Alfieri, Vittorio.
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Poeta
(Asti 16 genn. 1749 -Firenze 8 0tt. 1803).
Scrittore di alti ideali, ha precorso le istanze politiche e
morali del Risorgimento. Autore di numerose raccolte di versi (Rime, 1804) e di
un'autobiografia (Vita), dal 1776
al 1786 compose
diciannove tragedie in endecasillabi sciolti, tra le quali il Saul e
la Mirra sono considerate i
suoi capolavori. Ai temi della libertà e della lotta contro la
tirannia dedicò due trattati: Della tirannide (1777) e Del principe e delle lettere (1778-86).
Nelle tragedie (oltre alle due citate si ricordano l'Antigone, La congiura de' Pazzi, la Virginia, il Timoleone) l'indole eroica e
appassionata di A. si manifesta più intensamente. Un animo
assetato di alte imprese, una superba indomita volontà, e quindi
l'insofferenza di ogni forma di servitù, insieme con una
profonda malinconia e un senso di vuoto e di solitudine: tali i
caratteri più profondi dell'A., che a ragione è definito anima
protoromantica. I sentimenti di libertà e d'indipendenza,
l'esaltazione della personalità, la certezza della risurrezione
della nazione italiana espressi nella sua opera, fecero di lui
uno dei più efficaci educatori delle generazioni del
Risorgimento.
VITA E OPERENato
dalla famiglia A. di Cortemilia (v. Alfieri),
fu avviato alla carriera militare, che ben presto abbandonò. Il
viaggiare fu per lui un bisogno precoce e perpetuo; egli visitò
non solo le principali città italiane sino a Napoli, ma quasi
tutta l'Europa. In Olanda e in Inghilterra ebbe due incontri amorosi; un
terzo, a Torino, con la marchesa
Gabriella Turinetti, fu indiretta cagione della sua definitiva
conversione alla letteratura, alla quale già l'aveva indirizzato
la lettura delle Vite di Plutarco.
Assistendo la Turinetti durante una sua
malattia, aveva abbozzato una tragedia, Antonio e Cleopatra, che poi, condotta a termine,
fu rappresentata con lieto successo (1775): l'A. giudicò
immeritati gli applausi e decise di far qualcosa di veramente
degno. Cominciò allora a studiare furiosamente e si
recò due volte in Toscana per meglio apprendere la lingua: a Siena conobbe un ricco e
colto mercante, Francesco Gori-Gandellini, col quale strinse
l'unica forte amicizia della sua vita e che, morto, esaltò come
uomo perfetto in un dialogo, La virtù sconosciuta (1786); e, a
Firenze, Luisa Stolberg, moglie di Carlo Eduardo Stuart, conte
di Albany, con la quale visse
maritalmente fino alla morte; e questo fu il "degno amore",
l'ultimo dell'A. L'anno dopo, per svincolarsi da ogni soggezione
al retrivo governo piemontese, donò tutta la sua proprietà alla
sorella Giulia, contro il corrispettivo di una rendita
vitalizia.
Firenze, Roma, Siena, Pisa, furono i suoi
soggiorni più importanti fra il '78 e l'85. Tra l'85 e l'87
alternò principalmente le dimore di Martinsburg presso Colmar, in Alsazia, e di Parigi, dove nell'87 si
stabilì con l'Albany e restò sino al '92; dove anche assistette,
ammirato, ai primordî della rivoluzione, che placarono per un
momento la sua radicata avversione alla Francia, patria
dell'illuminismo. Questo, sostanzialmente ottimistico, non lo
soddisfaceva; ostacolava, secondo l'A., il risorgimento d'Italia. Ma gli
eccessi rivoluzionarî presto lo disgustarono. Fuggito da Parigi,
si stabilì definitivamente con la sua donna a Firenze.
OPEREL'odio ai
tiranni e l'amore delle libertà repubblicane sono il suo tema
dominante. Ne ragionò sistematicamente in due trattati: Della tirannide (1777), e Del principe e delle lettere (cominciato nel
'78, ma scritto per la maggior parte nell'85-86). Nel primo
giudica il dispotismo immorale anche quando è illuminato; nel
secondo dimostra come non sia affatto vero che esso giovi alle
lettere. Di affine argomento il Panegirico di Plinio a Traiano (1785). Nel poco
felice poemetto L'Etruria vendicata (1778-84) idealizza
il tirannicida Lorenzino de' Medici. Di scarsa importanza le
cinque odi L'America liberata e l'ode a Parigi sbastigliata; documento dell'avversione alla
Francia è il Misogallo, operetta composta di
cinque prose e di versi, principalmente sonetti ed epigrammi.
La disposizione alla satira era innata nell'A.;
ma soltanto nell'86 scrisse la Satira prima; poi tra il '93 e il '97 le altre
sedici; sono in terza rima. La loro ispirazione è la vita
politico-sociale dei suoi tempi: I re, I grandi, La plebe, La sesquiplebe (cioè la
borghesia), Le leggi, a proposito
dei delitti che funestavano l'Italia, L'educazione,
L'antireligioneria, contro Voltaire, I pedanti, contro certa critica letteraria che
aveva attaccato le sue tragedie, Il duello, in difesa di questa istituzione, La filantropineria, Il commercio, I debiti, La milizia, contro gli eserciti permanenti, Le imposture, contro la filosofia
illuministica del Settecento, Le donne, in cui afferma che le
donne sono migliori degli uomini, e, la più lunga di tutte, I viaggi, in cui racconta i suoi viaggi giovanili,
criticando cose, popoli e persone, ma non risparmiando sé
stesso.
L'ultima sua fatica letteraria sono quattro
commedie politiche: L'uno, condanna della monarchia
assoluta; I pochí, dell'oligarchia; I troppi, della democrazia; Tre veleni rimesta, avrai l'antidoto, in cui addita il rimedio in una
fusione delle tre forme di governo. Di argomento morale e
sociale altre due commedie: La finestrina e il Divorzio.
La Vita (la prima parte fu
scritta nel '90 e giunge fino a quell'anno; la seconda è del
1803, l'anno stesso della morte), sostanzialmente e
coraggiosamente veritiera, è, per consenso di tutti, un
capolavoro, tanto è perfetta l'aderenza dello stile a quel misto
di alta idealità entusiastica e d'ironia, di violenza
appassionata e intima bontà, di furori e di malinconia, ch'era
nel suo temperamento. Rime cominciò a
scriverne subito dopo la conversione letteraria; l'A. prende il
Petrarca a continuo modello soprattutto per essere il Canzoniere di
lui il più illustre esempio d'una passione viva, ma
letterariamente dominata. Molte sono le rime di argomento non
amoroso; volutamente aspri e duri, ma con punte acutissime, gli
epigrammi.
Dal '76
all'86 scrisse diciannove Tragedie, tra le
quali il Saul e la Mirra sono
concordemente ritenute i suoi capolavori: Filippo, Polinice, Antigone, Virginia,Agamennone, Oreste, Rosmunda, Ottavia, Timoleone, Merope, Maria Stuarda, La congiura de' Pazzi, Don Garzia, Saul, Agide, Sofonisba, Bruto primo, Mirra,
Bruto secondo. Le prime dieci fece stampare a Siena
nell'83; tutte presso Didot, a Parigi, tra l'87 e l'89,
accompagnate da un coraggioso Parere dell'autore sui
meriti e demeriti delle tragedie stesse. Dopo il 1789 compose la
tramelogedia Abele e (1798) l'Alceste seconda.
Nelle tragedie più intensamente e in atto si
manifesta l'anima eroica e appassionata dell'A.: essa si
proietta così nella figura del tiranno, eroe del male, come in
quella di coloro che al tiranno si oppongono, eroi della
giustizia, della libertà, della purità, del sacrificio, giacché
la tragedia alfierana è sostanzialmente il dramma della volontà
indomita, sia che riesca a piegare gli uomini e gli eventi, sia
che ad essi soccomba; sia che si rivolga al bene, e sia al male.
Di qui il palpito eroico che anima tutte le tragedie, anche le
più povere e nude, e l'insegnamento a fortemente sentire e
operare.
DBI
di M. Fubini
Nacque in Asti il 16 genn. (non 17, come è detto nella Vita) 1749 da
Antonio Alfieri e da Monica Maillard de Tournon: fu battezzato col
nome dell'avo materno Vittorio Amedeo. Discendeva da due nobili
famiglie: gli Alfieri, antica famiglia astigiana, di cui le memorie
risalgono al sec. XII, e che era stata insignita nei secoli
successivi di feudi e di onori (il ramo a cui appartenne il poeta e
che con lui si estinse era quello degli Alfieri Bianco, a cui fu
conferito nel sec. XVII il feudo di Cortemiglia), e i Maillard de
Tournon, famiglia savoiarda cospicua nel sec. XVII sopra tutto per
importanti cariche militari ricoperte da suoi membri e per la
porpora cardinalizia di Carlo Tommaso, che fu tra i fondatori
dell'Arcadia e missionario in Cina, stabilitasi in Torino all'inizio
del Settecento; e della propria origine nobiliare sempre si
compiacque, anche se ebbe a pronunciare severi giudizi sulla nobiltà
cortigiana del tempo suo, riservando, però, soltanto ai nobili come
egli era il diritto di farsi giudici dei propri simili, e, quale
fosse il suo credo politico, portò nell'enunciarlo e nel dare un
preminente rilievo all'aspetto individualistico, eroico, libertario
delle rivendicazioni del secolo uno spirito caratteristicamente
aristocratico, in cui riconosciamo noi pure il segno di una radicata
consapevole tradizione nobiliare.
Gli fece difetto, più ancora che le costumanze del tempo non
comportassero, il calore degli affetti familiari, mortogli il padre
prima che compisse un anno, passata la madre a terze nozze (aveva
sposato, prima del conte Antonio Alfieri, il marchese di Cacherano e
sposò poi il cavaliere Giacinto Alfieri di Magliano): visse nel
palazzo avito sino a nove anni, sotto la sorveglianza di un
precettore, e a quell'età per volere del tutore, lo zio Pellegrino
Alfieri (che si distinse per le sue qualità militari e fu
governatore di Cuneo e poi viceré di Sardegna, dove morì nel 1763),
fu fatto entrare nella Reale Accademia di Torino, destinata
all'educazione dei «paggi e dei nobili di corte», ma anche ad
accogliere come istituto scolastico e come pensionato nobili di
tutte le nazioni sino a trent'anni (soltanto nel 1816 fu trasformata
in Accademia militare). L'A. vi seguì gli studi di grammatica,
retorica, umanità, filosofia, frequentando anche negli ultimi anni
corsi nell'attigua università.
Conseguito nel 1762 il titolo di «maestro dell'arti» e rinunciato ad
avviarsi, come prima pensava, agli studi della giurisprudenza, entrò
nel «primo appartamento» dell'Accademia, in cui erano i pensionanti
più anziani, non soggetti a una rigida disciplina, né a un corso di
studi obbligatorio, e ne uscì definitivamente nel 1766, anno in cui
fu nominato «portainsegna» nel reggimento provinciale di Asti. Come
accadeva in periodi di pace, ben di rado ebbe a svolgere in tale
ufficio... un qualsiasi compito (sembra che in tutto non prestasse
più dì cinquanta giorni di servizio) e, raggiunto il grado di
luogotenente nel 1774, lo abbandonò definitivamente dimettendosi
dall'esercito.
Dell'educazione, o piuttosto dell'«ineducazione», ricevuta l'A.
diede nella Vita giudizio severissimo, che taluni biografi
tentarono di confutare: ma, a prescindere dai riecheggiamenti delle
critiche illuministiche ai sistemi scolastici tradizionali, che in
quelle pagine si avvertono, si deve tener conto di quella che il
poeta sentì come vera e propria conversione e per la quale fu
portato a giudicare con particolare severità di sé e degli altri,
rilevando sopra tutto le manchevolezze della sua cultura, che gli
apparvero palesi e singolarmente gravi quando si accinse alla nuova
carriera di scrittore. Né può essere recata in dubbio l'esperienza
dolente della puerizia e dell'adolescenza, quale ci è presentata
nelle pagine dell'autobiografia, una sovrabbondante affettività non
corrisposta (solo un affetto tenerissimo lo legò all'unica sorella
Giulia, andata sposa al conte di Cumiana), le frequenti e lunghe
infermità, la mancanza dì guida (mortogli lo zio tutore quando aveva
quattordici anni, fu sottoposto alla tutela, in fondo puramente
economica, di un curatore), il senso di abbandono e di solitudine
che ebbe a provare sin dall'infanzia prima e poi anche frammezzo ai
divertimenti sfrenati e alla dissipazione della giovinezza.
Certo più efficace dell'insegnamento dei maestri fu il contatto col
vario mondo dei condiscepoli e particolarmente con gli stranieri
dell'Accademia. Gliene venne, fra l'altro, il desiderio, anzi
l'ansia di uscire dal suo Piemonte, di conoscere uomini e paesi
d'Italia e d'Europa, e nel '66 a diciassette anni iniziò con un
viaggio a Roma e Napoli quelle peregrinazioni che alternate con
brevi periodi di sosta in patria lo presero tutto sino al 1772.
Del 1767-68 è il viaggio a Venezia, Bologna, Genova e poi in
Francia, Inghilterra, Olanda e Svizzera; dell'anno seguente il
viaggio in Germania, Danimarca, Svezia e Russia; del '71 il secondo
viaggio in Inghilterra e il ritorno attraverso l'Olanda, la Francia,
la Spagna e il Portogallo, concluso nella primavera del '72 quando
prese stabile dimora a Torino. Anche di quest'esperienza nella Vita
e più ancora nella satira I viaggi lo scrittore sottolineò
la scarsezza dei frutti ricavati per la sua cultura, insistendo
invece su quello che sarebbe stato il piacere più vivo, il continuo
mutare di paese, e sulla perpetua impazienza che gli impediva di
fissarsi in un luogo. Ma, a tacere del tesoro d'impressioni rimaste
nel fondo del suo animo, quasi substrato della sua futura poesia e
che prenderanno forma in rapidi vigorosi scorci della prosa
autobiografica, dalla Vita stessa è facile desumere
l'importanza che quei viaggi ebbero nella formazione del suo
carattere e del suo ingegno, non per avergli offerto un corredo di
cognizioni artistiche, archeologiche, storiche, bensì per la
conoscenza diretta del mondo contemporaneo e dei problemi che vi si
agitavano.
Gli fu facilitata dalla sua condizione, che gli imponeva di
presentarsi agli ambasciatori del suo sovrano (al quale come nobile
doveva volta per volta chiedere il permesso di uscire dai suoi
stati), e presso di essi potè entrare in relazione ed anche in
dimestichezza con diplomatici europei e con i frequentatori dei loro
salotti. Trovò in uno di essi, don José D'Acunha, ministro del
Portogallo in Olanda nel 1768, un intimo amico e confidente
(purtroppo non sono state rintracciate le lettere che con lui
dovette scambiare), e a Londra nel primo e nel secondo soggiorno
divenne familiare del principe di Masserano, ambasciatore di Spagna,
e del ministro di Napoli, il marchese Domenico Caracciolo, il futuro
viceré della Sicilia, «uomo, egli scrisse, di alto, sagace e faceto
ingegno»,.
Quasi ovvia fu per lui l'adesione a quelli che nelle conversazioni
prima ancora che nei libri gli si presentavano come le idee e gli
ideali più vivi del secolo: già nel '69 tornato in patria con un
baule pieno di libri, in cui erano fra gli altri le opere di.
Voltaire, Rousseau, Montesquieu, Helvétius, si era immerso in quelle
letture e aveva scoperto con entusiasmo le Vite di Plutarco; e del
gennaio '71, all'inizio del secondo soggiorno londinese, è una
lettera ai fratelli Sabatier de Cabre (l'abate residente a Liegi in
rappresentanza temporanea della Francia e il fratello Onorato
Augusto in missione diplomatica a Pietroburgo), di singolare
importanza perché discorrendo liberamente con quegli amici, non
molto più anziani, di politica, di pettegolezzi mondani, di
libertinaggio, lo scrittore giovanissimo non soltanto dimostra di
aver accolto i motivi della più vivace polemica libertaria, ma di
averli fatti propri improntandoli del suo caratteristico sentire,
sicché vi riconosciamo l'A. della maturità e quel fondo da cui hanno
origine così la sua poesia come la sua politica: sopra tutto per
l'accento pessimistico, per lo sgomento di fronte alla dominante
tirannia militare che si diffonde per l'Europa (che sarà se la
stessa Inghilterra vien meno all'idea che se n'eran fatta i suoi
ammiratori? ma che si può sperare da «un popolo di mercanti», da un
parlamento corrotto?), e «che forse ci ritufferà, egli scrive, in
una spessa barbarie, dalla quale è pur dubbio che noi siamo del
tutto usciti».
È in questa lettera, da poco tempo divenuta di comune possesso, la
testimonianza di una personalità ormai formata: a maturarla
contribuirono pure gli amori, il primo in Olanda all'età di
diciannove anni per la giovane sposa di un cospicuo cittadino
olandese, Cristina Emerenzia Imholf, pacifico e idillico dapprima e
troncato poi dalla forzata partenza della donna che lasciò sconvolto
il poeta, e quello ricco di drammatiche vicende in Inghilterra,
durante il suo secondo soggiorno, per Penelope Pitt, moglie del
visconte Edoardo Ligonier, che si concluse con un duello col marito,
un clamoroso processo per adulterio, il divorzio e la scoperta da
parte del poeta di un rivale, un palafreniere, che divideva con lui
i favori della gentildonna; persona non volgare del resto, come ci
appare dalla sua franca confessione a lui che avrebbe voluto
sposarla e poi dalla lettera che tanti anni dopo gli indirizzò in
risposta a una sua, quando la rivide di sfuggita tornando in
Inghilterra e che riportò in una nota dell'autobiografia.
Van pure ricordate insieme con le conversazioni dell'Aia, di Spa, di
Londra, come precedenti dell'opera futura, i lunghi periodi di
taciturnità e di melanconia, la traversata del Baltico gelato o dei
deserti dell'Aragona, che più diedero al viaggiatore materia di
fantasticare e meditare: gliene offriva anche soggetto il Montaigne,
il compagno prediletto dei suoi lenti solitari viaggi. Importanza
singolare poi egli attribuì all'incontro, avvenuto in Lisbona nel
1772, con l'abate Tommaso di Caluso (1737-1815), dal quale ebbe
incitamenti e conforti a intraprendere una carriera letteraria e che
doveva diventare suo amico fidato: un'amicizia fondata non sulla
consonanza degli spiriti e delle idee, quanto sulla disparità dei
caratteri, tanto lontano era l'erudito, oraziano, amabile Caluso,
«un Montaigne vivo», a giudizio dell'amico, dall'ardente impetuoso
Vittorio, che nell'amico più anziano trovò sempre un appoggio, un
consigliere saggio ed accorto non soltanto in cose letterarie.
Né col ritorno a Torino, dove si allogò in una casa da lui
magnificamente arredata in piazza S. Carlo (là dove oggi ha inizio
la via Alfieri) e dove ebbe modo di distinguersi per la ricchezza,
la prestanza fisica, - «bello come un Apollo» fu detto da una donna
-, per le prodezze di appassionato cavaliere dai numerosi bellissimi
cavalli, vennero meno gli interessi che si eran destati in lui coi
viaggi e con le letture, e pur nella dissipazione del piccolo bel
mondo torinese (non inferiore per corruzione a maggiori e più famosi
centri) egli raccolse intorno a sé un crocchio di amici costituendo
una sorta di accademia, nella quale si discutevano una volta alla
settimana i componimenti presentati dai soci: testimonianza anche
questa di un nuovo fervore culturale che si andava manifestando in
Piemonte e particolarmente in alcune cerchie del ceto nobiliare,
favorito anche dalla scomparsa del vecchio re Carlo Emanuele III
(morto nel 1773) e dall'avvento di Vittorio Amedeo III, più
tollerante (si potè fra l'altro allora aprire a Torino una loggia
dei Liberi Muratori, a cui si ascrisse l'Alfieri).
A quella sua accademia domestica presentò l'Esquisse du Jugement
Universel, risultante di più parti, uno schizzo di giudizio
universale con una lettera introduttiva, una seconda sessione del
giudizio, altre due lettere e una terza e ultima sessione, composto
probabilmente in più momenti, dalla fine del '73 al principio del
'75: la finzione del giudizio universale, che gli dà pretesto a
qualche scherzo irriverente di ispirazione volterriana, si risolve
in una serie di ritratti delle varie anime chiamate a confessarsi al
Padreterno, da quella del sovrano defunto sino al poeta stesso: una
rassegna in cui il pettegolezzo mondano ha parte abbondante accanto
al filosofismo e al gusto del ritratto morale, la maldicenza di una
brigata di giovinotti sulla società da cui provengono e che troppo
ben conoscono dà luogo in qualche passo ad accenti più personali, in
cui si avverte il desiderio dell'autore di rendersi conto con un
giudizio anche severo, oltrechè del mondo in cui vive, di sé
medesimo: vi compare alla fine anche Cleopatra per chiedere
giustizia di un autore, che sta componendo su di lei una cattiva
tragedia, l'Antonio e Cleopatra, dall'A, iniziata nel '74 e
condotta a compimento attraverso tre redazioni nella primavera del
1775.
È questo il momento risolutivo della crisi da cui uscirà l'A. autore
tragico e libero scrittore: vi ebbe una parte forse determinante un
nuovo amore in cui si trovò invischiato per Gabriella Turinetti
marchesa di Priè («di non troppo buon nome nel mondo galante ed
anche attempatetta», leggiamo nella Vita: aveva dieci anni
più di lui): una pesante servitù amorosa piuttosto che una passione
come quella londinese.
Tanto più impellente gli si fece sentire il dovere di liberarsi
dalla vita che conduceva per darsi tutto a un'attività che
finalmente occupasse le forze del suo animo e del suo ingegno. I
contrasti e le contradizioni non mai del tutto vinte di cui allora
sofferse egli tentò di mettere in luce nei Giornali (scritti
in francese) stesi negli ultimi mesi del '74 e nei primi del '75; li
riprese poi in italiano quando ormai aveva trovato la sua via con
alcune pagine dell'aprile-giugno 1777: strumento per rendersi
ragione di sé stesso fissando con spirito polemico e sguardo acuto
le proprie debolezze, i moti inconfessabili dell'animo, l'impulso
segreto del suo agire, si da lasciarci intravedere sotto lo schema
moralistico di questo esasperato esame di coscienza avvio ed anche
taluno dei motivi del poeta tragico.
La stessa Cleopatra, da lui poi ripudiata, va per gran parte
ricondotta a questo momento e a questo proposito di confessione: e
ancor strettamente connesso all'origine autobiografica è il
personaggio di Antonio che suo malgrado soggiace alla riconosciuta
perfidia di Cleopatra, se pur, diversamente che nell'analisi dei
Giornali, il protagonista della tragedia che mal si distingue dal
suo poeta viene ad essere esaltato nonostante la sua debolezza,
nonostante, anzi in grazia della sua sconfitta ad opera delle male
arti di Cleopatra e di Augusto, al di sopra di chi lo ha vinto,
nobile com'è nell'intimo e per questo stesso destinato a soccombere
nel mondo che fatalmente è dei mediocri e dei vili. E l'interesse,
così come (a parte l'inesperienza. letteraria) la debolezza della
tragedia, è nel suo autobiografismo, in questa sua ambivalenza, per
la quale vi riconosciamo insieme l'autore che ancora si dibatte in
un suo personale dramma e dall'altra intravediamo, sopra tutto nella
catastrofe, nella morte liberatrice, il mondo di eroismo e
disperazione, in cui si sublimerà e troverà pace l'animo del poeta.
Per il quale veramente la poesia rappresentò la liberazione da uno
stato insostenibile, che gli farà dire nella Vita di essersi trovato
nella condizione di «impazzire o scoppiare», e fu perciò in un'età
di dominante e sovrabbondante letteratura tutt'altro che un pacifico
esercizio letterario, bensì una necessità vitale.
Di fatto egli intraprendeva la carriera delle lettere con animo e
preparazione ben diversa da tanti letterati del tempo suo, con una
maturità ed esperienza superiori alla giovane età, con una cultura
prevalentemente se non esclusivamente di opere francesi, con alcune
convinzioni politiche e morali ormai salde, e privo invece quasi del
tutto di quel bagaglio di frasi, di locuzioni, di ritmi che
permetteva in un'età di superletteratura a persone anche
mediocremente colte di comporre agevolmente discorsi poetici o
pseudopoetici nei metri più svariati. Si rispecchia questa
condizione negli abbozzi e stesure in prosa delle prime tragedie in
lingua francese, ridotti poi in versi italiani: per cui ci è dato
cogliere sensibilmente il trapasso dalla lingua consueta della
conversazione e delle sue letture a quella che sola poteva essere la
sua lingua letteraria, concedendogli di dare una forma sua propria
all'indistinto mondo di sentimenti e di fantasmi che gli si agitava
dentro e a un tempo di inserirsi in una solenne tradizione
letteraria. L'esigenza intima, personale veniva a coincidere con la
tendenza degli spiriti colti del suo paese che particolarmente in
quel torno di tempo sentirono l'ambizione di far entrare
definitivamente il Piemonte nell'ambito della letteratura nazionale,
di promuovere in Torino «città anfibia» interessi e studi per la
lingua e la letteratura italiane.
Tra questi letterati egli, incerto e malsicuro, trovò le sue guide e
maestri (a parte il Caluso, che sarebbe tornato in patria soltanto
nel '76 e coi suoi consigli lo avrebbe rafforzato nella conversione
letteraria): il conte Agostino Tana (1745-91), suo compagno di studi
e d'accademia, che scrisse poi egli pure tragedie, e l'anziano padre
Paolo Maria Paciaudi (1710-85), torinese e da poco tornato nella
città natia, che quand'era bibliotecario del duca di Parma aveva,
col Programma offerto alle Muse italiane da lui steso, invitato gli
scrittori a un concorso per una tragedia (1770). Si riconobbe
debitore sopra tutto a questi due consiglieri e maestri per
l'avviamento all'opera sua di tragico: e allora e poi dimostrò di
sapere dominare la violenta passionalità che gli era propria con una
parimenti vigorosa disciplina, gli spiriti di ribellione con la
soggezione a maestri, a regole, a precetti, la predilezione per
tutto quel che avesse di grande, di eccessivo, di enorme con un
senso di autocontrollo quasi mai venuto meno così nella vita come
nell'arte.
Recitata con successo la Cleopatra al teatro Carignano il 16
giugno 1775, ne trasse stimolo per sprofondarsi negli studi e
insieme incentivo a nuove tragedie, il Carlo primo
(abbandonato quand'era a mezzo della stesura in prosa), il Filippo,
il Polinice; alle letture dei classici italiani e alla
composizione delle tragedie attese nell'estate del '75 a Cesana in
val di Susa e poi a Torino, dove si mise pure di proposito a
ristudiare il latino, e infine nel 1776 a Firenze e a Pisa, dove fu
attratto dal desiderio di ascoltare la parlata toscana e discorrere
con professori di quell'università sull'arte sua; tradusse allora
squarci di tragedie di Seneca per suo esercizio, cercando in quegli
esperimenti il suo verso tragico e dimostrando pur nella
provvisorietà di quelle prove un'autentica vocazione drammatica in
contrasto con la sentenziosità moralistica del poeta latino; ideò in
quel tempo l'Antigone, l'Agamennone, l'Oreste,
il Don Garzia, e riprese la verseggiatura delle precedenti
tragedie; di ritorno a Torino alla fine dell'anno tradusse gran
parte della Guerra Catilinaria di Sallustio, il suo primo
impegnativo lavoro di prosatore, in cui venne provando quelli che
saranno i modi caratteristici sua prosa; verseggiò l'Antigone
e la lesse alla «Società Sanpaolina», testé istituita dal conte G.
E. Bava di S. Paolo.
Nonostante il successo riportato fra questi amici e conoscenti, egli
decise di ritornare in Toscana per «italianizzare sempre più il suo
concetto» ed anche per potersi dedicare all'opera propria senza
essere distratto dalle consuetudini del piccolo mondo torinese, a
lui troppo noto. Non pensava allora di staccarsene per sempre: ma
partendo coi suoi cavalli e le tragedie fatte e da fare per
«recitare» in altro ambiente «le parti», come egli scrisse, «di
poeta e di signore», forse sentiva già con la più sicura coscienza
del proprio valore e delle proprie capacità come gli fosse
necessaria un'indipendenza più piena, mal conseguibile nella società
troppo ristretta da cui proveniva.
Non a Pisa questa volta (dove preferì non fermarsi per non rivedere
una giovinetta che l'anno precedente aveva pensato di chiedere in
moglie, avendo ormai rinunciato a ogni disegno matrimoniale), ma a
Siena prese soggiorno, chiamatovi dalla fama della bella lingua e in
quella città, di antica tradizione repubblicana, divenne familiare
di un «crocchietto di sei o sette individui dotati di un senno,
giudizio, gusto e cultura», che lo accolsero con singolare favore sì
che Siena potè essere per lui sempre la «patria del suo cuore». Lo
fu sopra tutto per uno di quegli «individui», Francesco
Gori-Gandellini, che gli si rivelò d'animo del tutto consonante col
suo per conformità di principî e di sentire (benché il Gori dovesse
attendere al commercio dell'azienda domestica e contentarsi di
coltivare con letture il suo ingegno): ne nacque un'amicizia
profonda e totale, la più grande amicizia del poeta, che schivo e
solitario sentiva pur vivo quanto altri mai il bisogno di un animo
fraterno a cui confidarsi appieno per averne conforto e liberarsi da
quella melanconia che così sovente insorgeva a intorpidirgli la
mente, a svogliarlo di ogni cosa.
E da quell'amicizia e dalle reciproche confidenze fu ravvivata la
vena creativa del tragico e l'ardore suo di libertà: aveva durante
il viaggio ideato una nuova tragedia, la Virginia: a Siena
stese l'Agamennone e l'Oreste e, frutto delle
conversazioni col Gori e della lettura del Machiavelli, ideò la più
fervida e disperata tragedia antitirannica, la Congiura dei
Pazzi: a un tempo sentì di dover esporre con disteso e
concatenato raziocinio, ormeggiando il politico fiorentino, quel che
era Stato implicito e sottinteso in tutta l'opera sua. Scrisse
allora «d'un sol fiato» i libri Della tirannide, a cui
nell'anno seguente pensò di affiancare un altro più ampio trattato,
Del principe e delle lettere, che ne svolge un corollario
trattando delle relazioni fra il principe e il letterato e dei
doveri dell'uomo di lettere, e la cui composizione si protrasse per
maggior tempo e in momenti diversi.
Con questi scritti l'A. acquistava consapevolezza intera di sè,
dell'opera propria, della missione di «libero scrittore»: maturò
allora un proposito che doveva segnare un distacco definitivo dalla
sua patria e permettergli un'indipendenza di uomo signore di sé
medesimo, superiorem non recognoscens. Vi concorse, si può
ammettere, col movente da lui addotto, che mal da taluno si vorrebbe
mettere in dubbio, il nuovo amore per la contessa d'Albany, moglie
del pretendente al trono d'Inghilterra, Carlo Edoardo Stuart, la cui
casa a Firenze egli prese a frequentare quando sulla fine di
quell'anno passò ad abitarvi. Gli parve allora che a liberarsi dalla
soggezione al suo sovrano, a cui come nobile doveva di volta in
volta chiedere il permesso di lasciare i suoi stati ed anche di
prolungare le sue dimore all'estero, e al quale come suddito avrebbe
dovuto chiedere l'autorizzazione di stampare le sue opere, unico
mezzo fosse di far donazione delle sue proprietà, tra cui erano beni
feudali, alla sorella Giulia, riservando a sè stesso una pensione di
parecchio inferiore al reddito che ne ricavava, e dopo lunghe
trattative, iniziate nel marzo '78, non senza l'autorizzazione
sovrana potè condurre a termine la pratica, che gli permise se non
di «spiemontizzarsi», come talora affermò, certo di
«disvassallarsi»: degna di ricordo la lettera che in quell'occasione
scrisse ad un alto personaggio perché fosse mostrata al re,
«notevole anche perché vi manca qualunque delle solite espressioni
d'ossequio cortigianesco allora in uso» (Bertana), e che vorrebbe
smentire le «sinistre interpretazioni» del suo atto: «Je vous prie,
en attendant, si vous avez occasion de parler au Roi, et qu'il vous
fasse mention de moi, je vous prie de l'assurer de ma part que dans
tel part que je soye, je ne ferais jamais rien d'indigne ni de mes
parens, ni de moi» - un dignitoso e nobile congedo di un
aristocratico dal suo sovrano.
Veramente i liberi suoi spiriti furono messi a difficile prova dalla
condizione in cui si trovò di corteggiatore assiduo della giovane
consorte del vecchio pretendente: ma quell'amore contrastato per cui
dovette allora e poi sottoporsi a umilianti finzioni e
dissimulazioni divenne una necessità del suo spirito e in certo
senso della sua stessa attività poetica. Di poco più giovane di lui,
Luisa di Stolberg-Gedern, figlia di un generale austriaco morto al
servizio di Maria Teresa, nata a Mons nel 1752, e andata ventenne in
isposa a Carlo Edoardo Stuart, che giovane aveva suscitato
l'ammirazione con l'impresa d'Inghilterra infelicemente finita
nonostante l'ardimento suo e dei suoi seguaci, ma ridotto per le
delusioni, le ripulse, le infermità a un misero avanzo d'uomo, aveva
e nella giovinezza prima, rattristata dalle strettezze economiche di
una famiglia decaduta e dai contrasti con la madre, e poi negli anni
dello squallido matrimonio, accanto a un marito infermo e dedito al
vino, temprato il proprio carattere, ricavandone nella difesa di sè
medesima e dei propri interessi una precoce disincantata saviezza,
un'accortezza e un buon senso non comune ed una forza che talora
dimostrerà con una certa durezza, contrastante con l'avvenenza e la
gentilezza degli anni suoi giovanili: aveva pure a conforto delle
delusioni presa l'abitudine della lettura e la passione dei libri, e
molto aveva letto e moltissimo leggerà durante tutta la sua vita,
anche se mai non potrà dirsi persona veramente colta di una sua
originale cultura. Ma colta oltre che bella apparve al poeta, il
quale anche per questo ritenne di aver finalmente trovato il suo
«degno amore», non più come le sue precedenti passioni un «intoppo»,
bensì uno sprone all'opera sua: certo la ragionevolezza e il buon
senso dell'amata erano qualità tanto più preziose quanto più erano
in contrasto con l'indole sua, ed essa poté per questo al pari
dell'amico Caluso essergli di conforto, di sostegno, di aiuto.
Gli anni 1778-80 trascorsi a Firenze, dove per molto tempo stette
pure il Caluso, furono anni di assiduo lavoro, di stesura di opere
prima ideate e di piani di opere nuove, ben presto esse pure stese
in prosa e poi in versi (l'iniziato poema L'Etruria vendicata,
La Congiura dei Pazzi, il Don Garzia, la Maria
Stuarda, la Rosmunda, l'Ottavia, il Timoleone);
ne fu distolto quando l'Albany riuscì con uno stratagemma e con la
protezione dello stesso governo granducale a liberarsi dal marito
rifugiandosi in un convento, e poi a Roma presso il cognato
cardinale, che la allogò nel convento delle orsoline e in seguito le
concesse di prendere dimora nel suo appartamento al palazzo della
Cancelleria.
Anche l'A. lasciò Firenze dopo qualche tempo recandosi a Napoli, e
di lì a Roma, dove si stabilì a metà dell'anno seguente prendendo
alloggio nella villa Strozzi presso le Terme di Diocleziano. Furono,
come egli scrisse narrando della perduta felicità, quelli romani due
anni veramente beati per la presenza della donna, a cui poteva
rendere visita salvando le apparenze, per la ripresa attività di
tragico, la revisione e il compimento delle precedenti tragedie e la
rapida creazione delle due nuove, la Merope e il Saul,
per le lunghe cavalcate per le «solitudini immense», della campagna
romana. Roma gli offerse pure con le varie «conversazioni», in cui
fu accolto e ove ebbe modo di conoscere letterati, artisti, eruditi,
quasi una consacrazione ufficiale, prima della stampa, di poeta
tragico: lesse fra l'altro in uno di quei salotti la Virginia,
suscitando l'ammirazione del Monti; nel teatro dell'ambasciatore di
Spagna duca Grimaldi fu recitata l'Antigone da nobili
filodrammatici, impersonando il poeta stesso la parte di Creonte (ne
fu scosso Alessandro Verri, che del nuovo poeta, del suo carattere
singolare discorse in lettere al fratello Pietro); in Arcadia infine
l'8 apr. 1783, dopo la lettura del Saul, il poeta fu accolto
pastore col nome di Filacrio Eratrastico.
Preparava intanto, compiute in pochi anni quattordici tragedie,
un'edizione del suo teatro (ne escludeva per ragioni di opportunità
politica la Maria Stuarda, la Congiura dei Pazzi, il Don Garzia, e
per non avergli dato ancora l'ultima rifinitura il Saul), e nella
primavera dell'83 uscì a Siena, stampato dalla tipografia Pazzini,
il primo volume comprendente il Filippo, il Polinice,
l'Antigone e la Virginia; a cui seguirà nell'ottobre
il secondo volume con l'Agamennone, l'Oreste e la Rosmunda,
soltanto due anni dopo il terzo con l'Ottavia, il Timoleone,
la Merope.
Ma una fiera tempesta venne a interrompere quel tenor di vita e a
sconvolgerlo nell'intimo: venuto a conoscenza il cardinale delle
vere sue relazioni con l'Albany, egli fu con accorta diplomazia
invitato a lasciare Roma (partì il 4 maggio 1783), mentre la donna
doveva rimanervi sotto la sorveglianza severa del cognato; ne
nasceva uno scandalo clamoroso e, divulgato non da lui, sembra,
bensì da altri maliziosamente il sonetto composto qualche anno prima
sugli Stati pontifici, letterati romani, tra i quali si distinse il
Monti, lo bersagliarono con vituperi rimati; e forse incoraggiati da
uno scandalo tanto più offensivo quanto più ostentato ed ipocrita, i
critici accolsero con severità e asprezza il volume delle tragedie,
già di per sè ostico per certa durezza, ma più per la reale novità
di quella poesia che urtava pigre e radicate consuetudini
letterarie. A questi critici l'A. oppose pungenti epigrammi e trovò
sfogo al proprio dolore per il forzato allontanamento dall'amata in
sonetti composti durante il viaggio attraverso l'Italia.
Ma assai gradita gli riuscì la lettera dell'agosto 1783 di Ranieri
de' Calzabigi, che nonostante critiche e riserve suonava alto
riconoscimento della sua poesia, ed egli la premise poi con una sua
risposta all'edizione definitiva delle tragedie: e il viaggio
attraverso l'Italia fu ad un tempo pellegrinaggio di un innamorato
infelice che cerca pascolo e conforto al proprio dolore, e una sorta
di nuova più solenne consacrazione della sua opera poetica con le
visite alla tomba di Dante, alla casa del Petrarca ad Arquà e ai
letterati più illustri del tempo, tra i quali il Cesarotti a Padova
e il Parini a Milano, con cui discorse della propria arte, di quelli
che erano o parevano difetti (al Parini lesse verso per verso il
Filippo, prendendo nota delle critiche): conobbe pure, presentato da
una lettera di Alessandro Verri, il maggiore fratello Pietro e
l'amico di lui Paolo Frisi, che per le sue relazioni con la cerchia
di Enciclopedisti era in grado di far conoscere in Francia le sue
tragedie, e partendo per la Francia recava con sè lettere di
presentazione per l'Albergati, per il Goldoni e per il Mercier.
Riteneva di aver ormai terminata la carriera di autor tragico e
andava soltanto crescendo il numero dei sonetti a sfogo del suo
animo, mentre portava a compimento una sorta di poemetto lirico
sulla guerra d'indipendenza d'America, L'America libera, con
la quinta ode composta in quell'anno in occasione della pace, più
significativa delle altre, perché vi dà voce alla sua delusione, al
pessimismo che è al fondo della sua concezione politica, a cui nulla
nel presente e forse in nessun tempo si poteva adeguare.
Egli lasciò infine l'Italia, distaccandosi dal Gori, il più caro
consolatore delle sue tristezze, e ripartì per la Francia (dove
visitò Valchiusa e la Grande Chartreuse) e l'Inghilterra, dove
attese soltanto a comprar cavalli, ritornando poi con la sua
scuderia attraverso le Alpi in patria. Assistette a Torino a una
rappresentazione della Virginia: ma ormai era distaccato (tranne che
dal Caluso) dagli amici d'un tempo e dalle consuetudini del suo
piccolo paese. Tornò ancora una volta in Siena, mentre l'Albany
otteneva per l'intercessione di Gustavo III di Svezia la separazione
ufficiale dal marito e il consenso di lasciare Roma. Non si
ricongiunsero però, sempre per rispetto delle convenienze e per la
prudenza della donna che pur libera non voleva compromettere i
propri interessi (fra l'altro fruiva di una pensione della corte di
Francia ottenuta al momento delle nozze, all'insaputa del marito), e
soltanto nell'agosto del 1784 poté rivederla in Alsazia a
Martinsburg presso Colmar.
Si riaperse allora la sua vena tragica e rapidamente concepì e stese
l'Agide, un rifacimento in veste greca del rifiutato Carlo
primo, la Sofonisba e infine la Mirra.
Ma una nuova separazione s'impose, tanto più crudele per il poeta
che in quei giorni apprese la morte quasi improvvisa del
dilettissimo Gori e che non avendo cuore di tornare in Siena si
stabilì nel 1785 in Pisa, mentre la sua donna, a cui era stato fatto
obbligo di risiedere se non a Roma negli Stati pontifici, prendeva
dimora in Bologna. Fu per lui questo, del 1785, uno dei periodi più
tristi della sua vita: unico sfogo sempre le rime e, a distrarlo dai
soliti pensieri che riversava nel suo diario in sonetti, l'ideazione
e la composizione del Panegirico di Plinio a Traiano, che
polemicamente aveva concepito in contrasto con quello dello
scrittore latino, fingendo che Plinio inviti l'imperatore a un atto
di inaudita magnanimità, la rinuncia ai propri diritti e la
restituzione della libertà ai Romani.
Ma con rinnovata alacrità si diede al lavoro quando tornata l'Albany
in Francia egli si stabilì di nuovo a Martinsburg, e accanto alla
sua donna o lontano da lei che a lungo si trattenne a Parigi, non
cessò di attendere all'opera propria componendo, «tributo
all'adorata memoria» del Gori, il dialogo Della virtù
sconosciuta, proseguendo e conducendo a termine il trattato Del
principe e delle lettere, mettendo in versi le ultime tre
tragedie e ideandone e stendendone due nuove, il Bruto primo
e il Bruto secondo, con cui avrebbe voluto concludere la.
sua carriera di tragico. Ideò pure, quasi appendice del suo teatro,
una «tramelogedia», mista di parti liriche e parti drammatiche, che
intitolerà Abele, e riprese un disegno antico dando inizio
alle Satire, per tacere dei sonetti che continuava a
comporre e che erano il diario fedele del suo spirito.
Ma sovra ogni cosa gli stavano a cuore le tragedie, che non cessava
di rivedere e limare con ostinazione e vigile cura, e ne faceva
oggetto di discussione stendendo le risposte al Calzabigi e al
Cesarotti (che gli aveva indirizzato una lettera sulle tragedie del
terzo volume), e i Pareri su ognuna di esse, sull'Invenzione, sulla
Sceneggiatura, sullo Stile di tutte. Ne preparava l'edizione
definitiva, che durante un suo soggiorno a Parigi decise di affidare
al Didot. Anche l'87 passò tra queste occupazioni in Alsazia,
interrotte soltanto per una gravissima malattia, durante la quale
ebbe il conforto di avere presso di sé il Caluso. Si riebbe, per
quanto da allora cominciasse la sua precoce vecchiaia, e si trasferì
finalmente a Parigi per seguire da vicino la stampa del suo teatro e
non essere lontano dalla sua donna, che aveva preso dimora in un
palazzo di Rue de Bourgogne, dove, libera ormai di secondare la sua
vocazione più vera, aveva aperto un salotto frequentato da letterati
e da uomini di mondo.
Con non molti di essi l'A., di cui rimase nelle memorie di chi lo
conobbe il ricordo della taciturnità e riservatezza, strinse
relazione: ma fra quei pochi è da ricordare il Suard, con cui
discusse delle sue tragedie, il Beaumarchais, alla cui tipografia di
Kehl affidò la stampa de L'America libera, de La virtù
sconosciuta, de L'Etruria vendicata, delle Rime,
Del Principe e delle lettere, e sopra tutti Andrea
Chénier, che gli dedicò una pagina calda d'entusiasmo
nell'Essai sur la perfection des lettres et des arts, compiacendosi
di aver trovato nel trattato Del principe e delle lettere idee
conformi alle sue, se pur quelle idee non gli erano state ispirate o
rafforzate dalla lettura che l'A. gli aveva fatto delle sue pagine,
e riconoscendo l'origine della loro amicizia nella «unanimité des
sentiments et d'opinions». E di quest'amicizia, una delle rare
amicizie alfieriane, è pure documento il Capitolo in terza rima che
nell'aprile del 1789 l'A. indirizzò al Chénier allora a Londra
discorrendo col più giovane amico degli avvenimenti politici del
giorno e delle loro occupazioni letterarie con una evidente
simpatia, paternamente consigliandolo e confortandolo. «Tu scaccia
intanto i pensamenti oscuri; / E allo scriver sol pensa, a scriver
nato; / Che non è cosa al mondo altra che duri».
Gli avvenimenti di Francia, i fermenti che precedettero la
convocazione degli Stati generali, i primi atti rivoluzionari
colsero l'A. nel tempo in cui tutto era preso dalla revisione
definitiva e dalla stampa della sua opera: perciò (come pur si vede
dal Capitolo al Chénier) egli poté sì partecipare non senza consenso
e speranza al moto generale degli spiriti e riecheggiarne in certo
qual modo i presentimenti nelle ultime tragedie, il Bruto primo,
uno spettacolo per un popolo ridesto a libertà, e il Bruto
secondo, una sorta del Panegirico di Plinio, concluso non con
la magnanima rinuncia del sovrano ma col tirannicidio, e più ancora
nelle Dediche delle due tragedie, a Giorgio Washington e « Al popolo
italiano futuro», e inviare al re Luigi XVI una copia del Panegirico
con una lettera in cui lo invitava a compiere un simile gesto
andando incontro ai desideri del suo popolo, e infine essere scosso
dalla presa della Bastiglia mescolandosi alla folla esultante e
celebrare l'avvenimento nell'ode Parigi sbastigliato; ma il suo
cuore profondo era coi suoi libri, prossimi ormai al definitivo
compimento della stampa e della pubblicazione, coi quali, sentiva,
aveva adempiuto al compito suo di libero scrittore e già compiuto
per quanto stava in lui quella rivoluzione che ora gli si presentava
in terra straniera dinanzi ai suoi occhi. Non aveva scritto, nel
primo libro Del principe e delle lettere, che «gli scrittori per
quanto esser possano caldi ed anche entusiasti rarissimamente sono
da temersi per sè stessi (dal principe)» sia per la loro
consuetudine di vita che li rende poco atti all'azione, «sia perché
lo sfogo del comporre indebolisce nella massima parte e minora il
loro sdegno»?
Di fatto, uscendo da un lavoro intenso di poco più che un decennio,
egli si trovava dinanzi a una situazione nuova a cui era e sarebbe
sempre più stato estraneo, anche se da principio le speranze sue si
confondevano con le speranze di tutti. E già cominciava col
compimento della sua opera a fargli si sentire quello stato d'animo,
a cui accennano in un foglietto d'abbozzo dell'autobiografia le
parole ultime dell'anno 1789, «principio del disinganno». Ma prima
che più aspro e irriducibile si facesse il contrasto col presente e
più tormentoso il senso del «disinganno», in un momento di
equilibrio e relativa serenità egli stese rapidamente dal 3 aprile
al 27 maggio 1790 la Vita (né sembra di dover accettare
l'ipotesi che questa non sia la redazione prima, mentre essa non è
stata preceduta, a creder nostro, che da pochi appunti), quasi a
concludere l'opera tutta ormai stampata sviluppando gli spunti
autobiografici e i concetti della risposta al Calzabigi, dei Pareri
sulle tragedie, della Virtù sconosciuta, del trattato Del principe e
delle lettere, delle Rime in una narrazione continuata che
presentasse come introduzione alle tragedie la figura dell'autore e
la sua carriera contrastata e pur vittoriosa di libero scrittore. La
riprenderà nel 1798, non per apportarvi aggiunte e correzioni
sostanziali, ma per rielaborarla stilisticamente in ogni suo
periodo, si da darle la sua caratteristica fisionomia, e ne
proseguirà la narrazione sino al 1803 scrivendo in dieci giorni, a
partire dal 10 maggio di quell'anno, i capitoli XX-XXXI.
La pubblicazione delle tragedie, la stampa delle altre opere (che
non furono però allora pubblicate), la stesura dell'autobiografia
segnano insieme con gli avvenimenti politici di quegli anni l'inizio
di un nuovo periodo della vita e dell'attività dell'Alfieri. Nel
1791 accompagna l'Albany, con la quale ormai faceva vita comune
(Carlo Edoardo Stuart era morto nel 1788), in Inghilterra, dove la
donna si adoperò per ottenere una pensioné dalla corte inglese,
essendo ormai più che dubbia quella francese (certo senza troppi
scrupoli per la propria dignità, ma ancor meno li sentiva il cognato
cardinale che, divenuto pretendente alla morte del fratello,
riceveva pure una pensione dal sovrano «usurpatore»), e
dall'Inghilterra attraverso l'Olanda e il Belgio ritorna in Francia
sperando di riprendere fra i suoi manoscritti e i suoi libri il
lavoro, per cui aveva steso un preciso programma da attuare ora che
riteneva finita la sua stagione poetica. «Tragedia vuol dire
entusiastica e bollente passione, il che vuol dire giovine....
Invecchiando si scrive meglio e si sente meno; c'è altre cose da
scrivere per chi è in tale stato». Sono parole di una lettera del
1796: a quelle «altre cose» attese in Italia, dove tornò nel 1792
avendo lasciato Parigi poco prima delle stragi di settembre,
divenuti ormai sospetti egli e la sua donna, dopo un viaggio
attraverso il Belgio e la Germania. Si stabilì in Firenze, e nel
1793 prese dimora nel palazzo Gianfigliazzi sul Lungarno presso il
ponte Santa Trinita. Tentò per mezzo del Carletti, diplomatico
toscano a Parigi, di riavere i libri e le carte che gli erano state
sequestrate, inutilmente (soltanto nel '98 il Ginguené, ambasciatore
di Francia a Torino e futuro storico della letteratura italiana, non
sollecitato da lui ma per sua iniziativa, gli fece avere i
manoscritti): si diede perciò a rifarsi una biblioteca, proponendosi
di accrescere la propria cultura che ora gli sembrava troppo scarsa,
se pur, confessava, mai egli avrebbe potuto essere un uomo dotto.
«Tardi or me punge del saper la brama...». Ma lo studio era per lui
più ancora che per l'innanzi una necessità, poiché soltanto fra i
libri, leggendo, componendo, traducendo – iniziò nel '96 lo studio
del greco e lo proseguì con rabbiosa costanza – riusciva a sottrarsi
a un mondo ostile e a lui incomprensibile. Alcuni suoi sonetti e
certe testimonianze lascerebbero supporre che qualche distrazione
egli trovasse anche in un amore diverso da quello per l'Albany: ma
non fu quell'amore (o quegli amori) veramente se non una
«distrazione», che non lo toccò certo nell'intimo. Altre distrazioni
furono le recite in case private delle sue tragedie.
Ma sopra tutto gli importava opporre al presente il suo deciso
rifiuto, dimostrare con altri scritti e di fronte ad altri nemici la
propria coerenza. La «schiavesca tirannide inaudita» dei
rivoluzionari di Francia prende nella sua mente il posto del
«tiranno» d'un giorno: il suo scrivere è un armeggiare, un
«conficcare al suolo», almeno a suo credere, gli avversari. Vien
perciò componendo le Satire, antico disegno attuato in
questo tempo, prosecucuzione e sviluppo dei trattati politici, e dal
'92 in poi varie prose che insieme a sonetti ed epigrammi
raccoglierà nel Misogallo, l'operetta che in poche copie
manoscritte farà leggere ad amici fidati, dopo aver pubblicato in un
opuscoletto, Contravveleno poetico per la pestilenza presente, una
scelta di diciannove sonetti ed epigrammi di quel libro. «Ultime
scintille d'un vulcano presso a spegnersi», come egli scrisse, gli
verrà fatta dopo la traduzione dell'Alceste euripidea l'Alceste
seconda, rielaborazione del mito antico razionalizzato e
alfierianamente eroicizzato. Né tralascerà il suo diario in sonetti,
sollevandosi talora in alcuni di essi così come nel più importante
lavoro di questi tempi, la redazione definitiva della Vita, a una
solenne e severa considerazione di sè medesimo, dell'opera compiuta,
del suo intrinseco valore.
Nella coscienza della missione adempiuta, che traspare da queste
pagine in prosa e in versi, era il suo più vero conforto, crescendo
intorno a lui col susseguirsi degli avvenimenti il senso di
isolamento. Tra le due parti che si combattevano egli non poteva
essere né con gli uni né con gli altri: «Infami al par dei vincitori
i vinti» è il suo giudizio sulla pace di Campoformio, e dei re e
della plebe sentenzia in un sonetto: «Qual è miglior? Nessuno, ambo
dan lutto»; tesse in un sonetto l'elogio del culto cattolico, ma si
abbandona nel Misogallo a frizzi anticlericali di sapore volterriano
e la religione non sa considerare se non come un «errore», sia pure
«utile ai più».
Poteva accogliere con le lagrime agli occhi il suo sovrano esule in
Toscana e ansiosamente attendere i successi dei generali austriaci e
plaudire anche ai misfatti delle plebi reazionarie, ma nell'intimo
rimaneva il ribelle di un giorno, accentuando ancor più il carattere
pessimistico e negativo del suo credo libertario: e quando nel 1799
furono pubblicate dal Molini a Parigi le sue opere politiche, che
aveva lasciate stampate in Francia, egli, pur esprimendo il proprio
rincrescimento per quella pubblicazione, ribadiva le proprie
convinzioni scrivendo al Caluso: «Interrogato su tali punti tornerei
sempre a dire lo stesso ovvero tacerei... In due parole io approvo
di bel nuovo solennemente tutto quanto o quasi è in quei libri...».
Di qui la crescente misantropia (soltanto con alcuni nobili
piemontesi, tra cui Prospero Balbo e Cesare d'Azeglio, padre di
Massimo, profughi in Toscana, egli ebbe una certa familiarità,
ritrovandosi in quel mondo da cui era uscito, ma ogni altro teneva
da sé lontano rifiutando di vedere persona prima non conosciuta,
come diceva un cartello apposto alla sua porta); - di qui il
rinchiudersi ancor più esclusivamente nel lavoro che si era imposto
quando la dominazione francese in Italia dopo Marengo parve
definitivamente consolidata. In questi anni tutto s'immerse nella
stesura e nella rielabotazione delle sei Commedie, con tanta
applicazione che l'Albany attribuì a questo lavoro la causa della
sua morte. Essa lo colse repentinamente dopo breve malore l'8 ott.
1803.
La contessa d'Albany provvide con l'aiuto del Caluso alla stampa
delle opere inedite, che uscirono in tredici volumi a Firenze con la
falsa data di Londra 1804 (il Misogallo fu pubblicato per prudenza
come cosa a sé stante), e affidò al Canova l'incarico del monumento
funebre in Santa Croce, inaugurato nel 1810. L'A. aveva preparato
per sé questa epigrafe: «Quiescit. hic. tandem / Victorius.
Alferius. Astensis / Musarum. ardentissimus. cultor / veritati.
tantummodo. obnoxius / dominantibus. idcirco. viris / peraeque. ac.
inservientibus. omnibus / invisus. merito / multitudini / eo. quod.
nulla. unquam. gesserit / publica. negotia / ignotus / optimis.
perpaucis. acceptus / nemini / nisi. fortasse. sibimet. ipsi /
despectus / vixit. annos ... menses dies ... / obiit ... die ...
mensis ... / Anno. Domini. MDCCC...»: fu sostituita invece dalla
seguente: «Victorio. Alferio. Astensi / Aloisia. e. Principibus.
Stolbergis / Albaniae. comitissa / M. P. C. An. MDCCCX», mentre
sulla tomba di lei, che fu sepolta accanto al poeta, fu apposta con
qualche modificazione l'epigrafe che insieme alla sua per lei l'A.
aveva composto. In un sonetto il poeta aveva manifestato la volontà
che i suoi libri fossero donati alla città natia: ma la contessa,
sua erede universale, non tenne conto di quel proposito e morendo
nel 1824 lasciò erede di ogni sua cosa, tra cui erano i libri e i
manoscritti dell'A., il pittore Fabre, che dal 1796 frequentava la
loro casa e che era divenuto suo intimo amico, da tutti riconosciuto
come tale. Per una clausola del testamento, ispirata da Ludovico di
Breme, i manoscritti avrebbero dovuto essere consegnati alla
Biblioteca Braidense di Milano, la città culturalmente più viva
d'Italia, a giudizio del Di Breme, e perciò la più degna di
accogliere le carte del poeta: ma il Fabre, quale ne fosse la
ragione (forse per un codicillo a noi ignoto scritto dopo la morte
del Di Breme, il quale avrebbe dovuto curare la consegna di quelle
carte alla biblioteca milanese), lasciò invece partendo da Firenze i
manoscritti (ma non tutti) alla Biblioteca Laurenziana e le restanti
carte e i libri, parecchi dei quali postulati, insieme a quelli
della contessa, legò alla biblioteca della natia Montpellier, dove
tuttora si conservano: furono però bruciate dal direttore di quella
Biblioteca le carte che parvero troppo intime, e tra queste il
carteggio dell'A. con la donna amata; alcune carte, abbozzi di
poesie, minute di lettere, appunti, note di spese, ecc., tutto
materiale di non grande importanza, furono nel 1923 dal comune di
Montpellier donate alla città di Asti.
Opere:
L'opera dell'A. si riconnette per il suo impulso primo e lo spirito
che l'informa a quel moto di idee e di propositi che si suol
designare genericamente col nome di illuminismo, e più precisamente
alla sua fase estrema, in cui, approssimandosi l'età della
rivoluzione, se ne accentuò il vigore polemico e a un tempo la
tensione dei diversi motivi. Se pur gli piacque contrapporsi al suo
secolo, «ma non mi piacque il vil mio secol mai», e prima ancora
della rivoluzione si dimostrò scontento dell'insegnamento dei
filosofi, che del resto aveva accolto, la «semi-filosofia» che non
poteva in tutto soddisfarlo, di fatto anch'egli credeva in una
possibile palingenesi dell'umanità ricondotta al regno della ragione
e della libertà mercé un rivolgimento politico, e l'ardore di
rinnovamento, la polemica contro gli «abusi», i «pregiudizi», gli
«errori» si continuava e si potenziava in lui scarsamente sensibile
a problemi politici determinati e concreti, contro un unico
avversario: quella tirannide da cui sentiva vulnerata nell'intimo la
sua personalità d'uomo. D'un balzo egli va perciò al di là delle
riforme che non lo interessano, come non lo può interessare nessun
miglioramento parziale; mentre intorno a lui è il compiacimento per
i beni che si credono conseguiti, per la instaurata età dei lumi,
per la certezza di prossimi felici avvenimenti, egli, anche se
talora non sa chiudere del tutto il suo animo al sentimento dei più,
avverte sempre piuttosto con dolore quel che manca e rimane come
smarrito di fronte alla forza del nemico contro cui combatte e che
gli sembra dominare incontrastato. L'ottimismo del secolo viene con
lui meno, e dà luogo a un pessimismo angoscioso, se pur irriflesso e
non ancora sistematico: tanto più forte è l'impeto con, cui si volge
verso il nuovo mondo della libertà, tanto maggiore è lo smarrimento
di fronte alla realtà che lo nega; tanto più viva è la coscienza di
sé medesimo, delle proprie forze e delle indefinite possibilità che
ad esse si schiuderebbero in un mondo diverso dal presente, tanto
più doloroso il riconoscimento di una condizione di cose che a lui
sembra impedire e comprimere la personalità sua e di quanti (o dei
pochi) «non usurpano il nome di uomini». Qui è la radice del suo
pensiero (se così vogliamo chiamarlo) come della sua poesia, e in
particolare della sua poesia tragica, nella quale assai meglio che
nella prosa di un discorso politico, poco consono alla sua indole,
gli era concesso dar voce al suo sentimento più profondo, lo
sgomento di fronte a quella forza paurosa che egli sentiva incombere
sul mondo e avvertiva in sé medesimo.
Egli ebbe a dire di aver scritto perché il suo tempo non gli aveva
permesso di operare, e si ritenne per questo, dalla Stael ad
esempio, che egli avesse asservito la poesia alla politica o che la
poesia sua non fosse stata altro che un'azione, meritoria come tale,
ma intrinsecamente impoetica. In realtà l'affermazione alfieriana ci
attesta che la poesia non fu per lui pura letteratura, bensì
espressione totale della sua personalità e che quindi in essa
confluisce tutta la sua passione, il suo pensiero, il suo ardore
d'azione: «E perciò appunto, commentò il Leopardi, egli fu vero
scrittore, a differenza di quasi tutti i letterati e studiosi
italiani del suo e del nostro tempo». Non un programma d'azione né
una dottrina preesiste alla sua poesia, bensì quello stato d'animo
che si è descritto, e le stesse tragedie sue più scopertamente
politiche, quelle da lui designate «tragedie di libertà», anche se
non sono le più poeticamente ispirate non sono opera didascalica, a
somiglianza di parecchie tragedie del Voltaire, che offrono
all'autore occasione di esporre per mezzo dei suoi personaggi
massime e giudizi. Al principio di una tragedia alfieriana è un
grido, voce della sua angoscia o di un indistinto disperato impeto
d'azione, e questo grido egli affida a personaggi che gli danno una
più vasta risonanza. E se talora, come nelle ricordate tragedie di
libertà, egli rimane pago di un'esplosione di furore libertario,
come nella Congiura dei Pazzi in cui, egli disse, l'autore è uno dei
congiurati contro Lorenzo, o si compiace di porre innanzi a sé e al
pubblico un mondo esemplare, incarnato m una famiglia eroica sullo
sfondo di una Roma ideale, come nella Virginia, o un eroe di
grandezza a suo credere più che umana, come nel Timoleone (eppure in
queste stesse opere più sommarie o più rigide non manca un fondo di
poesia), altra volta egli cerca di penetrare più addentro in quel
suo sentimento per comprendere da poeta, e non da filosofo, e la sua
angoscia e la realtà da lui avversata.
Si può dire che la forma teatrale gli si presentasse naturalmente in
un secolo in cui tanta parte ebbe nella vita e nella cultura il
teatro, e che veniva incontro sia a quel suo represso andito
all'azione che al bisogno di proiettare sulla scena incarnandola in
personaggi e in un'azione rapida, irruente la propria passione. Con
la forma teatrale egli accoglieva una millenaria esperienza della
tragedia greca, latina, francese e dei più recenti tentativi
italiani, e pur avendo conoscenza dello Shakespeare preferì mettere
da parte quell'autore perché «gli andava troppo a sangue»: troppo
bene sentì che nel vasto quadro shakespeariano si sarebbe dispersa
l'originalissima poesia sua, così come la stessa tragedia
classicistica troppi elementi superflui per lui ancora portava con
sé e doveva esser resa più scarnita e severa con l'eliminazione di
personaggi non essenziali, di episodi secondari che ritardassero lo
svolgimento dell'azione. Si conformava in questo alle esigenze
critiche che si eran fatte sentire più volte nel corso del secolo e
con più forza nel tempo suo col neoclassicismo, ma obbediva sopra
tutto allo spirito profondo della poesia sua, che tendeva a quella
grandiosa elementarità. Perciò la storia della sua poesia ci mostra
come egli vada via via facendo cosa propria gli schemi e le
situazioni della tragedia classica e a un tempo come in questo
lavoro egli vada approfondendo la sua concezione tragica e
sollevandosi da un iniziale indistinto moto dell'animo sino a una
comprensione poetica di quel che all'inizio era stato un incubo
pauroso.
Se angusto è il suo mondo poetico e breve il periodo della attività
tragica, entro questi limiti è pure evidente una linea di sviluppo,
e un carattere bene individuato ha ciascuna delle sue tragedie: il
Filippo, in cui sono ancora troppi elementi estranei all'autentica
poesia alfieriana, ma che vive per la disperazione eroica di Carlo e
l'attonito sgomento di Isabella di fronte a quella forza inumana e
paurosa, simile ad incubo, impersonata nel monarca spagnolo; il
Polinice, in cui il poeta ritrae inorridito eppure affascinato la
figura di Eteode, diverso nel suo impeto titanico dal cupo Filippo;
l'Antigone, in cui campeggia la protagonista, vittima ed eroina a un
tempo, intesa ad un'opera di pietà che è insieme una sfida al
tiranno, con gli occhi fissi verso la morte, che sarà per lei la
liberazione dalla vergogna della sua famiglia, la vittoria su
Creonte e più ancora su sé medesima, su quella che essa sente come
una colpa, l'amore per Emone; l'Agamennone, in cui è rappresentata
con modi insolitamente analitici la fatale soggezione di
Clitennestra alla volontà di Egisto e alla propria passione,
condotta, senza aver la forza di resistere, al delitto; l'Oreste, la
tragedia della «sublime vendetta» che i personaggi ci presenta come
travolti da passioni gigantesche, cozzanti l'uno contro l'altro in
un'azione frenetica; la Rosmunda, che la concezione dell'Oreste
abbassa a modi melodrammatici, ma nonostante la debolezza
dell'insieme ha accenti di bellezza vera nel furore di distruzione
della protagonista e più ancora nella figura consapevole del proprio
destino della sua vittima, Romilda; l'Ottavia, diseguale pur essa,
ma da cui si leva fin dall'inizio la cupa figura di Nerone e più
poeticamente compiuta anche qui la figura della vittima, Ottavia,
alla quale come a tanti altri eroi ed eroine dell'A. non resta che
attendere e desiderare la morte, ma che la morte non sa affrontare
per un'invincibile debolezza e a Seneca si volge per essere da lui
confortata e protetta; il Don Garzia, che ci mostra il protagonista
simile al Carlo del Filippo, sopraffatto da una forza mostruosa,
simile per la complicata vicenda e per la inaudita perfidia, da cui
è travolto il nobile figlio del duca Cosimo, a situazioni dei drammi
giovanili dello Schiller, I Masnadieri e Amore e raggiro; la
Congiura dei Pazzi, la più poetica delle tragedie di libertà, che
nell'ultimo atto almeno supera la polemica nella visione della
catastrofe, nel grido di Raimondo ferito a morte, il quale alla
moglie che gli chiede chi sia il traditore, contro cui il popolo
tumultuante impreca, esclama: «Il traditor fia il vinto»; la Merope
infine, con la quale il poeta conscio della propria originalità si è
provato diremmo in una gara su di un tema tragico, soggetto di due
celebrate tragedie del secolo, del Maffei e del Voltaire, e che
perciò è nel complesso opera piuttosto letteraria che poetica, ma
che con la figura di Merope, più vicina dei personaggi delle
precedenti tragedie alla comune umanità, sembra annunciare la più
complessa poesia del capolavoro, il Saul, tragedia nella quale mondo
superumano e mondo umano coesistono non solo per la presenza intorno
a Saul di creature estranee al suo folle sogno di grandezza
superumana, ma nell'animo stesso del protagonista, aperto come non
erano gli altri tiranni alfieriani agli affetti più umani.
Nel Saul, ideato e composto contemporaneamente alla Merope e a una
certa distanza dalle prime dodici tragedie, il poeta ha superato
quello che costituiva il limite della sua poesia nelle opere
precedenti, in cui sempre rimaneva alcunché di immotivato e
l'intuizione poetica non riusciva ad informare tutta la tragedia,
cosicché l'autore si giovava più di una volta di procedimenti
intellettualistici per condurre innanzi l'azione: vizio evidente
anche nel linguaggio che si leva alla poesia nei momenti in cui i
personaggi hanno dinanzi a sé la visione della propria rovina, e il
poeta trova allora parole di assoluta e pura bellezza mentre altre
volte si avviluppa in un frasario convenzionale non avvivato dalla
voluta concisione e concitazione. Non per questo il Saul è, come
credette il De Sanctis, un'eccezione nel suo teatro: il poeta a
questa opera sua più compiuta è giunto rifacendosi al motivo primo
del suo spirito e della sua poesia, il motivo della tirannide, vale
a dire la brama di un'assoluta impossibile onnipotenza e l'intima
contradizione che le è propria. Perciò anche il Saul è la tragedia
dell'esasperata volontà di dominio che isola gli individui in una
paurosa solitudine e non mai si queta perché non è mai veramente
soddisfatta. Non diversi da lui gli altri tiranni: ma quegli altri
l'A. ce li presenta di scorcio, quasi proiezione di un incubo
angoscioso, in questa tragedia invece rivive con simpatia il dramma
del suo protagonista, che per questo non si fissa in un
atteggiamento immobile, come Filippo, Eteocle, Nerone, ma si disvela
a noi con una varietà ammirevole di toni e di accenti: così l'odio
per David non dissimile nella sua origine dall'odio di Filippo per
il figlio, non è più sentito come affetto mostruoso e inspiegabile,
bensì penetrato nella sua intima essenza e inteso nel complesso dei
sentimenti che l'accompagnano e che con esso contrastano; l'impeto
titanico di una volontà regale viene a contrasto con la coscienza di
un'intima debolezza, l'incapacità di ritrovare la sicurezza di un
fermo, deciso volere dà luogo a moti e impeti in apparenza
incoerenti ma in cui si rivela l'energia di quella volontà spezzata.
L'autore non deve più ricorrere a espedienti e ad artifici per
costruire la tragedia: il ritmo dell'azione è il ritmo stesso
dell'anima del protagonista, che anela a uscire dal cerchio in cui
si è chiuso ed è sempre ricacciato nella solitudine e nel suo
tormento, che sarà superato soltanto nella morte di fronte al
nemico; negli accenti di lui non diversi dai gridi solitari delle
altre tragedie e tanto più vari si dispiega tutta la gamma di
sentimenti di un complesso e grande spirito. Intorno al protagonista
si collocano gli altri personaggi, che partecipano alla sua vita pur
serbando ben distinta la propria individualità, non travolti dalla
sua tragedia: un piccolo mondo patriarcale che è come il motivo
complementare dell'opera.
In Saul, «il mio personaggio più caro», scrisse il poeta nella Vita,
«vi è di tutto di tutto assolutamente»: ma non si conclude con la
tragedia del vecchio re biblico la ricerca poetica dell'A., quel suo
progressivo svilupparsi dallo spirito primitivo dell'opera sua, in
cui poesia e polemica si confondevano. Già nelle tragedie anteriori
al Saul l'A. aveva intraveduto di quando in quando al di là della
stessa politica e del contrasto tra tirannide e libertà una realtà
tragica non dissimile da quella che gli era apparsa meditando su
quel motivo dominante del suo intelletto e della sua fantasia. Già
in quelle tragedie, tra i suoi tiranni e le loro vittime, si erano
venuti a collocare altri personaggi su cui gravava una diversa e pur
simile fatalità, e il motivo dell'amore vietato, che non si può né
fuggire né appagare e si asside immoto nell'animo come forza
distruggitrice, ora da solo come nell'Agamennone, ora congiunto al
motivo politico come nel Filippo, si era presentato come motivo
tipicamente suo, ma quando credeva di aver ormai compiuto la sua
opera di tragico, due anni dopo il Saul, il poeta quasi
sprofondandosi nel suo intimo, trovò una tragedia nuova tutta
informata da quel motivo, la Mirra.
Con la Mirra la tragedia alfieriana ritraendosi dalla scena ed anche
da ogni altro personaggio che non sia la protagonista si è come
calata nell'intimo dell'animo di lei. Dileguate le immagini dei
tiranni e delle loro stragi, come quelle più grandiose di enormi
rovine e di delitti fatali, la forza nemica che l'A. sente incombere
minacciosa sull'individuo gli si è presentata con l'immagine
indistinta di un sogno peccaminoso, che si affaccia ad una mente
giovinetta e prima ancora di allettarla la spaura, non lasciando in
lei altro che una vergogna immensa e il rimpianto della purezza
perduta. L'orrore che spirava dalle pareti delle funebri regge e
dalle visioni allucinate dei personaggi si è concentrato nel cuore
di questa giovinetta, che nemmeno può gridare, ma deve con sforzo
unico reprimere dentro di sé e ne è perciò, come nessun altro
personaggio alfieriano, penetrata. Di qui la funzione dell'ambiente
borghese, da cui la fanciulla è circondata e che costituisce come
uno sfondo neutro atto a far risaltare quell'intimo e segreto
orrore, e il carattere di questa tragedia che è come un dialogo fra
il coro e la protagonista, tutta intesa nella vana lotta per
nascondere agli altri, alle loro inchieste affettuose e per lei
terribili, il suo segreto. Anche Mirra altro scampo non avrà, come
gli altri personaggi dell'A., che nel suicidio, ma non è il suo,
come il loro, un suicidio eroico: abbandonata dai genitori
inorriditi essa muore col rimpianto che anche la sua morte è stata
inutile e inutile la sua ostinata eroica difesa, rivolgendo alla
nutrice china su di lei in un gesto di muta pietà le estreme
desolate parole.
La Mirra sembra concludere con accenti delicatissimi e in parte
nuovi l'opera poetica alfieriana: nulla aggiunge di vitale a
quell'opera l'Agide, e qualche frammento soltanto la Sofonisba,
sopra tutto per gli accenti di magnanima rinuncia del personaggio di
Siface. I Bruti non sono se non una tardiva ripresa delle tragedie
di libertà, ed escono per più rispetti dallo schema consueto della
tragedia alfieriana senza che questa novità risponda a un
rinnovamento poetico, e il Bruto primo si presenta come uno
spettacolo offerto dal poeta a un auspicato popolo rifatto per una
felice rivoluzione signore di sé medesimo, e il Bruto secondo come
una grande orazione rivolta «al popolo italiano futuro», a cui la
tragedia è dedicata. Frutto poi di una nostalgia per il suo mondo
tragico, da cui non sapeva del tutto staccarsi, sono l'Abele,
designata da lui come «tramelogedia», «stravagante parola» per
significare una «stravagante invenzione», ossia un dramma in cui si
alternano parti liriche e parti tragiche e compaiono personaggi
umani e personaggi fantastici, e che nella parte lirico-fantastica è
al disotto della mediocrità, mentre soltanto si avviva per
l'ossessione del delitto, da cui Caino è suo malgrado spinto
all'uccisione del fratello; e l'altra tramelogedia, soltanto ideata,
l'Ugolino, che rende più truce il truce dramma dantesco o La Scotta,
di cui non tracciò se non una ancor più rapida «idea»; o la più
tarda Alceste, in cui la protagonista, la figura meglio rilevata del
dramma, riecheggia negli accenti più felici accenti di altre più
originali eroine del suo teatro. E una tragedia mancata potrebbe
esser definito quel poema L'Etruria vendicata, che ha per soggetto
l'uccisione di Alessandro de' Medici, compiuta da Lorenzino
trasfigurato in purissimo eroe di libertà, perché il furore
antitirannico è stato come incanalato in una narrazione in ottave
che gli toglie la sua giustificazione psicologica ed estetica e fa
apparire esagerate e inumane le massime politiche che vi si
predicano e del tutto gratuita l'azione.
Delle Rime l'A. nel dialogo La virtù sconosciuta fa dire all'amico
che egli «fama da esse non pretende né aspetta» e che, per quanto
esse siano «nobile e dolce sfogo» e perciò di inestimabile valore
per lui, debbano pur sempre essere «il suo pensiero secondo»: «le
tragedie vadano innanzi». Né diverso giudizio dovrebbero darne i
critici, riconoscendo in queste rime che all'A. vennero scritte
durante la composizione delle tragedie e in maggior numero nei
periodi di pausa del lavoro tragico e quand'esso fu compiuto, opera
secondaria rispetto alle tragedie o forse meglio complementare,
«faville del maglio», sia quelle che più scopertamente si presentano
come esercizio d'artefice, sia le più originali e numerose, in cui è
il segno della personalità alfieriana, confessioni, giudizi,
impressioni: testimonianza singolare di uno spirito singolare che si
distingue come intimo diario poetico da tutta la lirica del secolo.
Di esse l'A. curò due raccolte: la prima, stampata nel 1789, la
seconda, comprendente i componimenti del decennio successivo,
preparata da lui usci fra le opere postume. Sono nella prima, oltre
componimenti di vario metro di scarso valore, e quarantaquattro
epigrammi preceduti da un proemio, che si distinguono per il piglio
incisivo e bizzarro, centonovantaquattro sonetti (il poema lirico
L'America libera fu stampato a parte). Molti di essi sono dedicati
all'amore per l'Albany, e fra questi sono non pochi fra i meno
originali del nostro poeta, il quale accoglie spesso le espressioni
convenzionali della poesia amorosa; ma quando non si propone di
celebrare la sua donna, e dice invece la disperazione per la forzata
lontananza di lei e la desolazione che di lui s'impadronisce, quando
separato dall'amata, ritrova in sé stesso il senso della nullità
della vita, esce in accenti indimenticabili, espressione di una
nuova sensibilità, che già possiamo chiamare romantica. «Or ch'io
son da mia donna allontanato / Intero il mondo a me un deserto farsi
/ Veggio»; «Te chiamo a nome il dì ben mille volte; / Ed in tua
vece, morte a me risponde: / Morte che me di là dalle triste onde /
Di Stige appella....»; «Gioia non v'ha che omai più il cor
m'irragge: / Morte mi s'è d'intorno ad esso avvolta...».
L'imitazione del Petrarca diventa allora uno stimolo per
approfondire uno stato d'animo, una fantasia: e temi e motivi
petrarcheschi risorgono rinnovati da uno spirito nuovo, da una nuova
esperienza, volti di solito dal patetico al tragico, come il
compiacimento della solitudine nel sonetto Tacito orror, o il gusto
dell'ingannevole sogno nel Sonetto Solo fra' mesti, e la natura si
profila con aspetti selvaggi, conformi allo spirito del poeta che
tutta vorrebbe vederla improntata del proprio dolore: «Che? non
ètutta la natura in pianto?». In questi sonetti il poeta ci si
presenta simile a personaggi delle sue tragedie, sia che si rivolga
come a un tiranno che lo domina alla Melanconia, sia che si mostri
perseguitato, nuovo Oreste, dalle Furie, «Due fere donne, anzi due
furie atroci...», o perennemente irrequieto senza pace o intento
solo ad esasperare il proprio dolore entro cui si chiude, o con
l'animo quasi ossesso da una soverchiante passione, «or cieca scorta
odo il mio sol furore». Ma talora il suo discorso si fa più pacato e
il poeta riesce a chiudere nei quattordici versi ben rilevandoli
mercé gli accenti e le rime, un giudizio su sé stesso e sul mondo;
nascono così il sonetto-ritratto, Sublime specchio di veraci detti
(ma non a questo sonetto solo si conviene la definizione, bensì a
non so quanti altri, anche a certuni dei più mossi e drammatici,
sonetti-ritratti tutti dell'autore delle tragedie), nasce il sonetto
sulle contradizioni della vita umana, Sperar, temere, rimembrar,
dolersi, o quelli in cui si fissa il suo ideale morale e si spiegano
le ragioni del suo volontario esilio, Chi 'l crederia pur mai che un
uom non vile e Uom cui nel petto irresistibil ferve, e altri che
suonano come condanna della patria ignava o quelli dedicati ai
grandi del passato, nei quali il poeta ritrova sè stesso: Dante (O
gran padre Alighier), il Petrarca, Michelangelo e il suo Mosè,
artefice eroe non inferiore all'eroe da lui ritratto, o giudizi su
personaggi del suo tempo, come l'omaggio dell'uomo libero Alfieri a
Federico II morente: «Ma di non nascer re forse era degno».
Traspare di quando in quando dalle rime la consapevolezza che non
soltanto dalla natura dei reggimenti politici derivi l'infelicità
umana in genere e in particolare del poeta, bensì da una condizione
intrinseca e insuperabile dell'uomo, e l'impeto antitirannico che
sta all'origine dell'ispirazione tragica chiarendosi finisce per
essere trasceso in opere, a tacer d'altre, come il Saul e la Mirra,
e risolto in una visione insieme desolata ed eroica. Non i re soli
hanno fatto un carcere di questa vita, questo terreno carcere dal
quale il poeta anela di esser liberato, questa natura umana di cui
sente irosamente la meschinità e la miseria: ciononostante con un
moto deliberato della volontà egli ricaccia la tentazione ad
abbandonarsi a una concezione pessimistica come sarà quella del
Leopardi e che già in lui si presente, e riprende la sua polemica
contro avversari che debbono essere vinti, perché gli uomini ed egli
stesso per primo abbiano (quando?) la possibilità di dirsi liberi e
signori di sè medesimi. Quella polemica serpeggia fra i suoi versi,
ma soltanto nelle prose politiche si svolge o tenta di svolgersi con
coerenza e sistematicità. Accantò all'opera poetica libri come Della
tirannide, Del principe e delle lettere, La virtù sconosciuta, Il
Panegirico di Plinio a Traiano rappresentano la «teoria», se così
possiamo chiamarla, dell'A., la sua concezione politica e morale (ma
è possibile separare in lui la morale dalla politica?), e da quei
libri non si può prescindere per un estetismo fuor di luogo da chi
studi l'opera sua, quasi che rispetto ai capolavori di poesia
fossero soltanto l'espressione di una realtà contingente, e non
invece di quella poesia il necessario complemento, e nemmeno
considerarli anch'essi, insieme al resto dell'opera, esteticamente,
voce dell'animus poetico del «più che uomo» Alfieri, isolato nel suo
eroico individualismo. Se non si deve più consentire, come si è
detto, al vieto giudizio di un A. che avrebbe asservito la poesia
alla politica, non si deve nemmeno svalutare l'importanza e il
significato storico di quel pensiero, così strettamente connesso al
pensiero e ai sentimenti del tempo eppure improntato del
caratteristico accento alfieriano. Quel che nei trattati non si deve
cercare è un programma politico, come si fece nel secolo scorso
quando si credette di ravvisare nelle operette politiche alfieriane,
anteriori o posteriori alla rivoluzione, questo o quel regime
politico preferito o propugnato dallo scrittore (la repubblica? la
monarchia costituzionale?): ricerca antistorica e vana a cui si
contrappose per confutarla la concezione di un A. anarchico
(Calosso), concezione parimenti erronea se l'anarchia si concepisce
come un sia pur negativo sistema di governo, o se del cosidetto
anarchismo alfieriano si fa una sorta di anticipato superomismo
fondamentalmente antipolitico. L'interesse dell'A. si appunta non
sulle istituzioni meglio atte a garantire la libertà, non su
problemi politici e giuridici, anche se riecheggia concetti vulgati
sui tre poteri, sulla loro necessaria separazione ecc., bensì
sull'individuo, sugli effetti della soggezione sua ad una volontà
altrui onnipotente ed arbitraria, sulla possibilità che egli ha di
riscattarsene salvando l'integrità del proprio essere, sul dovere
prima che sul diritto che ogni uomo ha e più di altri chi più
altamente sente di sé e della propria umanità, di essere libero. Lo
soccorre nell'esame che egli fa dell'animo dei sudditi come di
quello del tiranno parimenti avviliti dall'esercizio di un potere
arbitrario, la letteratura politica del secolo (fu detto dal Bertana
che si potrebbe ricomporre con passi di scritti francesi fioriti
intorno all'Enciclopedia l'intero tessuto dei trattati alfieriani:
ma è dubbio al Bertana stesso che quegli scritti egli conoscesse e
sopra tutto presenti ebbe invece il Montesquieu, il Voltaire,
l'Helvétius, e con gli autori del suo tempo il Machiavelli), ma più
ancora un abito non comune dell'introspezione, per cui si direbbe
che non fuori di sé, negato com'era alla pacata osservazione,
insofferente come pochi nel suo secolo degli studi storici, ma
dentro di sé egli abbia scoperto e il tiranno e i servi e l'uomo
libero, mettendo in luce il male intrinseco in ogni soggezione
dell'uomo all'uomo. Perciò gli spunti attinti dalle letture
acquistano un accento personale di esperienza vissuta e sofferta e
insieme un carattere di intransigenza e assolutezza che spesso non
avevano in un sistema di pensiero più complesso o come motivi di
critica e di discussione lasciati cadere fra altri e diversi motivi.
Caratteristico per questo il capitolo Della paura, che è al centro
del trattato antitirannico, e nel quale è ripreso, svolto,
trasfigurato il concetto del Montesquieu della «crainte» come
«ressort», base e molla del dispotismo: non più come nell'Esprit des
lois un assioma scientifico, bensì un vasto angoscioso quadro
dell'umanità avvilita, non più limitata la paura, come nel
Montesquieu, ai pochi individui che stanno intorno ai despoti
dell'Oriente, bensì sentimento dominante di tutti gli uomini, dei
sudditi come del principe, legge universale che governa il mondo.
Più coerente e serrato di tutti questi scritti suoi, il trattato
Della tirannide, composto di getto (qualche ritocco soltanto sembra
esser stato fatto per la stampa): due libri che , mirano a porre in
luce l'essenza e la ragione di quella aborrita realtà, la tirannide
in sè stessa, i suoi necessari sostegni, i suoi aspetti diversi, e i
mezzi (delineati nel secondo rapido libro) per sottrarlesi e per
abbatterla, notevoli per la finezza con la quale l'autore persegue
la degradazione morale che un simile potere porta con sé con
l'affievolirsi di ogni nobile impulso, col ridursi degli affetti e
degli interessi all'amore della pura vita animale, e in particolare
negli aspetti con cui gli si presenta nel mondo contemporaneo, la
nobiltà cortigiana a lui ben nota e gli eserciti, oggetto della sua
costante avversione due dei sostegni delle moderne tirannidi. da
rilevare il suo sprezzo per l'opera dei sovrani riformatori, che
nemmeno degna far oggetto particolare di trattazione, nessun
interesse avendo per riforme che non toccano la radice prima ed
unica del male, il potere arbitrario, persuaso che anche se buono un
tal principe «forse vuole il bene del corpo degli altri, cioè che
non siano né nudi né mendici, ma, volendoli ciecamente ubbidienti
all'arbitrio di un solo necessariamente li vuole ad un tempo e
stupidi e vili e viziosi e assai men uomini insomma che bruti» e
diffidente di quegli esseri ibridi, i «semitiranni», un prodotto dei
«nostri costumi presenti che tutto a mezzo ci danno».
Più ampio il trattato Del principe e delle lettere in tre libri,
ideato poco dopo il precedente e composto a più riprese, e anche per
questo meno unitario, facendogli difetto quel calore continuato,
quell'ostinato battere e ribattere su di un unico tema che è proprio
dell'altro libretto, scaturito non da una meditazione pacata, a cui
era negato il nostro autore, bensì da una ardente passione. «In
quella bollente età, scriverà nella Vita a proposito della
Tirannide, il giudicare e raziocinare non eran fors'altro che un
puro e generoso sentire». Ma sentire e pensare furono in verità
sempre per lui tutt'uno: di qui il carattere dell'una e dell'altra
opera e di tutti gli altri suoi scritti politici, per cui il Foscolo
ebbe a dire che essi dimostravano «che l'abilità dell'Alfieri
consisteva molto più nella vigorosa energia dell'assalto che nella
ponderazione di una ben preparata difesa», e, possiamo aggiungere,
la forza della sua prosa si rivela nell'affermazione imperiosa, nel
giudizio perentorio, nella massima singola piuttosto che nel tessuto
del suo raziocinio e perciò quelle affermazioni, quei giudizi,
quelle massime rimangono piuttosto che la pagina o il libro nella
nostra memoria. Così è della Tirannide, così del Principe: ma nella
seconda opera quei limiti dell'A. pensatore e prosatore hanno
maggior risalto, perché, non dominato da un unico assillante tema,
l'autore trae occasione dall'argomento del trattato, le relazioni
fra i principi e i letterati, per tante altre osservazioni che a
quell'argomento soltanto indirettamente o con sforzo si ricollegano,
si da offrire una vera «summa» del suo pensiero morale, politico e
letterario, non senza lasciar trasparire certe contradizioni (che
del resto non erano soltanto sue, bensì del moto di idee e di
spiriti a cui partecipava), più evidenti in questo procedere
aforistico. Importante fra tutte quella tra la fiducia nei benefici
effetti dei «lumi», che porterebbero l'avvento di un nuovo, giusto e
libero ordinamento politico («L'opinione è la innegabile signora del
mondo. L'opinione è sempre figlia in origine di una tal quale
persuasione e non mai della forza... E in una moltitudine di uomini
dal veramente conoscere i propri diritti al ripigliarseli e
difenderli, egli è brevissimo il passo») e la convinzione espressa
non soltanto nella Tirannide, ma in questa stessa opera, che
soltanto una e sacra rabbia,, una azione violenta può condurre un
popolo alla libertà. Non giunge a chiedersi se la cultura non
finisca per affievolire l'entusiasmo necessario ad ogni grande
azione, e quindi a quella che è per lui la più grande e più degna,
la conquista della libertà? «Si esamini la storia, e si vedrà che i
popoli tutti, ritornati di servitù in libertà, non lo furono già per
via di lumi o verità penetrata in ciascun individuo, ma per un
qualche entusiasmo, saputo loro inspirare da alcuna mente
illuminata, astuta e focosa e neppure quella era una mente
seppellita nell'ozio degli studi... Crederei anzi.., che i lumi
moltiplicati e sparpagliati tra i molti uomini, li facciano assai
più parlare, molto meno sentire, e niente affatto operare. Si parla
e si legge e si scrive in Parigi, e ci si obbedisce pure, finora,
quanto e più che a Costantinopoli». E se nella Tirannide l'autore
aveva riconosciuto nella religione uno dei sostegni primi del potere
assoluto e affermato che il cristianesimo non è per sé stesso
favorevole al viver libero (e qui la derivazione dal Machiavelli è
palese), ma con la libertà è addirittura incompatibile il
cattolicesimo («Non si può essere a un tempo stesso un popolo
cattolico veramente e un popolo libero»), in un capitolo (l. III,
cap. V) del secondo trattato celebra fra gli uomini sommi, degni di
esser posti accanto ai «sublimi scrittori» e fondatori di religioni,
i santi e i martiri, condannando con parole severe l'irrisione
illuministica delle cose religiose ed esaltando quei santi e quei
martiri non per le loro credenze, da cui pur sempre si sentiva
lontano, bensì per «l'impulso che li movea e la inaudita sublime
tempera d'animo di cui doveano essere dotati».
Non per questo il Principe segna un ripiegamento o un'attenuazione
delle idee e degli spiriti dell'altro libro: il trattato, che parte
dalla premessa di un'assoluta irreducibile opposizione tra la
«forza» e il «sapere» e quindi tra il «principe» e l'«uomo di
lettere» si ricollega strettamente al libro II della Tirannide
riprendendo per un caso particolare il problema di quel che deve
fare l'individuo se si trova a vivere in uno stato non libero per
salvare la propria indipendenza e adempiere il compito a cui si
sente chiamato: un problema tanto più urgente ed imperioso per
coloro che come l'autore si sentono chiamati a scrivere e sentono, o
dovrebbero sentire, più di altri come esigenza prima la libertà.
L'A. si propone di confutare l'opinione vulgata e ancor viva nel
tempo suo dei benefici effetti del mecenatismo principesco e
dimostrare che le lettere, per raggiungere la loro efficacia e
perfezione non devono essere protette; i tre libri (dedicati
rispettivamente Ai principi che non proteggono le lettere, Ai pochi
letterati che non si lasciano proteggere, Alle ombre degli antichi
liberi scrittori) vengono a delineare, lasciando da parte pensieri
marginali, la figura del «libero scrittore», «uomo privato che potrà
in sé stesso riunire la indipendenza tutta del principe e riunire in
sé la educazione di cittadino, l'ingegno, i costumi, la conoscenza
degli uomini, l'amor del retto e del vero». Della moralità
intrinseca all'esercizio delle lettere, l'A. parla altamente con un
discorso nutrito da un'intima originale esperienza: «Una moderna
opinione, egli scrive fra l'altro, sfacciata a un tempo e timida e
vile, asserisce che il lettore dee giudicare il libro e non l'uomo.
Io dico e credo... che il libro è e dev'essere la quintessenza del
suo scrittore, e che se non èt ale egli sarà cattivo, debole,
volgare, di poca vita e di effetto nessuno». Unica fonte delle vere
lettere, come di ogni grande azione, egli considera il «forte
sentire» («Non si può fortemente ritrarre ciò che fortissimamente
non si sente, e ogni gran cosa nasce pur sempre dal forte sentire»),
e la poesia, che è per lui al vertice di ogni opera letteraria,
definirà in un sonetto «del forte sentir più forte figlia»: ora ogni
stato di dipendenza non può non rendere più debole il «sentire» e
questa debolezza non può non riflettersi nella pagina di un autore
per quanto colto e letterariamente dotato. La poesia perciò e le
lettere in genere non sono dissociabili dalla libertà, e una
qualsiasi protezione non può non essere di nocumento. Le stesse
scienze, a cui può essere utile il favore di un principe per i loro
perfezionamenti e sviluppi, richieggono per coloro che ne pongono i
fondamenti e i principî una intera libertà, non diversamente
dall'opera dei poeti e dei moralisti, a cui più particolarmente è
rivolta l'attenzione dell'A., assai poco propenso a partecipare
all'entusiasmo del tempo per le scienze esatte e per le loro
scoperte e incline piuttosto ad avvertire dolorosamente il limite
che i suoi autori gli hanno insegnato essere posti a ogni indagine
della natura.
Converrà però distinguere fra gli scrittori mossi da «impulso
naturale» e gli scrittori mossi invece da «impulso artificiale»:
originali i primi, spiriti liberi per eccellenza e potenti sempre
per vigore e novità di espressione, letterati i secondi di
ispirazione riflessa, che possono raggiungere anche un'eleganza, una
raffinatezza formale quale non si trova in quegli altri tanto più
grandi, e che appunto per la natura della loro più debole
ispirazione non soffrono per la protezione principesca – un
rudimentale canone critico che vorrebbe conciliare opposte esigenze,
del genio e del gusto, o del poeta e dell'artista (per dirla col De
Sanctis) e permette all'A. di formulare sia pure approssimativamente
il suo ideale di poesia, l'ammirazione per i grandi ingegni creatori
come Dante, per troppo tempo posposti a poeti meglio graditi ai
letterati, e a lettori da loro educati, per l'eleganza e la
regolarità delle loro opere. Si afferma qui più esplicitamente il
motivo preromantico del «genio», che serpeggia per tutta l'opera
alfieriana e contribuisce a dare un vivo e personale risalto alla
figura del «libero scrittore»; che resta peraltro sia pure
alfierianamente eroicizzata un tipico portato dell'illuminismo,
della sua fiducia nella forza rischiaratrice di scrittori illuminati
e liberi. Se pur, come si è detto, quella fiducia talora sembra
venir meno nel nostro autore, egli viene compendiando in questo suo
«libero scrittore», illuminato a un tempo e ispirato,
scrittore-tribuno e scrittore-vate, la fede del secolo, non tanto
per un'opera quotidiana di rischiaramento, che valga a dissipare le
ombre dell'«errore», degli «abusi», dei «pregiudizi,» quanto per una
futura totale redenzione di un popolo, richiamato dal servaggio a
una nuova, vera vita. E quella figura amorosamente delinea
riconoscendo atti meglio di altri a tale missione alcuni pochissimi
fra i letterati nobili, che saranno, egli si augura, «come i Deci
della nascitura repubblica» e che «espatriandosi per cercare libertà
dove ella si trova ogni loro propria presente cosa sacrificheranno
alla futura lor patria».
S'inserisce qui, alla fine dell'opera, il capitolo che riprende il
titolo del capitolo ultimo del Principe machiavellico, Esortazione a
liberar l'Italia dai barbari: non tanto una «esortazione», a dire il
vero, quanto l'espressione di una speranza indeterminata nella
resurrezione del popolo italiano, che all'A. sembra nella sua stessa
servitù più vigoroso di tanti altri popoli per una tempra naturale,
da lui riconosciuta negli stessi «enormi e sublimi delitti che
tuttodì vi si van commettendo» come è pur detto nel Parere
sull'Agide, in cui sono le famose parole sulla «pianta-uomo, assai
più robusta in Italia che altrove» e il presagio, sempre
indeterminato, di una futura repubblica italiana che «spingerà
certamente assai più oltre la libertà che non i nostri presenti eroi
boreali (gli inglesi), fra cui essa si è piuttosto andata a
nascondere, che non a mostrarsi in tutto il suo nobile immenso e
sublime splendore». Siamo con questo vagheggiamento di un futuro
indefinito, sublime per una astratta sublimità, in un mondo di pura
immaginazione che col mondo reale non sembra avere nulla in comune:
quel che è reale e storicamente importante è l'accento doloroso,
personale, che nella prosa e nei versi dell'A. assume uno dei luoghi
comuni della polemica illuministica, il principio che «non vi è
patria dove non vi è libertà», e il conseguente ripudio da parte del
poeta della sua piccola patria («patria non m'è benché natio
terreno»), non in nome di un cosmopolitismo che egli neppur conosce
o del diritto, di cui parlava il Voltaire, nell'art. Patrie del
Dictionnaire philosophique («Tout homme est libre de se choisir une
patrie»), bensì per farsi cittadino egli solo di una patria che
ancora non esiste e che non può essere se non l'Italia quale egli ha
sentito viva nei grandi del passato, a lui affini e che non ha
relazione alcuna con gli stati esistenti. Perciò queste operette
politiche, che trattano di problemi non peculiari a paesi
determinati e in cui, tranne che nel capitolo sopra ricordato del
Principe, non si fa neppure il nome d'Italia, segnano col resto
dell'opera alfieriana il risoluto distacco del poeta dall'Italia
politica contemporanea e l'esigenza di un'altra Italia, la sua
patria vera e patria di un vero popolo (quel «popolo italiano
futuro» a cui è dedicato il Bruto secondo): vano però sarebbe
chiedergli una maggior determinazione del suo ideale patrio,
dell'Italia futura e attribuirgli propositi e sentimenti che saranno
di altri spiriti, di altre generazioni, anche se negli anni intorno
alla rivoluzione e più ancora nei seguenti più fortemente gli si
farà sentire l'amore delle cose italiane, e a quella sua vagheggiata
Italia si stringerà come unico conforto e sostegno alle sue speranze
in un avvenire sempre più lontano e mal definito. Soltanto nel suo
individualismo, nel senso vivo del valore di quel che distingue
individuo da individuo, popolo da popolo, nell'avversione alle
tendenze livellatrici dell'illuminismo poteva trovare appoggio il
suo ideale di patria-nazione: chi confesserà nella Vita la propria
ammirazione per i popoli che si son serbati più fedeli ai loro
costumi e caratteri peculiari, scrivendo ad esempio, a proposito
degli Spagnoli, «Io ho sempre preferito originale anche tristo ad
ottima copia», non poteva dare altra espressione al suo sentimento
nazionale che col corollario a quella che fu sua norma costante
nell'agire e nello scrivere, essere sé stesso: essere dunque
italiano.
Anche in questo caso non programmi o conclusioni importano quanto il
sentimento primo che ispira e regge i ragionamenti, se così possiamo
chiamarli, dell'A.: una nuova prova ci è data dal Panegirico di
Plinio a Traiano, la meno personale delle operette alfieriane, un
esercizio oratorio su di un tema non da lui vissuto e sofferto, ma
eco di generiche aspirazioni del tempo suo. L'utopia del principe
che rinuncia ai suoi diritti restituendo al popolo la libertà
dovette sembrare all'autore particolarmente consona agli avvenimenti
e agli spiriti di quegli anni se questa sola fra le sue operette
pubblicò nel 1787 e poi ancora nel 1789 unitamente all'ode Parigi
sbastigliato.
Ma a quello che è il tema suo per eccellenza, l'individuo in regime
non libero, si torna col dialogo La virtù sconosciuta, in cui nel
celebrare la «virtù», singolare dell'amico estinto, l'autore viene
delineando i modi di vivere e di pensare dei due amici, che
diversamente son riusciti a salvare la propria libertà, Vittorio
consacrandosi alla missione di scrittore, Francesco serbando
nell'oscurità in cui si è chiuso e sotto un abito di riserbo e di
tolleranza una assoluta libertà di giudizio e un animo
incontaminato, di tanto superiore alla propria condizione e più
ancora alla condizione dei tempi, anche se della sua «virtù
sconosciuta» altra memoria non rimarrà che in queste pagine a lui
dedicate. Per tal modo, oggetto di un colloquio che sembra
continuare i colloqui d'un tempo, si fa cosa intima il problema
dibattuto nella Tirannide e nel Principe, mentre l'autore ha modo di
discorrere di sé, dell'opera a cui attende, dei fini a cui mira, e
insieme di accennare alle proprie debolezze («... e se non sempre,
anzi le più rade volte, scorgerai nel mio pur troppo picciolo cuore
sane ed alte cagioni che il muovano»): un vero e proprio esame di
coscienza compiuto insieme dai due amici, che viene ad essere
l'avvio e il precedente primo della Vita. Agli spiriti della quale
ci sembra di avvertire un accenno là dove discorrendo Francesco del
«divino Plutarco» esce a dire che «a scrivere dei moderni.., non è
sorto ancora un Plutarco novello». E una «vita» plutarchiana vorrà
appunto essere l'autobiografia, se pur mirando a porre in risalto la
magnanimità e la grandezza dell'impresa compiuta non tacerà di
quelle debolezze a cui si allude nella Virtù sconosciuta, e che vi
saranno ricordate con accenti sdegnosi e sprezzanti.
Il «libero scrittore» del trattato prende infatti nella Vita un
nome: Vittorio Alfieri. Composta di getto, l'opera si è in realtà
preparata lentamente e segna il culmine di quel periodo di
riflessione e di ripiegamento su sé medesimo, seguito alla grande
fiammata della tragedia. L'hanno preparata i sonetti sopra ricordati
e i libri Del principe e delle lettere, e particolarmente quei
capitoli in cui è già delineata nel suo impulso primo e nelle sue
vicende l'opera del «libero scrittore»; l'hanno preparata i Pareri
sulle tragedie, nei quali l'autore si pone di fronte ad esse e
raffronta una per una le tragedie, uno per uno i personaggi all'idea
che gli sta nella mente, e la risposta al Calzabigi, nella quale tra
le affermazioni recise del credo estetico e morale dello scrittore
si fa sentire una voce più intima di confessione: «Ciò che mi mosse
a scrivere dapprima fu la noia e il tedio d'ogni cosa, misto a
bollor di gioventù, desiderio di gloria e necessità di occuparmi in
qualche maniera che fosse più confacente alla mia inclinazione».
Alla composizione dell'autobiografia furono forse anche uno stimolo
le Confessions del Rousseau, pubblicate nel 1781 e nel 1788 (e
questa seconda parte era stata oggetto di vivaci discussioni a
Parigi negli anni in cui l'A. vi dimorava e certo negli stessi
circoli da lui frequentati), ma se l'A. ne fu probabilmente
incoraggiato a fare di sé stesso e dei suoi ricordi più intimi
l'oggetto del suo scrivere (e un conforto all'opera trovò pure nei
Mémoires goldoniani, pubblicati nel 1787, e nella Vita del Cellini,
che si faceva leggere in quel tempo), dovette anche sentire
repugnanza per la sincerità ostentata dal ginevrino, che sembra
essere presa di mira nelle significative parole dell'Introduzione: e
se io non avrò forse il coraggio o l'indiscrezione di dir di me
tutto il vero, non avrò certamente la viltà di dir cosa che vera non
sia,. E per vero a questa promessa rimase fedele nella narrazione,
improntata da un aristocratico riserbo su certi fatti della vita
sua, ma assai più sulle persone a cui egli è stato legato, e nella
quale, se si può rilevare più d'una reticenza, non si è in fondo
riusciti a scoprire una sola vera menzogna.
Non è la sua una confessione, ma una «vita», tutta illuminata
dall'ideale a cui lo scrittore aveva tentato di uniformarsi e a cui,
nonostante incertezze, erramenti, debolezze sentiva di essersi
sostanzialmente conformato. Così la sua vita gli apparve dominata
dalla missione del «libero scrittore», incerta dapprima quando
quella missione ancora non gli si era fatta chiara, ma già ad essa
disposta per la forte indole, le violente passioni, la stessa
irrequietudine che trasparivano nella sua dissipazione, e tutta tesa
poi verso un unico scopo, quando la coscienza della propria
vocazione fece sì che lo scrittore indirizzasse tutte le sue forze
al fine proposto e si procacciasse le condizioni necessarie per il
libero esercizio della sua arte. Nelle quattro Epoche, Puerizia,
Adolescenza, Giovinezza, Virilità vediamo dispiegarsi quella vita,
più varia e complessa nelle prime tre, che narrano della remota
vocazione, dell'incertezza, delle contradizioni dell'ancor inconscio
poeta, monotona necessariamente la quarta, che ci mostra l'A. tutto
assorbito nella sua opera di tragico: e la coerenza dell'uomo che
guarda con uno sguardo fermo e sicuro al proprio passato, si
riflette nell'unità dello stile, il caratteristico stile alfieriano
che si libera da quel che di accademico aveva ancora nei trattati
politici e nella stessa Virtù sconosciuta, e ben rende
l'atteggiamento dello scrittore, giudice di sé medesimo, ora
orgoglioso dell'opera compiuta, ora sorridente per le proprie
tollerabili debolezze, ora irosamente sprezzante per la propria o
altrui pusillaniniltà.
La concezione della Vita non concede indugi evocativi e descrittivi:
il ricordo delle terre visitate o degli uomini conosciuti non deve
far deflettere lo scrittore dal compito propostosi di dare un
giudizio su sé medesimo, e l'A. infatti non abbandona nel parlare di
episodi della fanciullezza e dei viaggi dell'adolescenza e della
giovinezza il solito tono giudicante; tanto più suggestivi
s'impongono quegli episodi, quelle fisionomie di città, di paesi,
d'individui, rievocati di scorcio, chiusi in poche linee, in qualche
epiteto, talora, personalissimo. Bellissime fra tutte – e qui l'A.
sembra concedersi un maggiore indugio per la consonanza tra il
paesaggio e il suo animo – le pagine sul «luoghetto graziosissimo»
presso Marsiglia, dove il giovane ventenne soleva «passare una ora
di delizie fantasticando», o sulla navigazione attraverso il Baltico
gelato, e su «quel certo vasto indefinibile silenzio che regna in
quella atmosfera, ove ti parrebbe quasi d'essere fuor del globo», o
le altre sui «vasti deserti dell'Aragona», che lo scrittore
attraversava a piedi accanto al suo cavallo, «ruminando fra sé
stesso e piangendo alle volte dirottamente senza sapere di che e
nello stesso modo ridendo»: «Due cose, conclude lo scrittore
ritornando con un energico giudizio al motivo dominante
dell'autobiografia, che se non sono poi seguite da scritto nessuno
sono tenute per mera pazzia, e lo sono; se partoriscono scritti, si
chiamano poesia, e lo sono».
Pazzia o poesia, sono gli opposti termini tra i quali si muove la
vita deli'Alfieri: e le pagine più significative del libro sono
quelle nelle quali più chiaro si profila quest'intimo dramma dello
scrittore, le pagine sulle ineffabili angosce e malinconie della
giovinezza, sui furibondi impeti d'ira e sulla perenne
irrequietudine, e le altre della Epoca quarta, che dicono la gioia
della scoperta vocazione e la volontà di impossessarsi dei mezzi per
attuarla («Cadutomi dunque pienamente dagli occhi quel velo che fino
a quel punto me li avea sì fortemente ingombrati, io feci con me
stesso un solenne giuramento: che non risparmierei oramai né fatica
né noia nessuna per mettermi in grado di sapere la mia lingua
quant'uomo d'Italia... Fatto il giuramento, mi inabissai nel vortice
grammatichevole, come già Curzio nella voragine, tutto armato, e
guardandola»). Scialbe invece le pagine che ci allontanano da quel
centro vivo dell'animo alfieriano, tutte quelle in special modo
dedicate a persone care al poeta, la contessa d'Albany, l'abate di
Caluso, lo stesso Gori, i quali nonostante gli elogi altisonanti
rimangono nella Vita puri nomi: non soltanto per discrezione
signorile, che senza dubbio ha avuto la sua parte in questa
presentazione così generica, e tanto meno, come pur fu detto, perché
la figura del protagonista dovrebbe campeggiare nel deserto che la
circonda, simile a un personaggio delle sue tragedie, ma perché essi
devono rimanere al di fuori di quel che è la sostanza della Vita,
l'esame di coscienza dello scrittore.
È stato così concesso all'A. di dare un ritratto compiuto di sé
medesimo, che si è subito imposto all'ammirazione dei lettori più
ancora delle stesse tragedie, tanto che divenne un tempo vulgato il
giudizio che l'autobiografia fosse il suo capolavoro: ma se il
giudizio è contestabile, poiché nelle tragedie e in particolar modo
in alcuni personaggi o scene o accenti è con la rivelazione del più
intimo io dell'A. la sua poesia più profonda, la Vita è senza dubbio
il capolavoro del prosatore, contemperando mirabilmente ricordo e
giudizio, compendio del tutto armonico e fuso di quanto il poeta ha
sentito e pensato, una prosa abbandonata e pur sostenuta, personale
coi suoi incisi, epiteti, parole singole, così fortemente improntate
dell'individualità dello scrittore, e pur tale da non urtare mai il
lettore per un eccesso di singolarità che di troppo contrasti col
linguaggio a cui è avvezzo. Se nella ricerca dell'espressione
tragica il poeta aveva raggiunto una sua potente originalità, non
senza però lasciar traccia più d'una volta dello sforzo e residui e
scorie del tutto eterogenee al linguaggio suo, risolve invece nella
Vita con apparente agevolezza la «crisi della lingua settecentesca»,
offrendo un esempio che subito divenne popolare di una prosa moderna
insieme e rispettosa della tradizione linguistica.
Intorno alla Vita possiamo raccogliere le Rime della seconda parte,
pubblicate postume e composte. dal 1789 al '99, i settantuno sonetti
e la Teleutodia (oltre gli epigrammi e il già ricordato Capitolo ad
Andrea Chénier): se più non vi si trovano gli accenti drammatici che
si ammirano in qualche sonetto della prima parte, più rare si fanno
le diseguaglianze e le asprezze, e domina invece di solito un tono
riflessivo, lontano dall'impeto lirico ma non privo di una sua
contenuta commozione. È in queste Rime come nella Vita la calma di
chi guarda il cammino compiuto: un A. che riflette su sé stesso,
sulla sua nobile origine, sulla sua arte, su quel che era stato per
lui il sapere, non scienza ma passione, sulla gloria, illusione
forse ma illusione benefica e vitale, sul sacro nome di poeta e su
coloro che soli possono del poeta ergersi a giudici («Ma prezzar
quelli, che il furor natio / sforza a dir carmi a Verità devoti, /
non l'osi no chi non è Vate o Iddio»), sull'avversione sua alla
storia, per cui si sente negato, e ancora una volta sull'ideale
dell'uomo libero, di cui viene a comporre come un monumento («Uom di
sensi e di cor libero nato»), e discorre senza gli accenti tragici
di un giorno, della compagna della sua solitudine, la Melanconia, e
sa come non mai per l'innanzi penetrare addentro nel proprio animo e
scoprire la profonda ragione della sua costante tristezza,
nell'ansia di una grandezza più che umana, non mai placata e non mai
placabile («Cose omai viste, e a sazietà riviste, / sempre vedrai,
s'anco mill'anni vivi: / e studia, e ascolta, e pensa, e inventa, e
scrivi / mai non fia ch'oltre l'uom passo ti acquiste»). Ben si
addice a queste rime l'epiteto di postume, non soltanto perché
questa raccolta doveva nelle sue intenzioni essere pubblicata dopo
la sua morte, ma perché componendola l'autore le pensa come tali, e
alla sua vita guarda come cosa compiuta. Presente in tutte il
pensiero della morte si fa più esplicito in alcuni sonetti: Pieno il
non empio, Io 'l giurerò, Chiuso in sè stesso, Del mio decimo
lustro, Già il feretro: ma non più come nei sonetti della prima
parte o come nelle tragedie i suoi eroi, il poeta affretta la morte
col desiderio, o la sfida o invoca; non più fantasma pauroso o
affascinante essa gli sta ora dinanzi come la grande ministra di
giustizia ed egli a lei si affida placati ormai i suoi fremiti e la
sua angoscia. È questo il motivo di quel che doveva essere l'ultima
sua composizione poetica, il congedo dalla poesia del poeta
cinquantenne, che grecizzando la intitolò Teleutodia. Senonché
rispetto ai sonetti il discorso poetico rimane estrinseco se non nei
versi ultimi, in cui il motivo ispiratore si fissa come in
un'epigrafe o in un monumento sepolcrale: «Ma di mia cetra orbato, /
pago di sogni, or fia che intanto io resti, / muto aspettando il non
lontan mio fato».
Non tutte le rime che egli veniva componendo in quegli anni
compaiono in questo volume delle opere postume: prescindendo da
alcune a cui non diede l'ultima mano e che furon pubblicate in tempo
più recente, parecchie gli parvero più adatte ad essere raccolte in
un libro a sé per il ricorrente motivo di polemica contro i
rivoluzionari di Francia. L'idea di farne un libro accrescendolo di
alcune prose gli venne pare intorno al 1793: un'«operuccia, per
usare le sue parole, nata a pezzi ed a caso», si da presentarsi come
«un mostruoso aggregato d'intarsiature diverse», il Misogallo, che
sia nel titolo e nella stessa bizzarria della composizione che nel
rame allegorico dell'antiporta rispecchia il carattere dell'A. in
quegli anni e la lotta disperata e solitaria da lui intrapresa. Sono
cinque prose, un'ode, quarantasei sonetti, sessantatré epigrammi con
frequenti note, che ne ribadiscono i concetti. Uno sdegno rovente e
nel profondo una segreta angoscia dominano queste pagine, che
vogliono rivendicare l'ideale di libertà, tradito a giudizio del
poeta da quegli stessi che se n'erano fatti apostoli e che egli qui
con energia riafferma (per esempio nei sonetti Di libertà maestri i
Galli ?; È repubblica il suolo ove divine): l'A. che odia i nuovi
rivoluzionari e non può nemmeno consentire con coloro che la
rivoluzione combattono, vorrebbe atteggiarsi eroicamente nella
propria solitudine («Tenea '1 Ciel dai ribaldi, Alfier dai buoni»),
ma finisce per irrigidirsi in uno sterile odio, sfogandosi in satire
ed epigrammi talora feroci, talora meschini («Composti, scrisse il
Foscolo, piuttosto con dispettosa stizza che con vivace acutezza»),
contro i Francesi tutti, contro i capi e i generali della
rivoluzione, senza risparmiare d'altra parte i loro nemici («Ben
tutta è lezzo nostra Europa infame») e la gente di chiesa,
satireggiata con motti pungenti come forse in nessun'altra
precedente opera. Su questo stato d'animo doloroso e negativo
l'autore tenta di sollevarsi rinfrancandosi nel pensiero
dell'Italia, di quell'Italia a cui si rivolge nella «prosa prima»,
dedicata «Alla passata presente e futura Italia», auspicandone il
risorgimento («Quella che un giorno – quando ch'ei sia –
indubitabilmente sei per risorgere, virtuosa, magnanima, libera ed
una»), e la cui immagine compare consolatrice nella profezia del
sonetto composto nel 1795 con cui volle concludere il libricciolo:
Giorno verrà, tornerà il giorno... Al cospetto delle presenti
calamità si accentua in lui il sentimento nazionale, ed egli non si
sente più solo quando invita gli Italiani tutti a far proprio il suo
odio e a riconoscere sé stessi in questo sentimento, ritrovandosi
finalmente uni contro lo straniero: ma proprio in questa prosa, in
cui si celebrano gli «odi nazionali» come «parte preziosissima del
paterno retaggio», ci mostra com'egli non sappia sollevarsi sopra
una concezione puramente passionale e fondamentalmente
individualistica della nazione, e se nel sonetto Di libertà maestri
i Galli sembra riconoscere nei connazionali il suo stesso sentire:
«Schiavi or siam sì; ma schiavi almen frementi» di fatto l'Italia è
soltanto nella e prosa prima, e nel sonetto finale. Nel libro è l'A.
solo nella sua vana donchisciottesca battaglia: «Nel fango i vili
intanto al suol conficco», l'A. che ancora una volta ripete quanto
già scrisse in passato in prosa e in rima: «Il mio nome è Vittorio
Alfieri: il luogo dove io son nato, l'Italia: nessuna terra mi è
Patria», e l'invasione dei Francesi non saprà commentare se non con
questo mediocre epigramma: «Non è dai Galli, oibò, l'Italia invasa:
/ Gli è tutto pan di casa, / L'una fogna nell'altra si travasa».
Più conformi agli spiriti alfieriani dei tempi migliori sono per
accenti di tragica grandezza sonetti come Impetuoso Borea stridente,
in cui la tempesta della rivoluzione aborrita acquista una sua
grandiosità, o quelli sulla morte della principessa di Lamballe, di
Luigi XVI, di Maria Antonietta, e notevoli per più d'una pagina le
prose, quella già ricordata All'Italia, La ragione dell'opera, Le
ultime parole del re, il Dialogo fra un liberto ed un uomo libero, e
particolarmente nella «Prosa prima» la narrazione dei primordi
rivoluzionari e lo sforzo che l'A. fa di precisare ulteriormente il
suo pensiero morale e politico, il principio del «forte sentire», da
cui trae deduzioni di sapore machiavellico («Negli uomini in
generale, principalmente amiam noi il forte sentire, che è il fonte
verace d'ogni bene buono, come altresì d'ogni male buono; che io
avrò pur la temerità di dar questo epiteto al male, allorché egli,
da passioni ardenti ed altissime procreato, si fa di altissimi
effetti cagione»), e il suo concetto di libertà: «Nella vera civil
libertà, la storia di quei pochissimi popoli che la possedevano, mi
facea chiaramente vedere compresa la massima possibilità per l'uomo
di ottenere una più utile e più durevole gloria». Era qui la sua
difesa estrema contro, per dirla col Carducci, «quegli avvocatucci
di Parigi che gli aveano sequestrato, più ancora delle rendite e dei
libri, la sua repubblica classica» e per i quali egli coniò ad
esprimere il suo distacco e disprezzo («La mia repubblica non è la
loro») il termine di «repubblichini».
Più antico degli avvenimenti di Francia era il disegno delle Satire,
non soltanto perché, come egli ebbe a dire nella Vita, «per natura
sua prima a nessuna altra cosa inclinava quanto alla satira», ma
perché pur facendo forza a quella inclinazione aveva già nei primi
anni dell'attività tragica, nel 1777, abbozzato una satira, Il
galanteismo, intorno a quel vivere da cui appena si andava
liberando, e poi quell'abbozzo aveva ripreso sulla fine del 1786 col
titolo di Cavalier servente veterano, vagheggiando già forse sin
d'allora un corpus satirico che avrebbe compiuto ed integrato in una
nuova forma i pensieri dei trattati politici: il piano però fu
ripreso soltanto nel 1793, nel tempo stesso in cui la sua vena
polemica si andava sfogando negli epigrammi misogallici, e
proseguito negli anni seguenti e con maggior alacrità e fecondità
nel 1797, quando il Misogallo era ormai pressoché compiuto, sì che
nel 1798 poté far copiare tutte le Satire, che compreso il Prologo,
Il cavalier servente veterano, sono diciassette (I re, I grandi, La
plebe, La sesquiplebe, Le leggi, L'educazione, L'antireligioneria, I
pedanti, I maggi, I duelli, La filantropineria, Il commercio, I
debiti, La milizia, Le imposture, Le donne), e compiacersi
dell'opera propria come un saggio di quel che a lui pareva la vera
satira richiesta dalle condizioni d'Italia, così correggendo nella
redazione definitiva della Vita la semplice menzine del Panni:
«L'originalissimo autore del Mattino, vero precursore della futura
satira italiana».
Della sua nuova satira dice gli spiriti e gli intenti il Prologo, in
cui il poeta finge di incontrare, mentre esce, nuovo Giovenale, a
combattere con la spada contro i vizi e gli errori, un «cavalier
servente veterano», l'eroe del Giorno, invecchiato e più che mai
infemminito, creatura nulla, vittima di una vita misera e oziosa, e
sdegnosamente se ne allontana, dichiarando di serbare la propria ira
«a miglior tema e a men volgar nemico»: a una satira più radicale
egli mira, che non indugi a ritrarre, come ha fatto il Parini,
qualche aspetto della corruzione della società («O tu ch'effetto sei
più che cagione / Dell'odierno italian fetore...»), ma colpisca
quelle che per lui sono le cause della presente corruzione e dei
mali tutti del tempo suo. Tale satira svolge, nel metro ormai
tradizionale della terzina, in un discorso serrato, alieno dai
quadretti e dai ritratti comuni agli altri poeti satirici, una prosa
rimata sui generis, a cui il verso e la rima accrescono efficacia e
che si aguzza in frequenti sentenze epigrammatiche. Ne balza,
presente sempre, qualunque sia l'argomento del discorso, la figura
dell'autore, il quale (sono sue parole) «sillogizza con severo brio
o meglio armeggia come schermitore, orgoglioso della propria forza e
della propria arte, contro gli uomini tutti che lo circondano, e il
sorriso suo è sempre, diremmo, il sorriso con cui uno schermitore
accompagna una botta bene assestata. Concepite in parte almeno prima
della rivoluzione e composte quando si era ormai maturato il suo
atteggiamento negativo di fronte ai rivoluzionari, le Satire
sottolineano la posizione dell'A., avverso all'una e all'altra delle
parti contendenti. Ai re sa dire soltanto: «Per far ottimo re
convien disfarlo» (aggiungendo peraltro: «Sol osi i re disfare un
popol fatto»), e delle monarchie europee colpisce ancora una volta
con parole severe uno dei precipui sostegni, gli eserciti che si fan
sempre più forti (La milizia); ma se mette a nudo l'abiezione della
nobiltà cortigiana (I grandi), non risparmia d'altra parte la plebe
e meno ancora l'aborrito ceto medio, la «sesquiplebe» e contro i
predicatori delle nuove idee di libertà, uguaglianza, fratellanza
scaglia le tre satire (L'antireligioneria, La filantropineria, Le
imposture), in cui si contrappone l'opera dei fondatori di
religioni, Mosè, Cristo, Maometto, ispiratori di forti fatti e di
forte sentire, alla, a suo giudizio, sterile negazione del Voltaire,
«disinventore od inventor del Nulla» e si fa scherno
dell'umanitarismo settecentesco, che sembra tragicamente contradirsi
nelle stragi della rivoluzione: «In nome della Santa Umanità / Chi
vuol che i rei s'impicchino, si uccida. / E in nome della Santa
Libertà / Chi non crede in Voltero e in noi, si uccida: / A farla
breve e ripurgare il mondo, / Ogni ente non filosofo, si uccida».
Più acerbo e sprezzante l'antico sdegno per «l'obeso impudente idolo
sporco», il commercio, soggetto di un'altra satira, in cui lo
scrittore si fa beffe di quello che a lui pare un altro dei
fanatismi dei contemporanei vagheggianti stati floridi per commerci
e divenuti popolosi per floridezza economica e chiede perché si
debbano procacciare migliori condizioni economiche e aumentare per
questa via il numero dei nostri simili: «Al vero onor d'umanità che
importa / Che di tal bachi tanti ne sfarfalli / Sol per moltiplicar
la gente morta?». Soltanto le donne, oggetto tradizionale della
poesia satirica, risparmia affermando nella breve satira a loro
dedicata che dei loro vizi sono responsabili gli uomini. Ma un
sorriso più disteso e quasi un riposo si concede nella satira I
pedanti (forse la meglio riuscita), tratteggiando la figura di uno
dei suoi censori, che altra volta lo avevano amareggiato, ma di cui
ora può fare la caricatura con animo più sereno, tanto sicuro ormai
si sente, tanto meno pericolosi e odiosi di altri avversari sono
questi letterati; e. riprendendo la materia dell'autobiografia
abbozzata nei due capitoli I viaggi ne accentua il tono polemico
contro sé stesso e gli uomini e i paesi incontrati, ma non tralascia
accenti di poetica nostalgia: «Bella Napoli, oh quanto, i primi dì!
/ Chiaia, il Vesuvio, e Portici, e Toledo...» «Svezia ferrigna, ed
animosa e parca / Coi monti e selve e laghi mi diletta...»,. A sé
poi sta L'educazione, rapida, sarcastica scena di commedia: dialogo
tra un conte borioso e un povero prete, don Raglia di Bastiero, a
cui viene affidata, con altre incombenze, l'educazione dei sei
rampolli della nobile famiglia, pietosa e sprezzata figura di
meschino pedagogo, che avrà nella casa meno importanza del
cocchiere. A rafforzare l'effetto satirico contribuisce, con la
violenza dello stile e la cruda brevità, quel prepotente
neologizzare, tutto alfieriano, che è come il segno della volontà
polemica dell'autore e fa perciò nelle Satire la sua maggior prova.
Antico pure il proposito di scriver commedie, attestato, oltreché
dalla farsetta I poeti, che fu recitata dopo la Cleopatra, dai
«primissinii pensieri comici» del 1788 (schemi di due commedie, I
buoni uomini sull'elezione pontificia e Il buon marito sui casi
dell'imperatore Claudio), dai «secondi pensieri comici», del 1788 e
dai «terzi pensieri comici»del 1790, dodici e undici titoli di
commedie (La Monarchia, L'Aristocrazia, La Democrazia, Gli Oracoli,
La Ribellione, Il Divorzio, L'Accademia, Il Conclave,
L'Accampamento, Il Senato, Gli Uomini, Il Teatro), alle quali,
secondo il disegno del 1790, doveva, soppresse due commedie del
precedente elenco, essere preposta una commedia-proemio sull'autore
stesso in preda all'accidia, incerto sempre tra il volere e il
disvolere, che infine anziché sposare la principessa Nulla «si
disinganna e rompe tutto e sposa la Commedia». Vi si preparava
intanto traducendo dal '90 al '93 le commedie di Terenzio: ma
soltanto nel 18oo, «nel più triste momento di schiavitù», stupito
egli stesso del nuovo inatteso fervore creativo, e ideò. in pochi
giorni sei commedie, rinunciando al più ampio disegno di dieci anni
innanzi e a quelle sei commedie (La Tetralogia politica, La
Finestrina, Il Divorzio) egli attese nei tre anni seguenti («ché
l'estate come le cicale io canto») stendendole secondo il suo metodo
in prosa e poi verseggiandole e infine correggendole per la
redazione definitiva: non riuscì in questo lavoro di revisione,
compiuto per le quattro prime commedie, ad andar oltre la scena VIII
dell'atto III della Finestrina e lasciò del Divorzio soltanto la
prima versificazione.
«Giovine piansi, or vecchio omai vo' ridere» è il motto da lui
apposto alle Commedie: vero è, come ci suggeriscono quei disegni e
come traspare qua e là da sue confessioni, che era in lui una vena
comica alimentata da un'irosa insofferenza per le debolezze proprie
ed altrui, motivo costante e complementare dell'aspirazione eroica e
dell'impeto polemico delle tragedie e dei trattati. L'aveva repressa
fino a che l'ardore tragico e la coscienza di vate l'avevano
sostenuto: ma a quel fondo dell'animo suo egli attinse quando venuti
meno anche gli spiriti agonistici del Misogallo e delle Satire,
altra materia non restò per il suo poetare se non «la vera e scaltra
trista natura nostra» vale a dire il mondo degli uomini quale gli
appariva appena lo abbandonava l'entusiasmo per i pochi grandi (ma
essi erano pure in tutto tali? «Il grand'uomo, è pure uomo, e quindi
piccolissima cosa è anch'egli» e che egli giudicava senza
indulgenza, anzi diremmo senza comprensione della complessa realtà
morale di ogni uomo. Perciò il suo riso è del tutto privo di umana
simpatia, né vale a sollevare l'animo suo e dei lettori: ad
accentuarne poi questo carattere contribuirono le condizioni di
spirito del poeta nel tempo in cui concepì e stese quest'ultimo suo
lavoro, la solitudine in cui si era chiuso, sottolineata dal
linguaggio in cui compaiono più insistenti e gratuiti che in altri
suoi scritti vocaboli e modi strani ed eterocliti, segno di una
opera che nemmeno cerca o attende più la comunione con altri
spiriti. Di qui la scarsa fortuna delle Commedie giudicate, a tacer
d'altri dall'alfieriano Foscolo, «un modello di stravaganza». Ma
esse ben segnano la fine della parabola dell'A., che ritrova alla
conclusione della sua carriera letteraria, con un'antica amarezza,
il fondamento della sua cultura e della sua educazione. Di lì era
partito, ma nella giovinezza ribelle e poetica anche il suo
pessimismo aveva avuto un accento eroico, ora invece è mera
negazione, e della cultura illuministica, che è stata ed è ancora la
sua, egli rileva soltanto quel che in essa è di negativo. Le
commedie nascono come antitesi delle tragedie, e rappresentano il
rovescio di quel mondo eroico che delle tragedie era stato il
soggetto mettendo in luce i moventi meschini che hanno ispirato le
azioni dei più grandi personaggi dell'antichità, celebrati da
storici e da poeti: e satira di sapore volterrano ma priva della
fede del Voltaire nei valori della ragione e dell'umanità è quella
che si svolge nelle commedie politiche, L'Uno, I Pochi, I Troppi, e
nella Finestrina, che delle prime tre è la vera conclusione ben più
che lo scialbo Antidoto.
Non tanto i vizi intrinseci a tre diversi regimi, il monarchico,
l'aristocratico, il democratico, l'A. infatti prende di mira nelle
prime tre, quanto vizi più profondi radicati nella natura umana.
Così ne L'Uno si svelano i mezzi con cui un grande principe come
Dario giunge al trono, piccole arti femminili, suggerimenti di
imbroglioni, connivenza di sacerdoti (e qui l'A. è più che mai
vicino all'odiato e non mai dimenticato Voltaire) e infine un
volgarissimo inganno d'uno stalliere: ma come altrimenti si giunge
ad un trono? Più acerba però la satira de I pochi, commedia
tipicamente antiplutarchiana. Il sacrifizio dei Gracchi per il
«popolo» il magnanimo tentativo delle leggi agrarie? La meschina
ambizione di due nobilucci delusi nei loro intrighi, eccitati dalla
boria nobiliare della madre ( e qui soccorrono senza dubbio il poeta
ricordi di persone a lui ben note) e consigliati da parassiti
greculi: ecco il movente primo delle famose leggi, strumento di
vendetta dei due fratelli contro i rivali aristocratici. La
commedia, che ci rivela l'antefatto della storica lotta dei Gracchi
contro l'oligarchia romana, è tutta tesa verso le ultime battute e
assume la parvenza di un epigramma. E una serie di epigrammi più
arguti e più vari è l'altra commedia antiplutarchiana, I Troppi, in
cui vediamo Alessandro, il leggendario conquistatore dell'Oriente in
cerca di mezzucci per non urtare le ridicole suscettibilità dei
Greci e messo in impicci dalla rivalità e dagli intrighi delle
con-sorti, e Demostene capo dell'ambasceria ateniese (e qui l'A.
satireggia improvvisati politici di Francia e delle nuove
repubbliche italiane), preoccupato soltanto di mantenere l'apparenza
di campione incorrotto della libertà agli occhi dei concittadini e
prontissimo a transigere nella sostanza per i motivi più volgari.
Ricompaiono nell'Antidoto, evocate da un mago, le ombre di Dario, di
Gaio Gracco e di Demostene a rivelare agli uomini i mali dei regimi
di cui essi sono stati i rappresentanti e per opera di quel buon
mago si riconciliano il principe, i nobili e la plebe e può
finalmente nascere una bellissima fanciulla destinata a portare in
terra la vera e sicura libertà: «Tre veleni rimesta e avrai
l'antidoto». Ma la fede dell'A. in questo miracolo è così debole che
la commedia rimane una fredda escogitazione, una faticosa allegoria,
tanto più forte gli s'imponeva la considerazione dei mali umani,
della perenne volgarità presente nella corte di Dario, come nelle
piazze di Roma ove contrastano i pochi, o in quelle d'Atene ove
dominano i troppi. Vano perciò cercare, come un tempo si è fatto, in
questa arida e cerebrale commedia quella che sarebbe la parola
ultima del pensiero politico affieriano, il riconoscimento della
monarchia costituzionale come il migliore dei regimi. Tanto più
significativa è La Finestrina, la commedia infernale che vorrebbe
dimostrare come non si possa, non si debba indagare nell'intimo dei
cuori perché troppa impurità svelerebbero anche i più nobili animi.
Chi potrebbe sottomettersi alla prova di Mercurio di rivelare
l'animo proprio lasciando aprire una finestrina attraverso la quale
esso si rivela a nudo? L'invenzione è stata suggerita da Luciano, ma
l'A. intendeva di fare cosa «aristofanica», secondo il modello di
quelle Rane che aveva tradotto nel 1797: di fatto l'opera di
Mercurio, scrutante nel petto delle anime che si presentano ai
giudici infernali, non è diversa dall'opera dell'A. poeta comico,
che scopriva ignobili moventi delle azioni dei Gracchi o la
ipocrisia ridicola di Demostene, e qui colpisce insieme con
l'ipocrita caposetta Maometto il despota illuminato Saturnisco
(caricatura di un sovrano riformatore del Settecento) e Confucio, il
filosofo pacifico Confucio, il modello idoleggiato dal Voltaire e
dagli enciclopedisti, non meno, ipocrita dell'altro ed opposto
idolo, il «fanatico» Maometto. Che rimane della umanità messa così a
nudo, sia nella vita pubblica che nella vita privata? Pochi
individui, quel Gobria ne L' Uno, che si allontana per sempre dalla
corte di Dario suo amico, quando questi è eletto re, il Calano dei
Troppi, il filosofo indiano che si sottrae col suicidio alla
tirannide del Macedone, e infine nella Finestrina Omero, il quale
viene a ricordare come i poeti, nonostante le umane debolezze siano,
se liberi, più puri degli altri uomini, e «per lo più i soli che
possono con meno scapito spalancare il loro cuore». Ma è questo un
concetto a cui si accenna soltanto in poche battute e in una nota
marginale non svolta nella commedia: anche l'idea del libero poeta
non riesce a rischiarare quest'ultima dolorosa opera dell'Alfieri.
Il quale alle precedenti, con cui si proponeva di ricavare dalla
tragedia la commedia, fece seguire una sesta, Il Divorzio, di cui
meno si compiacque perché, scrisse, «nell'andamento moderno di tutte
le commedie che si vanno facendo e delle quali se ne può fare a
dozzina imbrattando il pennello nello sterco che si ha giornalmente
sotto gli occhi». A differenza delle altre si ricongiunge nella
materia non solo ma nella intenzione e nel tono a satire come Il
Cavalier servente veterano e L'Educazione, e riprendendo come in
quelle satire temi del Goldoni e del Parini ne capovolge lo spirito,
sottolineando ad ogni battuta la violenta avversione per il mondo
rappresentato, a cominciare dal titolo stesso che è un epigramma,
poiché sta a significare che «il matrimonio italico è un divorzio»,
fino alla chiusa che è un ultimo sfogo dell'umore del poeta:
«Spettatori, fischiate a tutto andare / L'autor, gli attori, e
l'Italia, e voi stessi. / Questo è l'applauso debito ai vostr'usi».
Questa avversione imprime a tutta la commedia una sua forza
dispettosa: soggetto ne sono le vicende matrimoniali della giovane
Lucrezia Cherdalosi, che finisce per stancare con la sua civetteria
e prepotenza il buon giovane di lei innamorato e si adatta alle
nozze col maturo Fabrizio Stomaconi per amore delle ricchezze di lui
e della propria libertà, sanzionata nei patti di un ridicolo
contratto nuziale: piuttosto che un carattere una caricatura
sprezzante, come caricature sono la madre, vera despota della casa,
ingannata alla fine dalla figlia che prende per sé i cavalieri
serventi di lei, il padre, amante sopra tutto del denaro, i
cavalieri serventi e don Tramezzino, prete factotum, disprezzato e
indispensabile. Manca s'intende l'indugio amoroso dell'artistà sulle
sue creature, ma traluce qua e là in questa rappresentazione amara e
sarcastica di un piccolo mondo dell'Italia settecentesca l'antico
spirito tragico, sopra tutto nella scena in cui madre e figlia sono
di fronte, ben consapevoli l'una e l'altra dei sentimenti veri
dell'avversaria e rivale: ultima eco della maggiore poesia del
tragico.
Fortuna.
Come si è accennato nella biografia, l'opera alfieriana suscitò fin
dal suo primo apparire vivacissime reazioni, ma anche con un senso
di sorpresa ammirazione per la sua novità, per l'autore «uomo
veramente straordinario» (A. Veri). Caratteristica la costante
diffidenza di Vincenzo Monti, il quale poté trarre qualche
suggestione dalle tragedie alfieriane ed anche celebrare il poeta in
un componimento d'occasione per l'inaugurazione di un busto al
teatro Filodrammtici di Milano nel 1805, ma rimase nell'intimo
lontano da quella poesia e per il contenuto e per lo stile e avverso
all'entusiasmo di tanti che non sapeva comprendere: perciò plaudiva
alla critica del Carmignani che avrebbe dovuto «aprire gli occhi
alla gioventù, che si lascia facilmente abbagliare dalle novità
grandiose» concedendo che «la fama di quel sommo ingegno, si rimarrà
sempre colossale ma isolata e sorgente come un grande scoglio in
mezzo alle onde, al quale nessuno potrà accostarsi senza pericolo»
(18o6), e più esplicitamente affermando in altra lettera (1807): «È
forza che l'Italia, o presto o tardi, si persuada che Alfieri è un
grande ingegno, ma mancante di gusto nel verseggiare, e il rovescio
della natura nel dipingere le passioni, che in lui sono tutte affare
di testa senza licenza del cuore». Tanto più notevole di fronte a
tali persistenti incomprensioni il consenso pieno di un poeta più
anziano e così differente dall'A. come il Parini, il cui giudizio
intelligente sulla tragedia alfieriana ci è stato tramandato dal
Reina, e che meglio di altri fin dal 1783 aveva espresso il
sentimento di lettori non prevenuti di fronte a questa nuova poesia
nel sonetto Quanta già di coturni, in cui se ne riconosce l'intima
ispirazione («Come dal cupo ove gli affetti han regno / Trai del
vero e del grande accesi lampi: / E le poste a' tuoi colpi anime
segno / Pien d'inusato ardir scuoti ed avvampi»), e poi
nell'ipotiposi, rimasta memorabile, del Dono («Queste che il fiero
Allobrogo / Note piene d'affanni...»), anche se l'ode per il
contrasto fra le immagini delle tragedie alfieriane e le bellezze
della gentile donatrice si risolve in un elegante madrigale e par
così segnare il confine fra i mondi ideali dei due poeti.
Frammezzo alle critiche un simile riconoscimento si avverte pure
nella lettera di Ranieri de' Calzabigi, al quale l'A. sembrava come
il Curzio Rufo di Tacito «nato da sé, creatore di una maniera tutta
sua» e paragonabile se mai e per l'energia, per la brevità e per la
fierezza a Shakespeare più che a qualunque altro,. Né va trascurato
come testimonianza dell'impressione lasciata dall'A. uomo e poeta
nei contemporanei il «ritratto» di Isabella Albrizzi che lo conobbe
nel 1796. «Si direbbe quasi che in quel volto l'immagine respiri di
una divinità corrucciata. Quel certo splendore che dopo d'avergli
quasi dorati i capelli pare che si diffonda per tutta la faccia e
l'irradi: e quegli occhi che ora ci rivolge con lunghi sguardi al
cielo, ed ora tiene immobilmente confitti al suolo, un essere ti
annunziano straordinario del tutto...» L'Albrizzi conclude
accennando ai «varii e disparatissimi giudizi che di lui daranno
quanti saranno gli uomini» a cui se ne faccia richiesta; e qualche
anno dopo (1813) il Napoli Signorelli si chiederà: «Come parlare
delle tragedie del conte V. A. senza farsi de' nemici?».
Veramente l'A. fu segno di contradizione per lo spirito
rivoluzionario della sua arte, che si staccava così risolutamente
nel contenuto e nella forma dagli esemplari presenti ai suoi lettori
e palesemente si informava a una concezione di vita e non solo di
poesia in contrasto con la loro. Significativa per questo più di
altri scritti ispirati a simili sensi, la Lettera al canonico De
Giovanni (1793) del Bettinelli, decisamente avverso a un'opera in
cui sente il medesimo spirito di sovversione dei rivoluzionari di
Francia e che gli sembra la negazione della poesia. «Questi è un
politico che vuol fare il poeta... un capopopolo, un nuovo Bruto,
Cromwell, Catilina»: «Come un tal animo potrà piegarsi alla poesia
che è un'arte amabile, un divertimento?...». Ma l'arte dell'A, era
agli antipodi di questo, edonismo estetico, e le sue tragedie ben
diverse da quelle del Voltaire, che, non così esclusivamente
politiche come le alfieriane, a giudizio del Bettinelli,
costituivano per lui e per gli altri critici un termine di paragone,
e di condanna, del nuovo tragico. Né più indulgenza trovava lo
stile, formatosi certo sui grandi esemplari, ma più che su di ogni
altro, e questo non era un merito per il Bettinelli, su Dante: «Egli
ha studiato Petrarca, Ariosto e Dante, ma l'ultimo solo campeggia
nel suo stile, perché è il più robusto, e però il vidi ognor
preferito dai pensatori in poesia», ossia da chi a suo credere poeta
non era.
Anche per il Calzabigi l'accostamento a Dante aveva valore di
biasimo: «Qualora l'elegante leggiadria se gli presenta naturalmente
sotto la penna, ella la fugge; e preferisce l'espressione forte ma
inceppata, e anche dura dantesca»: si desiderava piuttosto, come lo
stesso critico scrisse in altra lettera al Pepoli, una tragedia che
parlasse diversamente dall'alfieriana, non alla «mente» ma al
«core», e non distogliesse dal «tenero e soave versar delle lacrime»
secondo un gusto di un facile patetismo, che è tutt'altra cosa del
pathos profondo dell'Alfieri. Così Pietro Verri non riusciva a
condividere l'ammirazione del fratello e rimaneva perplesso perché
nelle tragedie alfieriane «la virtù vi rimane sempre punita e il
vizio impune» mentre il teatro francese ha sempre in vista la
morale; e per lui la «prima qualità» di un'opera poetica era «quella
di contribuire ai progressi della virtù e dei lumi e che la grazia,
l'immaginazione dirigano l'arte a quel fine e spargano i fiori sul
sentiero che guida l'uomo alla verità ed al bene»: per tal via uno
dei campioni più arditi dell'illuminismo faceva proprie le riserve
di spiriti retrivi, pago com'era di un'arte estrinsecamente
didattica e sentimentale, di una moralità idillica, ignara
dell'intima tragicità della vita. Non diversamente si esprimeva a
proposito della Mirra l'ex gesuita Arteaga, chiedendosi quali
vantaggi abbia a ritrarre per l'innocenza e per la pietà da quella
tragedia «l'attuale nostro sistema di morale e di religione»: «Veggo
bensì, veggo purtroppo che in uno spirito riflessivo e coerente le
conseguenze immediate che tali dipinture fanno nascere, non sono né
possono essere che il dispetto contro la Provvidenza, l'aborrimento
dell'umana condizione e la sconsolante indolenza che viene prodotta
dal fatalismo». Ancora nel 1806 in un opuscolo Sopra le tragedie di
V. A. dello Schedoni si affermava che esse sono immorali perché
mostrano «schernite le leggi, soppressi i deboli» e perché vi
«domina la sovversione d'ogni principio, quell'anarchia della
politica e della morale che immerse la Francia negli orrori estremi
della sociale dissoluzione». Più accanito nel suo rabbioso
conservatorismo il Galeani-Napione, che si vantò di esser stato
sempre avverso alle tragedie alfieriane, lamentando che avessero
trovato consensi fra qualche nobile piemontese, se non fra gli
uomini di gusto, e le sue osservazioni scritte da tempo pubblicò
nella lettera al Benedetti (1818) a proposito del suo Discorso
intorno al teatro italiano, poco benevolo per l'A.: vi tornano
appesantite le solite accuse di immoralità e di durezza di stile
(«Tante scelleraggini non si potevano immaginare fuorché da uno
scellerato»; «Gli argomenti paiono scelti da un carnefice e
verseggiati da un cannibale»; l'autore confessa di «piangere come un
ragazzo alle opere del Metastasio e di spaventarsi come una
donnicciuola alle tragedie dell'Alfieri») e si conclude che quelle
tragedie «essendo state foggiate sulla letteratura francese
corruttrice della religione, dei buoni costumi e sovvertitrice di
ogni buon ordine conducono all'immoralità e al robespierranismo» –
gli rispose con un articoletto sferzante Giuseppe Pecchio nel n. 47
del Conciliatore.
Ma la lettera del Galeani-Napione era voce di un sopravissuto: da
tempo ormai l'A. aveva superato i primi contrasti divenendo parte
viva della nuova cultura letteraria e politica. «Alfieri, come
scrisse il Balbo nella Vita di Dante, ebbe seguaci lontani, ignoti e
forse di-sprezzati da lui; tutta la generazione allor sorgente»: e
già nel 1826 Francesco Salfi nel Résumé de l'histoire de la
littérature italienne aveva scritto: «Le tragedie dell'Alfieri
ebbero più che non credesi una grand'influenza sullo spirito degli
italiani e della loro letteratura, e contribuì più che qualunque
altro scrittore all'educazione di quella novella generazione, scopo
di tutte le sue cure, che si forma e sviluppa a norma delle sue
massime...». Di fatto nell'età rivoluzionaria si viene affermando e
diffondendo l'opera alfieriana: furono allora nei teatri
«patriottici» delle nuove repubbliche a Milano, a Bologna, a Napoli
e in altre città rappresentate le sue tragedie; con deferenza a lui
cercavano di accostarsi uomini di governo e militari della Francia
rivoluzionaria come il Ginguené e il Miollis (e il Ginguené ancora
nel 1802 si faceva difensore degli spiriti di libertà del poeta
discutendo quel che ne aveva scritto il Petitot traduttore delle
trageclic in un'ampia introduzione, in cui si metteva in rilievo
l'atteggiamento antirivoluzionano dell'ultimo A.); vivente, nel
gennaio 1802 la città di Asti gli decretava pubbliche ononanze; e il
Reina nello stesso anno gli dedicava il secondo volume delle opere
del Parini con una pagina eloquente in cui si legge fra l'altro: «Tu
solo fra' viventi scrittori sei reputato pari a lui nella poetica
eccellenza, ne' liberi sensi veracemente italiani, e nell'amore di
quella patria che le sublimi, energiche, caldissime vostre
composizioni nell'entusiasmo ispiratoci dalle circostanze nuove e
dall'antica nostra grandezza invitavano già a risorgere... Le belle
opere di voi due grandi, saggi e liberi cittadini italiani
trionferanno dei delitti e dei secoli... E quando la non più
avvilita Italia in tempi non forse lontani risorgerà a quella
grandezza cui formolla natura, la Italia medesima vi sarà larga di
quegli onori che la Grecia rendeva al divino cantore di Achille».
Sopra tutto i giovani lo sentirono poeta maestro, anche se avevano a
dolersi del suo silenzio sdegnoso e ostile contro il presente, come
Ugo Foscolo, che nella Società d'Istruzione di Venezia (nel 1797)
pronunciò fiere parole di rimprovero, in cui avvertiamo il dolore di
un amore tradito. Fu in questo ambiente che si diffusero le opere
politiche fino allora inedite, e qualche anno più tardi in un clima
diverso, ma perdurando negli animi l'efficacia dei rivolgimenti
passati, le opere postume e prima di tutte la Vita, che fu per tanti
lettori una rivelazione.,«I suoi proseliti e i suoi entusiasti sono
in gran numero» scrisse Francesco Torti (1812), non persuaso e un
poco diffidente; «la Vita scritta da esso li ha riempiti ultimamente
di un culto religioso che s'approssima al furore e all'idolatria».
Non era fra quegli entusiasti l'amico d'un giorno Ottavio Falletti
di Barolo, che se affermava di poter con la sua testimonianza
provare la veridicità di tutto quanto l'autore aveva scritto nella
Vita, non ne intendeva lo spirito per quell'insistenza su tanti
particolari di scarso significato per lui e assai poco apprezzava
«l'immenso amor proprio» la «stranezza spesso sdegnosa e schiva»: e
nelle quattro Lettere sulle sue opere postume, in cui pure sono
riconoscimenti significativi, ben dimostrava il distacco suo e degli
uomini del suo ceto e della sua generazione dal poeta uscito dalla
loro società e pur «nel cuore sempre patrizio» ammirato e non
compreso; «un carattere» concludeva il Falletti, «che ha del grande
e del puerile, dell'umano e dell'acerbo, del capriccioso e del
saggio, predominandovi sempre una somma energia or bene or male
adoperata». Ma ben altri erano i sentimenti di alcuni giovani
piemontesi di quella stessa nobiltà, quel sodalizio che si raccolse
nell'Accademia dei Concordi, Cesare e Ferdinando Balbo, Luigi
Provana, Luigi Ornato, Paolo San Sebastiano, cui si aggiunsero poi
Carlo Vidua e Santorre di Santarosa: all'A, avevano dedicato un vero
culto con cerimonie, e l'A., che chiamavano padre, fu quasi il nume
tutelare della loro amicizia, la guida prima e costante dei loro
pensieri e della loro condotta. Particolarmente essi di lui
sentirono il richiamo dell'italianità, tanto più urgente in quanto
vivevano nel Piemonte annesso alla Francia, e quindi il dovere dello
studio della lingua italiana, dello scrivere italianamente, e gli
spiriti misogallici, e l'auspicio di «un popolo italiano futuro» di
una patria italiana a cui essi, pur così legati al paese natio, si
consacrarono sull'esempio di lui sin d'allora; e la lezione di forza
e di carattere, riconoscendo, come il Balbo in una lettera del 1809,
di aver avuto da lui lo stimolo primo e più efficace alla loro
maturazione. Non sminuivano l'ammirazione le riserve di carattere
religioso che essi, e più di altri Carlo Vidua, facevano a certi
aspetti dell'opera alfieriiana più palesemente illuministici. Ne
trarranno ispirazione gli artefici dei moti del '21 e anzitutto
Santorre di Santarosa, che scrivendone ricorderà tra i fattori di
quel fallito rivolgimento una «gioventù nutrita dagli scritti di
Vittorio Alfieri»: ma chi, fedele agli spiriti di quel giovanile
sodalizio, darà in anni più maturi un giudizio sull'A. conforme ai
sentimenti di un giorno suoi e dei suoi amici, sarà Cesare Balbo
nella Vita di Dante e nel Sommario, insistendo sulla parte del
Piemonte nel rinnovamento della letteratura italiana e nel
risorgimento nazionale e sulla lezione alfieriana di forza e
virilità. «[L'Alfier] recando dalla provincia da lui aggiunta
all'Italia letteraria la sua non so se io dico forza o durezza
paesana, restaurò forse la vigoria di tutta la letteratura e
restaurò certo il culto di Dante. Era anima veramente dantesca...
Tutto è simile nei due...». «... Fu grande abbastanza per fare alla
poesia, a tutte le lettere italiane un solenne benefizio, quello di
ricondurle (sia pur con la durezza ed anche secchezza) alla
severità, alla virilità. Ed egli poi fece a noi piemontesi il
benefizio particolare di farci entrare nelle grandezze delle lettere
nazionali... E fece così quasi dono di noi all'Italia letteraria».
L'alfieriismo di questi uomini, appartenenti alla terra e quasi
tutti al ceto medesimo del poeta, ha un suo particolare accento per
il risalto dato al motivo, vorremmo dire, piemontese-nazionale e
all'insegnamento morale da cui sarebbe venuto il primo impulso alla
formazione di un nuovo carattere dei compatrioti – ne sarà come il
compendio il capitolo dei Miei ricordi di Massimo d'Azeglio, che
questo A. ha tramandato alle generaziom posteriori con le notissime
semplici parole: «Uno dei meriti di quell'alto. cuore, fu di aver
trovata metastasiana l'Italia e d'averla lasciata alfieriana, ed
anzi il primo e maggior suo merito fu a parer mio d'aver egli si può
dire scoperta l'Italia come Colombo l'America ed iniziata l'idea
d'Italia nazione. Io metto innanzi questo merito a quello dei suoi
versi e delle sue tragedie». Altri di altre parti d'Italia
rileveranno invece maggiormente l'individualismo eroico, l'ansia di
libertà, l'originalità del vivere e del poetare. Così il Lomonaco
nell'Analisi della sensibilità e nei Discorsi letterari e
filosofici: vi critica, è vero, la debolezza logica dell'A.
pensatore, ma non mostra di ritenere per questo minore la grandezza
del poeta e dell'uomo («Il volli, sempre volli...», è per lui «cifra
di quel linguaggio eroico che oggi non si parla più») e dovendo fare
l'elogio di Napoleone lo accomuna all'A. in una pagina, in cui è
chiaro a chi vada la sua preferenza: «Tra l'immensa schiera degli
esseri a figura umana ne' quali mi sono imbattuto non ne ho
ravvisato che due veramente originali: l'uno è Napoleone, l'altro
l'Alfieri, entrambi degni di essere appellati uomini nell'età in cui
mi vivo. Il primo è il grandissimo dei mortali non perché ha il
titolo d'imperatore e re ma perché ne ha l'indole... L'altro fu...
uomo veramente libero, filosofo in pensieri, fiero senz'essere
inumano... Fu ancora il solo nel suo secolo che conoscendo la
sovrana dignità dello scrittore non vendé né profanò mai i suoi
lucidissimi inchiostri... L'alta carica cui ambì è quella di tribuno
del genere umano... Onde stette e starà in mezzo al fremito degli
aquiloni come torre in alto valor fondata e salda».
Nell'ammirazione, spesso vicina a un vero e proprio culto, per l'A.
si riconoscevano gli italiani nuovi delle diverse parti d'Italia,
così come le diffidenze e le riserve eran proprie degli uomini ancor
legati a un più vecchio abito di vita e di gusti: ed è significativo
che in questa vicenda il nome dell'A. si accompagni a quello di
Dante e che sin d'allora l'affinità dei due spiriti sia rilevata non
più come in passato per negare o fortemente limitare il valore
dell'opera alfieriana, bensì come lode altissima per il poeta di
recente scomparso.
Non è luogo quì di offrire un elenco di illustri e di quasi oscuri,
di letterati e di non letterati, basti ricordare che in tutti
l'ammirazione per il poeta si confonde con quella per l'uomo e che
l'A. viene ad essere assunto ad esempio, a modello di vita. Tale fu
per il Manzoni giovane, il quale, tra l'altro, al giudizio
dell'amico Pagani, secondo cui la vita alfieriana era «una prova del
suo pazzo orgoglioso furore per l'indipendenza», opponeva il
giudizio suo, e un modello di pura incontaminata vera virtù che
sente la sua dignità e non fa un passo di cui debba arrossire, e
l'A. designava negli Sciolti per l'Imbonati. (ma la definizione è
più manzoniana che alfieriana) come colui che e l'aureo manto
lacerato ai grandi / Mostrò lor piaghe e vendicò gli umili».
Ma per nessuno dei contemporanei l'A. rappresentò come per il
Foscolo un'esperienza fondamentale, non essendo il suo cosidetto
alfierismo episodio di un momento della sua vita né un aspetto
marginale dell'opera, bensì elemento essenziale e costante della sua
personalità: il Foscolo uomo, poeta, politico, critico sembra
proseguire, svolgere, approfondire quel che era stata l'esperienza
alfieriana. Perciò uno studio delle relazioni fra i due poeti
finirebbe per risolversi in una monografia compiuta sulla vita e
sull'opera foscoliana: meglio si vedrebbe come nel poeta più giovane
e in altra situazione storica siano ripresi e ampliati motivi tipici
del poeta maestro, fin dal giovanile Tieste, che è pur una
imitazione ancora estrinseca, ma sopra tutto dalle Ultime lettere di
Jacopo Ortis, che ci presentano nel protagonista un eroe alfieriano
in ambiente borghese (e il romanzo è forse l'unica tragedia della
scuola alfieriana non indegna del maestro) e insieme un tentativo
dello scrittore e del suo Jacopo di uscire dall'isolamento
alfieriano per ritrovarsi uomo fra gli uomini o per far oggetto di
riflessione rischiaratrice se pur desolata quel che era incubo o
pessimismo irreflesso nell'Alfieri. Il culto plutarchiano dei pochi
grandi, in cui l'A. ritrovava spiriti a lui affini, si fa più
solenne e più umano nella contemplazione cosmica e storica dei
Sepolcri, entro i quali si colloca l'episodio più tipicamente
plutarchiano-alfieriano di Santa Croce: né a caso qui viene a
prender figura il poeta ispiratore in versi che ne hanno fissato
l'immagine e il mito per i posteri. Anche le critiche e le riserve
hanno altro accento da quelle dei soliti censori dell'A., movendo da
un'esperienza comune ai due poeti: così quanto il Foscolo dice del
«misogallismo» alfieriano, che non accoglie con l'entusiasmo dei
giovani nobili piemontesi, poiché vi ravvisa un segno d'impotenza e
d'inerzia ritenendo che il disprezzo ostentato, l'odio predicato
contro una nazione non giovassero all'educazione politica degli
italiani – per questo sconsigliò la contessa d'Albany di procurare
nel 1814 una nuova edizione del Misogallo. E se più problematica e
meno schematica e lineare si fa la politica del Foscolo, permane in
lui anche di contro ad una visione hobbesiana, a cui talora indulge
risolvendo in essa e giustificandolo il concetto-mito alfieriano
della tirannide, l'esigenza prima della libertà quale gli si è
rivelata sopra tutto dalle pagine alfieriane, e si fa sentire negli
stessi tentativi di una più comprensiva e aderente interpretazione
del fatto politico, come nei discorsi Della servitù dell'Italia.
Permane sopra tutto come fermo criterio direttivo nell'ideale del
«libero scrittore», sia che il Foscolo riprendesse e al solito
rendesse più umana la concezione dell'A. nelle lezioni pavesi sulla
«morale letteraria», sia che ad esso si ispirasse nella decisione
dell'esilio, sia che ne facesse canone di giudizio nella critica
della poesia storicizzando le rigide categorie alfieriane. All'A. è
dedicato un ampio capitolo del Saggio sulla letteratura
contemporanea, scritto per lo Hobhouse: ma indipendentemente dal
valore degli spunti di critica morale, politica, poetica sull'A.,
sparsi non solo in queste pagine, ma in tanti altri suoi scritti (e
possiamo ancora ricordare la Lettera apologetica e l'articolo Della
nuova scuola drammatica), la dedizione appassionata al poeta maestro
è testimonianza più d'ogni altra significativa dell'efficacia
dell'insegnamento alfieriano che il Foscolo come nessun altro con
l'esempio e con l'opera ha contribuito a diffondere nell'età del
Risorgimento.
Ai versi dei Sepolcri si affiancano le due stanze dedicate all'A.
della canzone leopardiana Ad Angelo Mai, raffigurazione tutta
con-testa di voci alfieriane e che alfierianamente insiste sulla
solitudine del poeta eroe nell'età sua, ma elegiacamente
commentandola: l'espressione più compiuta dell'esperienza alfieriana
del giovane poeta, autentica e intensissima se pur limitata nel
tempo e risolta in opere di altro tono e di altro respiro. Vi si
compendiano le impressioni delle entusiastiche letture del «suo caro
Alfieri» e in particolare della Vita, e va integrata con qualche
altro passo in cui più palesemente si dimostra la componente
alfieriana dello spirito leopardiano: il passo del Parini, nel quale
prende voce definitiva l'adesione al concetto dell'A. delle
relazioni tra il fare e lo scrivere («Veggiamo che i più degli
scrittori eccellenti, e massime de' poeti illustri, di questa
medesima età, come... Vittorio Alfieri; furono da principio
inclinati straordinariamente alle grandi azioni: alle quali
ripugnando i tempi, e forse anche impediti dalla fortuna propria, si
volsero a scrivere cose grandi. Né sono propriamente atti a
scriverne quelli che non hanno disposizione e virtù di farne»); o
l'altro dell'Ottonieri su «quelle persone in cui la natura per
soprabbondanza di forza, ha resistito all'arte del nostro presente
vivere esclusala e ributtata da sé», con la suddivisione di due
specie, alla prima delle quali non apparterrebbero «se non
rarissimi» e tra questi, come è detto nello Zibaldone e qui
sottinteso, sarebbe Vittorio Alfieri: «E suddivideva questo genere
in due specie: l'una al tutto forte e gagliarda; disprezzatrice del
disprezzo che le è portato universalmente, e spesso più lieta di
questo, che se ella fosse onorata; diversa dagli altri non per sola
necessità di natura, ma eziandio per volontà e di buon grado; rimota
dalle speranze o dai piaceri del commercio degli uomini, e solitaria
nel mezzo delle città, non meno perché fugge essa dall'altra gente,
che per essere fuggita». Tanto più significativo per quel che segue
sugli uomini della seconda specie, nella natura dei quali «è
congiunta e mista alla forza una sorta di debolezza e timidità», e
tra questi, sentiamo, è l'autore che mentre si riconosce di un
carattere diverso, ancora una volta idoleggia nell'A. un esemplare
di vita rarissimo e per lui irraggiungibile, variazione tutta
leopardiana di un motivo persistente con diverse sfumature nel primo
Ottocento. Né era - sminuita l'ammirazione dai dubbi che con la
sicura coscienza della propria poesia affioravano in lui sul valore
della poesia alfieriana, per cui gli sfuggirà detto, ma con
tutt'altra intenzione dei critici settecenteschi, che l'A. è
«piuttostò filosofo che poeta» e finirà per accettare nella sua
sempre più rigida e esclusiva concezione della poesia il giudizio
della Staël sul fine sia pur nobilissimo a cui l'A. avrebbe
asservito la poesia che per sua natura esclude qualsiasi fine a lei
estraneo.
Nemmeno queste pagine della Corinne, su cui tornò più d'una volta il
Leopardi, possono dirsi di spirito antialfieriano. Anche le riserve
sul giudizio ultimo da dare sulla poesia delle tragedie alfieriane
non implicano un giudizio negativo sull'autore, su quelle tragedie
stesse, che sarebbero sempre delle «belle azioni», e un
riconoscimento di certi aspetti positivi del loro carattere: certo
non vi avvertiamo l'estraneità e l'avversione prevenuta di critici
classicistici e reazionari. Alla Staël non doveva essere rimasto
ignoto, come si notò fin d'allora, il trattato Del principe e delle
lettere che tanto entusiasmo aveva suscitato in Andrea Chénier e che
sembra riecheggiato in più d'un passo del suo libro De la
littérature considérée dans ses rapports avec les institutions
sociales: e la simpatia per il nostro poeta («C'est le seul italien
qui fut un homme du Nord par la profondeur de ses expressions et
l'indépendance de ses sentiments») traspare da più d'una lettera
scritta durante il viaggio in Italia ove si fa menzione di
rappresentazioni di tragedie alfieriane, ma sopra tutto da quella in
cui si discorre della recente lettura della Vita alfieriana ancora
inedita, che a lei come ad altri amici e visitatori la contessa
d'Albany aveva fatto conoscere: «J'ai vu tous les jours Mme d'Albany
à Florence et elle m'a confié le manuscrit de la vie d'Alfiéri,
écrite par lui même, c'est une lecture qui m'a captivée à un tel
point que je n'ai existé que pour elle pendant cinq jours». Una
delle prime testimonianze della fortuna dell'autobiografia
alfieriana, «uno dei libri più attraenti e interessanti che sian mai
stati scritti in qualsiasi lingua», dirà tanti anni dopo, nel 1875,
il Dilthey iniziando un saggio sull’A. col ricordo della lettura
della Vita, da lui fatta in Italia («Träumend, lesend, sinnend, habe
ich mich in Alfieri versenkt... Indem ich sein Leben lese, das er
selber geschrieben, glaube ich den Atem seiner grossen Natur zu
empfinden»). Certo in questa fortuna non solo presso i connazionali
ma altrettanto vivace presso gli stranieri (fu tra l’altro non molti
anni dopo la pubblicazione tradotta in francese (1809), in inglese
[1810], in tedesco [1812] e parzialmente in svedese [1819-20]) è da
riconoscere l’origine del giudizio dell’autobiografia come
capolavoro, il capolavoro assoluto dell’A. (rispetto al quale le
altre opere perderebbero d’importanza, anzi essa sola meriterebbe di
sopravvivere all’opera tutta): giudizio che si è confutato in sede
critica, ma che ha valore come constatazione storica: era nella Vita
la personalità nuova dell’A, presentata in una forma più
immediatamente accessibile si da poter essere compresa e ammirata da
lettori di diversa origine e di diversa educazione, non impediti
dalle difficoltà che nascevano dalla poesia stessa, da suoi vizi
intrinseci come dagli accenti più originali, nè da prevenzioni o
pregiudizi letterari, come quelli sui meriti o demeriti di questo o
quel sistema tragico.
Alla Vita si ispira e ne riassume i motivi essenziali con parole che
rivelano una intima comprensione il Sismondi nelle pagine sull’A.
della Littérature du midi de l’Europe, nelle quali si fan già
sentire le riserve romantiche, ma lo scrittore non è così intimidito
dallo Schlegel da non lasciar trasparire anche nelle critiche la
simpatia per un autore che non era stato estraneo alla sua
formazione (non erano solo parole di convenienza quelle in cui
rivolgendosi all’Albany diceva di aver avuto dall’A. l’impulso primo
a scrivere la Storia delle repubbliche italiane) e l’analisi delle
tragedie culmina nella pagina sul Saul: «tragédie... complètement
différente de toutes les autres pièces d’Alfieri, elle est conçue
dans l’esprit de Shakespeare et non dans celui des tragiques
français. Ce n’est point le combat entre une passion et un devoir
qui fait la péripétie; c’est la peinture d’un caractère noble avec
les grandes faiblesses, c’est la fatalité non de la destinée mais de
la nature humaine... (Saul) est le premier fou héroique que je vois
introduit sur le théatre classique» – uno dei primi spunti critici
sul Saul degno di ricordo per sé e per gli sviluppi che avrebbe
avuto nella critica posteriore.
Non è soltanto degli autori della Littérature du midi de l’Europe e
della Corinne l’interesse per l’A.: se in tempi a noi più vicini
fuori d’Italia sarà generalmente un puro nome tranne sporadiche
eccezioni, l’A. appartenne alla cultura viva dell’Europa del primo
Ottocento, sia per la sua formazione spirituale che per l’originale
personalità, come ci attestano testimonianze non poche e le stesse
critiche al suo teatro. nota l’ammirazione del Byron, che così
fortemente fu scosso dalla Mirra (soltanto, come fu detto, per una
ragione personale?) e si propose di comporre egli pure tragedie
secondo il modo «semplice e severo dell’Alfieri», considerando non
diversamente dal poeta nostro lo Shakespeare come «il più
straordinario degli scrittori» ma «il peggiore dei modelli»: né
importa che le tragedie sue risultino per ampiezza di svolgimenti
oratori fondamentalmente diverse dalle alfieriane. Ma, come fu detto
da chi lo conobbe (lady Blessington), « tanti sono i punti di
rassomiglianza che Byron offre con Alfieri da indurre a sospettare
che egli sia una copia di un originale a lungo studiato»: certo i
due nomi di aristocratici ribelli furono associati ben presto e non
solo nelle pagine dei critici, e presso di noi l’alfierismo finì per
confondersi e trasfigurarsi nel byronismo, che tanto più
vistosamente dominò in certe zone dell’italia romantica.
Si è ravvisata pure da taluno un’affinità tra l’A. e lo
Chateaubriand, nelle cui pagine incontriamo il nome del poeta nostro
che, come si legge nella lettera al Fontanes, lo scrittore francese
vide comporre nella bara, e ne serbò profonda impressione, e di cui
tradusse una pagina a lui congeniale sul «luoghetto presso
Marsiglia» e le fantasticherie del giovane viaggiatore fra le «due
immensità» del mare e del cielo (« Cet homme rude est arrivé une
fois au charme de la rêverie et de l’expression»); e si può
ricordare l’imitazione fiacca, che il Lamartine giovane fece del
Saul, insieme ad altre imitazioni alfieriane di poeti francesi di
minor fama (Lemercier, Legouvé, Soumet, Guiraud).
Di ben altra importanza l’incontro dello Stendhal con l’A.: che
«esercitò un influsso notevolissimo come esempio morale sul Beyle
uomo e artista» (L. F. Benedetto), nonostante la diversità dei
caratteri, nonostante l’ideale d’arte a cui come critico e come
scrittore egli giunse nella maturità. Non fu un episodio effimero
della giovinezza la lettura delle tragedie da lui fatta prima nella
traduzione del Petitot (1802) e poi nell’originale e dei trattati
politici del nostro autore: essa rappresentò per lui la scoperta di
un gusto del tutto differente dal gusto francese, si confuse con un
primo impeto di liberazione nell’arte come nella politica, ed egli
aderì senza riserve sia alla forma tragica alfieriana che alle idee
della Tirannide e del Principe. Venne poi anche per lui lo
Shakespeare a rivelargli un mondo ancor più libero dalle
convenzionalità del teatro francese e tanto più conforme di quello
dell’A. alla più varia e complessa e vivente natura; e
contemporaneamente egli si andava formando quell’ideale di condotta
da lui riassunto nel termine di «beylismo», rispetto al quale gli
apparve segno d’immaturità l’aperta violenta ribellione dell’A.,
inadeguata del resto alla presente realtà politica. Gli sembrò
allora che il tragico non avesse fatto «qu’outrer le système étroit
de Racine» e che il politico fosse soltanto un aristocratico non
diverso dal suo Appio Claudio («Beaucoup d’orgueil, de courage,
d’injustice, de talents»), «Un caractère antique, un Appius, uno di
quegli orgogliosi senatori di Roma, così, crudeli nemici del
popolo», facendo proprio il giudizio che più d’una volta si era già
affacciato sull’indole tirannica di lui ribelle soltanto per non
poter comandare, avverso ai re perché non era uno di loro. Non egli
certo poteva essere un maestro del nuovo liberalesimo delle due
Camere, il più ragionevole sistema per l’Europa presente. Eppure
l’A. non cessava di attrarlo per la sua singolarità, come esempio
tipico di tanti moderni italiani, dei migliori di essi: «Son
portrait est celui de toutes les grandes âmes de l’Italie actuelle:
plus de rage que de lumières». Nè la critica escludeva una
persistente se pur non sempre confessata simpatia, una non del tutto
spenta consonanza di spiriti. All’Histoire de la peinture en Italie
egli apponeva un’epigrafe alfienana: i «o che per nessun’altra
cagione scriveva se non perché i tristi miei tempi mi vietavano di
fare...» e ancora nel ’19 si dava a tradurre il Filippo. Nell’Italia
in cui viveva, tra gli amici italiani consenzienti o dissenzienti,
egli sentiva la presenza dell’A., e alfleriana fu pure per qualche
colore, per più di un tratto l’Italia da lui ammirata, vagheggiata,
trasfigurata nell’immaginazione: se delle letture giovanili del
tragico nostro permane il ricordo in qualche pagina dei romanzi,
nell’Armance ad esempio, in cui il protagonista cerca conforto alla
propria tristezza leggendo i libri del «sombre Alfieri», le
impressioni di quelle letture, filtrate attraverso una così diversa
indole ed esperienza, non furono senza efficacia sul romanziere, a
cui dell’A, piacque ritenere e far proprio, a modo suo, lo stato
d’animo e il giudizio fissato nella nota pagina del Principe sugli
«enormi e sublimi delitti» e nell’altra del Parere sull’Agide: « La
pianta-uomo in Italia essendovi assai più robusta che altrove...».
Studiò pure l’A. il Puskin, che se, attratto dallo Shakespeare e
dall’ideale romantico del teatro, avverti anch’egli l’angustia del
«sistema teatrale» alfieriano, non cessò di studiarlo (lasciò fra
l’altro una bella «Imitazione» del monologo di Isabella) e certo ne
conobbe anche bene le prose politiche se del Principe citava un
passo tutt’altro che ovvio in una lettera scritta in difesa di un
amico implicato nella congiura dei Decabristi.
Come in Italia, in Spagna la fortuna dell’A. fu intimamente legata
alle vicende politiche: vi ebbe dopo ripetuti giudizi negativi
dell’Arteaga ammiratori entusiasti e traduttori poeticamente dotati,
come il Savinón, che tradusse il Polinice (18o6) e col titolo di
Roma libre il Bruto primo (1812) e Dionisio Solis, a cui si deve la
traduzione dell’Oreste (1807) con una intelligente prefazione sulla
personalità e l’arte del poeta, e della Virginia (1813). Memorabile,
la rappresentazione a Cadice (giugno 1812), in occasione della
promulgazione della nuova costituzione, della Roma libre, ripresa in
quell’anno e nel successivo a Madrid e in altre città e divenuta
perciò in Spagna la più popolare delle tragedie del nostro poeta,
recitata sovente anche in seguito in occasione di nuovi rivolgimenti
politici (il traduttore, si deve ricordare, fu arrestato come
liberale durante la reazione del ’14 e morì in carcere nello stesso
anno). Meno fortunata la traduzione anonima del Filippo (1812) e
quella dell’Antigone (1827): con questa e con la traduzione della
Mirra (1831) del Cabanyes e della Merope (1833) dell’Harzenbusch
l’interesse sembra volgersi più degli aspetti politici a, quelli
poetici e anche romantici dell’A., di cui fu tradotta ancora (1857)
la Rosmunda e che ebbe pure fra i poeti tragici del tempo più di un
imitatore.
A un italo-brasiliano, Luigi De Simone, si devono le prime
traduzioni in portoghese andate perdute, tranne che per qualche
scena, di tragedie alfieriane e le prime pagine di critica intorno
al nostro autore, la cui opera giunse più tardi che altrove in
Portogallo: ma importanti sono la versione dell’Oreste (1819) e dei
trattati (1832) del letterato e uomo politico J.V. Barreto Fejo, e
la traduzione della Merope, opera giovanile del poeta romantico
Almeida Barrett, a cui piacque, quando già si era convertito
all’ideale romantico, ricordare quanto al mutamento dei suoi gusti
avesse contribuito l’esperienza del teatro alfienano, rilevando quel
che di romantico era nel classicismo del nostro tragico («In quel
tempo lessi Alfieri... il classico e severo italiano era stato morso
dal romanticismo in Inghilterra: ed esso senza che egli lo confessi
né lo ammetta, gli traspira perfino nelle tipiche forme austere
della sua Melpomene tutta romana»); e con simpatia dell’uomo e del
poeta scrisse un altro romantico, Alessandro Herculano, che
preferiva ad ogni altra tragedia sua il Filippo (riferiva di aver
udito sempre «un fremito di singhiozzi» alle recite in Italia di
quella tragedia). Ma più che per la poesia, la cui risonanza rimase,
come si vede da questi cenni, limitata, l’A. trovò in terra lusitana
consensi per il suo pensiero politico, tanto più significativi in
quanto altrove sembrava ormai inadeguato alle esigenze dei tempi. Il
Fejo invece presentava la Tirannide e il Principe da lui tradotte
come cosa attuale affermando che «di quanti scrissero su questo tema
[la tirannide] nessuno lo trattò meglio.
Alcuni tacciano quel trattato di esagerato, ma i portoghesi, che
hanno l’originale (s’intende del tiranno ossia il re Don Miguel)
davanti agli occhi, diranno se è o no fedele al ritratto»; e il
Garrett presentando al Parlamento nel 1839 un progetto di legge per
la difesa della proprietà letteraria intesse tutto il discorso di
reminiscenze dell’alfieriano trattato Del principe e delle lettere,
lamentando che «nonostante quanto disse l’Alfieri in proposito, il
mondo crede ancora nei governi dispotici» per concludere che « non
di mecenati ha bisogno il genio ma di leggi che lo difendano».
Non hanno le notizie qui raccolte un mero valore di curiosità, ma
sono un indizio (ed altri se ne potrebbero addurre) che l’A., come
si è detto, nel primo Ottocento appartenne alla cultura viva
dell’Europa. Se ne discusse allora come di un autore i cui problemi
non erano propri soltanto alla nostra nazione: da scrittori noti o
da ignoti, da quel Petitot che trovava nel discorrere dell’A. motivi
di polemica antirivoluzionaria all’autore del lungo severo articolo
sulla Vita nell’Edinburgh Review (in questi due scritti sono le
fonti di giudizi dello Stendhal), dalla Stael al Sismondi allo
Schlegel e al Villemain. Più estraneo di altri allo spirito dell’A.
lo Schlegel, insensibile come egli è al motivo primo del suo sentire
e del suo poetare: per lui il tragico nostro costituisce
essenzialmente un caso mal classificabile nella sua drammaturgia,
un’opera ibrida non appartenente né al sistema classico né a quello
romantico e nemmeno del tutto a quello del classicismo francese, ed
egli riesce in queste pagine di tanto inferiori a quelle sulla
tragedia greca o sullo Shakespeare a raccogliere giudizi e
pregiudizi della vecchia pedanteria classica e della nuova
pedanteria romantica, senza sviluppare spunti di verità destinati a
svolgersi in una critica più aperta e comprensiva, ma ponendo dei
problemi o degli pseudo-problemi, coi quali si sarebbe cimentata
tutta la critica alfieriana dell’Ottocento.
Tutt’altra intonazione hanno le pagine del Villemain, al quale fu
rinfacciato il proposito di voler riportare tutta l’opera dell’A.
nell’ambito del pensiero e dell’arte tragica della Francia,
trattandone in tre ampie lezioni del suo Tableau du dix-huitième
siècle (1828), ma che per questo stesso assunto evidentemente
forzato viene a collocare il poeta in un ambito non strettamente
nazionale e se non rende giustizia al tragico (ma alcune singole
notazioni sono felici), ben ne delinea la fisionomia in termini che
torneranno nella critica posteriore, riconoscendo in lui una
«devozione appassionata alla poesia, un ardore d’entusiasmo così
raro nel secolo decimottavo», una melanconia «hautaine et bizarre»,
che con altri aspetti del suo carattere gli ricorda Byron.
Poeta della meditazione solitaria, pensava il Villemain, l’A. mal sa
dimenticarsi nella creazione di caratteri; ma se non è un poeta
dramniatico è pure un «grande poeta». «Il était l’homme en qui
éclatait le plus la philosophie française du dix-huitième siècle
s’animant de l’imagination italienne»: e se di quella filosofia
sentirono l’influenza «sans lui emprunter ce qu’elle avait de plua
sérieux et de plus actif» altri autori italiani a lui contemporanei
divenuti celebri anche in Europa, come Cesarotti, Goldoni, Monti,
essi furono sopra tutto letterati. «Alfieri était plus: il était
poète, il ètait homme, il était passionné; il agissait, il poussait
les ames en avant». Si presente il De Sanctis, di cui è nota la
simpatia per il Villemain, e desanctisiano avanti lettera,
nonostante il peso del pregiudizio di un A. imitatore della tragedia
francese, che impoverisce senza rinnovarla o adeguarla, (ma è da
ritenere l’acuta intuizione critica del Filippo) è il discorso
tutto, rievocazione piena di simpatia della vita e dell’opera del
poeta nostro, «un dea esprits les plus indépendants, lea plus
indociles qui aient existé janiais, une des têtes les plus vives, un
des coeurs les plus passionnés qu’ait échauffé le ciel d’Italie»,
uomo che se fosse vissuto nell’età di Dante sarebbe stato «son
complice ou son rival de faction et de poésie».
Questa fama europea dell’A., e queste ed altre pagine straniere su
di lui non restarono senza influenza sulla critica nostra. Della
quale, a parte i documenti settecenteschi, va considerata come la
prima trattazione sistematica la dissertazione del Carmignani (1806)
presentata all’Accademia di Lucca, che aveva proposto come tema di
concorso l’esame «dello stile e delle novità utili e pericolose
introdotte da V. Alfieri nella tragedia e nell’arte drammatica». Il
tema era nella sua formulazione tipicamente classicistico e
classicistico il metodo seguito dal Carmignani, anche se nelle prime
pagine contrappone lo Shakespeare poeta della natura all’A. poeta
dell’arte, Ignaro il primo di regole e di limiti, mentre il secondo
ha tutto subordinato al suo sistema dei limiti e delle regole della
drammatica imitazione e questa contrapposizione di natura e di arte
con l’implicita condanna dell’A. è nel motto da lui scelto a
contrassegno del suo lavoro: «Ara cum a natura profecta sit nisi
natura moveat ac delectet, nihil sane agisse videatur». Piuttosto
che lo Shakespeare, a cui è reso un omaggio d’obbligo secondo il
modulo di un ormai stanco preromanticismo, l’autore tiene innanzi a
sè come costante termine di confronto il Voltaire e il Metastasio,
sicché l’A. gli sembra in ogni elemento della sua tragedia
contrastare con gli ideali di ragionevolezza, di verisimiglianza, di
decoro quali s’incarnarono in quegli autori cari al secolo
decimottavo. Gli sfugge perciò l’intimo spirito della tragedia
alfieriana, quell’horror che non andava giudicato col metro della
ragionevolezza e del decoro, e giunge ad affermare che in una
tragedia su Saul il vero protagonista dovrebbe essere David, o a
lamentare che Antigone parli un linguaggio «si dispettoso che mal si
soffre in bocca di giovane donna» e che il Carlo del Filippo non si
pieghi ai piedi del padre ma dimostri sempre odio e inflessibilità:
fosse da lui o da altri scritto l’Avviso alla III ed. (1822), ben ci
dice il carattere della critica e del gusto del Carmignani quanto vi
si legge: «(dopo il Metastasio) sorse nell’A. un nuovo e non meno
luminoso titolo d’illustrazione per la italiana drammatica. Non vi
era dunque sensata ragione di censurare le immortali sue opere per
accreditare le straniere, ma ve n’era una ben grande per dimostrare,
secondochè era all’autore paruto, che i sentimenti simpatici della
tragedia aveano trovato accoglienza e nutrimento tra le braccia del
Metastasio, mentre il genio elevato e disdegnoso di A. non avea
saputo abbassarsi a raccoglierli». A lui l’entusiasmo per l’A. era
sospetto e pericoloso e additava in Racine, Voltaire, Metastasio «i
più sicuri antidoti contro la invadente alfierimania». Aveva
conosciuto il poeta, anzi al suo fianco giovane aveva recitato nel
Saul, ma ritrovava appunto nello scrittore l’uomo quale allora gli
era apparso: «Chi lo ha personalmente conosciuto lo ravvisa da capo
a fondo nello spirito della sua tragedia. Rigido, di bruschi e
tronchi modi, riflessivo, accigliato, parlator parco e sugoso,
censore di tutto ciò che era de’ tempi suoi; ispirando il rispetto,
ma raramente l’abbandono del core egli preferì sempre il far
ammirare le sue originalità al farsi personalmente amare. Il suo
dramma ha la fisionomia medesima e per questo lato ha il suo
ammirabile e il suo sublime». Non poteva perciò non rispondere se
non negativamente al quesito dell’Accademia, poiché quelle opere
«prese come modello della tragedia in Italia avrebbero portato, a
suo giudizio, in altre mani che in quelle di Alfieri alla ruina
dell’arte»: ma se pur distingueva sempre fra la causa del genio che
era fuor di discussione e la causa dell’arte, in realtà tutta la
dissertazione era Improntata a uno spirito di critica negativa.
Eppure errata nell’assunto e nelle conclusioni, essa per la coerenza
con cui la tragedia alfienana è esaminata in ogni suo aspetto, viene
sia pure indirettamente a delinearne il carattere e perciò non è
rimasta senza eco nella critica posteriore.
Al Carmignani risposero senza novità di argomenti e di idee il De
Coureuil e il Marré, che nel 1817 pubblicò La vera tragedia di
Vittorio Alfieri, rielaborata in una prolissa dissertazione Sul
merito tragico di Vittorio Alfieri (ed. 1821), presentata a un
concorso bandito nel 1819 dalla Reale Accademia delle Scienze di
Torino, sull’A. e sul grado di perfezione a cui aveva innalzato la
tragedia prescrivendo che la ricerca venisse condotta con l’esame
dei giudizi e del nuovo sistema di arte drammatica di un celebre
critico tedesco al fine di «mostrare qual sia la vera natura della
tragedia in generale e di quella che può sola piacere nel teatro
italiano»: un concorso di palese ispirazione antiromantica, dovendo
l’A. (del quale con la restaurazione sempre più di rado era permessa
la rappresentazione delle tragedie e nessuna se ne rappresentava più
nella sua Torino) servire da strumento nella polemica contro un più
attuale e pericoloso nemico, il romanticismo.
Ma già nel secondo e ottavo numero del Conciliatore (1818) Silvio
Pellico aveva confutato il primo opuscolo del Marré e implicitamente
il Carmignani con spirito d’indipendenza anche verso lo Schlegel,
negando l’esistenza di un tipo ideale di tragedia a cui ogni altra
dovrebbe essere commisurata, - dovendo i critici soltanto osservare
se un’opera sia efficace o no, se alletti vivamente i lettori, se
ottenga lo scopo che l’autore si è prefisso di far piangere o ridere
o sentire affetti magnanimi. Paragonare l’A. con qualsiasi altro
tragico, come facevano sia i classici che i romantici, era per lui
assurdo. «Se Alfieni in Italia ha scosso potentemente con le sue
tragedie gli animi dei suoi concittadini, se molte di esse non si
potrebbero udire sui nostri teatri senza che le passioni fortissime
dell’autore si trasfondesseno in terribile guisa nell’animo degli
spettatori, se egli ha toccato appunto quegli argomenti che più si
confacevano alle intenzioni del suo secolo e che più potevano
rinobilitare una nazione accusata dal resto dell’Europa di lunga
vergognosa mollezza, non v’ha dubbio, Alfieri fu grandissimo
scrittore e la sua gloria non si distrugge paragonando le sue
produzioni a quelle di chicchessia». La questione per lui era non se
l’A. assomigli ai greci più o meno dei tragici francesi, e nemmeno
su una pretesa intrinseca superiorità di un «sistema» sull’altro,
bensì «se il sistema tragico francese, perfezionato da Alfieni, sia
il più o il meno convenevole per trattare drammaticamente quelle
azioni eroiche che importa alle nazioni attuali di celebrare», ossia
si riduceva non tanto a un giudizio su quel che l’A. aveva fatto
quanto su quel che nel presente si doveva fare, sui soggetti che un
tragico doveva trattare, per soddisfare le esigenze della società
contemporanea.
Nel Pellico (che fa soltanto questione di soggetti antichi e
mitologici o nazionali) la polemica per una nuova e diversa
letteratura non implica un giudizio limitativo sull’A. (e con lui
nell’ammirazione per l’A. poeta e maestro concordano quasi tutti gli
scrittori del Conciliatore) ma nel corso della polemica romantica
era inevitabile che il raffronto fra l’opera alfieriana e l’ideale
che i romantici vagheggiavano e si andava attuando nel Manzoni
portasse a una critica dell’A. in cui si confondevano giudizio
storico e affermazione di una poesia nuova, il riconoscimento del
carattere dell’A. uomo, politico e poeta e la considerazione dei
limiti propri di quel carattere come difetti e manchevolezze. Si
legge ancora nel Conciliatore (le parole sono di Giuseppe Nicolini):
«La via che Alfieri percorse è una catena uniforme di scoscese
montagne, terribili nella continua loro elevatezza, sublimi nella
continua lor nudità»; rimaneva dopo di lui altro campo più vario,
più interessante ed ameno, e questa constatazione finiva per
convertirsi in altri critici in un vero e proprio giudizio di
inferiorità, d’insufficienza della concezione tragica alfieriana. È
di Camillo Ugoni nello scritto sul Manzoni e sulla nuova scuola
drammatica il noto giudizio sulla tragedia alfieriana tutta di ferro
che come uno squadrone di corazzieri proteggeva la ritirata della
tragedia classica: è pure nota la protesta del Foscolo contro questo
giudizio e la stessa concezione di una «tragedia classica» e delle
cosidette scuole drammatiche che a lui parevano sogni di pedanti e
fanatici (non esistono scuole ma singoli poeti, anzi singole opere).
Ma vi era pure nella erronea impostazione dei romantici uno stimolo
a definire meglio entro un nuovo quadro sotto una nuova prospettiva
la realtà poetica e umana dell’Alfleri. Giudizi puramente negativi
di classicisti come il Giordani o Giambattista Niccolini (che
dell’A, non fu affatto un continuatore, coi suoi eloquenti e
stemperati drammi) rimasero, come dovevano, sterili e non meritano
di essere citati se non a titolo di curiosità: nei giudizi dei
romantici invece pur contradittori avvertiamo un travaglio di
pensiero intorno all’A. che si confonde col travaglio stesso dello
spirito del tempo. Nei nuovi insistenti paralleli tra A. e
Shakespeare, A. e Schiller, A. e Manzoni affiora il contrasto di
diverse concezioni non d’arte soltantoma di vita: contrasto
anzitutto fra il nuovo liberalismo per non dire dei nuovi ideali
democratici e la politica alfieriana e il suo spirito libertario,
quell’ideale di libertà che l’Ugoni vichianamente definirà come
«libertà signorile» nel saggio postumo sull’A., mentre nello scritto
sopra citato più crudamente l’aveva detto «libertà scolastica»: «Il
tempio della libertà poteva avere per lui soltanto un’architettura
greca e romana...». Polemica letteraria e polemica politica, motivi
consueti della critica antialfieriana e intuizioni personali si
confondono nelle pagine dedicate all’Alfleri da Giuseppe Mazzini
nell’articolo Del dramma storico (1830), il documento più importante
di questa fase della fortuna e della critica alfieriana. Rispetto al
dramma storico da lui vagheggiato quale gli pareva richiesto dal
secolo, rappresentazione totale dell’umanità nei suoi aspetti
diversi e contrastanti, «nazionale, libera e popolare», tale da
essere intesa dalle «moltitudini», di troppo gli pareva manchevole
la tragedia dell’A., conforme a una letteratura «figlia della
educazione signorile», opera di uomo a cui tanto doveva rimanere
ignoto della civiltà e più delle esigenze del tempo e della nazione.
«Impaziente per natura, misantropo per orgoglio, passeggiò per
l’Italia come per un cimitero, senza intendere la voce segreta che
usciva da quel silenzio, senza sospettare l’esistenza di un
incivilimento, a cui non mancano che vie di sviluppo, senza
intravedere i caratteri particolari della condizione morale
dell’umanità nel suo secolo». Un’unica insistente ostinata idea
nell’A., nobile, generosa, sublime eppure per la sua limitatezza
inetta a portare un rinnovamento fecondo nella poesia e nella vita,
«Il grado d’incivilimento, prosegue il Mazzini, ch’era dato
all’Italia de’ tempi suoi gli passò inosservato dinanzi, il secolo
gli apparve diseredato dalla natura, ed egli cercò di ricrearci col
terrore, non con l’amore. Non è l’eden dell’uomo libero ch’egli ci
pinge, bensì l’inferno dello schiavo; e noi siam trascinati ad
abbracciare la libertà per orrore della tirannide. Egli opera non
fecondando la mente e il core collo spettacolo eloquente
dell’universo, non risuscitandoci nell’anima l’idea della nostra
dignità e degli umani destini; ma disseccando in noi tutte quante le
sorgenti della sensibilità e dell’azione, per non lasciarci se non
quell’una che versa l’aborrimento sugli oppressori, viva,
tormentosa, inquieta». È qui per il Mazzini il limite gravissimo
dell’A., ma mentre egli lo vien rilevando con parola romanticamente
colorita, illumina quel che per noi è un carattere dell’ispirazione
alfleriana, e se all’A. più innanzi egli mostra di preferire lo
Schiller, che diversamente da lui sa destarci nell’animo «l’ideale
della nostra dignità e degli umani destini», impersonando nel Posa
un ideale di umanità che non è annullato ma esaltato dal martirio,
viene pur a suggerirci spunti all’interpretazione del da lui non
amato Filippo, tragedia non rischiarata da alcuna luce di conforto,
in cui non vi è posto per un personaggio come quello del Posa ma
soltanto per la solitaria protesta di Perez: «Il concetto del
diritto immortale ti s’affaccia nel buio come un raggio di sole in
una prigione, poi ti sfugge lasciandoti solo a maledire nella
disperazione».
È questo del confronto tra il Filippo e il Don Carlos uno dei temi
obbligati della critica alfieriana dell’età romantica ed ebbe una
sua efficacia per una più precisa definizione e valutazione della
tragedia alfieriana. Lo Schiller stesso in una lettera al Goethe
aveva senza volerlo determinata la differenza fra il gusto suo e
quello alfieriano riconoscendo che in ogni tragedia l’A. «sa offrire
ad altri l’argomento atto ad essere trattato poeticamente e suscita
il desiderio di elaborarbo», una prova per lui di insoddisfazione
nel poeta nostro «ma segno pur sempre che egli seppe felicemente
cavarlo dalla prosa e dalla storia»: e su questa differenza con
varia valutazione insistono i critici discorrendo del Filippo (una
delle sue tragedie più fortunate e discusse) e opponendolo al Don
Carlos, dal Pellico che ben coglie il motivo essenziale della
tragedia, «l’inimitabile Filippo» («Nulla di più semplice e di più
terribile della condotta di questa tragedia; v’è non so che di
rapido e di misterioso che atterra l’immaginazione, e che non si
trova in verun altro dramma nè antico, nè moderno») ai letterati che
ne scrissero su giornali svedesi quando fu tradotta (nel 1832) dallo
Stéenhoff, e rappresentata a Stoccolma (1836), quasi tutti convinti
della superiorità del dramma tedesco, tranne il recensore del Nytt
Dagligt Allehanda, che traccia un intelligente parallelo rilevando
la ferrea coerenza, l’ineluttabile processo verso la catastrofe, la
semplicità e la potenza dei due antagonisti nella tragedia italiana,
a Carlo Cattaneo infine (1842) che riprende questo tema per
difendere la fama dell’A. poeta messa in forse da giudizi dommatici
della nuova scuola e rilevare i limiti e gli errori delle dottrine
romantiche e in particolare la pretesa di una fedeltà alla storia
del poeta, e del cosidetto colore locale, con parole severe per lo
Schlegel e con una serrata dimostrazione ad hominem della infedeltà
storica del Don Carlos (lo Schiller era ancora per molti italiani un
romantico, o almeno un maestro dei romantici) e contrapponendo la
severità ed essenzialità alfieriana: se ne ricordò Camillo Ugoni nel
saggio postumo sull’A. ove si legge che il dramma tedesco ha
l’interesse di un romanzo complicato, mentre l’A. «non si aiutando
nè di episodi nè di ornamenti estrinseci cavò tutto e molto dalle
viscere di un soggetto semplice»: «Il genio, conclude l’Ugoni, si
compiace del semplice e l’ingegno nel complicato».
In seno al romanticismo o accanto e di contro al romanticismo si
andava così delineando meglio la fisionomia dell’A.: vi
contribuivano pagine come quelle del vecchio Salfi (nel Résumé de
l’histoire de la littérature italienne, 1826), degne ancor oggi di
ricordo per buone osservazioni e una moderata polemica con lo
Schlegel, e quelle dell’Emiliani-Giudici, così vivacemente
antischlegeliane: e si veniva riconoscendo da più parti che quel che
era apparso soggezione arbitraria a regole estrinseche era invece un
portato dell’intimo spirito alfieriano, e Saverio Baldacchini (1835)
affermava: «L’ira maggiore di alcuni, che alla sola scorza delle
cose si arrestano, è contro l’Alfieri perché si è sottoposto alle
tre unità aristoteliche; ma non pongono forse mente che se quelle
tre unità l’Alfieri non le avesse trovate, ei se le sarebbe create
da sé, come quelle che si concordavano troppo bene col suo
intendimento, il quale era di produrre una impressione al tutto
semplice, severa e rapida senza che nulla venisse a menomarla e a
distruggerla», e l’osservazione era sviluppata dal Bozzelli nel
trattato ancora tipicamente settecentesco Della imitazione tragica
(1838): «Se la indicata regola di Aristotele non avesse mai esistito
nella memoria degli uomini, Alfieri l’avrebbe creata dal nulla senza
punto averne il disegno; poiché essa veniva in lui come spontaneo
effetto della sua maniera di sentire», anche se i giudizi
dell’autore sulle singole tragedie si rifanno più che a quella
maniera di sentire a considerazioni di tecnica teatrale.
Alla personalità del poeta invece mirò il Gioberti, che fece propria
l’osservazione del Baldacchini e del Bozzelli sull’A. e le unità
tragiche, e che nelle molte pagine a lui dedicate nelle opere edite
e negli appunti pubblicati postumi col titolo di Studi filologici
rispecchia le idee spesso contradittorie del tempo suo sul poeta
nostro e si può dire i motivi tutti della critica alfieriana senza
giungere a un pensiero suo originale e coerente ma lasciando spunti
suggestivi e sempre una testimonianza importante sull’A. nel
Risorgimento.
Vi è nel Gioberti dell’Introduzione allo studio della filosofia, del
Primato, dei Prolegomeni, del Gesuita moderno un A. fissato in
atteggiamenti ormai tradizionali (il «misogallo», il piemontese,
l’iniziatore e lo scopritore della nuova Italia, il restauratore del
culto di Dante, ecc. ecc.) rilevati ed enfatizzati dal gusto
oratorio dell’autore in formule che se non rappresentano veri
acquisti critici non possono essere trascurate in una storia della
fortuna alfieriana per la diffusione di quegli scritti e il potere
di presa di quella retorica, «l’Alfieri creatore dell’Italia
laicale», «l’Alfieri fondatore del nuovo patriziato piemontese»,
«padre di quell’idea civile che anima e infiamma prìncipi e popoli
subalpini», anche se lo scrittore dall’esagerazione cade in veri e
propri errori, come quando in una declamazione contro il Villemain e
in altre pagine esalta l’italianità immacolata dell’A., del tutto
immune da influenze del pensiero francese contrapponendo l’A. solo
italianissimo a tutti i letterati settecenteschi servili seguaci
delle idee illuministiche, o afferma che «scorto da non fallibile
augurio, l’Alfieri conobbe che quest’Italia risiede essenzialmente
nel ceto medio, che è in effetti il ceto principe» (la
«sesquiplebe»?!); ma vi è pure l’A. dei cosidetti Studi filologici,
intorno a cui il critico vien prendendo note ed appunti e abbozzando
pensieri, ed accoglie ora indiscriminatamente censure classicistiche
e romantiche sulla durezza dello stile, sull’assoluto disinteresse
per la storia e il colore locale, sull’angustia di concezione
rispetto allo Shakespeare o al Manzoni, sulla Mirra, «in cui
l’immaginazione dell’Alfieri mostra maggiormente la sua povertà»,
incapace nonostante l’arte a rendere meno ributtante e mostruoso il
soggetto, l’,A. «cattivo scuolaro del Machiavelli, sempre caldo ed
elegante quando dipinge il delitto, freddo e stentato quando vuol
dipingere la virtù»; ed ora invece tenta egli pure con altri uomini
del Risorgimento di segnare il limite della concezione alfieriana
della libertà di tanto più angusta della libertà del cristianesimo,
da lui sempre ignorata, e riprendendo osservazioni e ricordi di
contemporanei scrive: «La sua volontà era nata per tiranneggiare; e
trovandosi in collisione con le circostanze, ne nacque il talento
per cui seppe l’Alfieri dipingere due cose contradittchie, la
libertà e i tiranni. Il sentimento infatti della libertà nel grado
in cui l’ha dipinto l’Alfieri suppone una bramosia di dominare
combattuta dalle circostanze...». Di qui muove la sua
interpretazione del Saul, che sarebbe per lui un’eccezione nel
teatro alfleriano, tutto astratto, declamatorio, più povero dello
stesso teatro francese, perché nel protagonista il poeta avrebbe
espresso tutto sé medesimo, quell’intimo spirito tirannico e insieme
la sua intrinseca contradizione. La pagina sul carattere dell’A. e
del suo eroe, sulla genesi del capolavoro è il maggior contributo
del Gioberti alla critica alfieriana: «... Una sete d’indipendenza e
di gloria lo agitò continuamente senza poter mai esser soddisfatta.
Non è questo il carattere di Saul, tiranno senza cessar d’esser
grande, tenace senza costanza, inquieto, tetro, terribile... Ognun
vede che l’Alfieri locato in sul trono e vivuto in quei luoghi e in
quei tempi, ne’ quali una incredulità di orgoglio e di passione era
la sola possibile, con un Davide dei sacerdoti e un Dio a fronte
della sua autorità sarebbe stato Saulle... In Saulle havvi una
mescolanza di magnanimità e di perversione, che sentiva in sé
stesso; Saulle sfida col suo orgoglio la divinità e spiega
un’energia di tirannide straordinaria, ma quello che gli piacea
forse più di tutti si è che senza ledere la natura egli è riuscito a
dipingerci un tiranno che sente ripiombare su di sé stesso la
propria tirannide, che n’è il primo schiavo...».
Più difficile desumere un giudizio coerente dalla pagina famosa di
Nicolò Tommaseo («L’Alfieri è più pagano dei pagani stessi») nella
sua stringatezza tutto asserzioni male o per nulla connesse, che
lasciano intravedere l’antica e in fondo non mai spenta ammirazione
(l’A. era stato il poeta e il maestro per eccellenza della sua
giovinezza), respinta e compressa da un disdegno in parte almeno
affettato: degna di ricordo perché nella irresoluta contradizione
dell’odi et amo, mostra scopertamente non solo il carattere ben noto
della mente e dell’animo del Dalmata ma un atteggiamento che non era
di lui soltanto, bensì di non pochi uomini del Risorgimento. Più
criticamente cerca di determinarlo in quel perpetuo dialogo con sé
medesimo che è sempre il suo discorso intorno ai poeti e alla
poesia, lo Scalvini, che dell’A. avverte insieme con riluttanza e
simpatia i limiti e la potenza («Egli era un’alta anima con veemenza
di sentimenti e povertà d’immaginazione. Ciò che egli sentiva lo fa
tuttavia sentire alfine. Egli comincia a pungerti la pelle, poi
calca e calca il ferro nella piaga finché ti va ad ardere le intime
viscere») e cerca di definire il carattere peculiare di quella
poesia: «La sua poesia non appartiene più per così dire alla
rimembranza: ella rappresenta sempre l’attività della passione» per
concludere dopo altri dubbi che «Alfieri è grande malgrado i suoi
difetti, egli è solo». E lo Scalvini ancora non si nascondeva il
pericolo che dalle tragedie alfieriane del pari che dall’Ortis
poteva venire al lettore, in quanto quelle opere e non rappresentano
la realtà della vita, non stimolano gli uomini ai fatti e al vivere
attivo... Anziché gettare l’uomo fuori di sé lo fanno raccogliere in
sé; egli cerca le proprie viscere, si diletta di mirare in sé
medesimo, e l’ultimo frutto di simili opere è una generazione
d’indolenti, di fantastici e d’infingardi, di vanitosi a tutto
inetti e inabili a tutto». Era una preoccupazione che si farà
sentire anche nel De Sanctis e prima che in lui nel Tenca.
Il quale nella prima annata del Crepuscolo (1850) compendiò
efficacemente i sensi di ammirazione e di gratitudine degli uomini
del Risorgimento per l’A. riconoscendone ancora l’efficacia di mito
attuale, anzi teorizzando quello che in tempi recenti si designerà
col termine di «mito»: «I forti pensieri che tormentavano la fiera
anima dell’Astigiano sono divenuti il fondo della coscienza comune.
Può veramente dirsi allora che l’individuo scompare in una
personificazione più elevata, in un superiore ideale, che è già in
gran parte creazione dell’istesso genio popolare: in questo senso è
vero che i grandi uomini hanno missione di rappresentare un’idea, e
che sono inconsci rivelatori dei tempi in cui sono vissuti. Le opere
loro potranno in un’età più avanzata esser trovate informi e
incompiute; potranno anche andar smarrite, che non verrà meno perciò
quella gloria a cui un popolo intero ha dato particolare
significazione di un proprio concetto». Sapeva pure dire cose nuove
su motivi ormai consueti alla critica alfieriana, come in questo
parallelo col Byron: «Tra Byron e l’Alfieri quantunque corra qualche
rassomiglianza nella vita avventurosa e nel genio irrequieto esiste
questa essenziale differenza, che Byron ha sempre vissuto
partecipando del moto delle opinioni e degli avvenimenti che si
compievano intorno a lui, l’A. appena ebbe acquistato consapevolezza
di sé medesimo passò nel mezzo di essi senza essere scosso e direi
quasi toccato. Egli si scevra volontariamente da tutto ciò che lo
circonda per sprofondarsi altrove in traccia di una vita più consona
ai suoi affetti, di un ideale che fosse in armonia col suo
pensiero... L’antichità divenne per lui un oggetto di culto, una
religione... Da essa attinge l’ideale della propria letteratura,
della propria politica, della propria fede: dal contrasto fra di
essa e il presente egli trasse quello spirito di profondo disprezzo
e di ira incommensurabile contro gli uomini e le cose del suo tempo.
Fa meraviglia il pensare in quale immensa solitudine ha dovuto
vivere quest’uomo». E pure cose sue sapeva dire su un altro binomio
costante nella letteratura del Risorgimento, Dante e A.: «Tra
l’indomabile e selvaggia tempra dell’A. e la sovrana intelligenza di
Dante compiacquesi qualcuno di trovare una lontana somiglianza: e
par veramente a primo aspetto che le fiere, sdegnose e italiane
anime d’entrambi qualche cosa attingano ad una medesima natura. Ma
tra l’una e l’altra corrono i cinque secoli della storia del loro
paese. Dante benché intrattabile ed iracondo non aveva bisogno per
vivere di sequestrarsi dal mondo che gli stava dattorno.
L’Italia..., era pure un’Italia robusta, piena di giovinezza e
d’avvenire. Come la vita così la parola di Dante si frammischia a
tutti gli avvenimenti della sua patria: il suo poema non è che una
lunga rappresentazione di quella esistenza agitata che cominciava il
Risorgimento italiano. Si può dire che solo la vita del presente
fremeva dentro l’anima di lui... Alfieri invece trovossi in faccia,
a ben altre circostanze. Una profonda quiete dominava in Italia. Di
una tal gente o di tali condizioni nulla più restava a dire: anche
la magnanima ira dantesca sarebbe caduta inopportuna. Ributtato dal
presente il poeta andrà a cercare i tipi del grande e bello a cui
aspira dentro un’altra vita e presso di un’altra età». Il Tenca
comprende la ragione storica dell’opera alfienana, di quella
tragedia che è tutt’altra cosa del dramma moderno, che concentra
tutta la luce su un personaggio, anzi su una passione, sulla
sapienza psicologica che pure, gli sembra piuttosto psicologia che
poesia. E questo A. nella sua grandezza e nei suoi limiti pone
innanzi ai lettori nel primo anno del suo Crepuscolo (dell’art.
abbiamo riportato qualche passo, perché non figura nei voll. dei
suoi scritti scelti e non reca nel giornale la sua firma): ma più
esplicitamente che in questo art., in quello sulla Storia
dell’Emiliani-Giudici egli dà voce alle riserve non tanto sull’opera
alfieriana in sé stessa, quanto sull’idea di quello storico sull’A.
creatore della nuova letteratura italiana, come Dante era stato
dell’antica: «L’arte era rimasta circoscritta in lui e domandava
altro sviluppo: quanto più esso l’aveva innalzata a potenza di
scopo, tanto più essa era presa da nuovi desideri, e scorgeva
l’immensità dell’orizzonte a cui era chiamata. E il concetto
dell’A., coltivato e ingrandito dai suoi successori, non impedì che
Foscolo e Leopardi e tutti i seguaci della scuola tradizionale non
sentissero nel loro pensiero il gelo di un vuoto mortale e non
domandassero fremendo al passato una pienezza di credenza e di
concetto che era inevitabilmente perduta». L’arte e l’insegnamento
dell’A. non potevano essere per lui il termine ultimo della
letteratura italiana (come non era nemmeno il romanticismo):
rispetto al suo ideale morale anche la poesia dell’A., «la più alta
espressione della libertà e della personalità dell’uomo, lo sforzo
più grande e gigantesco di rifare una vita non ancora spenta nelle
fantasie italiane», gli sembrava manchevole: non senza ragione la
scuola classica, che lo aveva avuto per maestro, si era chiusa con
gli sdegni irrequieti e coi gemiti di dolore del Foscolo e del
Leopardi.
Anche il Centofanti nel saggio Sulla vita e sulle opere di V. A.
(1843) avverte che «mancò all’Alfieri il senso profondamente pieno
della civiltà moderna, e però anche la di lui profezia del futuro fu
difettiva e la sua Idea poetica non poteva essere progressivamente
feconda», e ancora che «la rigida alterezza, con che
aristocraticamente isolandosi dalle moltitudini egli restossi
repubblicano nella sua ideale città e praticamente visse con pochi,
lo tenne fuori dall’ampia via ove il cristianesimo, che per sua
natura è moralmente democratico o per meglio dire popolare, cioè
universalmente umano, ti conduce fra tutte’le relazioni e gli
interessi della vita, t’insegna a esser fratello a tutti i tuoi
simili, ti fa intendere tutti i bisogni delle anime, tutti gli
arcani del dolore e amare tutti i sacrifizi ed esprimere tutte le
armonie del mondo morale...»: ma se determina così nettamente il
limite fra la concezione alfieriana della politica e della poesia e
quella che cattolico-liberale egli sente consona allo spirito e ai
bisogni della età sua, distingue come altri non aveva saputo fra
polemica e storia, fra le esigenze sue e dei contemporanei e quello
che era stato il mondo reale ed ideale dell’A., giungendo anzi per
queste stesse sue riserve a considerare l’opera alfieriana col
distacco dello storico che non esclude poi una simpatia profonda e
il riconoscimento dell’apporto positivo della personalità e
dell’opera dell’A. alla storia politica e letteraria d’Italia. Così
gli è stato dato tracciare una biografia che rileva l’intima
coerenza e della vita e dell’opera del poeta in ogni fase del loro
sviluppo, non soltanto in sé stesse ma in connessione coi tempi
entro la storia d’Italia, anzi dell’Europa settecentesca: vi trovan
luogo non come curiosità ma riportati sempre al centro della
personalità studiata particolari psicologici (si veda la bella
pagina sull’amore per i cavalli) e osservazioni sulle opere singole
come sull’atteggiamento dell’A. di fronte al mondo in cui si trovò a
vivere. Manca nel saggio un giudizio sulle singole tragedie, anche
sul Filippo e sul Saul, tema insistente di tutta la critica
ottocentesca, ma le tragedie sono valutate globalmente come
necessaria espressione di quella personalità e riconosciuti
necessari quelli che alla critica romantica erano apparsi difetti e
che a lui sembrano non già derivare da una soggezione arbitraria a
regole esterne, bensì parte integrante di una concezione organica e
personale. Non tanto però importa al Centofanti la valutazione
estetica delle tragedie, quanto il giudizio sulla personalità
alfieriana, sulla fondamentale importanza dell’uomo e dell’opera in
quel particolare momento della storia d’Italia: dall’inizio in cui
rileva l’«intima unione dell’uomo e dello scrittore» («presagio
questo di un nuovo ordine di cose e di una letteratura nuova
all’Italia») alle pagine ultime in cui dopo aver contrapposto l’A. a
tutti gli scrittori del Settecento per la novità della sua idea
poetica e nazionale lo presenta come colui che «separò con la forza
divina dell’ingegno due secoli letterari e restò individualità
solitaria a segnarne i confini» (e in altra pagina aveva già scritto
che egli aveva «posto con mano napoleonica le prime basi del grande
edificio [nazionale] separando due mondi e restando m mezzo a questi
separati mondi dritto, solo, altissimo, monumentale»). Ne vengono
illuminati in una trattazione appassionata ed eloquente ma non mai
apologetica gli aspetti diversi della personalità alfieriana: le
relazioni ad esempio fra l’A. e il pensiero politico dell’età sua
(«Questi intendimenti dell’Alfieri non si discordano da quelli dei
filosofi politici francesi nè dalle tendenze generali dell’epoca, ma
sono tanto la necessaria espressione della sua anima, ma prenderanno
in essa una forma tanto propria ch’egli potrà considerarli come la
stessa lor vita»), il carattere della sua dottrina politica («La
dottrina politica dell’Alfieri non era una servile imitazione di
pensieri comuni a molti ma una produzione spontanea e la scienza
necessaria della sua anima: non un’idea speculativa ma un
sentimento, una passione, l’energia abituale della sua vita. Egli
perciò naturalmente la riguardava come una sua cara proprietà e
quanto meno vedea divulgata nè generalmente predicata questa
dottrina tanto di più dovea essere disposto ad amarla»), l’innato
spirito aristocratico avvertito anche dal critico nell’ossequio alle
tradizioni poetiche oltreché in ogni pensiero e atteggiamento («Le
inclinazioni liberali non che mai distruggessero il conte, ma del
conte ebbero un più sicuro abito di magnanima fierezza»), la
fisionomia peculiare e in certo senso duplice di questo poeta
dell’ultimo Settecento («non distratto da molte idee, non corrotto
dal falso sapere, vergine e profondo nel sentimento delle sue
facoltà come un poeta primitivo, e illuminato dal filosofico
splendore di un secolo pieno dell’antica e della propria sapienza,
egli scriverà con l’impeto e la forza di un ispirato e col maturo
senno di uno spirito riflessivo»); il venir meno delle più semplici
doti letterarie nello scrittore, tosto che egli si discosta dal
centro vivo della sua ispirazione; il «farsi cittadino del mondo per
poter esser meglio e più fruttuosamente italiano» («questo cittadino
di una città ideale ch’egli vorrebbe chiamare Italia»); l’A. di
fronte alla rivoluzione francese («si resta solo con la sua
inviolabile dottrina nella sua repubblica ideale. Tanto l’esser
diviso da tutti era necessità sublime in questo singolarissimo
uomo»); il significato rivoluzionario di tutta l’opera: «È negazione
sublime della vita contemporanea... rassomiglia in alcuna guisa alla
feroce semplicità di quella politica che altro non è se non la
rivoluzione eterno scopo a sé stessa»; l’A. e lo Shakespeare, l’A. e
la storia, l’A. e la religione. Si può dire che questo saggio
accolga in sè i vari spunti di critica pro e anti-alfieriana
dell’età romantica e risorgimentale e le esigenze etiche, politiche
ed estetiche che l’ispiravano sistemandoli in una visione più ampia
e comprensiva e per questo tale da essere, come non erano i giudizi
fin qui esaminati, cosa per quel tempo almeno definitiva: lavoro
pensato e svolto con mente di storico (se pur appesantito da un
troppo minuto riassunto dell’autobiografia e più dai filosofemi di
cui l’autore si compiace), può ancor oggi per alcune pagine vigorose
trovar posto in un’antologia della migliore critica alfieriana, ma è
per noi anzitutto, per il chiarimento che vi trovano i pensieri
dibattuti in quel tempo e per il punto di vista da cui è giudicato
il poeta, il primo forse e certo uno dei più significativi saggi
storici del Risorgimento sull’Alfieri.
«Il nostro Alfieri è un uomo che al solo nominarlo ci sentiamo
superbi di essere italiani... Ciascuna volta che l’Italia sorge a
libertà, saluta con riverente entusiasmo Vittorio Alfieri e si
riconosce in lui. Nel ’99, il primo fatto dei repubblicani di Napoli
fu di batter le mani ad Alfieri in teatro. Nella prima ebbrezza del
48 ciascuno diceva fra sé: ecco l’Italia futura di Alfieri! Lo
ricordo malinconicamente». Sono, notissime, parole di Francesco De
Sanctis, esule a Torino (1855): e bene compendiano quel che in
quegli anni e fra quegli avvenimenti si sentiva del poeta iniziatore
di una nuova età nonostante tutte le critiche, le riserve, le
limitazioni che da più parti e da tempo si erano opposte al suo così
indeterminato ed elementare pensiero politico e alla stessa sua
personalità di aristocratico libertario, di poeta severamente e
rigidamente classico.
Una nota sua propria fra le testimonianze che si potrebbero addurre
porta Edgar Quinet nelle Révolutions d’Italie (1851), «il libro del
’48», in cui compare come uno dei protagonisti di quel dramma che è
per l’autore la storia d’Italia, Vittorio Alfieri, anzi l’A. degli
anni più dolorosi della rivoluzione e dell’invasione straniera che
nel suo tormento e nell’avversione contro l’una e l’altra parte
soffre di una tragedia tanto più profonda di quella dei suoi
personaggi, ritrovando in sé stesso le contradizioni della sua
patria («L’originalité d’Alfieri, per où il reprèsente cette époque
de l’esprit italien, c’est la fureur dans le vide, une âme déchaînée
dans le néant, un patriotisme effréné sans patrie..., un Italien qui
se réveille en sursaut et ne peut rencontrer l’Italie, ni sur le
trône, parce que là est l’absolutisme, ni dans la bourgeoisie, parce
que là est la France, c’est-à-dire l’étranger, ni dans le peuple,
parce que là est la servitude religieuse et politique»). Se ancora
pochi anni dopo il ricordo del Misogallo sarà al fondo delle
critiche astiose all’A. tragico di giornalisti francesi, il Quinet
che la storia nostra sente come cosa sua propria comprende la
ragione intima dell’odio alfieriano, il valore di quell’odio stesso
di tanto superiore all’indifferenza dei tiepidi, se pur espressione
di una solitudine tragica che non potrebbe avere altra conclusione
che il suicidio di Jacopo Ortis: pagine tutte queste di appassionata
e colorita, forse troppo colorita eloquenza che non possono essere
trascurate in una storia della fortuna e della critica alfieriana.
Non si discosta il De Sanctis dagli altri critici del Risorgimento
nell’interpretazione civile e nazionale dell’A. se non forse per una
più chiara consapevolezza rafforzata dagli ultimi avvenimenti e
fondata su di un saldo senso storico: anch’egli, come
l’Emiliani-Giudici, ritiene che «la nostra risorgente letteratura ha
per padre Alfieri come l’antica Dante» e nell’A. il futuro critico
di Farinata e di Machiavelli ammira «l’uomo che odiava i mezzi
caratteri», «un uomo serio che voleva ed il volere per lui è un
appuntare tutte le facoltà in un oggetto» e per questo maestro
ancora attuale per guarire gli italiani di «un difetto di carattere
che è la loro debolezza». E nel discutere il giudizio del Gervinus
«tedesco protestante moderato» sull’A. e sul Foscolo delinea con
precisione e vigore la posizione storica dei due poeti, il
significato del loro classicismo e della loro ideologia politica,
non già cose viete o mere estrazioni, bensì rispondenti alla
peculiare situazione del tempo loro, sicché non dobbiamo condannarli
in nome di un più democratico ideale di vita e di arte, che sarà il
nostro, in quanto essi hanno con l’opera loro adempiuto il compito
proprio e preparato questi nostri tempi. Come il Centofanti e con
una semplicità al Centofanti ignota il De Sanctis afferma: «Oggi
possiamo render giustizia a tutti; possiamo dire: seguiamo Manzoni e
viva Alfieri!». Non rimproveriamo al Foscolo e all’A. di non aver
creato una letteratura popolare; questo sarà il compito nostro:
«Manzoni è il poeta della nuova situazione, l’iniziatore della
letteratura popolare in Italia». Ma la letteratura dell’ultimo
Settecento non poteva essere popolare: «Ella fu ad immagine di
quelle classi nelle quali a quel tempo erasi concentrata la vita
intellettuale, la rivoluzione parlò col linguaggio di quelle classi,
col linguaggio delle scuole». Il classicismo alfieriano era del
tutto conforme all’ideale di libertà nel suo primo apparire. «Era
l’idea rigeneratrice de’ nostri tempi non ancora entrata
nell’azione, non ancora incarnatasi nelle istituzioni, non
modificata ancora dagli interessi, l’idea vergine e dea per la quale
morivano Condorcet e Mario Pagano. Vedete dunque quanto di vero,
quanto di contemporaneo è in questo classicismo di Alfieri». La
giustificazione storica s’integra con la giustificazione estetica.
Il De Sanctis già nelle lezioni (pubblicate nel nostro tempo) si era
cimentato con l’A. affrontando in una ampia trattazione quelli che
erano i punti obbligati posti dallo Schlegel della critica romantica
e riconoscendo con un’analisi particolareggiata e personale la
legittimità estetica e l’accento peculiare del poeta; riesce qui
nella discussione col Gervinus e nell’altro articolo Janin e Alfieri
a sintetizzar felicemente il proprio pensiero: importante in special
modo la confutazione di un A. che avrebbe asservito l’arte alla
politica, opinione tante volte ripetuta sino a diventare un luogo
comune: se egli nelle tragedie «versò la politica come parte di sé
ed il sentirsi egli stesso oppresso e schiavo con tanta coscienza
dell’umana dignità, con tanta passione di libertà», non per questo
si deve dire che egli scrivesse tragedie «per inculcare e propagare
le sue politiche opinioni»; «Nessuno amò più, egli osserva, la sua
arte solo per l’arte, vagheggiò un ideale altissimo di tragica
perfezione», «anzi è notabile che le sue tragedie più celebrate
oggi, scrive ancora il critico (e le sue parole van rilevate come
testimonianza della fortuna alfieriana), sono quelle che non hanno
alcuno scopo politico come la Mirra, l’Agamennone e il Saul». Nè si
ripeta con lo Schlegel che i personaggi sono astrazioni, poiché non
già astratte sono le tragedie e i personaggi bensì «un eccesso di
vita cumulato in un punto solo che trabocca in passioni vivacissime,
in violentissime azioni»: la tragedia tende a concentrarsi nel
protagonista, a farsi tutta interiore e intensissima, verrà meno
ogni colorito locale, ogni accessorio storico e domestico, ma non
per questo la poesia. Come ben si vede dalla Mirra che il De Sanctis
vivacemente difende contro i critici francesi i quali in occasione
delle rappresentazioni parigine della Ristori ne avevano acerbamente
criticato il soggetto, la condotta, l’autore: e il saggio, analisi
attentissinia e nuova della tragedia e della protagonista, insieme a
non pochi spunti lasciati nelle lezioni giovanili rappresenta per
noi il contributo più originale della critica alfieriana
dell’Ottocento. Purtroppo le pagine della Storia non giungono a
concludere il precedente lavoro del critico, lasciando irresolute,
anzi esasperando con la giustapposizione di affermazioni recise e di
opposti sensi le contradizioni più o meno esplicite di tutta la
critica alfieriana dell’Ottocento: assai meglio era riuscito il De
Sanctis negli articoli torinesi del ’55 a delineare il proffio
storico del poeta e a determinarne il peculiare originale accento di
poesia. Forse il carattere di tutto quel capitolo, che rimase, come
è noto, per ragioni esterne quasi strozzato, forse il tendere verso
una conclusione di tutta la storia che faceva dell’A. soltanto un
momento di passaggio alla letteratura del secolo seguente,
impedirono all’autore di dare uno sviluppo più complesso e sfumato
al suo pensiero: ma se pur anche qui è in più d’un punto il segno
del grande critico in osservazioni luminose che non possono essere
dimenticate, si ha (o m’inganno) l’impressione che l’A. non lo
prendesse più così come al tempo della scuola napoletana e
dell’esilio torinese e che tutte queste pagine siano piuttosto la
ricapitolazione di un pensiero passato che frutto di una rinnovata
attuale meditazione. Non vi si legge (ma dobbiamo ritenerlo
sottinteso?) quel che in una pagina, che non ricompare nella Storia,
dell’articolo sul Metastasio gli era venuto fatto di scrivere: «La
collera contro la vecchia società colse pure il Metastasio. La
grande ombra di Alfieri calò sopra di lui. Pure una certa voce si
facea via, ma non si osava alzarla troppo. Si dicea così in pochi e
quasi all’orecchio, che Metastasio era poeta nato, e Alfieri volle
esser poeta e non fu. Il segreto oggi è pubblico, e mi pare che
senza taccia di indiscrezione si possa divulgarlo». Se nel
Metastasio egli poteva salutare «l’ultimo grande poeta della vecchia
letteratura», non l’A. che aveva iniziato la nuova, ma più maturi e
vicini poeti e la letteratura stessa del presente in fieri stavano
sulla cima dei suoi pensieri. La grande ombra di Alfieri sembrava
dileguarsi con l’avvento di un’età nuova, di nuovi interessi e
problemi: la sommarietà e le irrisolte contradizioni di queste
pagine desanctisiane non andranno perciò spiegate soltanto con
ragioni estrinseche o personali: l’affievolirsi dell’interesse per
l’A. era ormai proprio del tempo in cui fu composta la Storia.
Soltanto nelle lezioni del Settembrini sentiamo ancora lo spirito
dell’età precedente, se pur nulla di nuovo in fondo porta lo
scrittore nella tematica della critica alfieriana, nè supera quelle
che ne erano le contradizioni alternando senza mediarli giudizi
positivi e giudizi negativi. Rimane, ma è del De Sanctis prima che
sua, l’idea della tragedia alfieriana come «tragedia interiore»
(«L’azione si compie nella coscienza, però non ha nè luogo nè tempo
nè colore storico, perché nella coscienza non c’è nè lo spazio nè il
tempo, ma soltanto l’idea dell’uno e dell’altro») e l’immagine di
essa come «una colonna schiettissima di purissime proporzioni con un
solo giro per capitello e uno per base, non appartenente a nessun
ordine di architettura ma saldo sostegno dove è allogata e di
effetto mirabile», e il paragone con abbozzi di statue
michelangiolesche, come opere in fieri in cui è «il travaglio del
pensiero per diventare un’opera d’arte, ma l’opera d’arte non è
fatta e si vede ancora il sasso» (intuizione che potrebbe essere
sviluppata, ma di cui è dubbio che il critico avvertisse tutta
l’importanza); ma rimane sopra tutto il calore di simpatia di tutto
il discorso e qualche definizione felice come in questo passo:
«Quando si combatte non si ride e l’Alfieri non rise nè potè mai
sorridere anche nelle satire... Egli è accigliato come soldato in
battaglia», e le riserve su certa aneddotica alfieriana non sempre
attendibile: «(I particolari) raccontati da altri mi paiono
piuttosto inventati da coloro che si sentivano umiliati da quello
spirito altero e lo dipinsero rabbioso tiranno in casa sua».
Rare pure negli ultimi decenni del secolo le rappresentazioni di
tragedie alfieriane che dall’ultimo Settecento avevano accompagnato
i vari moti rivoluzionari e negli anni di maggiore tolleranza da
parte dei governi si erano avute con una certa regolarità rendendo
familiare al pubblico anche fra l’ormai prevalente gusto romantico
quel teatro: predilette soprattutto dagli attori e dal pubblico il
Filippo, il Saul, l’Oreste. Famosa l’interpretazione del Saul di
Gustavo Modena (il cui padre era già stato interprete applaudito
dell’A.), anche per il ricordo che ne ha lasciato il suo biografo,
Luigi Bonazzi: al nostro gusto essa ci sembra, oscillante com’è fra
preoccupazioni minutamente realistiche e violenta declamazione (per
il Modena repubblicano e anticlericale il culmine della tragedia era
nell’invettiva antisacerdotale del quarto atto) fondamentalmente
sbagliata. Più fu le interpretazioni di Ernesto Rossi e di Tommaso
Salvini, i quali oltre che nel Saul eccelsero nell’Oreste; e
memorabili quelle di Adelaide Ristori nelle parti di Mirra e di
Rosmunda (della prima l’attrice ha lasciato il ricordo in una
analitica descrizione), sia per sè stesse che per i successi
parigini del 1855 e le discussioni a cui diedero luogo – forse
l’episodio ultimo della fortuna europea dell’Alfieri.
Di scarso interesse i versi di omaggio di Alfred de Vigny (nel 1852
aveva tracciato l’abbozzo di un poema sull’A. e la contessa
d’Albany, alquanto manierato e tale da non far rimpiangere che non
sia stato condotto innanzi); versi pure per la Ristori composero
Alfred de Musset e il Lamartine, che distinguendo fra il poeta e
l’interprete la celebrò come colei che aveva reso al tragico ben più
di quel di cui le fosse debitrice dando il proprio sangue alle ombre
dei drammi alfieriani, una voce e un’anima ai loro fantasmi senza
corpo; e Alessandro Dumas diceva che, tranne uno stile magnifico,
nulla vi era nella Mirra alfieriana e tutto aveva inventato
l’attrice ed esaltando la magnifica interprete della Rosmunda (una
tragedia che per la sua teatralità ebbe particolare fortuna),
affermava che nulla importa conoscerne l’autore, (e chi se lo
chiedeva avendo dinanzi a sè colei che di fatto l’aveva creata?) e
aveva compiuto il prodigio di rimanere simpatica «dans ce rôle
odieux, colérique, insensé, dans cette mégère, dans cette furie,
dans cette Tisiphone»; ma in quella stessa parte essa era apparsa a
Georges Sand una vera rivelazione, una delle rare espressioni della
bellezza che due o tre volte soltanto s’incontrano nella vita: e
Vous êtes dans Rosmunda la divinité de la force et de la vengeance,
une de ces figures que les arts n’ont pu produire que dans les plus
grandes époques». «C’est une statue antique, mais d’un marbre qui
brûle et qui souffre» (anche il Vigny scriverà: «Elle apparut ici /
comme la Passion brillante dans la Sculpture»), ebbe a dire
Théophile Gauthier, al quale l’interprete svelò la grandezza del
poeta e avviò si direbbe all’immagine in cui si riassume la sua
critica: «La tragédie d’Alfieri, dans le genre sobre, rigide et nu
qu’il s’était imposé, est un véritable chef-d’oeuvre. Figurez-vous
un temple du dorique le plus austère, plutôt le temple de Neptune à
Pestum que le Parthènon... un art d’un grandiose aride et d’une
perfection triste. Certes, celui qui a élevé un pareil monument est
un grand architecte, quoi qu’il ne soit peut-être pas agréable
d’habiter son sévère portique»; e con simile gusto Paul de Saint
Victor delineava con tocchi felici e suggestivi quel che egli
sentiva della tragedia alfieriana: «De toutes lea tragédies
d’Alfieri, «Myrrha» est peut-être celle qui résume le mieux son
génie aride et sublime... Ce n’est pas un peintre, mais quel
statuaire! Il ne colore pas, mais comme il creuse! Chaque fois que
j’ouvre une tragédie d’Alfieri, il me semble entrer sous un grand
portique coupé d’ombres frigides et de grandes bandes de chaleur.
Là, tout est marbre, symétrie, solitude, effet de proportions,
majesté de lignes... N’y cherchez aucun des détails et des ornements
de la vie: le couteau dea sacrifices grecs, l’épée dea suicides
romains, la coupe de bronze où la mort fermente, meublent seuls
cette enceinte spartiate où l’air lui-même senible raréflé. Les
personnagee, réduits au nombre strict, s’accostent et se groupent
avec une gravitè lapidaire; une file, jamais de foule; peu de
mouvements, des attitudes, mais rares, frappantes, extraordinaires,
prises dans le marbre d’une fixité qui impose: dea âmes enfin plutôt
que des hommes... Mais quelle vigueur dana cette nudité! quelle
complication de muscles et de nerfs accusent cea écorchés tragiques!
quelle force de structure et de caractère ! Donc, rien d’extérieur
dans Myrrha, l’horrible passion qu’elle recèle y couve à l’état de
feu latent; on marche sur un sol calciné, mais il brûle en secret
jusqu’au dénouement... Je ne sais rien de plus dramatique que cette
âme en peine, entêtée à se taire, et couvant son secret impie dans
un noir silence».
Non troveremo più dopo questi spunti di critica immaginosa,
espressione schietta di un’esperienza autentica della poesia
alfieriana, altre pagine di scrittori non italiani che attestimo una
simile comprensione dell’A. poeta; tranne forse quelle già
menzionate del Dilthey, il quale nel 1875 fu attratto dalla
personalità dell’A., e ne scrisse con una simpatia a cui non fu
estranea la recente unificazione politica dell’Italia e della
Germania, poiché nel subalpino A. gli parve di ravvisare un
rappresentante tipico della Macedonia italiana, affine per indole e
per educazione ai politici piemontesi artefici dell’unità e gli
riconobbe persino il merito di avere rettamente giudicato della
rivoluzione francese, come per troppo tempo non avevano saputo tanti
tedeschi. Ma a parte questo spirito bismarckiano è da rilevare la
lettura attentissima dell’autobiografia del poeta, singolare non
soltanto per l’indole fervidamente appassionata, bensì come «ein
eminent philosophischer Kopf», ammirato dal Dilthey per l’attenta e
precisa descrizione del superamento della passione nella consapevole
scelta della missione di tragico, che lo induce ad accostarlo
addirittura allo Spinoza. Certo quale sia il suo punto di partenza e
il punto d’arrivo, ossia la definizione di una natura per eccellenza
drammatica e di quel che è dramma (al Dilthey non tanto importa
questa o quella tragedia alfieriana quanto la «tragedia» in genere),
l’A. vien fuori dal suo saggio con notevole rilievo e se nuovi non
sono parecchi tratti, come quelli dell’intima coerenza dell’uomo e
dell’opera o della salda unità delle tragedie, liberate dagli
«errori» dei francesi, queste ed altre osservazioni s’impongono per
il particolare punto di vista del critico: così t’accostamento al
Kleist per l’amore della musica e il colore oscuro della visione dei
due poeti, o al Byron per il con simile atteggiamento aristocratico
di fronte ai sovrani del tempo contro cui si erigono da pari a pari
come con un rancore personale in una superba guerra, la congiunta
efficacia di Plutarco e del Montaigne, dal quale ultimo sarebbe
venuto al poeta il suo gusto dell’analisi morale, o l’aria di
famiglia che accomunerebbe l’A. ad altre due grandi individualità di
origine italiana, di identica passionalità e forza romana di
carattere, Mirabeau e Napoleone, il riportare la tragedia del nostro
poeta a un momento preciso della storia, agli anni dopo il 1770, in
cui più insopportabile si fece alle nobili nature dell’Europa il
dispotismo della monarchia assoluta, il giudizio sul trattato del
Principe e delle lettere come una «höchst merkwürdige Abhandlung», e
tipicamente tedesca infine l’osservazione sulla mancanza negli
italiani di «Gemüt» e «Gemütlichkeit»: di qui nell’A. come nei suoi
connazionali l’intensa concentrazione degli affetti al di là dei
quali dominerebbe soltanto la ragione e l’assenza del sentimento
della natura.
Ma non fuori d’Italia soltanto, anche da noi nel secondo Ottocento
l’A. viene fra il pubblico e i critici perdendo di quella vitalità
che aveva serbato nell’età romantica e risorgimentale, quando le
discussioni sulla sua poesia e la sua politica eran state parte
integrante di un più vasto travaglio politico e letterario: egli
resta un grande nome, oggetto di un omaggio se pur smcero obbligato,
e l’opera sua vien definita da formule ormai fisse, residuo di quel
che un giorno era stato pensiero vivo. Caratteristico per questo
Giosuè Carducci: che diciottenne compose un sonetto alfierianamente
atteggiato a Vittorio Alfieri (ma contemporaneamente ne compose
altri al Goldoni, al Panni, al Metastasio, del quale ultimo riteneva
avesse dipinto i Romanì così bene come mai A. e Shakespeare) e una
canzone leopardiana allo scultore Enrico Pazzi quando scolpiva il
busto di Vittorio Alfieri; e, cosa più sua se non bella, nel 1858 la
saffica Alla Libertà, in cui è col preannuncio di accenti dei Giambi
il primo tentativo della ipotiposi alfieriana del Piemonte («Tale il
tuo nume nel gran cor portando / correva Italia l’Astigiano acerbo,
/ e trattò il verso come ferreo brando, / vate superbo: // Te fra
gli avelli sotto il del romano / chiamava; e il nome giù per l’aer
cieco / cupo rendeva a lui dal vaticano / vertice l’eco»). Quei
versi si accompagnano allo studio per l’edizione dei due volumi
(1858-59) delle Satire e poesie minori e Del principe e delle
lettere e altre prose, che, a parte la strana propensione per
l’infelice Etruria vendicata, assai bene si inseriscono per la
scelta e le prefazioni nella contemporanea letteratura alfieriana
(fin dalla prima pagina il Carducci si richiama al Centofanti) pur
con un loro carattere di lettura personale. Ma all’A. di fatto non
tornò più dopo quei primi studi giovanili, pago di serbarne
l’immagine fra quelle dei poeti maestri, a cui era devoto e
presentarla di quando in quando in sentenze epigrafiche, come quelle
della prolusione Del rinnovamento letterario in Italia (1874), o
dell’introduzione alle Letture del Risorgimento italiano (1896): nè
valga come prova in contrario quel corso su Vittorio Alfieri e
tragedie di soggetto romano, di cui son stati conservati mutili gli
appunti e che anche quei pochi documenti rimasti attestano fosse
cosa assai povera e poco personale, tanto che egli stesso non ne
trasse argomento di saggi o di studi: con ben altra cura e impegno,
il raffronto è istruttivo, egli si era dedicato allo studio del
Panini e del Foscolo. All’A. egli si è ispirato per la concezione
del poeta-vate: ma entro quella concezione e in contrasto con essa
aveva portato un’esperienza così diversa che quel poeta-vate sembra
più volte nelle sue pagine piuttosto un proposito che una realtà, e
l’A. finisce per essere soltanto una grande ombra lontana. Così è
nella famosa raffigurazione del Piemonte, che dovrebbe sintetizzare
poeticamente le epigrafi di cui s’è fatto cenno e che ci sembrano
più d’una felici assai più di quei versi ultimi che hanno del
barocco con quel «grande» venuto «come il grande augello ond’ebbe
nome», volante «sopra a l’umile paese fulvo irrequieto» e il suo
gridare: «Italia, Italia» e la risposta delle urne di Arquà e
Ravenna e lo scricchiolare delle ossa dei risorti. Un monumento
commemorativo del precursore del Risorgimento di un gusto simile ad
altri monumenti elevati allora nelle piazze italiane. Certo siamo
lontanissimi da un Foscolo e da un Leopardi nei versi dei quali era
lo spirito del poeta fraterno.
Vero è che le strofe carducciane esprimono col pensiero del poeta il
pensiero del tempo suo sull’A., la cui opera parve aver valore sopra
tutto come preparazione, anzi anticipazione del Risorgimento e dei
modi stessi in cui il Risorgimento si era attuato. Così il Masi
scrive del «suo apostolato politico italiano in cui consiste tutto
l’Alfieri» e dopo aver citato il noto epigramma «Sia pace, ecc.»
commenta: «Quel che poi è accaduto, cioè»; ammette che la tragedia
alfieriana «invecchia teatralmente e si esaurisce insieme con le
vicende storiche della rivoluzione italiana alla quale è
strettamente legata», o ancora che la patria «riempie tutta l’opera
letteraria di lui, e che egli va compiendo e perfezionando il suo
pensiero politico fino a delineare esattamente il concetto della
monarchia costituzionale moderna» con quella scialba commedia che è
L’antidoto, e prefigunando Carlo Alberto nel suo Agide. Altri
invece, come il Mestica, dimostravano che non nella monarchia
costituzionale bensì nella repubblica si compendiava il pensiero
politico alfieriano: ma queste stesse discussioni sul regime
politico che il nostro autore avrebbe propugnato, attestavano come
si fosse lontani da quel che era stato in realtà per lui la
politica.
Così pacifiche interpretazioni dovevano lasciare in ombra l’intimo
tormento dello spirito alfieriano, e perciò la fonte stessa di cui
si alimenta la sua poesia, la quale anche da parte di chi le
tributava elogi e riconoscimenti fu assai meno se non scarsamente
sentita, e considerata sempre più quasi un’appendice dell’opera del
politico, con le solite eccezioni del Filippo e del Saul. Si diffuse
allora il giudizio dello Zanella che la sua fosse ormai «più gloria
d’uomo che di scrittore> e il Masi ancora scrisse che egli «si
levò ad altezza più che di poeta di profeta della patria». Per
questo fiacchi e scarsi di novità sono i pochi studi sulle solite
tragedie come il saggio dello Zumbini sul Saul; il Panzacchi
riprende, senza citarlo, il parallelo del Cattaneo sul Filippo e il
Don Carlos coi medesimi argomenti senza il preciso fine polemico
dello scrittore milanese, e si stupisce come «in tanta abbondanza di
soggetti» l’A., volendo comporre una tragedia d’amore, «sedotto dal
suo demone andasse a cava fuori Mirra», una prova del suo ingegno e
della sua abilità tragica ma fatalmente infelice per la scelta
dell’argomento. Si direbbe che il riconoscimento della grandezza del
tragico gli sia strappato a forza e il conferenziere (questo saggio
sull’A. fu scritto per una conferenza) preferisce ripetere vecchi
motivi dei romantici sulla prepotenza che l’A. avrebbe esercitato su
sé medesimo e sul suo carattere di «eterno pedante» – una
definizione che ben presto si diffuse. Accanto a giudizi come questi
dell’ultimo Ottocento, che assai poco han detto alla più recente
critica alfieriana, acquistan rilievo e importanza giudizi e
osservazioni di scrittori più vicini al tempo e allo spirito
dell’A.: di un Carrer ad esempio, non dotato di qualità critiche
eccelse nè di indole propriamente alfleriana, il quale (ma anche
altro si potrebbe citare) aveva scritto come «i trascorrimenti delle
passioni disperate fossero meglio fatte per la sua anima», e che
perciò «nessuna tragedia d’amore poteva egli condurre si
perfettamente come la Mirra: il cruccio della rea giovane serpeggia
pressoché in ogni verso e nulla di più vero insieme e di più
terribile del suo spirare tra le braccia della nutrice abbandonata
da ogni altra persona nella reggia paterna. Dopo il Saule io l’avrei
per la più compiutamente bella delle tragedie alfieriane»; o ancora
quanto Camillo Ugoni ebbe a dire del Saul, «tragedia meno d’azione
che di sviluppo di un carattere commovente il cui soggetto vero
consiste come in quelle di Shakespeare nello sviluppo del carattere
del protagonista»: «Saul ritrae non poco di quelle grandi catastrofi
umane, di quella lotta col destino che i greci si compiacevano di
rappresentare nelle scene».
Meno che scarso dunque il contributo di quest’età alla critica
alfieriana (fra i giudizi che vi si posson spigolare è notevole
quello del manzoniano D’Ovidio il quale riteneva che tra i prosatoni
settecenteschi «più si dovrebbe ricordare l’Alfieri, che seppe
crearsi una maniera di prosa solida e robusta, a periodi larghi
senza stento»): più importanti le ricerche di carattere biografico
ed erudito, gli studi e le pubblicazioni del Teza, dei Bernardi e
Milanesi, del Renier, del Mazzatinti (al quale si deve oltre l’esame
dei manoscritti di Montpellier l’edizione, sia pure discutibile e
imperfetta, delle lettere), del Fabris, del Novati. Son qui e nel
clima del «metodo storico a, i presupposti della prima sistematica
monografia sull’A. di Emilio Bertana (I ed., 1902; II, 1904). A
quello studioso e alla scuola in cui s’era formato si deve il
proposito di ricercare al di là delle formule ormai fissate e senza
prevenzioni quel che fosse stato in effetto e nella vita e
nell’opera quello scrittore che per l’una e per l’altra era
celebrato sopra tutto come esempio altissimo di uomo e di uomo
nuovo: nè si può dire che i risultati sian stati in tutto manchevoli
per la copia delle notizie nuove ed inedite, per la coerenza della
trattazione abbracciante nei vari aspetti tutta la vita e tutte le
opere del poeta (soltanto delle Commedie il Bertana si è
dimenticato, limitandosi ad accennare all’Antidoto nel capitolo sul
pensiero politico). L’errore suo è stato quello di confondere la
necessaria opera dello storico, il quale non può far proprio, come è
ovvio, il giudizio che di sé medesimo dà un autore o che si è
fissato per una pigra tradizione, con un contradittorio sistematico
e puntiglioso, quasi di giudice istruttore col suo poeta: perciò
egli potè con riserve e limitazioni correggere questa o
quell’opinione e sopra tutto invitare a uno studio diretto di tutta
l’opera alfieriana, ma non riuscì a dare del poeta e dell’uomo un
ritratto suo compiuto e finì dopo così insistenti contestazioni ad
accettare il giudizio corrente. Ma la coerenza stessa del suo errore
e la vivacità della trattazione dovevano sollecitare discussioni sul
suo soggetto e sul suo metodo (come attestano le numerose recensioni
degli stessi più autorevoli rappresentanti della scuola storica e di
Benedetto Croce, che al criterio seguito dal Bertana oppose
obiezioni fondamentali); e una rilettura così attenta delle pagine
alfieriane anche se non ispirata nella sua origine da una simpatia
congeniale per lo spirito e l’arte del poeta, doveva al Bertana
anzitutto e poi ai suoi lettori riproporre nella sua complessità o
se vogliamo nella sua stessa contradittorietà il problema di
quell’uomo, di quel pensiero, di quella poesia: si vedano a tacere
di altre le pagine sul pensiero politico, non più pacificamente
composto in una formula ma seguito nei suoi aspetti diversi e spesso
contrastanti.
Dal Bertana prendono le mosse tutti gli studiosi venuti dopo di lui,
così il russo Glivcenko, che ne discusse i dubbi e le riserve sulla
veridicità alfieriana (ma della monografia di quest’autore (1912)
ampia e compiuta non mi è stato dato conoscere se non quanto se ne
legge in una recensione italiana), come il francese Sirven che
riprese per conto suo le contestazioni al poeta e riuscì anche a
scoprire su di lui e sull’Albany documenti nuovi, ma sordo affatto
alla poesia ed estraneo se altri mai alla sua psicologia di lui la
sua narrazione in un discorso pettegolo e salottiero condotto per
ben otto volumi. E al Bertana si contrappone per gli studi composti
in parte contemporaneamente in parte posteriormente al suo volume e
raccolti nel libro V. A. e la tragedia (1904) Manfredi Porena, che
con spirito consequenziario dimostra l’unità e la coerenza della
vita e dell’opera alfieniana; ma tanto più suggestive e nuove sono
le poche pagine commemorative di Eugenio Donadoni, che non soltanto
si oppone alla «critica demolitrice e invidiosetta» del Bertana ma
alla critica tutta degli ultimi decenni del secolo rifiutando
finalmente i consueti luoghi comuni (come quello dell’A. precursore
dell’Italia presente: «L’Italia politica c’è. Quella dell’Alfieri?
Non direi») e proponendo l’immagine di un A. quale nel suo animo
romantico egli aveva riscoperto, tutta luci e ombre, un A. che si
potrà pure non accettare, ma che è di nuovo persona viva come era
stato per gli uomini del primo Ottocento. Democratico e romantico il
Donadoni sente nell’aristocrazia e nel classicismo dell’A. un limite
fatale, «un conte e un classico non potevano dare di più», ma
avverte pure al di là degli schemi consueti quel che vi è di
originale nella personalità del poeta riportandolo insieme
nell’ambiente che gli fu proprio, l’Europa dell’ultimo Settecento e
agli spiriti della classe entro cui restò chiuso, e scoprendone con
l’ausilio di più recenti esperienze aspetti che lo riaccostavano a
lui e ai suoi contemporanei. Egli per primo ebbe a dirlo per «il
senso più geloso della individualità» ereditato dall’aristocrazia il
«superuomo del suo tempo», e respingendo le viete critiche alle
rigide unità aristoteliche dei drammi alfieriani vi riconoscerà
invece il segno dell’alta consapevolezza d’arte del poeta, che
proprio per questa così serrata concezione del dramma gli vien fatto
di accostare all’Ibsen. Ma particolarmente degno di nota è quanto
dice dell’indeterminatezza dell’ideale alfieriano,
dell’impossibilità per il poeta di comprendere le conquiste del
tempo suo, chiuso sempre nel suo libertanismo aristocratico, del
conseguente suo pessimismo, del senso di smarrimento che di quando
in quando lo coglie in mezzo alla lotta da lui impegnata («Ma spesso
l’Alfieri interrompe il suo duello e allora scorge con ineffabile
terrore davanti a sé il vuoto»), del valore dell’«entusiasmo», del
«forte sentire» per cui l’A. supera le dottrine classicistiche e si
dimostra in un’età prosaica poeta vero.
Era in queste pagine la proposta di una critica nuova, e un
rinnovamento profondo della critica alfieriana si ebbe infatti nel
secolo nostro. Ne ha posto con la consueta sicurezza metodologica le
fondamenta Benedetto Croce, risolutamente respingendo la
tradizionale figura dell’A. precursore del Risorgimento italiano per
riportarlo tra gli spiriti a lui affini dell’Europa del secondo
Settecento e in particolare a quelli dello Sturm und Drang, per
l’ardore indeterminato di libertà, per il culto della passione, per
l’avversione all’intellettualismo settecentesco, e in questo A.
«protoromantico» ha riconosciuto la voce autentica della nuova
poesia, in contrasto con la poesia musicale gnomica didascalica del
Settecento, dando un rapido saggio di lettura poetica con passi
desunti non dal ben noto Saul, bensì da più d’una delle altre
tragedie alfieriane, e distinguendo nel poeta e nelle singole opere
un momento di furore o di accanita battaglia e uno in cui questo
atteggiamento è superato in una lirica comprensione non delle
vittime soltanto ma dello stesso tiranno: e dopo questo saggio, del
1916, ha ribadito più volte la sua convinzione della grandezza
poetica alferiana sino al Saluto a V. A., con cui si conclude il
volume La letteratura italiana del Settecento (1949). E se taluno fu
da queste pagine indotto ad un insistente e monotono richiamo allo
Sturm und Drang (spesso non altrimenti conosciuto), e al motivo del
«superuomo» (con riferimenti anche al più recente Nietzsche), all’io
alfieriano, ecc., ecc. o a meccanizzare la distinzione crociana fra
momento oratorio e passionale e momento poetico nelle tragedie
alfieniane anziché cercare di comprendere, problema lasciato aperto
dal Croce, il nesso dell’uno e dell’altro, oltrechè della politica e
della poesia, così da poter tracciare la storia dello svolgimento
della personalità e della poesia alfieriana, altri svolse più
originalmente i suggerimenti crociani. Prima di tutti Leonello
Vincenti, il cui studio A. e lo «Sturm und Drang» (1932) illumina
come non si potrebbe meglio con raffronti puntuali tra l’A. e gli
Stürmer, l’A. e Schiller, l’A. e i classici tedeschi la personalità
storica e poetica del nostro autore nelle affinità ed anche nelle
differenze con quegli scrittori germanici, sì da essere uno dei
contributi essenziali del nostro tempo alla critica alfieriana:
particolarmente importante quanto il Vincenti scrive sul
«fondamentale pessimismo» alfieniano, che non ha riscontro negli
Stürmer, sulla brama di assoluto che si risolve nel nulla, sulla
«impedita volontà di vivere» che diventa volontà di morte, sul
suicidio come unica catarsi della tragedia alfieriana.
Meno legato al Croce, Attilio Momigliano nell’introduzione e nel
commento del Saul (1921) e della Mirra (1924) attesta il ritorno
all’A. dei lettori più fini del tempo nostro, la riscoperta non solo
delle due notissime tragedie ma anche di altre prima trascurate, del
carattere peculiare della poesia alfieniana quasi di «fulgurazioni»
o rivelazioni poetiche (gli «accesi lampi» del Panini): era come per
il Donadoni una consonanza tra il poeta e il critico, attratto dalla
solitudine, dalla malinconia, dall’intima e chiusa tragicità del
poeta e dei suoi eroi, anche se talora accade al Momigliano di
trasfigurare un poco personaggi e situazioni alfieriane, sopra tutto
nella catarsi del Saul interpretata con spirito che diremmo
manzoniano.
Dal Croce invece prende al pari del Vincenti le mosse Umberto
Calosso con L’anarchia di V. A. (1924), un libro dall’apparenza
paradossale e ciononostante affine nell’idea conduttrice e nelle
conclusioni allo studio così metodico e preciso del Vincenti,
essendo l’«anarchia» intesa non come teoria politica bensì come
motivo informatore della personalità e dell’opera alfieriana e per
sé stessa espressione di un giudizio a un tempo positivo e
limitativo del suo valore, affine se non identica a quell’impeto
primo e indistinto di libertà, a quel «furore» riconosciuto dal
Croce e poi dal Vincenti all’origine dell’opera alfieriana. Dal
libro del Calosso, che va letto con molti grani di sale, e che si
rivela una rievocazione congeniale della personalità e della poesia
dell’A., coerente nonostante l’apparente dispersione, finissima
nelle rapide sintesi di questa e di quella tragedia, di questo o di
quell’aspetto dell’uomo e del poeta e delle sue relazioni con altri
spiriti, son derivati, si può dire, tutti gli studi composti
posteriormente, anche se condotti con metodo e cautela sdegnati dal
geniale Calosso e privi per contro della forza di suggestione delle
sue pagine.
Al rinnovato interesse per l’A. non furono estranee le passioni
politiche dell’Italia del primo dopoguerra e del regime instaurato
dopo il 1922. Lo si avverte nel libro del Calosso e in quello
anteriore di Piero Gobetti, Sulla filosofia politica di V. A.
(1922), in cui si ricercava con una attenta analisi delle operette
politiche da troppo tempo trascurate non più quel che fosse la forma
di governo preferita dall’A. bensì il pensiero del poeta che in
termini politici aveva per il Gobetti enunciato una sua propria
concezione della vita, premessa e fondamento del liberalismo
ottocentesco, consapevole negazione di ogni autoritarismo poggiante
sempre su una concezione trascendente del mondo. Lo studio andava,
più ancora che non accadesse talora al Calosso, al di là della
lettera alfieriana per una sistemazione filosofica conforme al gusto
del tempo: ma nel dialogo col poeta il giovane studioso veniva
delineando il suo proprio pensiero, la sua fede, e quel che può
essere manchevole rispetto all’oggettività della storia trova per un
altro verso un compenso in questo rinnovato interesse per la
integrale personalità dell’A., per i motivi ideali della sua opera,
che si rifaceva come per un Foscolo, per i piemontesi del ’21,
attuale. E attuale lo risentiva il Gobetti tre anni dopo nel colmo
della lotta politica, e di nuovo come in un tempo ormai remoto l’A.
era presentato nelle sue pagine come un maestro e un modello: «Tre
generazioni si educarono in Italia sulla sua opera; e ancora per noi
rappresenta la morale intransigente dell’uomo libero in tempo di
schiavitù». Non dunque una interpretazione storica, bensì un
paradigma di vita morale, incarnandosi nell’A. la lezione
d’intransigenza assoluta che era del Gobetti, e alla quale egli
consacrò la vita. Ma erano pure nelle pagine di lui spunti
autenticamente storici, che furono ripresi e svolti da altri non
senza lo stimolo degli avvenimenti degli anni successivi: dal
Megaro, italo-americano, ad esempio, nel libro coscienzioso e
accurato sul pensiero politico alfieriano, e nel capitolo dedicato
all’A. da Luigi Salvatorelli nel suo Pensiero politico italiano dal
1700 al 1870, in cui è ben messa in luce la posizione dell’A. nel
tempo suo, il significato non puramente individuale (e tanto meno
fantastico come taluno ebbe a giudicare) ma storico dell’opera
politica del poeta, intimamente legata al tempo suo, espressione
prima e coerente e cosciente di una rottura rivoluzionaria. Così
senza che si negasse quanto sugli angusti limiti della politica
alfieriana si era detto da tante parti per tutto il secolo
decimonono e nel nostro, se ne riconosceva il valore positivo nel
suo proprio momento storico.
Tanto meglio era dato intendere e il politico e il poeta quando per
la condizione dei tempi la lotta politica sembrava ridursi ad un
elementare contrasto di oppressori e di oppressi e quel che era
apparso un incubo o una strana immaginazione dell’A, era diventato
realtà se pure dalla realtà stessa non era stato superato, e lo
stato d’animo che è al fondo così della poesia come del pensiero
alfieriano, il senso della personalità compressa ed oppressa,
l’angoscia di un vivere impossibile, non appariva più sentimento
singolare di un uomo singolare, essendo in minore o maggior grado
avvertito da tanti. Si poté allora scrivendo dell’A. alludere
tendenziosamente a cose e a uomini più vicini: ma ben più importanti
di questi scritti occasionali, in cui l’A. serve da schermo (per non
dire di altri di opposti sensi che all’A. si richiamano come
precursore e sui quali è meglio stendere un velo di silenzio), sono
lavori di varia indole e ampiezza che movendo da quella rinnovata
partecipazione al pathos alfieriano han contribuito
all’approfondimento della critica alfieriana. Perciò nel citato
Saluto a V. A. il Croce ha potuto scrivere «che nell’ultimo
trentennio l’Alfieri è stato molto indagato dalla critica italiana
e... che per la prima volta gli sia stata resa quella giustizia per
esser irretita in preconcetti in parte di vecchia accademia, in
parte nuovi romantici e veristici». Certo anche se non tutti
accetteranno integralmente questo giudizio crociano, nella critica
del nostro tempo l’A. è venuto a prendere una parte che non aveva
nel passato: le varie sue tragedie sono state indagate ed illustrate
né più il Saul è apparso l’eccezione, il capolavoro solitario, bensì
la vetta di un complesso travaglio psicologico e poetico e meglio si
è inteso il nesso fra il politico e il poeta e studiato il
linguaggio poetico e prosastico nella sua formazione e nei suoi
risultati e riportato all’interesse dei lettori anche opere minori
prima trascurate. Non occorre qui fare i nomi degli studiosi a cui
si debbono quelle monografie, quei saggi, quei commenti
(l’indicazione ne sarà data nella bibliografia): importa invece
ricordare che dagli studi originali hanno attinto storie letterarie
e manuali, sicché queste interpretazioni non sono rimaste chiuse
nell’ambito degli specialisti ma son diventate di comune possesso.
Esse poi, come accade, hanno dato nuovo impulso alla ricerca
erudita, allo studio delle opere sui manoscritti, alla preparazione
di nuove edizioni, meglio rispondenti alle esigenze critiche di
quelle prima uscite. Anche sui teatri per effetto di questo
rinnovato interesse son tornate più d’una volta le tragedie
alfieriane e non soltanto il Saul, ma pure le poche rimaste famose
nelle interpretazioni ottocentesche e anche altre prima trascurate.
Il Centro alfieriano di Asti, fondato nel 1942 e presieduto da Carlo
Calcaterra e dopo la sua scomparsa da Luigi Fassò, si è proposto di
promuovere e coordinare queste attività scientifiche, artistiche e
divulgative pubblicando una rivista Annali alfieriani, che si è
interrotta dopo i primi due fascicoli (1942 e 1943), e curando una
monumentale edizione sotto gli auspici e con l’aiuto della città e
della provincia di Asti (l’Edizione Astese) di cui sono già usciti
undici volumi comprendenti non solo il testo definitivo ma gli
abbozzi e le prime stesure. Anche per iniziativa del Centro si son
fatte celebrazioni e allestite recite di tragedie affidate ai
migliori attori e registi, che da Asti le hanno portate poi sui vari
teatri d’Italia (e anche all’estero): se esse han serbato sempre un
carattere sperimentale mancando da noi una tradizione teatrale come
è quella di Francia, han dimostrato che la poesia dell’A. ancora è
atta a far presa sul pubblico come cosa viva e non è mero oggetto di
riesumazione da accogliere con compunta e un poco infastidita
reverenza.