Umanità / Chi vuol che i rei s'impicchino, si uccida. / E in nome della Santa Libertà / Chi non crede in Voltero e in noi, si uccida: / A farla breve e ripurgare il mondo, / Ogni ente non filosofo, si uccida». Più acerbo e sprezzante l'antico sdegno per «l'obeso impudente idolo sporco», il commercio, soggetto di un'altra satira, in cui lo scrittore si fa beffe di quello che a lui pare un altro dei fanatismi dei contemporanei vagheggianti stati floridi per commerci e divenuti popolosi per floridezza economica e chiede perché si debbano procacciare migliori condizioni economiche e aumentare per questa via il numero dei nostri simili: «Al vero onor d'umanità che importa / Che di tal bachi tanti ne sfarfalli / Sol per moltiplicar la gente morta?». Soltanto le donne, oggetto tradizionale della poesia satirica, risparmia affermando nella breve satira a loro dedicata che dei loro vizi sono responsabili gli uomini. Ma un sorriso più disteso e quasi un riposo si concede nella satira I pedanti (forse la meglio riuscita), tratteggiando la figura di uno dei suoi censori, che altra volta lo avevano amareggiato, ma di cui ora può fare la caricatura con animo più sereno, tanto sicuro ormai si sente, tanto meno pericolosi e odiosi di altri avversari sono questi letterati; e. riprendendo la materia dell'autobiografia abbozzata nei due capitoli I viaggi ne accentua il tono polemico contro sé stesso e gli uomini e i paesi incontrati, ma non tralascia accenti di poetica nostalgia: «Bella Napoli, oh quanto, i primi dì! / Chiaia, il Vesuvio, e Portici, e Toledo...» «Svezia ferrigna, ed animosa e parca / Coi monti e selve e laghi mi diletta...»,. A sé poi sta L'educazione, rapida, sarcastica scena di commedia: dialogo tra un conte borioso e un povero prete, don Raglia di Bastiero, a cui viene affidata, con altre incombenze, l'educazione dei sei rampolli della nobile famiglia, pietosa e sprezzata figura di meschino pedagogo, che avrà nella casa meno importanza del cocchiere. A rafforzare l'effetto satirico contribuisce, con la violenza dello stile e la cruda brevità, quel prepotente neologizzare, tutto alfieriano, che è come il segno della volontà polemica dell'autore e fa perciò nelle Satire la sua maggior prova.

Antico pure il proposito di scriver commedie, attestato, oltreché dalla farsetta I poeti, che fu recitata dopo la Cleopatra, dai «primissinii pensieri comici» del 1788 (schemi di due commedie, I buoni uomini sull'elezione pontificia e Il buon marito sui casi dell'imperatore Claudio), dai «secondi pensieri comici», del 1788 e dai «terzi pensieri comici»del 1790, dodici e undici titoli di commedie (La Monarchia, L'Aristocrazia, La Democrazia, Gli Oracoli, La Ribellione, Il Divorzio, L'Accademia, Il Conclave, L'Accampamento, Il Senato, Gli Uomini, Il Teatro), alle quali, secondo il disegno del 1790, doveva, soppresse due commedie del precedente elenco, essere preposta una commedia-proemio sull'autore stesso in preda all'accidia, incerto sempre tra il volere e il disvolere, che infine anziché sposare la principessa Nulla «si disinganna e rompe tutto e sposa la Commedia». Vi si preparava intanto traducendo dal '90 al '93 le commedie di Terenzio: ma soltanto nel 18oo, «nel più triste momento di schiavitù», stupito egli stesso del nuovo inatteso fervore creativo, e ideò. in pochi giorni sei commedie, rinunciando al più ampio disegno di dieci anni innanzi e a quelle sei commedie (La Tetralogia politica, La Finestrina, Il Divorzio) egli attese nei tre anni seguenti («ché l'estate come le cicale io canto») stendendole secondo il suo metodo in prosa e poi verseggiandole e infine correggendole per la redazione definitiva: non riuscì in questo lavoro di revisione, compiuto per le quattro prime commedie, ad andar oltre la scena VIII dell'atto III della Finestrina e lasciò del Divorzio soltanto la prima versificazione.

«Giovine piansi, or vecchio omai vo' ridere» è il motto da lui apposto alle Commedie: vero è, come ci suggeriscono quei disegni e come traspare qua e là da sue confessioni, che era in lui una vena comica alimentata da un'irosa insofferenza per le debolezze proprie ed altrui, motivo costante e complementare dell'aspirazione eroica e dell'impeto polemico delle tragedie e dei trattati. L'aveva repressa fino a che l'ardore tragico e la coscienza di vate l'avevano sostenuto: ma a quel fondo dell'animo suo egli attinse quando venuti meno anche gli spiriti agonistici del Misogallo e delle Satire, altra materia non restò per il suo poetare se non «la vera e scaltra trista natura nostra» vale a dire il mondo degli uomini quale gli appariva appena lo abbandonava l'entusiasmo per i pochi grandi (ma essi erano pure in tutto tali? «Il grand'uomo, è pure uomo, e quindi piccolissima cosa è anch'egli» e che egli giudicava senza indulgenza, anzi diremmo senza comprensione della complessa realtà morale di ogni uomo. Perciò il suo riso è del tutto privo di umana simpatia, né vale a sollevare l'animo suo e dei lettori: ad accentuarne poi questo carattere contribuirono le condizioni di spirito del poeta nel tempo in cui concepì e stese quest'ultimo suo lavoro, la solitudine in cui si era chiuso, sottolineata dal linguaggio in cui compaiono più insistenti e gratuiti che in altri suoi scritti vocaboli e modi strani ed eterocliti, segno di una opera che nemmeno cerca o attende più la comunione con altri spiriti. Di qui la scarsa fortuna delle Commedie giudicate, a tacer d'altri dall'alfieriano Foscolo, «un modello di stravaganza». Ma esse ben segnano la fine della parabola dell'A., che ritrova alla conclusione della sua carriera letteraria, con un'antica amarezza, il fondamento della sua cultura e della sua educazione. Di lì era partito, ma nella giovinezza ribelle e poetica anche il suo pessimismo aveva avuto un accento eroico, ora invece è mera negazione, e della cultura illuministica, che è stata ed è ancora la sua, egli rileva soltanto quel che in essa è di negativo. Le commedie nascono come antitesi delle tragedie, e rappresentano il rovescio di quel mondo eroico che delle tragedie era stato il soggetto mettendo in luce i moventi meschini che hanno ispirato le azioni dei più grandi personaggi dell'antichità, celebrati da storici e da poeti: e satira di sapore volterrano ma priva della fede del Voltaire nei valori della ragione e dell'umanità è quella che si svolge nelle commedie politiche, L'Uno, I Pochi, I Troppi, e nella Finestrina, che delle prime tre è la vera conclusione ben più che lo scialbo Antidoto.

Non tanto i vizi intrinseci a tre diversi regimi, il monarchico, l'aristocratico, il democratico, l'A. infatti prende di mira nelle prime tre, quanto vizi più profondi radicati nella natura umana. Così ne L'Uno si svelano i mezzi con cui un grande principe come Dario giunge al trono, piccole arti femminili, suggerimenti di imbroglioni, connivenza di sacerdoti (e qui l'A. è più che mai vicino all'odiato e non mai dimenticato Voltaire) e infine un volgarissimo inganno d'uno stalliere: ma come altrimenti si giunge ad un trono? Più acerba però la satira de I pochi, commedia tipicamente antiplutarchiana. Il sacrifizio dei Gracchi per il «popolo» il magnanimo tentativo delle leggi agrarie? La meschina ambizione di due nobilucci delusi nei loro intrighi, eccitati dalla boria nobiliare della madre ( e qui soccorrono senza dubbio il poeta ricordi di persone a lui ben note) e consigliati da parassiti greculi: ecco il movente primo delle famose leggi, strumento di vendetta dei due fratelli contro i rivali aristocratici. La commedia, che ci rivela l'antefatto della storica lotta dei Gracchi contro l'oligarchia romana, è tutta tesa verso le ultime battute e assume la parvenza di un epigramma. E una serie di epigrammi più arguti e più vari è l'altra commedia antiplutarchiana, I Troppi, in cui vediamo Alessandro, il leggendario conquistatore dell'Oriente in cerca di mezzucci per non urtare le ridicole suscettibilità dei Greci e messo in impicci dalla rivalità e dagli intrighi delle con-sorti, e Demostene capo dell'ambasceria ateniese (e qui l'A. satireggia improvvisati politici di Francia e delle nuove repubbliche italiane), preoccupato soltanto di mantenere l'apparenza di campione incorrotto della libertà agli occhi dei concittadini e prontissimo a transigere nella sostanza per i motivi più volgari. Ricompaiono nell'Antidoto, evocate da un mago, le ombre di Dario, di Gaio Gracco e di Demostene a rivelare agli uomini i mali dei regimi di cui essi sono stati i rappresentanti e per opera di quel buon mago si riconciliano il principe, i nobili e la plebe e può finalmente nascere una bellissima fanciulla destinata a portare in terra la vera e sicura libertà: «Tre veleni rimesta e avrai l'antidoto». Ma la fede dell'A. in questo miracolo è così debole che la commedia rimane una fredda escogitazione, una faticosa allegoria, tanto più forte gli s'imponeva la considerazione dei mali umani, della perenne volgarità presente nella corte di Dario, come nelle piazze di Roma ove contrastano i pochi, o in quelle d'Atene ove dominano i troppi. Vano perciò cercare, come un tempo si è fatto, in questa arida e cerebrale commedia quella che sarebbe la parola ultima del pensiero politico affieriano, il riconoscimento della monarchia costituzionale come il migliore dei regimi. Tanto più significativa è La Finestrina, la commedia infernale che vorrebbe dimostrare come non si possa, non si debba indagare nell'intimo dei cuori perché troppa impurità svelerebbero anche i più nobili animi. Chi potrebbe sottomettersi alla prova di Mercurio di rivelare l'animo proprio lasciando aprire una finestrina attraverso la quale esso si rivela a nudo? L'invenzione è stata suggerita da Luciano, ma l'A. intendeva di fare cosa «aristofanica», secondo il modello di quelle Rane che aveva tradotto nel 1797: di fatto l'opera di Mercurio, scrutante nel petto delle anime che si presentano ai giudici infernali, non è diversa dall'opera dell'A. poeta comico, che scopriva ignobili moventi delle azioni dei Gracchi o la ipocrisia ridicola di Demostene, e qui colpisce insieme con l'ipocrita caposetta Maometto il despota illuminato Saturnisco (caricatura di un sovrano riformatore del Settecento) e Confucio, il filosofo pacifico Confucio, il modello idoleggiato dal Voltaire e dagli enciclopedisti, non meno, ipocrita dell'altro ed opposto idolo, il «fanatico» Maometto. Che rimane della umanità messa così a nudo, sia nella vita pubblica che nella vita privata? Pochi individui, quel Gobria ne L' Uno, che si allontana per sempre dalla corte di Dario suo amico, quando questi è eletto re, il Calano dei Troppi, il filosofo indiano che si sottrae col suicidio alla tirannide del Macedone, e infine nella Finestrina Omero, il quale viene a ricordare come i poeti, nonostante le umane debolezze siano, se liberi, più puri degli altri uomini, e «per lo più i soli che possono con meno scapito spalancare il loro cuore». Ma è questo un concetto a cui si accenna soltanto in poche battute e in una nota marginale non svolta nella commedia: anche l'idea del libero poeta non riesce a rischiarare quest'ultima dolorosa opera dell'Alfieri.

Il quale alle precedenti, con cui si proponeva di ricavare dalla tragedia la commedia, fece seguire una sesta, Il Divorzio, di cui meno si compiacque perché, scrisse, «nell'andamento moderno di tutte le commedie che si vanno facendo e delle quali se ne può fare a dozzina imbrattando il pennello nello sterco che si ha giornalmente sotto gli occhi». A differenza delle altre si ricongiunge nella materia non solo ma nella intenzione e nel tono a satire come Il Cavalier servente veterano e L'Educazione, e riprendendo come in quelle satire temi del Goldoni e del Parini ne capovolge lo spirito, sottolineando ad ogni battuta la violenta avversione per il mondo rappresentato, a cominciare dal titolo stesso che è un epigramma, poiché sta a significare che «il matrimonio italico è un divorzio», fino alla chiusa che è un ultimo sfogo dell'umore del poeta: «Spettatori, fischiate a tutto andare / L'autor, gli attori, e l'Italia, e voi stessi. / Questo è l'applauso debito ai vostr'usi». Questa avversione imprime a tutta la commedia una sua forza dispettosa: soggetto ne sono le vicende matrimoniali della giovane Lucrezia Cherdalosi, che finisce per stancare con la sua civetteria e prepotenza il buon giovane di lei innamorato e si adatta alle nozze col maturo Fabrizio Stomaconi per amore delle ricchezze di lui e della propria libertà, sanzionata nei patti di un ridicolo contratto nuziale: piuttosto che un carattere una caricatura sprezzante, come caricature sono la madre, vera despota della casa, ingannata alla fine dalla figlia che prende per sé i cavalieri serventi di lei, il padre, amante sopra tutto del denaro, i cavalieri serventi e don Tramezzino, prete factotum, disprezzato e indispensabile. Manca s'intende l'indugio amoroso dell'artistà sulle sue creature, ma traluce qua e là in questa rappresentazione amara e sarcastica di un piccolo mondo dell'Italia settecentesca l'antico spirito tragico, sopra tutto nella scena in cui madre e figlia sono di fronte, ben consapevoli l'una e l'altra dei sentimenti veri dell'avversaria e rivale: ultima eco della maggiore poesia del tragico.

Fortuna.

Come si è accennato nella biografia, l'opera alfieriana suscitò fin dal suo primo apparire vivacissime reazioni, ma anche con un senso di sorpresa ammirazione per la sua novità, per l'autore «uomo veramente straordinario» (A. Veri). Caratteristica la costante diffidenza di Vincenzo Monti, il quale poté trarre qualche suggestione dalle tragedie alfieriane ed anche celebrare il poeta in un componimento d'occasione per l'inaugurazione di un busto al teatro Filodrammtici di Milano nel 1805, ma rimase nell'intimo lontano da quella poesia e per il contenuto e per lo stile e avverso all'entusiasmo di tanti che non sapeva comprendere: perciò plaudiva alla critica del Carmignani che avrebbe dovuto «aprire gli occhi alla gioventù, che si lascia facilmente abbagliare dalle novità grandiose» concedendo che «la fama di quel sommo ingegno, si rimarrà sempre colossale ma isolata e sorgente come un grande scoglio in mezzo alle onde, al quale nessuno potrà accostarsi senza pericolo» (18o6), e più esplicitamente affermando in altra lettera (1807): «È forza che l'Italia, o presto o tardi, si persuada che Alfieri è un grande ingegno, ma mancante di gusto nel verseggiare, e il rovescio della natura nel dipingere le passioni, che in lui sono tutte affare di testa senza licenza del cuore». Tanto più notevole di fronte a tali persistenti incomprensioni il consenso pieno di un poeta più anziano e così differente dall'A. come il Parini, il cui giudizio intelligente sulla tragedia alfieriana ci è stato tramandato dal Reina, e che meglio di altri fin dal 1783 aveva espresso il sentimento di lettori non prevenuti di fronte a questa nuova poesia nel sonetto Quanta già di coturni, in cui se ne riconosce l'intima ispirazione («Come dal cupo ove gli affetti han regno / Trai del vero e del grande accesi lampi: / E le poste a' tuoi colpi anime segno / Pien d'inusato ardir scuoti ed avvampi»), e poi nell'ipotiposi, rimasta memorabile, del Dono («Queste che il fiero Allobrogo / Note piene d'affanni...»), anche se l'ode per il contrasto fra le immagini delle tragedie alfieriane e le bellezze della gentile donatrice si risolve in un elegante madrigale e par così segnare il confine fra i mondi ideali dei due poeti.

Frammezzo alle critiche un simile riconoscimento si avverte pure nella lettera di Ranieri de' Calzabigi, al quale l'A. sembrava come il Curzio Rufo di Tacito «nato da sé, creatore di una maniera tutta sua» e paragonabile se mai e per l'energia, per la brevità e per la fierezza a Shakespeare più che a qualunque altro,. Né va trascurato come testimonianza dell'impressione lasciata dall'A. uomo e poeta nei contemporanei il «ritratto» di Isabella Albrizzi che lo conobbe nel 1796. «Si direbbe quasi che in quel volto l'immagine respiri di una divinità corrucciata. Quel certo splendore che dopo d'avergli quasi dorati i capelli pare che si diffonda per tutta la faccia e l'irradi: e quegli occhi che ora ci rivolge con lunghi sguardi al cielo, ed ora tiene immobilmente confitti al suolo, un essere ti annunziano straordinario del tutto...» L'Albrizzi conclude accennando ai «varii e disparatissimi giudizi che di lui daranno quanti saranno gli uomini» a cui se ne faccia richiesta; e qualche anno dopo (1813) il Napoli Signorelli si chiederà: «Come parlare delle tragedie del conte V. A. senza farsi de' nemici?».

Veramente l'A. fu segno di contradizione per lo spirito rivoluzionario della sua arte, che si staccava così risolutamente nel contenuto e nella forma dagli esemplari presenti ai suoi lettori e palesemente si informava a una concezione di vita e non solo di poesia in contrasto con la loro. Significativa per questo più di altri scritti ispirati a simili sensi, la Lettera al canonico De Giovanni (1793) del Bettinelli, decisamente avverso a un'opera in cui sente il medesimo spirito di sovversione dei rivoluzionari di Francia e che gli sembra la negazione della poesia. «Questi è un politico che vuol fare il poeta... un capopopolo, un nuovo Bruto, Cromwell, Catilina»: «Come un tal animo potrà piegarsi alla poesia che è un'arte amabile, un divertimento?...». Ma l'arte dell'A, era agli antipodi di questo, edonismo estetico, e le sue tragedie ben diverse da quelle del Voltaire, che, non così esclusivamente politiche come le alfieriane, a giudizio del Bettinelli, costituivano per lui e per gli altri critici un termine di paragone, e di condanna, del nuovo tragico. Né più indulgenza trovava lo stile, formatosi certo sui grandi esemplari, ma più che su di ogni altro, e questo non era un merito per il Bettinelli, su Dante: «Egli ha studiato Petrarca, Ariosto e Dante, ma l'ultimo solo campeggia nel suo stile, perché è il più robusto, e però il vidi ognor preferito dai pensatori in poesia», ossia da chi a suo credere poeta non era.

Anche per il Calzabigi l'accostamento a Dante aveva valore di biasimo: «Qualora l'elegante leggiadria se gli presenta naturalmente sotto la penna, ella la fugge; e preferisce l'espressione forte ma inceppata, e anche dura dantesca»: si desiderava piuttosto, come lo stesso critico scrisse in altra lettera al Pepoli, una tragedia che parlasse diversamente dall'alfieriana, non alla «mente» ma al «core», e non distogliesse dal «tenero e soave versar delle lacrime» secondo un gusto di un facile patetismo, che è tutt'altra cosa del pathos profondo dell'Alfieri. Così Pietro Verri non riusciva a condividere l'ammirazione del fratello e rimaneva perplesso perché nelle tragedie alfieriane «la virtù vi rimane sempre punita e il vizio impune» mentre il teatro francese ha sempre in vista la morale; e per lui la «prima qualità» di un'opera poetica era «quella di contribuire ai progressi della virtù e dei lumi e che la grazia, l'immaginazione dirigano l'arte a quel fine e spargano i fiori sul sentiero che guida l'uomo alla verità ed al bene»: per tal via uno dei campioni più arditi dell'illuminismo faceva proprie le riserve di spiriti retrivi, pago com'era di un'arte estrinsecamente didattica e sentimentale, di una moralità idillica, ignara dell'intima tragicità della vita. Non diversamente si esprimeva a proposito della Mirra l'ex gesuita Arteaga, chiedendosi quali vantaggi abbia a ritrarre per l'innocenza e per la pietà da quella tragedia «l'attuale nostro sistema di morale e di religione»: «Veggo bensì, veggo purtroppo che in uno spirito riflessivo e coerente le conseguenze immediate che tali dipinture fanno nascere, non sono né possono essere che il dispetto contro la Provvidenza, l'aborrimento dell'umana condizione e la sconsolante indolenza che viene prodotta dal fatalismo». Ancora nel 1806 in un opuscolo Sopra le tragedie di V. A. dello Schedoni si affermava che esse sono immorali perché mostrano «schernite le leggi, soppressi i deboli» e perché vi «domina la sovversione d'ogni principio, quell'anarchia della politica e della morale che immerse la Francia negli orrori estremi della sociale dissoluzione». Più accanito nel suo rabbioso conservatorismo il Galeani-Napione, che si vantò di esser stato sempre avverso alle tragedie alfieriane, lamentando che avessero trovato consensi fra qualche nobile piemontese, se non fra gli uomini di gusto, e le sue osservazioni scritte da tempo pubblicò nella lettera al Benedetti (1818) a proposito del suo Discorso intorno al teatro italiano, poco benevolo per l'A.: vi tornano appesantite le solite accuse di immoralità e di durezza di stile («Tante scelleraggini non si potevano immaginare fuorché da uno scellerato»; «Gli argomenti paiono scelti da un carnefice e verseggiati da un cannibale»; l'autore confessa di «piangere come un ragazzo alle opere del Metastasio e di spaventarsi come una donnicciuola alle tragedie dell'Alfieri») e si conclude che quelle tragedie «essendo state foggiate sulla letteratura francese corruttrice della religione, dei buoni costumi e sovvertitrice di ogni buon ordine conducono all'immoralità e al robespierranismo» – gli rispose con un articoletto sferzante Giuseppe Pecchio nel n. 47 del Conciliatore.

Ma la lettera del Galeani-Napione era voce di un sopravissuto: da tempo ormai l'A. aveva superato i primi contrasti divenendo parte viva della nuova cultura letteraria e politica. «Alfieri, come scrisse il Balbo nella Vita di Dante, ebbe seguaci lontani, ignoti e forse di-sprezzati da lui; tutta la generazione allor sorgente»: e già nel 1826 Francesco Salfi nel Résumé de l'histoire de la littérature italienne aveva scritto: «Le tragedie dell'Alfieri ebbero più che non credesi una grand'influenza sullo spirito degli italiani e della loro letteratura, e contribuì più che qualunque altro scrittore all'educazione di quella novella generazione, scopo di tutte le sue cure, che si forma e sviluppa a norma delle sue massime...». Di fatto nell'età rivoluzionaria si viene affermando e diffondendo l'opera alfieriana: furono allora nei teatri «patriottici» delle nuove repubbliche a Milano, a Bologna, a Napoli e in altre città rappresentate le sue tragedie; con deferenza a lui cercavano di accostarsi uomini di governo e militari della Francia rivoluzionaria come il Ginguené e il Miollis (e il Ginguené ancora nel 1802 si faceva difensore degli spiriti di libertà del poeta discutendo quel che ne aveva scritto il Petitot traduttore delle trageclic in un'ampia introduzione, in cui si metteva in rilievo l'atteggiamento antirivoluzionano dell'ultimo A.); vivente, nel gennaio 1802 la città di Asti gli decretava pubbliche ononanze; e il Reina nello stesso anno gli dedicava il secondo volume delle opere del Parini con una pagina eloquente in cui si legge fra l'altro: «Tu solo fra' viventi scrittori sei reputato pari a lui nella poetica eccellenza, ne' liberi sensi veracemente italiani, e nell'amore di quella patria che le sublimi, energiche, caldissime vostre composizioni nell'entusiasmo ispiratoci dalle circostanze nuove e dall'antica nostra grandezza invitavano già a risorgere... Le belle opere di voi due grandi, saggi e liberi cittadini italiani trionferanno dei delitti e dei secoli... E quando la non più avvilita Italia in tempi non forse lontani risorgerà a quella grandezza cui formolla natura, la Italia medesima vi sarà larga di quegli onori che la Grecia rendeva al divino cantore di Achille».

Sopra tutto i giovani lo sentirono poeta maestro, anche se avevano a dolersi del suo silenzio sdegnoso e ostile contro il presente, come Ugo Foscolo, che nella Società d'Istruzione di Venezia (nel 1797) pronunciò fiere parole di rimprovero, in cui avvertiamo il dolore di un amore tradito. Fu in questo ambiente che si diffusero le opere politiche fino allora inedite, e qualche anno più tardi in un clima diverso, ma perdurando negli animi l'efficacia dei rivolgimenti passati, le opere postume e prima di tutte la Vita, che fu per tanti lettori una rivelazione.,«I suoi proseliti e i suoi entusiasti sono in gran numero» scrisse Francesco Torti (1812), non persuaso e un poco diffidente; «la Vita scritta da esso li ha riempiti ultimamente di un culto religioso che s'approssima al furore e all'idolatria».

Non era fra quegli entusiasti l'amico d'un giorno Ottavio Falletti di Barolo, che se affermava di poter con la sua testimonianza provare la veridicità di tutto quanto l'autore aveva scritto nella Vita, non ne intendeva lo spirito per quell'insistenza su tanti particolari di scarso significato per lui e assai poco apprezzava «l'immenso amor proprio» la «stranezza spesso sdegnosa e schiva»: e nelle quattro Lettere sulle sue opere postume, in cui pure sono riconoscimenti significativi, ben dimostrava il distacco suo e degli uomini del suo ceto e della sua generazione dal poeta uscito dalla loro società e pur «nel cuore sempre patrizio» ammirato e non compreso; «un carattere» concludeva il Falletti, «che ha del grande e del puerile, dell'umano e dell'acerbo, del capriccioso e del saggio, predominandovi sempre una somma energia or bene or male adoperata». Ma ben altri erano i sentimenti di alcuni giovani piemontesi di quella stessa nobiltà, quel sodalizio che si raccolse nell'Accademia dei Concordi, Cesare e Ferdinando Balbo, Luigi Provana, Luigi Ornato, Paolo San Sebastiano, cui si aggiunsero poi Carlo Vidua e Santorre di Santarosa: all'A, avevano dedicato un vero culto con cerimonie, e l'A., che chiamavano padre, fu quasi il nume tutelare della loro amicizia, la guida prima e costante dei loro pensieri e della loro condotta. Particolarmente essi di lui sentirono il richiamo dell'italianità, tanto più urgente in quanto vivevano nel Piemonte annesso alla Francia, e quindi il dovere dello studio della lingua italiana, dello scrivere italianamente, e gli spiriti misogallici, e l'auspicio di «un popolo italiano futuro» di una patria italiana a cui essi, pur così legati al paese natio, si consacrarono sull'esempio di lui sin d'allora; e la lezione di forza e di carattere, riconoscendo, come il Balbo in una lettera del 1809, di aver avuto da lui lo stimolo primo e più efficace alla loro maturazione. Non sminuivano l'ammirazione le riserve di carattere religioso che essi, e più di altri Carlo Vidua, facevano a certi aspetti dell'opera alfieriiana più palesemente illuministici. Ne trarranno ispirazione gli artefici dei moti del '21 e anzitutto Santorre di Santarosa, che scrivendone ricorderà tra i fattori di quel fallito rivolgimento una «gioventù nutrita dagli scritti di Vittorio Alfieri»: ma chi, fedele agli spiriti di quel giovanile sodalizio, darà in anni più maturi un giudizio sull'A. conforme ai sentimenti di un giorno suoi e dei suoi amici, sarà Cesare Balbo nella Vita di Dante e nel Sommario, insistendo sulla parte del Piemonte nel rinnovamento della letteratura italiana e nel risorgimento nazionale e sulla lezione alfieriana di forza e virilità. «[L'Alfier] recando dalla provincia da lui aggiunta all'Italia letteraria la sua non so se io dico forza o durezza paesana, restaurò forse la vigoria di tutta la letteratura e restaurò certo il culto di Dante. Era anima veramente dantesca... Tutto è simile nei due...». «... Fu grande abbastanza per fare alla poesia, a tutte le lettere italiane un solenne benefizio, quello di ricondurle (sia pur con la durezza ed anche secchezza) alla severità, alla virilità. Ed egli poi fece a noi piemontesi il benefizio particolare di farci entrare nelle grandezze delle lettere nazionali... E fece così quasi dono di noi all'Italia letteraria».

L'alfieriismo di questi uomini, appartenenti alla terra e quasi tutti al ceto medesimo del poeta, ha un suo particolare accento per il risalto dato al motivo, vorremmo dire, piemontese-nazionale e all'insegnamento morale da cui sarebbe venuto il primo impulso alla formazione di un nuovo carattere dei compatrioti – ne sarà come il compendio il capitolo dei Miei ricordi di Massimo d'Azeglio, che questo A. ha tramandato alle generaziom posteriori con le notissime semplici parole: «Uno dei meriti di quell'alto. cuore, fu di aver trovata metastasiana l'Italia e d'averla lasciata alfieriana, ed anzi il primo e maggior suo merito fu a parer mio d'aver egli si può dire scoperta l'Italia come Colombo l'America ed iniziata l'idea d'Italia nazione. Io metto innanzi questo merito a quello dei suoi versi e delle sue tragedie». Altri di altre parti d'Italia rileveranno invece maggiormente l'individualismo eroico, l'ansia di libertà, l'originalità del vivere e del poetare. Così il Lomonaco nell'Analisi della sensibilità e nei Discorsi letterari e filosofici: vi critica, è vero, la debolezza logica dell'A. pensatore, ma non mostra di ritenere per questo minore la grandezza del poeta e dell'uomo («Il volli, sempre volli...», è per lui «cifra di quel linguaggio eroico che oggi non si parla più») e dovendo fare l'elogio di Napoleone lo accomuna all'A. in una pagina, in cui è chiaro a chi vada la sua preferenza: «Tra l'immensa schiera degli esseri a figura umana ne' quali mi sono imbattuto non ne ho ravvisato che due veramente originali: l'uno è Napoleone, l'altro l'Alfieri, entrambi degni di essere appellati uomini nell'età in cui mi vivo. Il primo è il grandissimo dei mortali non perché ha il titolo d'imperatore e re ma perché ne ha l'indole... L'altro fu... uomo veramente libero, filosofo in pensieri, fiero senz'essere inumano... Fu ancora il solo nel suo secolo che conoscendo la sovrana dignità dello scrittore non vendé né profanò mai i suoi lucidissimi inchiostri... L'alta carica cui ambì è quella di tribuno del genere umano... Onde stette e starà in mezzo al fremito degli aquiloni come torre in alto valor fondata e salda».
Nell'ammirazione, spesso vicina a un vero e proprio culto, per l'A. si riconoscevano gli italiani nuovi delle diverse parti d'Italia, così come le diffidenze e le riserve eran proprie degli uomini ancor legati a un più vecchio abito di vita e di gusti: ed è significativo che in questa vicenda il nome dell'A. si accompagni a quello di Dante e che sin d'allora l'affinità dei due spiriti sia rilevata non più come in passato per negare o fortemente limitare il valore dell'opera alfieriana, bensì come lode altissima per il poeta di recente scomparso.

Non è luogo quì di offrire un elenco di illustri e di quasi oscuri, di letterati e di non letterati, basti ricordare che in tutti l'ammirazione per il poeta si confonde con quella per l'uomo e che l'A. viene ad essere assunto ad esempio, a modello di vita. Tale fu per il Manzoni giovane, il quale, tra l'altro, al giudizio dell'amico Pagani, secondo cui la vita alfieriana era «una prova del suo pazzo orgoglioso furore per l'indipendenza», opponeva il giudizio suo, e un modello di pura incontaminata vera virtù che sente la sua dignità e non fa un passo di cui debba arrossire, e l'A. designava negli Sciolti per l'Imbonati. (ma la definizione è più manzoniana che alfieriana) come colui che e l'aureo manto lacerato ai grandi / Mostrò lor piaghe e vendicò gli umili».
Ma per nessuno dei contemporanei l'A. rappresentò come per il Foscolo un'esperienza fondamentale, non essendo il suo cosidetto alfierismo episodio di un momento della sua vita né un aspetto marginale dell'opera, bensì elemento essenziale e costante della sua personalità: il Foscolo uomo, poeta, politico, critico sembra proseguire, svolgere, approfondire quel che era stata l'esperienza alfieriana. Perciò uno studio delle relazioni fra i due poeti finirebbe per risolversi in una monografia compiuta sulla vita e sull'opera foscoliana: meglio si vedrebbe come nel poeta più giovane e in altra situazione storica siano ripresi e ampliati motivi tipici del poeta maestro, fin dal giovanile Tieste, che è pur una imitazione ancora estrinseca, ma sopra tutto dalle Ultime lettere di Jacopo Ortis, che ci presentano nel protagonista un eroe alfieriano in ambiente borghese (e il romanzo è forse l'unica tragedia della scuola alfieriana non indegna del maestro) e insieme un tentativo dello scrittore e del suo Jacopo di uscire dall'isolamento alfieriano per ritrovarsi uomo fra gli uomini o per far oggetto di riflessione rischiaratrice se pur desolata quel che era incubo o pessimismo irreflesso nell'Alfieri. Il culto plutarchiano dei pochi grandi, in cui l'A. ritrovava spiriti a lui affini, si fa più solenne e più umano nella contemplazione cosmica e storica dei Sepolcri, entro i quali si colloca l'episodio più tipicamente plutarchiano-alfieriano di Santa Croce: né a caso qui viene a prender figura il poeta ispiratore in versi che ne hanno fissato l'immagine e il mito per i posteri. Anche le critiche e le riserve hanno altro accento da quelle dei soliti censori dell'A., movendo da un'esperienza comune ai due poeti: così quanto il Foscolo dice del «misogallismo» alfieriano, che non accoglie con l'entusiasmo dei giovani nobili piemontesi, poiché vi ravvisa un segno d'impotenza e d'inerzia ritenendo che il disprezzo ostentato, l'odio predicato contro una nazione non giovassero all'educazione politica degli italiani – per questo sconsigliò la contessa d'Albany di procurare nel 1814 una nuova edizione del Misogallo. E se più problematica e meno schematica e lineare si fa la politica del Foscolo, permane in lui anche di contro ad una visione hobbesiana, a cui talora indulge risolvendo in essa e giustificandolo il concetto-mito alfieriano della tirannide, l'esigenza prima della libertà quale gli si è rivelata sopra tutto dalle pagine alfieriane, e si fa sentire negli stessi tentativi di una più comprensiva e aderente interpretazione del fatto politico, come nei discorsi Della servitù dell'Italia. Permane sopra tutto come fermo criterio direttivo nell'ideale del «libero scrittore», sia che il Foscolo riprendesse e al solito rendesse più umana la concezione dell'A. nelle lezioni pavesi sulla «morale letteraria», sia che ad esso si ispirasse nella decisione dell'esilio, sia che ne facesse canone di giudizio nella critica della poesia storicizzando le rigide categorie alfieriane. All'A. è dedicato un ampio capitolo del Saggio sulla letteratura contemporanea, scritto per lo Hobhouse: ma indipendentemente dal valore degli spunti di critica morale, politica, poetica sull'A., sparsi non solo in queste pagine, ma in tanti altri suoi scritti (e possiamo ancora ricordare la Lettera apologetica e l'articolo Della nuova scuola drammatica), la dedizione appassionata al poeta maestro è testimonianza più d'ogni altra significativa dell'efficacia dell'insegnamento alfieriano che il Foscolo come nessun altro con l'esempio e con l'opera ha contribuito a diffondere nell'età del Risorgimento.

Ai versi dei Sepolcri si affiancano le due stanze dedicate all'A. della canzone leopardiana Ad Angelo Mai, raffigurazione tutta con-testa di voci alfieriane e che alfierianamente insiste sulla solitudine del poeta eroe nell'età sua, ma elegiacamente commentandola: l'espressione più compiuta dell'esperienza alfieriana del giovane poeta, autentica e intensissima se pur limitata nel tempo e risolta in opere di altro tono e di altro respiro. Vi si compendiano le impressioni delle entusiastiche letture del «suo caro Alfieri» e in particolare della Vita, e va integrata con qualche altro passo in cui più palesemente si dimostra la componente alfieriana dello spirito leopardiano: il passo del Parini, nel quale prende voce definitiva l'adesione al concetto dell'A. delle relazioni tra il fare e lo scrivere («Veggiamo che i più degli scrittori eccellenti, e massime de' poeti illustri, di questa medesima età, come... Vittorio Alfieri; furono da principio inclinati straordinariamente alle grandi azioni: alle quali ripugnando i tempi, e forse anche impediti dalla fortuna propria, si volsero a scrivere cose grandi. Né sono propriamente atti a scriverne quelli che non hanno disposizione e virtù di farne»); o l'altro dell'Ottonieri su «quelle persone in cui la natura per soprabbondanza di forza, ha resistito all'arte del nostro presente vivere esclusala e ributtata da sé», con la suddivisione di due specie, alla prima delle quali non apparterrebbero «se non rarissimi» e tra questi, come è detto nello Zibaldone e qui sottinteso, sarebbe Vittorio Alfieri: «E suddivideva questo genere in due specie: l'una al tutto forte e gagliarda; disprezzatrice del disprezzo che le è portato universalmente, e spesso più lieta di questo, che se ella fosse onorata; diversa dagli altri non per sola necessità di natura, ma eziandio per volontà e di buon grado; rimota dalle speranze o dai piaceri del commercio degli uomini, e solitaria nel mezzo delle città, non meno perché fugge essa dall'altra gente, che per essere fuggita». Tanto più significativo per quel che segue sugli uomini della seconda specie, nella natura dei quali «è congiunta e mista alla forza una sorta di debolezza e timidità», e tra questi, sentiamo, è l'autore che mentre si riconosce di un carattere diverso, ancora una volta idoleggia nell'A. un esemplare di vita rarissimo e per lui irraggiungibile, variazione tutta leopardiana di un motivo persistente con diverse sfumature nel primo Ottocento. Né era - sminuita l'ammirazione dai dubbi che con la sicura coscienza della propria poesia affioravano in lui sul valore della poesia alfieriana, per cui gli sfuggirà detto, ma con tutt'altra intenzione dei critici settecenteschi, che l'A. è «piuttostò filosofo che poeta» e finirà per accettare nella sua sempre più rigida e esclusiva concezione della poesia il giudizio della Staël sul fine sia pur nobilissimo a cui l'A. avrebbe asservito la poesia che per sua natura esclude qualsiasi fine a lei estraneo.

Nemmeno queste pagine della Corinne, su cui tornò più d'una volta il Leopardi, possono dirsi di spirito antialfieriano. Anche le riserve sul giudizio ultimo da dare sulla poesia delle tragedie alfieriane non implicano un giudizio negativo sull'autore, su quelle tragedie stesse, che sarebbero sempre delle «belle azioni», e un riconoscimento di certi aspetti positivi del loro carattere: certo non vi avvertiamo l'estraneità e l'avversione prevenuta di critici classicistici e reazionari. Alla Staël non doveva essere rimasto ignoto, come si notò fin d'allora, il trattato Del principe e delle lettere che tanto entusiasmo aveva suscitato in Andrea Chénier e che sembra riecheggiato in più d'un passo del suo libro De la littérature considérée dans ses rapports avec les institutions sociales: e la simpatia per il nostro poeta («C'est le seul italien qui fut un homme du Nord par la profondeur de ses expressions et l'indépendance de ses sentiments») traspare da più d'una lettera scritta durante il viaggio in Italia ove si fa menzione di rappresentazioni di tragedie alfieriane, ma sopra tutto da quella in cui si discorre della recente lettura della Vita alfieriana ancora inedita, che a lei come ad altri amici e visitatori la contessa d'Albany aveva fatto conoscere: «J'ai vu tous les jours Mme d'Albany à Florence et elle m'a confié le manuscrit de la vie d'Alfiéri, écrite par lui même, c'est une lecture qui m'a captivée à un tel point que je n'ai existé que pour elle pendant cinq jours». Una delle prime testimonianze della fortuna dell'autobiografia alfieriana, «uno dei libri più attraenti e interessanti che sian mai stati scritti in qualsiasi lingua», dirà tanti anni dopo, nel 1875, il Dilthey iniziando un saggio sull’A. col ricordo della lettura della Vita, da lui fatta in Italia («Träumend, lesend, sinnend, habe ich mich in Alfieri versenkt... Indem ich sein Leben lese, das er selber geschrieben, glaube ich den Atem seiner grossen Natur zu empfinden»). Certo in questa fortuna non solo presso i connazionali ma altrettanto vivace presso gli stranieri (fu tra l’altro non molti anni dopo la pubblicazione tradotta in francese (1809), in inglese [1810], in tedesco [1812] e parzialmente in svedese [1819-20]) è da riconoscere l’origine del giudizio dell’autobiografia come capolavoro, il capolavoro assoluto dell’A. (rispetto al quale le altre opere perderebbero d’importanza, anzi essa sola meriterebbe di sopravvivere all’opera tutta): giudizio che si è confutato in sede critica, ma che ha valore come constatazione storica: era nella Vita la personalità nuova dell’A, presentata in una forma più immediatamente accessibile si da poter essere compresa e ammirata da lettori di diversa origine e di diversa educazione, non impediti dalle difficoltà che nascevano dalla poesia stessa, da suoi vizi intrinseci come dagli accenti più originali, nè da prevenzioni o pregiudizi letterari, come quelli sui meriti o demeriti di questo o quel sistema tragico.

Alla Vita si ispira e ne riassume i motivi essenziali con parole che rivelano una intima comprensione il Sismondi nelle pagine sull’A. della Littérature du midi de l’Europe, nelle quali si fan già sentire le riserve romantiche, ma lo scrittore non è così intimidito dallo Schlegel da non lasciar trasparire anche nelle critiche la simpatia per un autore che non era stato estraneo alla sua formazione (non erano solo parole di convenienza quelle in cui rivolgendosi all’Albany diceva di aver avuto dall’A. l’impulso primo a scrivere la Storia delle repubbliche italiane) e l’analisi delle tragedie culmina nella pagina sul Saul: «tragédie... complètement différente de toutes les autres pièces d’Alfieri, elle est conçue dans l’esprit de Shakespeare et non dans celui des tragiques français. Ce n’est point le combat entre une passion et un devoir qui fait la péripétie; c’est la peinture d’un caractère noble avec les grandes faiblesses, c’est la fatalité non de la destinée mais de la nature humaine... (Saul) est le premier fou héroique que je vois introduit sur le théatre classique» – uno dei primi spunti critici sul Saul degno di ricordo per sé e per gli sviluppi che avrebbe avuto nella critica posteriore.

Non è soltanto degli autori della Littérature du midi de l’Europe e della Corinne l’interesse per l’A.: se in tempi a noi più vicini fuori d’Italia sarà generalmente un puro nome tranne sporadiche eccezioni, l’A. appartenne alla cultura viva dell’Europa del primo Ottocento, sia per la sua formazione spirituale che per l’originale personalità, come ci attestano testimonianze non poche e le stesse critiche al suo teatro. nota l’ammirazione del Byron, che così fortemente fu scosso dalla Mirra (soltanto, come fu detto, per una ragione personale?) e si propose di comporre egli pure tragedie secondo il modo «semplice e severo dell’Alfieri», considerando non diversamente dal poeta nostro lo Shakespeare come «il più straordinario degli scrittori» ma «il peggiore dei modelli»: né importa che le tragedie sue risultino per ampiezza di svolgimenti oratori fondamentalmente diverse dalle alfieriane. Ma, come fu detto da chi lo conobbe (lady Blessington), « tanti sono i punti di rassomiglianza che Byron offre con Alfieri da indurre a sospettare che egli sia una copia di un originale a lungo studiato»: certo i due nomi di aristocratici ribelli furono associati ben presto e non solo nelle pagine dei critici, e presso di noi l’alfierismo finì per confondersi e trasfigurarsi nel byronismo, che tanto più vistosamente dominò in certe zone dell’italia romantica.

Si è ravvisata pure da taluno un’affinità tra l’A. e lo Chateaubriand, nelle cui pagine incontriamo il nome del poeta nostro che, come si legge nella lettera al Fontanes, lo scrittore francese vide comporre nella bara, e ne serbò profonda impressione, e di cui tradusse una pagina a lui congeniale sul «luoghetto presso Marsiglia» e le fantasticherie del giovane viaggiatore fra le «due immensità» del mare e del cielo (« Cet homme rude est arrivé une fois au charme de la rêverie et de l’expression»); e si può ricordare l’imitazione fiacca, che il Lamartine giovane fece del Saul, insieme ad altre imitazioni alfieriane di poeti francesi di minor fama (Lemercier, Legouvé, Soumet, Guiraud).

Di ben altra importanza l’incontro dello Stendhal con l’A.: che «esercitò un influsso notevolissimo come esempio morale sul Beyle uomo e artista» (L. F. Benedetto), nonostante la diversità dei caratteri, nonostante l’ideale d’arte a cui come critico e come scrittore egli giunse nella maturità. Non fu un episodio effimero della giovinezza la lettura delle tragedie da lui fatta prima nella traduzione del Petitot (1802) e poi nell’originale e dei trattati politici del nostro autore: essa rappresentò per lui la scoperta di un gusto del tutto differente dal gusto francese, si confuse con un primo impeto di liberazione nell’arte come nella politica, ed egli aderì senza riserve sia alla forma tragica alfieriana che alle idee della Tirannide e del Principe. Venne poi anche per lui lo Shakespeare a rivelargli un mondo ancor più libero dalle convenzionalità del teatro francese e tanto più conforme di quello dell’A. alla più varia e complessa e vivente natura; e contemporaneamente egli si andava formando quell’ideale di condotta da lui riassunto nel termine di «beylismo», rispetto al quale gli apparve segno d’immaturità l’aperta violenta ribellione dell’A., inadeguata del resto alla presente realtà politica. Gli sembrò allora che il tragico non avesse fatto «qu’outrer le système étroit de Racine» e che il politico fosse soltanto un aristocratico non diverso dal suo Appio Claudio («Beaucoup d’orgueil, de courage, d’injustice, de talents»), «Un caractère antique, un Appius, uno di quegli orgogliosi senatori di Roma, così, crudeli nemici del popolo», facendo proprio il giudizio che più d’una volta si era già affacciato sull’indole tirannica di lui ribelle soltanto per non poter comandare, avverso ai re perché non era uno di loro. Non egli certo poteva essere un maestro del nuovo liberalesimo delle due Camere, il più ragionevole sistema per l’Europa presente. Eppure l’A. non cessava di attrarlo per la sua singolarità, come esempio tipico di tanti moderni italiani, dei migliori di essi: «Son portrait est celui de toutes les grandes âmes de l’Italie actuelle: plus de rage que de lumières». Nè la critica escludeva una persistente se pur non sempre confessata simpatia, una non del tutto spenta consonanza di spiriti. All’Histoire de la peinture en Italie egli apponeva un’epigrafe alfienana: i «o che per nessun’altra cagione scriveva se non perché i tristi miei tempi mi vietavano di fare...» e ancora nel ’19 si dava a tradurre il Filippo. Nell’Italia in cui viveva, tra gli amici italiani consenzienti o dissenzienti, egli sentiva la presenza dell’A., e alfleriana fu pure per qualche colore, per più di un tratto l’Italia da lui ammirata, vagheggiata, trasfigurata nell’immaginazione: se delle letture giovanili del tragico nostro permane il ricordo in qualche pagina dei romanzi, nell’Armance ad esempio, in cui il protagonista cerca conforto alla propria tristezza leggendo i libri del «sombre Alfieri», le impressioni di quelle letture, filtrate attraverso una così diversa indole ed esperienza, non furono senza efficacia sul romanziere, a cui dell’A, piacque ritenere e far proprio, a modo suo, lo stato d’animo e il giudizio fissato nella nota pagina del Principe sugli «enormi e sublimi delitti» e nell’altra del Parere sull’Agide: « La pianta-uomo in Italia essendovi assai più robusta che altrove...».

Studiò pure l’A. il Puskin, che se, attratto dallo Shakespeare e dall’ideale romantico del teatro, avverti anch’egli l’angustia del «sistema teatrale» alfieriano, non cessò di studiarlo (lasciò fra l’altro una bella «Imitazione» del monologo di Isabella) e certo ne conobbe anche bene le prose politiche se del Principe citava un passo tutt’altro che ovvio in una lettera scritta in difesa di un amico implicato nella congiura dei Decabristi.

Come in Italia, in Spagna la fortuna dell’A. fu intimamente legata alle vicende politiche: vi ebbe dopo ripetuti giudizi negativi dell’Arteaga ammiratori entusiasti e traduttori poeticamente dotati, come il Savinón, che tradusse il Polinice (18o6) e col titolo di Roma libre il Bruto primo (1812) e Dionisio Solis, a cui si deve la traduzione dell’Oreste (1807) con una intelligente prefazione sulla personalità e l’arte del poeta, e della Virginia (1813). Memorabile, la rappresentazione a Cadice (giugno 1812), in occasione della promulgazione della nuova costituzione, della Roma libre, ripresa in quell’anno e nel successivo a Madrid e in altre città e divenuta perciò in Spagna la più popolare delle tragedie del nostro poeta, recitata sovente anche in seguito in occasione di nuovi rivolgimenti politici (il traduttore, si deve ricordare, fu arrestato come liberale durante la reazione del ’14 e morì in carcere nello stesso anno). Meno fortunata la traduzione anonima del Filippo (1812) e quella dell’Antigone (1827): con questa e con la traduzione della Mirra (1831) del Cabanyes e della Merope (1833) dell’Harzenbusch l’interesse sembra volgersi più degli aspetti politici a, quelli poetici e anche romantici dell’A., di cui fu tradotta ancora (1857) la Rosmunda e che ebbe pure fra i poeti tragici del tempo più di un imitatore.

A un italo-brasiliano, Luigi De Simone, si devono le prime traduzioni in portoghese andate perdute, tranne che per qualche scena, di tragedie alfieriane e le prime pagine di critica intorno al nostro autore, la cui opera giunse più tardi che altrove in Portogallo: ma importanti sono la versione dell’Oreste (1819) e dei trattati (1832) del letterato e uomo politico J.V. Barreto Fejo, e la traduzione della Merope, opera giovanile del poeta romantico Almeida Barrett, a cui piacque, quando già si era convertito all’ideale romantico, ricordare quanto al mutamento dei suoi gusti avesse contribuito l’esperienza del teatro alfienano, rilevando quel che di romantico era nel classicismo del nostro tragico («In quel tempo lessi Alfieri... il classico e severo italiano era stato morso dal romanticismo in Inghilterra: ed esso senza che egli lo confessi né lo ammetta, gli traspira perfino nelle tipiche forme austere della sua Melpomene tutta romana»); e con simpatia dell’uomo e del poeta scrisse un altro romantico, Alessandro Herculano, che preferiva ad ogni altra tragedia sua il Filippo (riferiva di aver udito sempre «un fremito di singhiozzi» alle recite in Italia di quella tragedia). Ma più che per la poesia, la cui risonanza rimase, come si vede da questi cenni, limitata, l’A. trovò in terra lusitana consensi per il suo pensiero politico, tanto più significativi in quanto altrove sembrava ormai inadeguato alle esigenze dei tempi. Il Fejo invece presentava la Tirannide e il Principe da lui tradotte come cosa attuale affermando che «di quanti scrissero su questo tema [la tirannide] nessuno lo trattò meglio.

Alcuni tacciano quel trattato di esagerato, ma i portoghesi, che hanno l’originale (s’intende del tiranno ossia il re Don Miguel) davanti agli occhi, diranno se è o no fedele al ritratto»; e il Garrett presentando al Parlamento nel 1839 un progetto di legge per la difesa della proprietà letteraria intesse tutto il discorso di reminiscenze dell’alfieriano trattato Del principe e delle lettere, lamentando che «nonostante quanto disse l’Alfieri in proposito, il mondo crede ancora nei governi dispotici» per concludere che « non di mecenati ha bisogno il genio ma di leggi che lo difendano».

Non hanno le notizie qui raccolte un mero valore di curiosità, ma sono un indizio (ed altri se ne potrebbero addurre) che l’A., come si è detto, nel primo Ottocento appartenne alla cultura viva dell’Europa. Se ne discusse allora come di un autore i cui problemi non erano propri soltanto alla nostra nazione: da scrittori noti o da ignoti, da quel Petitot che trovava nel discorrere dell’A. motivi di polemica antirivoluzionaria all’autore del lungo severo articolo sulla Vita nell’Edinburgh Review (in questi due scritti sono le fonti di giudizi dello Stendhal), dalla Stael al Sismondi allo Schlegel e al Villemain. Più estraneo di altri allo spirito dell’A. lo Schlegel, insensibile come egli è al motivo primo del suo sentire e del suo poetare: per lui il tragico nostro costituisce essenzialmente un caso mal classificabile nella sua drammaturgia, un’opera ibrida non appartenente né al sistema classico né a quello romantico e nemmeno del tutto a quello del classicismo francese, ed egli riesce in queste pagine di tanto inferiori a quelle sulla tragedia greca o sullo Shakespeare a raccogliere giudizi e pregiudizi della vecchia pedanteria classica e della nuova pedanteria romantica, senza sviluppare spunti di verità destinati a svolgersi in una critica più aperta e comprensiva, ma ponendo dei problemi o degli pseudo-problemi, coi quali si sarebbe cimentata tutta la critica alfieriana dell’Ottocento.
Tutt’altra intonazione hanno le pagine del Villemain, al quale fu rinfacciato il proposito di voler riportare tutta l’opera dell’A. nell’ambito del pensiero e dell’arte tragica della Francia, trattandone in tre ampie lezioni del suo Tableau du dix-huitième siècle (1828), ma che per questo stesso assunto evidentemente forzato viene a collocare il poeta in un ambito non strettamente nazionale e se non rende giustizia al tragico (ma alcune singole notazioni sono felici), ben ne delinea la fisionomia in termini che torneranno nella critica posteriore, riconoscendo in lui una «devozione appassionata alla poesia, un ardore d’entusiasmo così raro nel secolo decimottavo», una melanconia «hautaine et bizarre», che con altri aspetti del suo carattere gli ricorda Byron.

Poeta della meditazione solitaria, pensava il Villemain, l’A. mal sa dimenticarsi nella creazione di caratteri; ma se non è un poeta dramniatico è pure un «grande poeta». «Il était l’homme en qui éclatait le plus la philosophie française du dix-huitième siècle s’animant de l’imagination italienne»: e se di quella filosofia sentirono l’influenza «sans lui emprunter ce qu’elle avait de plua sérieux et de plus actif» altri autori italiani a lui contemporanei divenuti celebri anche in Europa, come Cesarotti, Goldoni, Monti, essi furono sopra tutto letterati. «Alfieri était plus: il était poète, il ètait homme, il était passionné; il agissait, il poussait les ames en avant». Si presente il De Sanctis, di cui è nota la simpatia per il Villemain, e desanctisiano avanti lettera, nonostante il peso del pregiudizio di un A. imitatore della tragedia francese, che impoverisce senza rinnovarla o adeguarla, (ma è da ritenere l’acuta intuizione critica del Filippo) è il discorso tutto, rievocazione piena di simpatia della vita e dell’opera del poeta nostro, «un dea esprits les plus indépendants, lea plus indociles qui aient existé janiais, une des têtes les plus vives, un des coeurs les plus passionnés qu’ait échauffé le ciel d’Italie», uomo che se fosse vissuto nell’età di Dante sarebbe stato «son complice ou son rival de faction et de poésie».

Questa fama europea dell’A., e queste ed altre pagine straniere su di lui non restarono senza influenza sulla critica nostra. Della quale, a parte i documenti settecenteschi, va considerata come la prima trattazione sistematica la dissertazione del Carmignani (1806) presentata all’Accademia di Lucca, che aveva proposto come tema di concorso l’esame «dello stile e delle novità utili e pericolose introdotte da V. Alfieri nella tragedia e nell’arte drammatica». Il tema era nella sua formulazione tipicamente classicistico e classicistico il metodo seguito dal Carmignani, anche se nelle prime pagine contrappone lo Shakespeare poeta della natura all’A. poeta dell’arte, Ignaro il primo di regole e di limiti, mentre il secondo ha tutto subordinato al suo sistema dei limiti e delle regole della drammatica imitazione e questa contrapposizione di natura e di arte con l’implicita condanna dell’A. è nel motto da lui scelto a contrassegno del suo lavoro: «Ara cum a natura profecta sit nisi natura moveat ac delectet, nihil sane agisse videatur». Piuttosto che lo Shakespeare, a cui è reso un omaggio d’obbligo secondo il modulo di un ormai stanco preromanticismo, l’autore tiene innanzi a sè come costante termine di confronto il Voltaire e il Metastasio, sicché l’A. gli sembra in ogni elemento della sua tragedia contrastare con gli ideali di ragionevolezza, di verisimiglianza, di decoro quali s’incarnarono in quegli autori cari al secolo decimottavo. Gli sfugge perciò l’intimo spirito della tragedia alfieriana, quell’horror che non andava giudicato col metro della ragionevolezza e del decoro, e giunge ad affermare che in una tragedia su Saul il vero protagonista dovrebbe essere David, o a lamentare che Antigone parli un linguaggio «si dispettoso che mal si soffre in bocca di giovane donna» e che il Carlo del Filippo non si pieghi ai piedi del padre ma dimostri sempre odio e inflessibilità: fosse da lui o da altri scritto l’Avviso alla III ed. (1822), ben ci dice il carattere della critica e del gusto del Carmignani quanto vi si legge: «(dopo il Metastasio) sorse nell’A. un nuovo e non meno luminoso titolo d’illustrazione per la italiana drammatica. Non vi era dunque sensata ragione di censurare le immortali sue opere per accreditare le straniere, ma ve n’era una ben grande per dimostrare, secondochè era all’autore paruto, che i sentimenti simpatici della tragedia aveano trovato accoglienza e nutrimento tra le braccia del Metastasio, mentre il genio elevato e disdegnoso di A. non avea saputo abbassarsi a raccoglierli». A lui l’entusiasmo per l’A. era sospetto e pericoloso e additava in Racine, Voltaire, Metastasio «i più sicuri antidoti contro la invadente alfierimania». Aveva conosciuto il poeta, anzi al suo fianco giovane aveva recitato nel Saul, ma ritrovava appunto nello scrittore l’uomo quale allora gli era apparso: «Chi lo ha personalmente conosciuto lo ravvisa da capo a fondo nello spirito della sua tragedia. Rigido, di bruschi e tronchi modi, riflessivo, accigliato, parlator parco e sugoso, censore di tutto ciò che era de’ tempi suoi; ispirando il rispetto, ma raramente l’abbandono del core egli preferì sempre il far ammirare le sue originalità al farsi personalmente amare. Il suo dramma ha la fisionomia medesima e per questo lato ha il suo ammirabile e il suo sublime». Non poteva perciò non rispondere se non negativamente al quesito dell’Accademia, poiché quelle opere «prese come modello della tragedia in Italia avrebbero portato, a suo giudizio, in altre mani che in quelle di Alfieri alla ruina dell’arte»: ma se pur distingueva sempre fra la causa del genio che era fuor di discussione e la causa dell’arte, in realtà tutta la dissertazione era Improntata a uno spirito di critica negativa. Eppure errata nell’assunto e nelle conclusioni, essa per la coerenza con cui la tragedia alfienana è esaminata in ogni suo aspetto, viene sia pure indirettamente a delinearne il carattere e perciò non è rimasta senza eco nella critica posteriore.

Al Carmignani risposero senza novità di argomenti e di idee il De Coureuil e il Marré, che nel 1817 pubblicò La vera tragedia di Vittorio Alfieri, rielaborata in una prolissa dissertazione Sul merito tragico di Vittorio Alfieri (ed. 1821), presentata a un concorso bandito nel 1819 dalla Reale Accademia delle Scienze di Torino, sull’A. e sul grado di perfezione a cui aveva innalzato la tragedia prescrivendo che la ricerca venisse condotta con l’esame dei giudizi e del nuovo sistema di arte drammatica di un celebre critico tedesco al fine di «mostrare qual sia la vera natura della tragedia in generale e di quella che può sola piacere nel teatro italiano»: un concorso di palese ispirazione antiromantica, dovendo l’A. (del quale con la restaurazione sempre più di rado era permessa la rappresentazione delle tragedie e nessuna se ne rappresentava più nella sua Torino) servire da strumento nella polemica contro un più attuale e pericoloso nemico, il romanticismo.
Ma già nel secondo e ottavo numero del Conciliatore (1818) Silvio Pellico aveva confutato il primo opuscolo del Marré e implicitamente il Carmignani con spirito d’indipendenza anche verso lo Schlegel, negando l’esistenza di un tipo ideale di tragedia a cui ogni altra dovrebbe essere commisurata, - dovendo i critici soltanto osservare se un’opera sia efficace o no, se alletti vivamente i lettori, se ottenga lo scopo che l’autore si è prefisso di far piangere o ridere o sentire affetti magnanimi. Paragonare l’A. con qualsiasi altro tragico, come facevano sia i classici che i romantici, era per lui assurdo. «Se Alfieni in Italia ha scosso potentemente con le sue tragedie gli animi dei suoi concittadini, se molte di esse non si potrebbero udire sui nostri teatri senza che le passioni fortissime dell’autore si trasfondesseno in terribile guisa nell’animo degli spettatori, se egli ha toccato appunto quegli argomenti che più si confacevano alle intenzioni del suo secolo e che più potevano rinobilitare una nazione accusata dal resto dell’Europa di lunga vergognosa mollezza, non v’ha dubbio, Alfieri fu grandissimo scrittore e la sua gloria non si distrugge paragonando le sue produzioni a quelle di chicchessia». La questione per lui era non se l’A. assomigli ai greci più o meno dei tragici francesi, e nemmeno su una pretesa intrinseca superiorità di un «sistema» sull’altro, bensì «se il sistema tragico francese, perfezionato da Alfieni, sia il più o il meno convenevole per trattare drammaticamente quelle azioni eroiche che importa alle nazioni attuali di celebrare», ossia si riduceva non tanto a un giudizio su quel che l’A. aveva fatto quanto su quel che nel presente si doveva fare, sui soggetti che un tragico doveva trattare, per soddisfare le esigenze della società contemporanea.

Nel Pellico (che fa soltanto questione di soggetti antichi e mitologici o nazionali) la polemica per una nuova e diversa letteratura non implica un giudizio limitativo sull’A. (e con lui nell’ammirazione per l’A. poeta e maestro concordano quasi tutti gli scrittori del Conciliatore) ma nel corso della polemica romantica era inevitabile che il raffronto fra l’opera alfieriana e l’ideale che i romantici vagheggiavano e si andava attuando nel Manzoni portasse a una critica dell’A. in cui si confondevano giudizio storico e affermazione di una poesia nuova, il riconoscimento del carattere dell’A. uomo, politico e poeta e la considerazione dei limiti propri di quel carattere come difetti e manchevolezze. Si legge ancora nel Conciliatore (le parole sono di Giuseppe Nicolini): «La via che Alfieri percorse è una catena uniforme di scoscese montagne, terribili nella continua loro elevatezza, sublimi nella continua lor nudità»; rimaneva dopo di lui altro campo più vario, più interessante ed ameno, e questa constatazione finiva per convertirsi in altri critici in un vero e proprio giudizio di inferiorità, d’insufficienza della concezione tragica alfieriana. È di Camillo Ugoni nello scritto sul Manzoni e sulla nuova scuola drammatica il noto giudizio sulla tragedia alfieriana tutta di ferro che come uno squadrone di corazzieri proteggeva la ritirata della tragedia classica: è pure nota la protesta del Foscolo contro questo giudizio e la stessa concezione di una «tragedia classica» e delle cosidette scuole drammatiche che a lui parevano sogni di pedanti e fanatici (non esistono scuole ma singoli poeti, anzi singole opere). Ma vi era pure nella erronea impostazione dei romantici uno stimolo a definire meglio entro un nuovo quadro sotto una nuova prospettiva la realtà poetica e umana dell’Alfleri. Giudizi puramente negativi di classicisti come il Giordani o Giambattista Niccolini (che dell’A, non fu affatto un continuatore, coi suoi eloquenti e stemperati drammi) rimasero, come dovevano, sterili e non meritano di essere citati se non a titolo di curiosità: nei giudizi dei romantici invece pur contradittori avvertiamo un travaglio di pensiero intorno all’A. che si confonde col travaglio stesso dello spirito del tempo. Nei nuovi insistenti paralleli tra A. e Shakespeare, A. e Schiller, A. e Manzoni affiora il contrasto di diverse concezioni non d’arte soltantoma di vita: contrasto anzitutto fra il nuovo liberalismo per non dire dei nuovi ideali democratici e la politica alfieriana e il suo spirito libertario, quell’ideale di libertà che l’Ugoni vichianamente definirà come «libertà signorile» nel saggio postumo sull’A., mentre nello scritto sopra citato più crudamente l’aveva detto «libertà scolastica»: «Il tempio della libertà poteva avere per lui soltanto un’architettura greca e romana...». Polemica letteraria e polemica politica, motivi consueti della critica antialfieriana e intuizioni personali si confondono nelle pagine dedicate all’Alfleri da Giuseppe Mazzini nell’articolo Del dramma storico (1830), il documento più importante di questa fase della fortuna e della critica alfieriana. Rispetto al dramma storico da lui vagheggiato quale gli pareva richiesto dal secolo, rappresentazione totale dell’umanità nei suoi aspetti diversi e contrastanti, «nazionale, libera e popolare», tale da essere intesa dalle «moltitudini», di troppo gli pareva manchevole la tragedia dell’A., conforme a una letteratura «figlia della educazione signorile», opera di uomo a cui tanto doveva rimanere ignoto della civiltà e più delle esigenze del tempo e della nazione.
«Impaziente per natura, misantropo per orgoglio, passeggiò per l’Italia come per un cimitero, senza intendere la voce segreta che usciva da quel silenzio, senza sospettare l’esistenza di un incivilimento, a cui non mancano che vie di sviluppo, senza intravedere i caratteri particolari della condizione morale dell’umanità nel suo secolo». Un’unica insistente ostinata idea nell’A., nobile, generosa, sublime eppure per la sua limitatezza inetta a portare un rinnovamento fecondo nella poesia e nella vita, «Il grado d’incivilimento, prosegue il Mazzini, ch’era dato all’Italia de’ tempi suoi gli passò inosservato dinanzi, il secolo gli apparve diseredato dalla natura, ed egli cercò di ricrearci col terrore, non con l’amore. Non è l’eden dell’uomo libero ch’egli ci pinge, bensì l’inferno dello schiavo; e noi siam trascinati ad abbracciare la libertà per orrore della tirannide. Egli opera non fecondando la mente e il core collo spettacolo eloquente dell’universo, non risuscitandoci nell’anima l’idea della nostra dignità e degli umani destini; ma disseccando in noi tutte quante le sorgenti della sensibilità e dell’azione, per non lasciarci se non quell’una che versa l’aborrimento sugli oppressori, viva, tormentosa, inquieta». È qui per il Mazzini il limite gravissimo dell’A., ma mentre egli lo vien rilevando con parola romanticamente colorita, illumina quel che per noi è un carattere dell’ispirazione alfleriana, e se all’A. più innanzi egli mostra di preferire lo Schiller, che diversamente da lui sa destarci nell’animo «l’ideale della nostra dignità e degli umani destini», impersonando nel Posa un ideale di umanità che non è annullato ma esaltato dal martirio, viene pur a suggerirci spunti all’interpretazione del da lui non amato Filippo, tragedia non rischiarata da alcuna luce di conforto, in cui non vi è posto per un personaggio come quello del Posa ma soltanto per la solitaria protesta di Perez: «Il concetto del diritto immortale ti s’affaccia nel buio come un raggio di sole in una prigione, poi ti sfugge lasciandoti solo a maledire nella disperazione».

È questo del confronto tra il Filippo e il Don Carlos uno dei temi obbligati della critica alfieriana dell’età romantica ed ebbe una sua efficacia per una più precisa definizione e valutazione della tragedia alfieriana. Lo Schiller stesso in una lettera al Goethe aveva senza volerlo determinata la differenza fra il gusto suo e quello alfieriano riconoscendo che in ogni tragedia l’A. «sa offrire ad altri l’argomento atto ad essere trattato poeticamente e suscita il desiderio di elaborarbo», una prova per lui di insoddisfazione nel poeta nostro «ma segno pur sempre che egli seppe felicemente cavarlo dalla prosa e dalla storia»: e su questa differenza con varia valutazione insistono i critici discorrendo del Filippo (una delle sue tragedie più fortunate e discusse) e opponendolo al Don Carlos, dal Pellico che ben coglie il motivo essenziale della tragedia, «l’inimitabile Filippo» («Nulla di più semplice e di più terribile della condotta di questa tragedia; v’è non so che di rapido e di misterioso che atterra l’immaginazione, e che non si trova in verun altro dramma nè antico, nè moderno») ai letterati che ne scrissero su giornali svedesi quando fu tradotta (nel 1832) dallo Stéenhoff, e rappresentata a Stoccolma (1836), quasi tutti convinti della superiorità del dramma tedesco, tranne il recensore del Nytt Dagligt Allehanda, che traccia un intelligente parallelo rilevando la ferrea coerenza, l’ineluttabile processo verso la catastrofe, la semplicità e la potenza dei due antagonisti nella tragedia italiana, a Carlo Cattaneo infine (1842) che riprende questo tema per difendere la fama dell’A. poeta messa in forse da giudizi dommatici della nuova scuola e rilevare i limiti e gli errori delle dottrine romantiche e in particolare la pretesa di una fedeltà alla storia del poeta, e del cosidetto colore locale, con parole severe per lo Schlegel e con una serrata dimostrazione ad hominem della infedeltà storica del Don Carlos (lo Schiller era ancora per molti italiani un romantico, o almeno un maestro dei romantici) e contrapponendo la severità ed essenzialità alfieriana: se ne ricordò Camillo Ugoni nel saggio postumo sull’A. ove si legge che il dramma tedesco ha l’interesse di un romanzo complicato, mentre l’A. «non si aiutando nè di episodi nè di ornamenti estrinseci cavò tutto e molto dalle viscere di un soggetto semplice»: «Il genio, conclude l’Ugoni, si compiace del semplice e l’ingegno nel complicato».

In seno al romanticismo o accanto e di contro al romanticismo si andava così delineando meglio la fisionomia dell’A.: vi contribuivano pagine come quelle del vecchio Salfi (nel Résumé de l’histoire de la littérature italienne, 1826), degne ancor oggi di ricordo per buone osservazioni e una moderata polemica con lo Schlegel, e quelle dell’Emiliani-Giudici, così vivacemente antischlegeliane: e si veniva riconoscendo da più parti che quel che era apparso soggezione arbitraria a regole estrinseche era invece un portato dell’intimo spirito alfieriano, e Saverio Baldacchini (1835) affermava: «L’ira maggiore di alcuni, che alla sola scorza delle cose si arrestano, è contro l’Alfieri perché si è sottoposto alle tre unità aristoteliche; ma non pongono forse mente che se quelle tre unità l’Alfieri non le avesse trovate, ei se le sarebbe create da sé, come quelle che si concordavano troppo bene col suo intendimento, il quale era di produrre una impressione al tutto semplice, severa e rapida senza che nulla venisse a menomarla e a distruggerla», e l’osservazione era sviluppata dal Bozzelli nel trattato ancora tipicamente settecentesco Della imitazione tragica (1838): «Se la indicata regola di Aristotele non avesse mai esistito nella memoria degli uomini, Alfieri l’avrebbe creata dal nulla senza punto averne il disegno; poiché essa veniva in lui come spontaneo effetto della sua maniera di sentire», anche se i giudizi dell’autore sulle singole tragedie si rifanno più che a quella maniera di sentire a considerazioni di tecnica teatrale.

Alla personalità del poeta invece mirò il Gioberti, che fece propria l’osservazione del Baldacchini e del Bozzelli sull’A. e le unità tragiche, e che nelle molte pagine a lui dedicate nelle opere edite e negli appunti pubblicati postumi col titolo di Studi filologici rispecchia le idee spesso contradittorie del tempo suo sul poeta nostro e si può dire i motivi tutti della critica alfieriana senza giungere a un pensiero suo originale e coerente ma lasciando spunti suggestivi e sempre una testimonianza importante sull’A. nel Risorgimento.
Vi è nel Gioberti dell’Introduzione allo studio della filosofia, del Primato, dei Prolegomeni, del Gesuita moderno un A. fissato in atteggiamenti ormai tradizionali (il «misogallo», il piemontese, l’iniziatore e lo scopritore della nuova Italia, il restauratore del culto di Dante, ecc. ecc.) rilevati ed enfatizzati dal gusto oratorio dell’autore in formule che se non rappresentano veri acquisti critici non possono essere trascurate in una storia della fortuna alfieriana per la diffusione di quegli scritti e il potere di presa di quella retorica, «l’Alfieri creatore dell’Italia laicale», «l’Alfieri fondatore del nuovo patriziato piemontese», «padre di quell’idea civile che anima e infiamma prìncipi e popoli subalpini», anche se lo scrittore dall’esagerazione cade in veri e propri errori, come quando in una declamazione contro il Villemain e in altre pagine esalta l’italianità immacolata dell’A., del tutto immune da influenze del pensiero francese contrapponendo l’A. solo italianissimo a tutti i letterati settecenteschi servili seguaci delle idee illuministiche, o afferma che «scorto da non fallibile augurio, l’Alfieri conobbe che quest’Italia risiede essenzialmente nel ceto medio, che è in effetti il ceto principe» (la «sesquiplebe»?!); ma vi è pure l’A. dei cosidetti Studi filologici, intorno a cui il critico vien prendendo note ed appunti e abbozzando pensieri, ed accoglie ora indiscriminatamente censure classicistiche e romantiche sulla durezza dello stile, sull’assoluto disinteresse per la storia e il colore locale, sull’angustia di concezione rispetto allo Shakespeare o al Manzoni, sulla Mirra, «in cui l’immaginazione dell’Alfieri mostra maggiormente la sua povertà», incapace nonostante l’arte a rendere meno ributtante e mostruoso il soggetto, l’,A. «cattivo scuolaro del Machiavelli, sempre caldo ed elegante quando dipinge il delitto, freddo e stentato quando vuol dipingere la virtù»; ed ora invece tenta egli pure con altri uomini del Risorgimento di segnare il limite della concezione alfieriana della libertà di tanto più angusta della libertà del cristianesimo, da lui sempre ignorata, e riprendendo osservazioni e ricordi di contemporanei scrive: «La sua volontà era nata per tiranneggiare; e trovandosi in collisione con le circostanze, ne nacque il talento per cui seppe l’Alfieri dipingere due cose contradittchie, la libertà e i tiranni. Il sentimento infatti della libertà nel grado in cui l’ha dipinto l’Alfieri suppone una bramosia di dominare combattuta dalle circostanze...». Di qui muove la sua interpretazione del Saul, che sarebbe per lui un’eccezione nel teatro alfleriano, tutto astratto, declamatorio, più povero dello stesso teatro francese, perché nel protagonista il poeta avrebbe espresso tutto sé medesimo, quell’intimo spirito tirannico e insieme la sua intrinseca contradizione. La pagina sul carattere dell’A. e del suo eroe, sulla genesi del capolavoro è il maggior contributo del Gioberti alla critica alfieriana: «... Una sete d’indipendenza e di gloria lo agitò continuamente senza poter mai esser soddisfatta. Non è questo il carattere di Saul, tiranno senza cessar d’esser grande, tenace senza costanza, inquieto, tetro, terribile... Ognun vede che l’Alfieri locato in sul trono e vivuto in quei luoghi e in quei tempi, ne’ quali una incredulità di orgoglio e di passione era la sola possibile, con un Davide dei sacerdoti e un Dio a fronte della sua autorità sarebbe stato Saulle... In Saulle havvi una mescolanza di magnanimità e di perversione, che sentiva in sé stesso; Saulle sfida col suo orgoglio la divinità e spiega un’energia di tirannide straordinaria, ma quello che gli piacea forse più di tutti si è che senza ledere la natura egli è riuscito a dipingerci un tiranno che sente ripiombare su di sé stesso la propria tirannide, che n’è il primo schiavo...».
Più difficile desumere un giudizio coerente dalla pagina famosa di Nicolò Tommaseo («L’Alfieri è più pagano dei pagani stessi») nella sua stringatezza tutto asserzioni male o per nulla connesse, che lasciano intravedere l’antica e in fondo non mai spenta ammirazione (l’A. era stato il poeta e il maestro per eccellenza della sua giovinezza), respinta e compressa da un disdegno in parte almeno affettato: degna di ricordo perché nella irresoluta contradizione dell’odi et amo, mostra scopertamente non solo il carattere ben noto della mente e dell’animo del Dalmata ma un atteggiamento che non era di lui soltanto, bensì di non pochi uomini del Risorgimento. Più criticamente cerca di determinarlo in quel perpetuo dialogo con sé medesimo che è sempre il suo discorso intorno ai poeti e alla poesia, lo Scalvini, che dell’A. avverte insieme con riluttanza e simpatia i limiti e la potenza («Egli era un’alta anima con veemenza di sentimenti e povertà d’immaginazione. Ciò che egli sentiva lo fa tuttavia sentire alfine. Egli comincia a pungerti la pelle, poi calca e calca il ferro nella piaga finché ti va ad ardere le intime viscere») e cerca di definire il carattere peculiare di quella poesia: «La sua poesia non appartiene più per così dire alla rimembranza: ella rappresenta sempre l’attività della passione» per concludere dopo altri dubbi che «Alfieri è grande malgrado i suoi difetti, egli è solo». E lo Scalvini ancora non si nascondeva il pericolo che dalle tragedie alfieriane del pari che dall’Ortis poteva venire al lettore, in quanto quelle opere e non rappresentano la realtà della vita, non stimolano gli uomini ai fatti e al vivere attivo... Anziché gettare l’uomo fuori di sé lo fanno raccogliere in sé; egli cerca le proprie viscere, si diletta di mirare in sé medesimo, e l’ultimo frutto di simili opere è una generazione d’indolenti, di fantastici e d’infingardi, di vanitosi a tutto inetti e inabili a tutto». Era una preoccupazione che si farà sentire anche nel De Sanctis e prima che in lui nel Tenca.

Il quale nella prima annata del Crepuscolo (1850) compendiò efficacemente i sensi di ammirazione e di gratitudine degli uomini del Risorgimento per l’A. riconoscendone ancora l’efficacia di mito attuale, anzi teorizzando quello che in tempi recenti si designerà col termine di «mito»: «I forti pensieri che tormentavano la fiera anima dell’Astigiano sono divenuti il fondo della coscienza comune. Può veramente dirsi allora che l’individuo scompare in una personificazione più elevata, in un superiore ideale, che è già in gran parte creazione dell’istesso genio popolare: in questo senso è vero che i grandi uomini hanno missione di rappresentare un’idea, e che sono inconsci rivelatori dei tempi in cui sono vissuti. Le opere loro potranno in un’età più avanzata esser trovate informi e incompiute; potranno anche andar smarrite, che non verrà meno perciò quella gloria a cui un popolo intero ha dato particolare significazione di un proprio concetto». Sapeva pure dire cose nuove su motivi ormai consueti alla critica alfieriana, come in questo parallelo col Byron: «Tra Byron e l’Alfieri quantunque corra qualche rassomiglianza nella vita avventurosa e nel genio irrequieto esiste questa essenziale differenza, che Byron ha sempre vissuto partecipando del moto delle opinioni e degli avvenimenti che si compievano intorno a lui, l’A. appena ebbe acquistato consapevolezza di sé medesimo passò nel mezzo di essi senza essere scosso e direi quasi toccato. Egli si scevra volontariamente da tutto ciò che lo circonda per sprofondarsi altrove in traccia di una vita più consona ai suoi affetti, di un ideale che fosse in armonia col suo pensiero... L’antichità divenne per lui un oggetto di culto, una religione... Da essa attinge l’ideale della propria letteratura, della propria politica, della propria fede: dal contrasto fra di essa e il presente egli trasse quello spirito di profondo disprezzo e di ira incommensurabile contro gli uomini e le cose del suo tempo. Fa meraviglia il pensare in quale immensa solitudine ha dovuto vivere quest’uomo». E pure cose sue sapeva dire su un altro binomio costante nella letteratura del Risorgimento, Dante e A.: «Tra l’indomabile e selvaggia tempra dell’A. e la sovrana intelligenza di Dante compiacquesi qualcuno di trovare una lontana somiglianza: e par veramente a primo aspetto che le fiere, sdegnose e italiane anime d’entrambi qualche cosa attingano ad una medesima natura. Ma tra l’una e l’altra corrono i cinque secoli della storia del loro paese. Dante benché intrattabile ed iracondo non aveva bisogno per vivere di sequestrarsi dal mondo che gli stava dattorno. L’Italia..., era pure un’Italia robusta, piena di giovinezza e d’avvenire. Come la vita così la parola di Dante si frammischia a tutti gli avvenimenti della sua patria: il suo poema non è che una lunga rappresentazione di quella esistenza agitata che cominciava il Risorgimento italiano. Si può dire che solo la vita del presente fremeva dentro l’anima di lui... Alfieri invece trovossi in faccia, a ben altre circostanze. Una profonda quiete dominava in Italia. Di una tal gente o di tali condizioni nulla più restava a dire: anche la magnanima ira dantesca sarebbe caduta inopportuna. Ributtato dal presente il poeta andrà a cercare i tipi del grande e bello a cui aspira dentro un’altra vita e presso di un’altra età». Il Tenca comprende la ragione storica dell’opera alfienana, di quella tragedia che è tutt’altra cosa del dramma moderno, che concentra tutta la luce su un personaggio, anzi su una passione, sulla sapienza psicologica che pure, gli sembra piuttosto psicologia che poesia. E questo A. nella sua grandezza e nei suoi limiti pone innanzi ai lettori nel primo anno del suo Crepuscolo (dell’art. abbiamo riportato qualche passo, perché non figura nei voll. dei suoi scritti scelti e non reca nel giornale la sua firma): ma più esplicitamente che in questo art., in quello sulla Storia dell’Emiliani-Giudici egli dà voce alle riserve non tanto sull’opera alfieriana in sé stessa, quanto sull’idea di quello storico sull’A. creatore della nuova letteratura italiana, come Dante era stato dell’antica: «L’arte era rimasta circoscritta in lui e domandava altro sviluppo: quanto più esso l’aveva innalzata a potenza di scopo, tanto più essa era presa da nuovi desideri, e scorgeva l’immensità dell’orizzonte a cui era chiamata. E il concetto dell’A., coltivato e ingrandito dai suoi successori, non impedì che Foscolo e Leopardi e tutti i seguaci della scuola tradizionale non sentissero nel loro pensiero il gelo di un vuoto mortale e non domandassero fremendo al passato una pienezza di credenza e di concetto che era inevitabilmente perduta». L’arte e l’insegnamento dell’A. non potevano essere per lui il termine ultimo della letteratura italiana (come non era nemmeno il romanticismo): rispetto al suo ideale morale anche la poesia dell’A., «la più alta espressione della libertà e della personalità dell’uomo, lo sforzo più grande e gigantesco di rifare una vita non ancora spenta nelle fantasie italiane», gli sembrava manchevole: non senza ragione la scuola classica, che lo aveva avuto per maestro, si era chiusa con gli sdegni irrequieti e coi gemiti di dolore del Foscolo e del Leopardi.

Anche il Centofanti nel saggio Sulla vita e sulle opere di V. A. (1843) avverte che «mancò all’Alfieri il senso profondamente pieno della civiltà moderna, e però anche la di lui profezia del futuro fu difettiva e la sua Idea poetica non poteva essere progressivamente feconda», e ancora che «la rigida alterezza, con che aristocraticamente isolandosi dalle moltitudini egli restossi repubblicano nella sua ideale città e praticamente visse con pochi, lo tenne fuori dall’ampia via ove il cristianesimo, che per sua natura è moralmente democratico o per meglio dire popolare, cioè universalmente umano, ti conduce fra tutte’le relazioni e gli interessi della vita, t’insegna a esser fratello a tutti i tuoi simili, ti fa intendere tutti i bisogni delle anime, tutti gli arcani del dolore e amare tutti i sacrifizi ed esprimere tutte le armonie del mondo morale...»: ma se determina così nettamente il limite fra la concezione alfieriana della politica e della poesia e quella che cattolico-liberale egli sente consona allo spirito e ai bisogni della età sua, distingue come altri non aveva saputo fra polemica e storia, fra le esigenze sue e dei contemporanei e quello che era stato il mondo reale ed ideale dell’A., giungendo anzi per queste stesse sue riserve a considerare l’opera alfieriana col distacco dello storico che non esclude poi una simpatia profonda e il riconoscimento dell’apporto positivo della personalità e dell’opera dell’A. alla storia politica e letteraria d’Italia. Così gli è stato dato tracciare una biografia che rileva l’intima coerenza e della vita e dell’opera del poeta in ogni fase del loro sviluppo, non soltanto in sé stesse ma in connessione coi tempi entro la storia d’Italia, anzi dell’Europa settecentesca: vi trovan luogo non come curiosità ma riportati sempre al centro della personalità studiata particolari psicologici (si veda la bella pagina sull’amore per i cavalli) e osservazioni sulle opere singole come sull’atteggiamento dell’A. di fronte al mondo in cui si trovò a vivere. Manca nel saggio un giudizio sulle singole tragedie, anche sul Filippo e sul Saul, tema insistente di tutta la critica ottocentesca, ma le tragedie sono valutate globalmente come necessaria espressione di quella personalità e riconosciuti necessari quelli che alla critica romantica erano apparsi difetti e che a lui sembrano non già derivare da una soggezione arbitraria a regole esterne, bensì parte integrante di una concezione organica e personale. Non tanto però importa al Centofanti la valutazione estetica delle tragedie, quanto il giudizio sulla personalità alfieriana, sulla fondamentale importanza dell’uomo e dell’opera in quel particolare momento della storia d’Italia: dall’inizio in cui rileva l’«intima unione dell’uomo e dello scrittore» («presagio questo di un nuovo ordine di cose e di una letteratura nuova all’Italia») alle pagine ultime in cui dopo aver contrapposto l’A. a tutti gli scrittori del Settecento per la novità della sua idea poetica e nazionale lo presenta come colui che «separò con la forza divina dell’ingegno due secoli letterari e restò individualità solitaria a segnarne i confini» (e in altra pagina aveva già scritto che egli aveva «posto con mano napoleonica le prime basi del grande edificio [nazionale] separando due mondi e restando m mezzo a questi separati mondi dritto, solo, altissimo, monumentale»). Ne vengono illuminati in una trattazione appassionata ed eloquente ma non mai apologetica gli aspetti diversi della personalità alfieriana: le relazioni ad esempio fra l’A. e il pensiero politico dell’età sua («Questi intendimenti dell’Alfieri non si discordano da quelli dei filosofi politici francesi nè dalle tendenze generali dell’epoca, ma sono tanto la necessaria espressione della sua anima, ma prenderanno in essa una forma tanto propria ch’egli potrà considerarli come la stessa lor vita»), il carattere della sua dottrina politica («La dottrina politica dell’Alfieri non era una servile imitazione di pensieri comuni a molti ma una produzione spontanea e la scienza necessaria della sua anima: non un’idea speculativa ma un sentimento, una passione, l’energia abituale della sua vita. Egli perciò naturalmente la riguardava come una sua cara proprietà e quanto meno vedea divulgata nè generalmente predicata questa dottrina tanto di più dovea essere disposto ad amarla»), l’innato spirito aristocratico avvertito anche dal critico nell’ossequio alle tradizioni poetiche oltreché in ogni pensiero e atteggiamento («Le inclinazioni liberali non che mai distruggessero il conte, ma del conte ebbero un più sicuro abito di magnanima fierezza»), la fisionomia peculiare e in certo senso duplice di questo poeta dell’ultimo Settecento («non distratto da molte idee, non corrotto dal falso sapere, vergine e profondo nel sentimento delle sue facoltà come un poeta primitivo, e illuminato dal filosofico splendore di un secolo pieno dell’antica e della propria sapienza, egli scriverà con l’impeto e la forza di un ispirato e col maturo senno di uno spirito riflessivo»); il venir meno delle più semplici doti letterarie nello scrittore, tosto che egli si discosta dal centro vivo della sua ispirazione; il «farsi cittadino del mondo per poter esser meglio e più fruttuosamente italiano» («questo cittadino di una città ideale ch’egli vorrebbe chiamare Italia»); l’A. di fronte alla rivoluzione francese («si resta solo con la sua inviolabile dottrina nella sua repubblica ideale. Tanto l’esser diviso da tutti era necessità sublime in questo singolarissimo uomo»); il significato rivoluzionario di tutta l’opera: «È negazione sublime della vita contemporanea... rassomiglia in alcuna guisa alla feroce semplicità di quella politica che altro non è se non la rivoluzione eterno scopo a sé stessa»; l’A. e lo Shakespeare, l’A. e la storia, l’A. e la religione. Si può dire che questo saggio accolga in sè i vari spunti di critica pro e anti-alfieriana dell’età romantica e risorgimentale e le esigenze etiche, politiche ed estetiche che l’ispiravano sistemandoli in una visione più ampia e comprensiva e per questo tale da essere, come non erano i giudizi fin qui esaminati, cosa per quel tempo almeno definitiva: lavoro pensato e svolto con mente di storico (se pur appesantito da un troppo minuto riassunto dell’autobiografia e più dai filosofemi di cui l’autore si compiace), può ancor oggi per alcune pagine vigorose trovar posto in un’antologia della migliore critica alfieriana, ma è per noi anzitutto, per il chiarimento che vi trovano i pensieri dibattuti in quel tempo e per il punto di vista da cui è giudicato il poeta, il primo forse e certo uno dei più significativi saggi storici del Risorgimento sull’Alfieri.
«Il nostro Alfieri è un uomo che al solo nominarlo ci sentiamo superbi di essere italiani... Ciascuna volta che l’Italia sorge a libertà, saluta con riverente entusiasmo Vittorio Alfieri e si riconosce in lui. Nel ’99, il primo fatto dei repubblicani di Napoli fu di batter le mani ad Alfieri in teatro. Nella prima ebbrezza del 48 ciascuno diceva fra sé: ecco l’Italia futura di Alfieri! Lo ricordo malinconicamente». Sono, notissime, parole di Francesco De Sanctis, esule a Torino (1855): e bene compendiano quel che in quegli anni e fra quegli avvenimenti si sentiva del poeta iniziatore di una nuova età nonostante tutte le critiche, le riserve, le limitazioni che da più parti e da tempo si erano opposte al suo così indeterminato ed elementare pensiero politico e alla stessa sua personalità di aristocratico libertario, di poeta severamente e rigidamente classico.

Una nota sua propria fra le testimonianze che si potrebbero addurre porta Edgar Quinet nelle Révolutions d’Italie (1851), «il libro del ’48», in cui compare come uno dei protagonisti di quel dramma che è per l’autore la storia d’Italia, Vittorio Alfieri, anzi l’A. degli anni più dolorosi della rivoluzione e dell’invasione straniera che nel suo tormento e nell’avversione contro l’una e l’altra parte soffre di una tragedia tanto più profonda di quella dei suoi personaggi, ritrovando in sé stesso le contradizioni della sua patria («L’originalité d’Alfieri, per où il reprèsente cette époque de l’esprit italien, c’est la fureur dans le vide, une âme déchaînée dans le néant, un patriotisme effréné sans patrie..., un Italien qui se réveille en sursaut et ne peut rencontrer l’Italie, ni sur le trône, parce que là est l’absolutisme, ni dans la bourgeoisie, parce que là est la France, c’est-à-dire l’étranger, ni dans le peuple, parce que là est la servitude religieuse et politique»). Se ancora pochi anni dopo il ricordo del Misogallo sarà al fondo delle critiche astiose all’A. tragico di giornalisti francesi, il Quinet che la storia nostra sente come cosa sua propria comprende la ragione intima dell’odio alfieriano, il valore di quell’odio stesso di tanto superiore all’indifferenza dei tiepidi, se pur espressione di una solitudine tragica che non potrebbe avere altra conclusione che il suicidio di Jacopo Ortis: pagine tutte queste di appassionata e colorita, forse troppo colorita eloquenza che non possono essere trascurate in una storia della fortuna e della critica alfieriana.

Non si discosta il De Sanctis dagli altri critici del Risorgimento nell’interpretazione civile e nazionale dell’A. se non forse per una più chiara consapevolezza rafforzata dagli ultimi avvenimenti e fondata su di un saldo senso storico: anch’egli, come l’Emiliani-Giudici, ritiene che «la nostra risorgente letteratura ha per padre Alfieri come l’antica Dante» e nell’A. il futuro critico di Farinata e di Machiavelli ammira «l’uomo che odiava i mezzi caratteri», «un uomo serio che voleva ed il volere per lui è un appuntare tutte le facoltà in un oggetto» e per questo maestro ancora attuale per guarire gli italiani di «un difetto di carattere che è la loro debolezza». E nel discutere il giudizio del Gervinus «tedesco protestante moderato» sull’A. e sul Foscolo delinea con precisione e vigore la posizione storica dei due poeti, il significato del loro classicismo e della loro ideologia politica, non già cose viete o mere estrazioni, bensì rispondenti alla peculiare situazione del tempo loro, sicché non dobbiamo condannarli in nome di un più democratico ideale di vita e di arte, che sarà il nostro, in quanto essi hanno con l’opera loro adempiuto il compito proprio e preparato questi nostri tempi. Come il Centofanti e con una semplicità al Centofanti ignota il De Sanctis afferma: «Oggi possiamo render giustizia a tutti; possiamo dire: seguiamo Manzoni e viva Alfieri!». Non rimproveriamo al Foscolo e all’A. di non aver creato una letteratura popolare; questo sarà il compito nostro: «Manzoni è il poeta della nuova situazione, l’iniziatore della letteratura popolare in Italia». Ma la letteratura dell’ultimo Settecento non poteva essere popolare: «Ella fu ad immagine di quelle classi nelle quali a quel tempo erasi concentrata la vita intellettuale, la rivoluzione parlò col linguaggio di quelle classi, col linguaggio delle scuole». Il classicismo alfieriano era del tutto conforme all’ideale di libertà nel suo primo apparire. «Era l’idea rigeneratrice de’ nostri tempi non ancora entrata nell’azione, non ancora incarnatasi nelle istituzioni, non modificata ancora dagli interessi, l’idea vergine e dea per la quale morivano Condorcet e Mario Pagano. Vedete dunque quanto di vero, quanto di contemporaneo è in questo classicismo di Alfieri». La giustificazione storica s’integra con la giustificazione estetica. Il De Sanctis già nelle lezioni (pubblicate nel nostro tempo) si era cimentato con l’A. affrontando in una ampia trattazione quelli che erano i punti obbligati posti dallo Schlegel della critica romantica e riconoscendo con un’analisi particolareggiata e personale la legittimità estetica e l’accento peculiare del poeta; riesce qui nella discussione col Gervinus e nell’altro articolo Janin e Alfieri a sintetizzar felicemente il proprio pensiero: importante in special modo la confutazione di un A. che avrebbe asservito l’arte alla politica, opinione tante volte ripetuta sino a diventare un luogo comune: se egli nelle tragedie «versò la politica come parte di sé ed il sentirsi egli stesso oppresso e schiavo con tanta coscienza dell’umana dignità, con tanta passione di libertà», non per questo si deve dire che egli scrivesse tragedie «per inculcare e propagare le sue politiche opinioni»; «Nessuno amò più, egli osserva, la sua arte solo per l’arte, vagheggiò un ideale altissimo di tragica perfezione», «anzi è notabile che le sue tragedie più celebrate oggi, scrive ancora il critico (e le sue parole van rilevate come testimonianza della fortuna alfieriana), sono quelle che non hanno alcuno scopo politico come la Mirra, l’Agamennone e il Saul». Nè si ripeta con lo Schlegel che i personaggi sono astrazioni, poiché non già astratte sono le tragedie e i personaggi bensì «un eccesso di vita cumulato in un punto solo che trabocca in passioni vivacissime, in violentissime azioni»: la tragedia tende a concentrarsi nel protagonista, a farsi tutta interiore e intensissima, verrà meno ogni colorito locale, ogni accessorio storico e domestico, ma non per questo la poesia. Come ben si vede dalla Mirra che il De Sanctis vivacemente difende contro i critici francesi i quali in occasione delle rappresentazioni parigine della Ristori ne avevano acerbamente criticato il soggetto, la condotta, l’autore: e il saggio, analisi attentissinia e nuova della tragedia e della protagonista, insieme a non pochi spunti lasciati nelle lezioni giovanili rappresenta per noi il contributo più originale della critica alfieriana dell’Ottocento. Purtroppo le pagine della Storia non giungono a concludere il precedente lavoro del critico, lasciando irresolute, anzi esasperando con la giustapposizione di affermazioni recise e di opposti sensi le contradizioni più o meno esplicite di tutta la critica alfieriana dell’Ottocento: assai meglio era riuscito il De Sanctis negli articoli torinesi del ’55 a delineare il proffio storico del poeta e a determinarne il peculiare originale accento di poesia. Forse il carattere di tutto quel capitolo, che rimase, come è noto, per ragioni esterne quasi strozzato, forse il tendere verso una conclusione di tutta la storia che faceva dell’A. soltanto un momento di passaggio alla letteratura del secolo seguente, impedirono all’autore di dare uno sviluppo più complesso e sfumato al suo pensiero: ma se pur anche qui è in più d’un punto il segno del grande critico in osservazioni luminose che non possono essere dimenticate, si ha (o m’inganno) l’impressione che l’A. non lo prendesse più così come al tempo della scuola napoletana e dell’esilio torinese e che tutte queste pagine siano piuttosto la ricapitolazione di un pensiero passato che frutto di una rinnovata attuale meditazione. Non vi si legge (ma dobbiamo ritenerlo sottinteso?) quel che in una pagina, che non ricompare nella Storia, dell’articolo sul Metastasio gli era venuto fatto di scrivere: «La collera contro la vecchia società colse pure il Metastasio. La grande ombra di Alfieri calò sopra di lui. Pure una certa voce si facea via, ma non si osava alzarla troppo. Si dicea così in pochi e quasi all’orecchio, che Metastasio era poeta nato, e Alfieri volle esser poeta e non fu. Il segreto oggi è pubblico, e mi pare che senza taccia di indiscrezione si possa divulgarlo». Se nel Metastasio egli poteva salutare «l’ultimo grande poeta della vecchia letteratura», non l’A. che aveva iniziato la nuova, ma più maturi e vicini poeti e la letteratura stessa del presente in fieri stavano sulla cima dei suoi pensieri. La grande ombra di Alfieri sembrava dileguarsi con l’avvento di un’età nuova, di nuovi interessi e problemi: la sommarietà e le irrisolte contradizioni di queste pagine desanctisiane non andranno perciò spiegate soltanto con ragioni estrinseche o personali: l’affievolirsi dell’interesse per l’A. era ormai proprio del tempo in cui fu composta la Storia.

Soltanto nelle lezioni del Settembrini sentiamo ancora lo spirito dell’età precedente, se pur nulla di nuovo in fondo porta lo scrittore nella tematica della critica alfieriana, nè supera quelle che ne erano le contradizioni alternando senza mediarli giudizi positivi e giudizi negativi. Rimane, ma è del De Sanctis prima che sua, l’idea della tragedia alfieriana come «tragedia interiore» («L’azione si compie nella coscienza, però non ha nè luogo nè tempo nè colore storico, perché nella coscienza non c’è nè lo spazio nè il tempo, ma soltanto l’idea dell’uno e dell’altro») e l’immagine di essa come «una colonna schiettissima di purissime proporzioni con un solo giro per capitello e uno per base, non appartenente a nessun ordine di architettura ma saldo sostegno dove è allogata e di effetto mirabile», e il paragone con abbozzi di statue michelangiolesche, come opere in fieri in cui è «il travaglio del pensiero per diventare un’opera d’arte, ma l’opera d’arte non è fatta e si vede ancora il sasso» (intuizione che potrebbe essere sviluppata, ma di cui è dubbio che il critico avvertisse tutta l’importanza); ma rimane sopra tutto il calore di simpatia di tutto il discorso e qualche definizione felice come in questo passo: «Quando si combatte non si ride e l’Alfieri non rise nè potè mai sorridere anche nelle satire... Egli è accigliato come soldato in battaglia», e le riserve su certa aneddotica alfieriana non sempre attendibile: «(I particolari) raccontati da altri mi paiono piuttosto inventati da coloro che si sentivano umiliati da quello spirito altero e lo dipinsero rabbioso tiranno in casa sua».
Rare pure negli ultimi decenni del secolo le rappresentazioni di tragedie alfieriane che dall’ultimo Settecento avevano accompagnato i vari moti rivoluzionari e negli anni di maggiore tolleranza da parte dei governi si erano avute con una certa regolarità rendendo familiare al pubblico anche fra l’ormai prevalente gusto romantico quel teatro: predilette soprattutto dagli attori e dal pubblico il Filippo, il Saul, l’Oreste. Famosa l’interpretazione del Saul di Gustavo Modena (il cui padre era già stato interprete applaudito dell’A.), anche per il ricordo che ne ha lasciato il suo biografo, Luigi Bonazzi: al nostro gusto essa ci sembra, oscillante com’è fra preoccupazioni minutamente realistiche e violenta declamazione (per il Modena repubblicano e anticlericale il culmine della tragedia era nell’invettiva antisacerdotale del quarto atto) fondamentalmente sbagliata. Più fu le interpretazioni di Ernesto Rossi e di Tommaso Salvini, i quali oltre che nel Saul eccelsero nell’Oreste; e memorabili quelle di Adelaide Ristori nelle parti di Mirra e di Rosmunda (della prima l’attrice ha lasciato il ricordo in una analitica descrizione), sia per sè stesse che per i successi parigini del 1855 e le discussioni a cui diedero luogo – forse l’episodio ultimo della fortuna europea dell’Alfieri.
Di scarso interesse i versi di omaggio di Alfred de Vigny (nel 1852 aveva tracciato l’abbozzo di un poema sull’A. e la contessa d’Albany, alquanto manierato e tale da non far rimpiangere che non sia stato condotto innanzi); versi pure per la Ristori composero Alfred de Musset e il Lamartine, che distinguendo fra il poeta e l’interprete la celebrò come colei che aveva reso al tragico ben più di quel di cui le fosse debitrice dando il proprio sangue alle ombre dei drammi alfieriani, una voce e un’anima ai loro fantasmi senza corpo; e Alessandro Dumas diceva che, tranne uno stile magnifico, nulla vi era nella Mirra alfieriana e tutto aveva inventato l’attrice ed esaltando la magnifica interprete della Rosmunda (una tragedia che per la sua teatralità ebbe particolare fortuna), affermava che nulla importa conoscerne l’autore, (e chi se lo chiedeva avendo dinanzi a sè colei che di fatto l’aveva creata?) e aveva compiuto il prodigio di rimanere simpatica «dans ce rôle odieux, colérique, insensé, dans cette mégère, dans cette furie, dans cette Tisiphone»; ma in quella stessa parte essa era apparsa a Georges Sand una vera rivelazione, una delle rare espressioni della bellezza che due o tre volte soltanto s’incontrano nella vita: e Vous êtes dans Rosmunda la divinité de la force et de la vengeance, une de ces figures que les arts n’ont pu produire que dans les plus grandes époques». «C’est une statue antique, mais d’un marbre qui brûle et qui souffre» (anche il Vigny scriverà: «Elle apparut ici / comme la Passion brillante dans la Sculpture»), ebbe a dire Théophile Gauthier, al quale l’interprete svelò la grandezza del poeta e avviò si direbbe all’immagine in cui si riassume la sua critica: «La tragédie d’Alfieri, dans le genre sobre, rigide et nu qu’il s’était imposé, est un véritable chef-d’oeuvre. Figurez-vous un temple du dorique le plus austère, plutôt le temple de Neptune à Pestum que le Parthènon... un art d’un grandiose aride et d’une perfection triste. Certes, celui qui a élevé un pareil monument est un grand architecte, quoi qu’il ne soit peut-être pas agréable d’habiter son sévère portique»; e con simile gusto Paul de Saint Victor delineava con tocchi felici e suggestivi quel che egli sentiva della tragedia alfieriana: «De toutes lea tragédies d’Alfieri, «Myrrha» est peut-être celle qui résume le mieux son génie aride et sublime... Ce n’est pas un peintre, mais quel statuaire! Il ne colore pas, mais comme il creuse! Chaque fois que j’ouvre une tragédie d’Alfieri, il me semble entrer sous un grand portique coupé d’ombres frigides et de grandes bandes de chaleur. Là, tout est marbre, symétrie, solitude, effet de proportions, majesté de lignes... N’y cherchez aucun des détails et des ornements de la vie: le couteau dea sacrifices grecs, l’épée dea suicides romains, la coupe de bronze où la mort fermente, meublent seuls cette enceinte spartiate où l’air lui-même senible raréflé. Les personnagee, réduits au nombre strict, s’accostent et se groupent avec une gravitè lapidaire; une file, jamais de foule; peu de mouvements, des attitudes, mais rares, frappantes, extraordinaires, prises dans le marbre d’une fixité qui impose: dea âmes enfin plutôt que des hommes... Mais quelle vigueur dana cette nudité! quelle complication de muscles et de nerfs accusent cea écorchés tragiques! quelle force de structure et de caractère ! Donc, rien d’extérieur dans Myrrha, l’horrible passion qu’elle recèle y couve à l’état de feu latent; on marche sur un sol calciné, mais il brûle en secret jusqu’au dénouement... Je ne sais rien de plus dramatique que cette âme en peine, entêtée à se taire, et couvant son secret impie dans un noir silence».

Non troveremo più dopo questi spunti di critica immaginosa, espressione schietta di un’esperienza autentica della poesia alfieriana, altre pagine di scrittori non italiani che attestimo una simile comprensione dell’A. poeta; tranne forse quelle già menzionate del Dilthey, il quale nel 1875 fu attratto dalla personalità dell’A., e ne scrisse con una simpatia a cui non fu estranea la recente unificazione politica dell’Italia e della Germania, poiché nel subalpino A. gli parve di ravvisare un rappresentante tipico della Macedonia italiana, affine per indole e per educazione ai politici piemontesi artefici dell’unità e gli riconobbe persino il merito di avere rettamente giudicato della rivoluzione francese, come per troppo tempo non avevano saputo tanti tedeschi. Ma a parte questo spirito bismarckiano è da rilevare la lettura attentissima dell’autobiografia del poeta, singolare non soltanto per l’indole fervidamente appassionata, bensì come «ein eminent philosophischer Kopf», ammirato dal Dilthey per l’attenta e precisa descrizione del superamento della passione nella consapevole scelta della missione di tragico, che lo induce ad accostarlo addirittura allo Spinoza. Certo quale sia il suo punto di partenza e il punto d’arrivo, ossia la definizione di una natura per eccellenza drammatica e di quel che è dramma (al Dilthey non tanto importa questa o quella tragedia alfieriana quanto la «tragedia» in genere), l’A. vien fuori dal suo saggio con notevole rilievo e se nuovi non sono parecchi tratti, come quelli dell’intima coerenza dell’uomo e dell’opera o della salda unità delle tragedie, liberate dagli «errori» dei francesi, queste ed altre osservazioni s’impongono per il particolare punto di vista del critico: così t’accostamento al Kleist per l’amore della musica e il colore oscuro della visione dei due poeti, o al Byron per il con simile atteggiamento aristocratico di fronte ai sovrani del tempo contro cui si erigono da pari a pari come con un rancore personale in una superba guerra, la congiunta efficacia di Plutarco e del Montaigne, dal quale ultimo sarebbe venuto al poeta il suo gusto dell’analisi morale, o l’aria di famiglia che accomunerebbe l’A. ad altre due grandi individualità di origine italiana, di identica passionalità e forza romana di carattere, Mirabeau e Napoleone, il riportare la tragedia del nostro poeta a un momento preciso della storia, agli anni dopo il 1770, in cui più insopportabile si fece alle nobili nature dell’Europa il dispotismo della monarchia assoluta, il giudizio sul trattato del Principe e delle lettere come una «höchst merkwürdige Abhandlung», e tipicamente tedesca infine l’osservazione sulla mancanza negli italiani di «Gemüt» e «Gemütlichkeit»: di qui nell’A. come nei suoi connazionali l’intensa concentrazione degli affetti al di là dei quali dominerebbe soltanto la ragione e l’assenza del sentimento della natura.

Ma non fuori d’Italia soltanto, anche da noi nel secondo Ottocento l’A. viene fra il pubblico e i critici perdendo di quella vitalità che aveva serbato nell’età romantica e risorgimentale, quando le discussioni sulla sua poesia e la sua politica eran state parte integrante di un più vasto travaglio politico e letterario: egli resta un grande nome, oggetto di un omaggio se pur smcero obbligato, e l’opera sua vien definita da formule ormai fisse, residuo di quel che un giorno era stato pensiero vivo. Caratteristico per questo Giosuè Carducci: che diciottenne compose un sonetto alfierianamente atteggiato a Vittorio Alfieri (ma contemporaneamente ne compose altri al Goldoni, al Panni, al Metastasio, del quale ultimo riteneva avesse dipinto i Romanì così bene come mai A. e Shakespeare) e una canzone leopardiana allo scultore Enrico Pazzi quando scolpiva il busto di Vittorio Alfieri; e, cosa più sua se non bella, nel 1858 la saffica Alla Libertà, in cui è col preannuncio di accenti dei Giambi il primo tentativo della ipotiposi alfieriana del Piemonte («Tale il tuo nume nel gran cor portando / correva Italia l’Astigiano acerbo, / e trattò il verso come ferreo brando, / vate superbo: // Te fra gli avelli sotto il del romano / chiamava; e il nome giù per l’aer cieco / cupo rendeva a lui dal vaticano / vertice l’eco»). Quei versi si accompagnano allo studio per l’edizione dei due volumi (1858-59) delle Satire e poesie minori e Del principe e delle lettere e altre prose, che, a parte la strana propensione per l’infelice Etruria vendicata, assai bene si inseriscono per la scelta e le prefazioni nella contemporanea letteratura alfieriana (fin dalla prima pagina il Carducci si richiama al Centofanti) pur con un loro carattere di lettura personale. Ma all’A. di fatto non tornò più dopo quei primi studi giovanili, pago di serbarne l’immagine fra quelle dei poeti maestri, a cui era devoto e presentarla di quando in quando in sentenze epigrafiche, come quelle della prolusione Del rinnovamento letterario in Italia (1874), o dell’introduzione alle Letture del Risorgimento italiano (1896): nè valga come prova in contrario quel corso su Vittorio Alfieri e tragedie di soggetto romano, di cui son stati conservati mutili gli appunti e che anche quei pochi documenti rimasti attestano fosse cosa assai povera e poco personale, tanto che egli stesso non ne trasse argomento di saggi o di studi: con ben altra cura e impegno, il raffronto è istruttivo, egli si era dedicato allo studio del Panini e del Foscolo. All’A. egli si è ispirato per la concezione del poeta-vate: ma entro quella concezione e in contrasto con essa aveva portato un’esperienza così diversa che quel poeta-vate sembra più volte nelle sue pagine piuttosto un proposito che una realtà, e l’A. finisce per essere soltanto una grande ombra lontana. Così è nella famosa raffigurazione del Piemonte, che dovrebbe sintetizzare poeticamente le epigrafi di cui s’è fatto cenno e che ci sembrano più d’una felici assai più di quei versi ultimi che hanno del barocco con quel «grande» venuto «come il grande augello ond’ebbe nome», volante «sopra a l’umile paese fulvo irrequieto» e il suo gridare: «Italia, Italia» e la risposta delle urne di Arquà e Ravenna e lo scricchiolare delle ossa dei risorti. Un monumento commemorativo del precursore del Risorgimento di un gusto simile ad altri monumenti elevati allora nelle piazze italiane. Certo siamo lontanissimi da un Foscolo e da un Leopardi nei versi dei quali era lo spirito del poeta fraterno.

Vero è che le strofe carducciane esprimono col pensiero del poeta il pensiero del tempo suo sull’A., la cui opera parve aver valore sopra tutto come preparazione, anzi anticipazione del Risorgimento e dei modi stessi in cui il Risorgimento si era attuato. Così il Masi scrive del «suo apostolato politico italiano in cui consiste tutto l’Alfieri» e dopo aver citato il noto epigramma «Sia pace, ecc.» commenta: «Quel che poi è accaduto, cioè»; ammette che la tragedia alfieriana «invecchia teatralmente e si esaurisce insieme con le vicende storiche della rivoluzione italiana alla quale è strettamente legata», o ancora che la patria «riempie tutta l’opera letteraria di lui, e che egli va compiendo e perfezionando il suo pensiero politico fino a delineare esattamente il concetto della monarchia costituzionale moderna» con quella scialba commedia che è L’antidoto, e prefigunando Carlo Alberto nel suo Agide. Altri invece, come il Mestica, dimostravano che non nella monarchia costituzionale bensì nella repubblica si compendiava il pensiero politico alfieriano: ma queste stesse discussioni sul regime politico che il nostro autore avrebbe propugnato, attestavano come si fosse lontani da quel che era stato in realtà per lui la politica.

Così pacifiche interpretazioni dovevano lasciare in ombra l’intimo tormento dello spirito alfieriano, e perciò la fonte stessa di cui si alimenta la sua poesia, la quale anche da parte di chi le tributava elogi e riconoscimenti fu assai meno se non scarsamente sentita, e considerata sempre più quasi un’appendice dell’opera del politico, con le solite eccezioni del Filippo e del Saul. Si diffuse allora il giudizio dello Zanella che la sua fosse ormai «più gloria d’uomo che di scrittore> e il Masi ancora scrisse che egli «si levò ad altezza più che di poeta di profeta della patria». Per questo fiacchi e scarsi di novità sono i pochi studi sulle solite tragedie come il saggio dello Zumbini sul Saul; il Panzacchi riprende, senza citarlo, il parallelo del Cattaneo sul Filippo e il Don Carlos coi medesimi argomenti senza il preciso fine polemico dello scrittore milanese, e si stupisce come «in tanta abbondanza di soggetti» l’A., volendo comporre una tragedia d’amore, «sedotto dal suo demone andasse a cava fuori Mirra», una prova del suo ingegno e della sua abilità tragica ma fatalmente infelice per la scelta dell’argomento. Si direbbe che il riconoscimento della grandezza del tragico gli sia strappato a forza e il conferenziere (questo saggio sull’A. fu scritto per una conferenza) preferisce ripetere vecchi motivi dei romantici sulla prepotenza che l’A. avrebbe esercitato su sé medesimo e sul suo carattere di «eterno pedante» – una definizione che ben presto si diffuse. Accanto a giudizi come questi dell’ultimo Ottocento, che assai poco han detto alla più recente critica alfieriana, acquistan rilievo e importanza giudizi e osservazioni di scrittori più vicini al tempo e allo spirito dell’A.: di un Carrer ad esempio, non dotato di qualità critiche eccelse nè di indole propriamente alfleriana, il quale (ma anche altro si potrebbe citare) aveva scritto come «i trascorrimenti delle passioni disperate fossero meglio fatte per la sua anima», e che perciò «nessuna tragedia d’amore poteva egli condurre si perfettamente come la Mirra: il cruccio della rea giovane serpeggia pressoché in ogni verso e nulla di più vero insieme e di più terribile del suo spirare tra le braccia della nutrice abbandonata da ogni altra persona nella reggia paterna. Dopo il Saule io l’avrei per la più compiutamente bella delle tragedie alfieriane»; o ancora quanto Camillo Ugoni ebbe a dire del Saul, «tragedia meno d’azione che di sviluppo di un carattere commovente il cui soggetto vero consiste come in quelle di Shakespeare nello sviluppo del carattere del protagonista»: «Saul ritrae non poco di quelle grandi catastrofi umane, di quella lotta col destino che i greci si compiacevano di rappresentare nelle scene».

Meno che scarso dunque il contributo di quest’età alla critica alfieriana (fra i giudizi che vi si posson spigolare è notevole quello del manzoniano D’Ovidio il quale riteneva che tra i prosatoni settecenteschi «più si dovrebbe ricordare l’Alfieri, che seppe crearsi una maniera di prosa solida e robusta, a periodi larghi senza stento»): più importanti le ricerche di carattere biografico ed erudito, gli studi e le pubblicazioni del Teza, dei Bernardi e Milanesi, del Renier, del Mazzatinti (al quale si deve oltre l’esame dei manoscritti di Montpellier l’edizione, sia pure discutibile e imperfetta, delle lettere), del Fabris, del Novati. Son qui e nel clima del «metodo storico a, i presupposti della prima sistematica monografia sull’A. di Emilio Bertana (I ed., 1902; II, 1904). A quello studioso e alla scuola in cui s’era formato si deve il proposito di ricercare al di là delle formule ormai fissate e senza prevenzioni quel che fosse stato in effetto e nella vita e nell’opera quello scrittore che per l’una e per l’altra era celebrato sopra tutto come esempio altissimo di uomo e di uomo nuovo: nè si può dire che i risultati sian stati in tutto manchevoli per la copia delle notizie nuove ed inedite, per la coerenza della trattazione abbracciante nei vari aspetti tutta la vita e tutte le opere del poeta (soltanto delle Commedie il Bertana si è dimenticato, limitandosi ad accennare all’Antidoto nel capitolo sul pensiero politico). L’errore suo è stato quello di confondere la necessaria opera dello storico, il quale non può far proprio, come è ovvio, il giudizio che di sé medesimo dà un autore o che si è fissato per una pigra tradizione, con un contradittorio sistematico e puntiglioso, quasi di giudice istruttore col suo poeta: perciò egli potè con riserve e limitazioni correggere questa o quell’opinione e sopra tutto invitare a uno studio diretto di tutta l’opera alfieriana, ma non riuscì a dare del poeta e dell’uomo un ritratto suo compiuto e finì dopo così insistenti contestazioni ad accettare il giudizio corrente. Ma la coerenza stessa del suo errore e la vivacità della trattazione dovevano sollecitare discussioni sul suo soggetto e sul suo metodo (come attestano le numerose recensioni degli stessi più autorevoli rappresentanti della scuola storica e di Benedetto Croce, che al criterio seguito dal Bertana oppose obiezioni fondamentali); e una rilettura così attenta delle pagine alfieriane anche se non ispirata nella sua origine da una simpatia congeniale per lo spirito e l’arte del poeta, doveva al Bertana anzitutto e poi ai suoi lettori riproporre nella sua complessità o se vogliamo nella sua stessa contradittorietà il problema di quell’uomo, di quel pensiero, di quella poesia: si vedano a tacere di altre le pagine sul pensiero politico, non più pacificamente composto in una formula ma seguito nei suoi aspetti diversi e spesso contrastanti.

Dal Bertana prendono le mosse tutti gli studiosi venuti dopo di lui, così il russo Glivcenko, che ne discusse i dubbi e le riserve sulla veridicità alfieriana (ma della monografia di quest’autore (1912) ampia e compiuta non mi è stato dato conoscere se non quanto se ne legge in una recensione italiana), come il francese Sirven che riprese per conto suo le contestazioni al poeta e riuscì anche a scoprire su di lui e sull’Albany documenti nuovi, ma sordo affatto alla poesia ed estraneo se altri mai alla sua psicologia di lui la sua narrazione in un discorso pettegolo e salottiero condotto per ben otto volumi. E al Bertana si contrappone per gli studi composti in parte contemporaneamente in parte posteriormente al suo volume e raccolti nel libro V. A. e la tragedia (1904) Manfredi Porena, che con spirito consequenziario dimostra l’unità e la coerenza della vita e dell’opera alfieniana; ma tanto più suggestive e nuove sono le poche pagine commemorative di Eugenio Donadoni, che non soltanto si oppone alla «critica demolitrice e invidiosetta» del Bertana ma alla critica tutta degli ultimi decenni del secolo rifiutando finalmente i consueti luoghi comuni (come quello dell’A. precursore dell’Italia presente: «L’Italia politica c’è. Quella dell’Alfieri? Non direi») e proponendo l’immagine di un A. quale nel suo animo romantico egli aveva riscoperto, tutta luci e ombre, un A. che si potrà pure non accettare, ma che è di nuovo persona viva come era stato per gli uomini del primo Ottocento. Democratico e romantico il Donadoni sente nell’aristocrazia e nel classicismo dell’A. un limite fatale, «un conte e un classico non potevano dare di più», ma avverte pure al di là degli schemi consueti quel che vi è di originale nella personalità del poeta riportandolo insieme nell’ambiente che gli fu proprio, l’Europa dell’ultimo Settecento e agli spiriti della classe entro cui restò chiuso, e scoprendone con l’ausilio di più recenti esperienze aspetti che lo riaccostavano a lui e ai suoi contemporanei. Egli per primo ebbe a dirlo per «il senso più geloso della individualità» ereditato dall’aristocrazia il «superuomo del suo tempo», e respingendo le viete critiche alle rigide unità aristoteliche dei drammi alfieriani vi riconoscerà invece il segno dell’alta consapevolezza d’arte del poeta, che proprio per questa così serrata concezione del dramma gli vien fatto di accostare all’Ibsen. Ma particolarmente degno di nota è quanto dice dell’indeterminatezza dell’ideale alfieriano, dell’impossibilità per il poeta di comprendere le conquiste del tempo suo, chiuso sempre nel suo libertanismo aristocratico, del conseguente suo pessimismo, del senso di smarrimento che di quando in quando lo coglie in mezzo alla lotta da lui impegnata («Ma spesso l’Alfieri interrompe il suo duello e allora scorge con ineffabile terrore davanti a sé il vuoto»), del valore dell’«entusiasmo», del «forte sentire» per cui l’A. supera le dottrine classicistiche e si dimostra in un’età prosaica poeta vero.
Era in queste pagine la proposta di una critica nuova, e un rinnovamento profondo della critica alfieriana si ebbe infatti nel secolo nostro. Ne ha posto con la consueta sicurezza metodologica le fondamenta Benedetto Croce, risolutamente respingendo la tradizionale figura dell’A. precursore del Risorgimento italiano per riportarlo tra gli spiriti a lui affini dell’Europa del secondo Settecento e in particolare a quelli dello Sturm und Drang, per l’ardore indeterminato di libertà, per il culto della passione, per l’avversione all’intellettualismo settecentesco, e in questo A. «protoromantico» ha riconosciuto la voce autentica della nuova poesia, in contrasto con la poesia musicale gnomica didascalica del Settecento, dando un rapido saggio di lettura poetica con passi desunti non dal ben noto Saul, bensì da più d’una delle altre tragedie alfieriane, e distinguendo nel poeta e nelle singole opere un momento di furore o di accanita battaglia e uno in cui questo atteggiamento è superato in una lirica comprensione non delle vittime soltanto ma dello stesso tiranno: e dopo questo saggio, del 1916, ha ribadito più volte la sua convinzione della grandezza poetica alferiana sino al Saluto a V. A., con cui si conclude il volume La letteratura italiana del Settecento (1949). E se taluno fu da queste pagine indotto ad un insistente e monotono richiamo allo Sturm und Drang (spesso non altrimenti conosciuto), e al motivo del «superuomo» (con riferimenti anche al più recente Nietzsche), all’io alfieriano, ecc., ecc. o a meccanizzare la distinzione crociana fra momento oratorio e passionale e momento poetico nelle tragedie alfieniane anziché cercare di comprendere, problema lasciato aperto dal Croce, il nesso dell’uno e dell’altro, oltrechè della politica e della poesia, così da poter tracciare la storia dello svolgimento della personalità e della poesia alfieriana, altri svolse più originalmente i suggerimenti crociani. Prima di tutti Leonello Vincenti, il cui studio A. e lo «Sturm und Drang» (1932) illumina come non si potrebbe meglio con raffronti puntuali tra l’A. e gli Stürmer, l’A. e Schiller, l’A. e i classici tedeschi la personalità storica e poetica del nostro autore nelle affinità ed anche nelle differenze con quegli scrittori germanici, sì da essere uno dei contributi essenziali del nostro tempo alla critica alfieriana: particolarmente importante quanto il Vincenti scrive sul «fondamentale pessimismo» alfieniano, che non ha riscontro negli Stürmer, sulla brama di assoluto che si risolve nel nulla, sulla «impedita volontà di vivere» che diventa volontà di morte, sul suicidio come unica catarsi della tragedia alfieriana.

Meno legato al Croce, Attilio Momigliano nell’introduzione e nel commento del Saul (1921) e della Mirra (1924) attesta il ritorno all’A. dei lettori più fini del tempo nostro, la riscoperta non solo delle due notissime tragedie ma anche di altre prima trascurate, del carattere peculiare della poesia alfieniana quasi di «fulgurazioni» o rivelazioni poetiche (gli «accesi lampi» del Panini): era come per il Donadoni una consonanza tra il poeta e il critico, attratto dalla solitudine, dalla malinconia, dall’intima e chiusa tragicità del poeta e dei suoi eroi, anche se talora accade al Momigliano di trasfigurare un poco personaggi e situazioni alfieriane, sopra tutto nella catarsi del Saul interpretata con spirito che diremmo manzoniano.

Dal Croce invece prende al pari del Vincenti le mosse Umberto Calosso con L’anarchia di V. A. (1924), un libro dall’apparenza paradossale e ciononostante affine nell’idea conduttrice e nelle conclusioni allo studio così metodico e preciso del Vincenti, essendo l’«anarchia» intesa non come teoria politica bensì come motivo informatore della personalità e dell’opera alfieriana e per sé stessa espressione di un giudizio a un tempo positivo e limitativo del suo valore, affine se non identica a quell’impeto primo e indistinto di libertà, a quel «furore» riconosciuto dal Croce e poi dal Vincenti all’origine dell’opera alfieriana. Dal libro del Calosso, che va letto con molti grani di sale, e che si rivela una rievocazione congeniale della personalità e della poesia dell’A., coerente nonostante l’apparente dispersione, finissima nelle rapide sintesi di questa e di quella tragedia, di questo o di quell’aspetto dell’uomo e del poeta e delle sue relazioni con altri spiriti, son derivati, si può dire, tutti gli studi composti posteriormente, anche se condotti con metodo e cautela sdegnati dal geniale Calosso e privi per contro della forza di suggestione delle sue pagine.

Al rinnovato interesse per l’A. non furono estranee le passioni politiche dell’Italia del primo dopoguerra e del regime instaurato dopo il 1922. Lo si avverte nel libro del Calosso e in quello anteriore di Piero Gobetti, Sulla filosofia politica di V. A. (1922), in cui si ricercava con una attenta analisi delle operette politiche da troppo tempo trascurate non più quel che fosse la forma di governo preferita dall’A. bensì il pensiero del poeta che in termini politici aveva per il Gobetti enunciato una sua propria concezione della vita, premessa e fondamento del liberalismo ottocentesco, consapevole negazione di ogni autoritarismo poggiante sempre su una concezione trascendente del mondo. Lo studio andava, più ancora che non accadesse talora al Calosso, al di là della lettera alfieriana per una sistemazione filosofica conforme al gusto del tempo: ma nel dialogo col poeta il giovane studioso veniva delineando il suo proprio pensiero, la sua fede, e quel che può essere manchevole rispetto all’oggettività della storia trova per un altro verso un compenso in questo rinnovato interesse per la integrale personalità dell’A., per i motivi ideali della sua opera, che si rifaceva come per un Foscolo, per i piemontesi del ’21, attuale. E attuale lo risentiva il Gobetti tre anni dopo nel colmo della lotta politica, e di nuovo come in un tempo ormai remoto l’A. era presentato nelle sue pagine come un maestro e un modello: «Tre generazioni si educarono in Italia sulla sua opera; e ancora per noi rappresenta la morale intransigente dell’uomo libero in tempo di schiavitù». Non dunque una interpretazione storica, bensì un paradigma di vita morale, incarnandosi nell’A. la lezione d’intransigenza assoluta che era del Gobetti, e alla quale egli consacrò la vita. Ma erano pure nelle pagine di lui spunti autenticamente storici, che furono ripresi e svolti da altri non senza lo stimolo degli avvenimenti degli anni successivi: dal Megaro, italo-americano, ad esempio, nel libro coscienzioso e accurato sul pensiero politico alfieriano, e nel capitolo dedicato all’A. da Luigi Salvatorelli nel suo Pensiero politico italiano dal 1700 al 1870, in cui è ben messa in luce la posizione dell’A. nel tempo suo, il significato non puramente individuale (e tanto meno fantastico come taluno ebbe a giudicare) ma storico dell’opera politica del poeta, intimamente legata al tempo suo, espressione prima e coerente e cosciente di una rottura rivoluzionaria. Così senza che si negasse quanto sugli angusti limiti della politica alfieriana si era detto da tante parti per tutto il secolo decimonono e nel nostro, se ne riconosceva il valore positivo nel suo proprio momento storico.

Tanto meglio era dato intendere e il politico e il poeta quando per la condizione dei tempi la lotta politica sembrava ridursi ad un elementare contrasto di oppressori e di oppressi e quel che era apparso un incubo o una strana immaginazione dell’A, era diventato realtà se pure dalla realtà stessa non era stato superato, e lo stato d’animo che è al fondo così della poesia come del pensiero alfieriano, il senso della personalità compressa ed oppressa, l’angoscia di un vivere impossibile, non appariva più sentimento singolare di un uomo singolare, essendo in minore o maggior grado avvertito da tanti. Si poté allora scrivendo dell’A. alludere tendenziosamente a cose e a uomini più vicini: ma ben più importanti di questi scritti occasionali, in cui l’A. serve da schermo (per non dire di altri di opposti sensi che all’A. si richiamano come precursore e sui quali è meglio stendere un velo di silenzio), sono lavori di varia indole e ampiezza che movendo da quella rinnovata partecipazione al pathos alfieriano han contribuito all’approfondimento della critica alfieriana. Perciò nel citato Saluto a V. A. il Croce ha potuto scrivere «che nell’ultimo trentennio l’Alfieri è stato molto indagato dalla critica italiana e... che per la prima volta gli sia stata resa quella giustizia per esser irretita in preconcetti in parte di vecchia accademia, in parte nuovi romantici e veristici». Certo anche se non tutti accetteranno integralmente questo giudizio crociano, nella critica del nostro tempo l’A. è venuto a prendere una parte che non aveva nel passato: le varie sue tragedie sono state indagate ed illustrate né più il Saul è apparso l’eccezione, il capolavoro solitario, bensì la vetta di un complesso travaglio psicologico e poetico e meglio si è inteso il nesso fra il politico e il poeta e studiato il linguaggio poetico e prosastico nella sua formazione e nei suoi risultati e riportato all’interesse dei lettori anche opere minori prima trascurate. Non occorre qui fare i nomi degli studiosi a cui si debbono quelle monografie, quei saggi, quei commenti (l’indicazione ne sarà data nella bibliografia): importa invece ricordare che dagli studi originali hanno attinto storie letterarie e manuali, sicché queste interpretazioni non sono rimaste chiuse nell’ambito degli specialisti ma son diventate di comune possesso. Esse poi, come accade, hanno dato nuovo impulso alla ricerca erudita, allo studio delle opere sui manoscritti, alla preparazione di nuove edizioni, meglio rispondenti alle esigenze critiche di quelle prima uscite. Anche sui teatri per effetto di questo rinnovato interesse son tornate più d’una volta le tragedie alfieriane e non soltanto il Saul, ma pure le poche rimaste famose nelle interpretazioni ottocentesche e anche altre prima trascurate. Il Centro alfieriano di Asti, fondato nel 1942 e presieduto da Carlo Calcaterra e dopo la sua scomparsa da Luigi Fassò, si è proposto di promuovere e coordinare queste attività scientifiche, artistiche e divulgative pubblicando una rivista Annali alfieriani, che si è interrotta dopo i primi due fascicoli (1942 e 1943), e curando una monumentale edizione sotto gli auspici e con l’aiuto della città e della provincia di Asti (l’Edizione Astese) di cui sono già usciti undici volumi comprendenti non solo il testo definitivo ma gli abbozzi e le prime stesure. Anche per iniziativa del Centro si son fatte celebrazioni e allestite recite di tragedie affidate ai migliori attori e registi, che da Asti le hanno portate poi sui vari teatri d’Italia (e anche all’estero): se esse han serbato sempre un carattere sperimentale mancando da noi una tradizione teatrale come è quella di Francia, han dimostrato che la poesia dell’A. ancora è atta a far presa sul pubblico come cosa viva e non è mero oggetto di riesumazione da accogliere con compunta e un poco infastidita reverenza.