Risorgimento

 

Enciclopedia Europea Garzanti (vol. 9 pp. 760-766)

 

Termine che designa, anche fuori d'Italia, il processo storico-politico da cui, nel sec. XIX, nacque lo stato liberale e nazionale italiano unitario.

Indice

■ Le origini

■ Da Napoleone ai moti del 1831

■ Mazzini e il mazzinianesimo

■ La realtà italiana e il moderatismo

■ Il 1848-49

■ La leadership cavouriana e il «revisionismo risorgimentale»

■ Il nuovo stato

■ L'eredità risorgimentale

■ La fine del risorgimento

■ Interpretazioni del risorgimento

■ La letteratura risorgimentale

 

■ Le origini

Le sue origini vanno rintracciate, per consenso divenuto ormai generale dopo le vivaci discussioni del passato, nei nuovi fermenti introdotti nella vita italiana dalla rivoluzione francese nell'ultimo decennio del sec. XVIII: sia direttamente, sulla scia della propaganda rivoluzionaria, sia (e in misura anche maggiore) attraverso la reazione agli abusi dell'occupazione francese da parte degli stessi patrioti e «giacobini» italiani, tra i quali venne così a prender corpo l'idea della repubblica italiana «una e indivisibile».

In tal modo l'idea nazionale italiana nasceva, fin dall'origine, in stretto legame con la rivendicazione di una più ampia libertà e col nuovo contenuto di diritti scaturito da tutto il moto rivoluzionario; e, più specificamente, come espressione e determinazione di tale contenuto sul terreno politico.

Ciò segnava una netta separazione e contrapposizione fra il moto risorgimentale e le spinte xenofobe antifrancesi a carattere sanfedistico di quegli stessi anni; e ancor più nettamente distingueva il moto risorgimentale dai disegni di unificazione politico-diplomatica della penisola che erano stati in varie forme avanzati già durante l'antico regime.

■ Da Napoleone ai moti del 1831

Costretti nei limiti segnati dall'autoritarismo imperiale nel periodo napoleonico, i temi nazionali e liberali sopravvissero e si svilupparono nelle istituzioni e nell'ideale proposto dal Regno Italico, in centri come la torinese Accademia dei concordi, nella letteratura di stampo alfieriano e foscoliano: sì che essi poterono spiegarsi con vigore già qualche anno dopo il 1815 negli ambienti milanesi del «Conciliatore», nelle congiure dei federati e nella connessa rivoluzione piemontese del 1821, nella quale disegni liberali e nazionali già si univano con l'intento di far confluire le ambizioni territoriali sabaude nelle aspirazioni all'unità d'Italia.

Queste finalità e caratteri nazionali mancavano interamente o furono appena accennati nei moti costituzionali di Napoli e Sicilia dello stesso 1820-21: ma la stretta connessione che si è detta tra istanze liberali e movimento nazionale colloca per intero anche quei moti nell'alveo del processo risorgimentale, e vieta di restringere l'ambito cronologico di questo (come da alcuni si vorrebbe, specie nella storiografia anglosassone) al solo trentennio successivo al 1830, che vide la generalizzazione in senso nazionale dei temi di libertà maturati nel periodo precedente.

■ Mazzini e il mazzinianesimo

Se la suddetta generalizzazione si verificò, ciò si deve in primissimo luogo all'opera di G. Mazzini: egli, infatti, del sentimento nazionale italiano fu il massimo educatore, imprimendovi suoi specifici tratti distintivi la cui influenza si estese, fino al 1848 e oltre, assai al di là della corrente democratica, per investire ambienti e strati sociali destinati più tardi a essere assorbiti dal liberalismo e moderatismo cavouriano; e quei tratti restarono anzi a caratterizzare il patriottismo italiano anche nei decenni successivi al trionfo della soluzione monarchica del 1860.

Ma l'unitarismo e il patriottismo mazziniano ebbero anche una componente specificamente democratica, nella misura in cui essi indicarono l'Italia e la sua indipendenza e unità come mete da conquistare con autonoma e diretta partecipazione di popolo, e a tal fine sostituì alle mene delle vecchie società segrete la palese e diretta propaganda indirizzata a tutti gli italiani, che si voleva coinvolgere nella rivoluzione nazionale sulla scia delle minoranze eroiche, animate dal proposito e dall'ideale del sacrificio.

Se anche rimase estraneo al vastissimo mondo contadino, il mazzinianesimo ebbe influenza e consensi assai larghi negli strati popolari e nell'artigianato cittadino, specie del nord e del centro della penisola. E, non meno importante, a Mazzini si dovette una radicale rottura con l'attesa (che aveva caratterizzato anche i moti del 1831) che indipendenza e unità potessero derivare da combinazioni diplomatiche e alleanze europee, e l'affermazione, come imperativo supremo, del dovere degli italiani di conquistarle invece per virtù e forza propria: donde il significato e il valore educativo dei concetti mazziniani di dovere e di azione.

Tutto ciò culminava nell'ideale della «Terza Roma», nella quale avrebbe preso forma la missione universale della nuova Italia come promotrice di libertà in tutta Europa, ed erede della ormai esaurita iniziativa francese. Di questi temi, che fanno di Mazzini uno dei massimi esponenti dell'idea di nazionalità sul piano europeo e mondiale, si è anche sottolineato il rischio che degenerassero nel senso dei più tardi nazionalismi: ma se in epoche successive vi fu certo una ripresa di insegnamenti mazziniani in questa direzione, resta tuttavia indiscutibile lo stretto legame che il mazzinianesimo conservò, in tutta l'età del risorgimento, con i moti popolari e liberali, nell'ideale di una Europa dei popoli contrapposta all'Europa dei re: e ciò basta a distinguerne nettamente la fisionomia storica da quella dei nazionalismi del tardo Ottocento e Novecento.

■ La realtà italiana e il moderatismo

Lo slancio nazionale e popolare del mazzinianesimo si scontrava peraltro con una realtà italiana ancora legata pressoché dovunque a uno stagnante immobilismo, frazionata in una serie di ambienti regionali e locali a malapena comunicanti tra loro, ed estranea per gran parte agli sviluppi della moderna economia e alla cultura che altrove, con l'illuminismo e l'esperienza rivoluzionaria, aveva rotto drasticamente con la tradizione.

Questa realtà, nella quale dominava ancora un ceto di proprietari fondiari e di ottimati locali, sullo sfondo della tradizionale società contadina, non riusciva ancora a esprimere istanze che superassero il quadro dei vecchi stati regionali. Nella misura in cui motivi e aspirazioni tratti dalla cultura liberale europea cominciarono a essere avvertiti da quella classe dirigente, si sviluppò dunque la tendenza a darvi soddisfazione, per quanto possibile, nell'ambito della struttura e dei poteri ei vari stati regionali.

Da questo tentativo di mediazione, nel quindicennio o ventennio precedente il 1848, nacque il moderatismo: il cui nucleo essenziale consistette nell'aspirazione a ottenere, attraverso le riforme civili ed economiche, una serie di graduali miglioramenti che evitassero i rischi della rivoluzione e aprissero in pari tempo la strada a ulteriori progressi nel lontano avvenire. Fra questi, a malapena si menzionava il regime costituzionale: e in genere il pensiero moderato si caratterizzava per una cautela e limitatezza di obiettivi, alla cui radice stava per buona parte l'immobilismo di una struttura produttiva ancora in fase di sostanziale stagnazione.

Questa debolezza delle spinte sociali ed economiche dal basso mostra tutta la fragilità della tesi che nel risorgimento vorrebbe scorgere la risultante della esigenza di creare un mercato nazionale; e mette invece in rilievo la funzione decisiva delle minoranze intellettuali e politiche, alle quali si dovette, con il neoguelfismo, lo spostamento di una parte del mondo cattolico dallo schieramento conservatore a quello liberale e nazionale, e soprattutto la elaborazione di una serie di obiettivi — l'azegliano «Programma per l'opinione nazionale italiana» — che andavano dall'unione doganale alla creazione di un sistema ferroviario che abbracciasse tutta la penisola, a riforme amministrative e giudiziarie, alla unificazione della legislazione commerciale, al liberismo economico, e che erano largamente in anticipo rispetto alle esigenze di un mondo dell'economia ancora così arretrato.

■ Il 1848-49

Il 1848 mostrò tutta la fragilità dell'impostazione moderata, col fallimento della guerra federale, subito compromessa dagli egoismi e dai contrasti dei vari particolarismi statali, e con la precarietà della vocazione liberale di tanta parte della possidenza moderata, assai presto spaventata e delusa, e a null'altro anelante che alla restaurazione del vecchio ordine; mentre la rivoluzione democratica degli intellettuali radicaleggianti e dell'artigianato cittadino veniva abbandonata dai ceti terrieri e non riusciva a conquistare l'appoggio dei contadini, facendo dunque mostra di una drammatica debolezza, nonostante la luce che su di essa e su tutto il risorgimento proiettarono episodi come la estrema difesa di Roma e di Venezia nel 1849.

■ La leadership cavouriana e il «revisionismo risorgimentale»

La via era dunque aperta all'affermazione della leadership cavouriana. Essa costituisce l'esempio più rilevante di quella superiore funzione delle minoranze politiche e intellettuali di cui si diceva: a un livello di modernità ed efficienza assai più elevato di quello raggiunto dal moderatismo prequarantottesco.

Certo, Piemonte e Liguria erano già allora fra le regioni più avanzate di tutto il paese; ma quanto potesse una più attiva e dinamica azione di governo risultò con chiarezza dal ritmo assunto dalla vita economica e dallo sviluppo civile in Piemonte nel «decennio di preparazione», in confronto alla sostanziale stagnazione che invece si registrò fino al 1859 in una regione come la Lombardia, che già era stata e sarà ancora alla testa del processo di modernizzazione.

Alla politica cavouriana riuscì di realizzare quello che in fondo era stato l'obiettivo del moto liberale fin dal 1821, la coalizione cioè delle forze della dinastia sabauda con le aspirazioni nazionali del liberalismo, coalizione ampliata fino a comprendere da un lato l'alleanza francese e dall'altro la spinta democratica e mazziniana, la quale da ultimo venne messa al servizio, attraverso il garibaldinismo, della soluzione monarchico-costituzionale, nonostante gli aspri contrasti e i dissidi che soprawiveranno ancora per molti decenni.

Certo, la nuova Italia realizzata da Cavour fu assai minore di quella auspicata da Mazzini. In luogo della «Roma del popolo», destinata a una missione civile e religiosa di portata universale e a rinnovare la grandezza della Roma dei Cesari e della Roma dei Papi, si aveva un'Italia incapace di portare a fondo il grande conflitto con la cattolicità e ansiosa, invece che di promuovere la liberazione di tutte le nazionalità oppresse, di essere riconosciuta come elemento di stabilità e di conservazione del vigente assetto europeo.

In luogo di un'Italia che fosse la patria di tutti gli italiani, si aveva uno stato che consacrava il privilegio politico e sociale di una minoranza e nel quale presto si profilò il problema gravissimo derivante dalla estraneità alla vita politica delle masse contadine, per gran parte ancora soggette all'influsso clericale, e dalla opposizione di quegli strati dell'artigianato cittadino che avevano costituito il nerbo del Partito d'azione mazziniano e partecipavano della sua delusione e della sua sconfitta.

Per di più, questa Italia unificata dall'iniziativa politica della borghesia settentrionale apparirà presto, al disotto della mistica dell'Unità, con il duplice volto delle «due Italie» e da alcuni si comincerà a parlare di conquista operata dall'una ai danni dell'altra.

Una intera corrente di «revisionismo risorgimentale» si alimentò di tutto questo: e per suo impulso a lungo si è discusso, e tuttora si discute, di ciò che avrebbe potuto essere un'Italia nata, invece che dalla diplomazia cavouriana, da una costituente mazziniana radunata sul Campidoglio, ovvero da una rivoluzione agraria che superasse le fratture sociali più gravi della società italiana.

■ Il nuovo stato

Ma se il nuovo stato può apparire inferiore nel raffronto con questi ipotetici e un po' mitici modelli, non è invece da discutere la sua superiorità nei confronti della restante società italiana. Non compressione e repressione di istanze più vaste prementi al disotto del vecchio assetto politico fu il risorgimento, ma instaurazione di una struttura politico-sociale ed economica che era largamente in anticipo sullo stadio di sviluppo raggiunto dal paese, lo sollecitava su vie di progresso non ancora intraprese, gli proponeva modelli di civiltà moderna che, se non comparabili a quelli realizzati nei paesi più avanzati, erano tuttavia europei e moderni.

E ciò va anche considerato per un retto giudizio sui caratte «autoritari» ed «elitari» che per molti decenni conservò il nuovo stato, e che, se in parte derivavano da eredità del vecchio assolutismo sabaudo e da chiusure ed esclusivismi della borghesia moderata, e non solo di quella moderata, furono d'altra parte la condizione e lo strumento indispensabile perché su un paese arretrato e gravato da tare così numerose potesse affermarsi la volontà di progresso politico e civile della minoranza risorgimentale.

Del resto, nei decenni successivi le istituzioni liberali si mostrarono sufficientemente elastiche da assorbire gradualmente istanze e forze nuove, sì che nel 1915 l'Italia era certo un paese socialmente più fuso, più moderno e più libero di quanto non fosse stato nei primi decenni dopo l'Unità.

■ L'eredità risorgimentale

Dal risorgimento quell'Italia aveva ereditato e conservava tuttora il nuovo e più alto sentimento di sé che riempiva l'animo dei migliori fra gli italiani, convinti adesso di poter avere nel quadro del mondo e della civiltà moderna una parte non troppo inferiore a quella dei maggiori paesi d'Europa; l'identificazione dell'idea di nazione e di quella di libertà, sì che l'una appariva realizzazione concreta e sostegno dell'altra; il senso severo del bene pubblico e la coscienza del dovere verso il paese, avvertito e praticato con maggiore o minore purezza, ma indiscusso come supremo criterio regolativo delle coscienze. E la forza di quella tradizione e di quei valori fu testimoniata anche più tardi, durante il fascismo, quando, accanto a rivendicazioni di continuità mazziniana avanzate dallo stesso regime dominante, la tradizione e l'ideale del risorgimento ispirò la più nobile e più colta opposizione liberale.

■ La fine del risorgimento

E tuttavia, proprio in questo appello da opposte parti al risorgimento si scorge la sua fine come concreto ideale etico-politico, quale aveva continuato a operare (nel senso che si è detto) fino alla crisi della prima guerra mondiale. Con l'avvento del fascismo fu proprio l'antica unione di patria e libertà, di monarchia e parlamento, di senso nazionale e istituzioni liberali, di patriottismo e di solidarietà con la grande corrente della libertà moderna, che era stata caratteristica del risorgimento, a essere spezzata. I due tronconi della vecchia unità risorgimentale vissero in certo modo, nel ventennio, la loro vita separata e contrastante, e si impersonarono da un lato nell'opposizione liberale e dall'altro nell'esasperazione nazionalistica del fascismo. Doveva esplodere poi nella guerra l'estremo contrasto fra i due filoni, destinati ad avvolgersi in contraddizioni inestricabili, nel tentativo di far sopravvivere separati due termini che solo dalla loro unione avevano tratto le proprie ragioni di vitalità storica: come si vide da un lato nella riduzione del fascismo a indiscriminata violenza nazionalistica nell'ultima tragica fase della sua storia, e dall'altro nella visione della guerra, da parte dell'opposizione, come guerra civile e di religione, che indusse ad augurare persino la sconfitta militare: posizione impensabile in termini non solo di risorgimento ma anche di educazione carducciana o di liberalismo giolittiano. Caduto il fascismo, anche l'opposizione antifascista di tipo liberale e risorgimentale smarrì rapidamente il significato che aveva avuto quando ancora si prospettava una possibile ripresa della tradizione nei termini del prefascismo: significato che venne meno invece nella nuova Italia del dopoguerra, nella quale altre forze e altri ideali hanno preso il posto di quelli di eredità ottocentesca, e hanno occupato il terreno nel quale aveva operato la tradizione risorgimentale.

Rosario Romeo

■ Interpretazioni del risorgimento

Una iniziale riflessione critica sul risorgimento aperta a esiti storiografici si delineò già nel corso del risorgimento stesso per opera di alcuni suoi attori e testimoni, che furono sollecitati a ripensare gli avvenimenti soprattutto dal fallimento della rivoluzione del 1848-49. Infatti negli anni immediatamente successivi al '48, nel quadro dell'intenso dibattito sviluppatosi sulle prospettive del movimento nazionale, apparvero una serie di opere di taglio storico che, al di là della passione di parte che le animava e ne faceva strumenti dell'operare politico, miravano pur sempre a fornire una rappresentazione e un'interpretazione storica dei più recenti avvenimenti italiani.

A una visione liberal-moderata, che metteva in risalto la funzione positiva del metodo delle riforme e sottolineava la necessità dell'apporto del Piemonte sabaudo e nella quale non c'era spazio per una valutazione obiettiva della funzione di stimolo svolta dai democratici, si ispirarono Gli ultimi rivolgimenti italiani di F.A. Gualterio (1850-51, 4 voll.) e Lo stato romano dall'anno 1815 all'anno 1850 di L.C. Farini (1850-53, 4 voll.); e allo stesso orientamento si può ricondurre la Storia d'Italia dal 1815 al 1850 (1851-52, 6 voll.) dell'ex democratico e neoghibellino G. La Farina, opera di taglio pubblicistico vivacizzata da una risentita polemica antipapale, che fu poi continuata da L. Zini con la sua Storia d'Italia dal 1850 al 1866 (1866-69, 4 voll.).

Nell'opposto campo democratico G. Mazzini, il leader del repubblicanesimo unitario, nei Cenni e documenti intorno all'insurrezione lombarda e alla guerra regia del 1848 (1849) faceva invece risaltare, di contro a quello che giudicava un tradimento obiettivo dei moderati (che con la loro diffidenza verso le forze popolari avevano aperto la strada alla vittoria della reazione), i meriti storici della parte democratica, alla cui capacità di sacrificio erano da ascrivere la trasformazione dell'idea unitaria in forza politica concretamente operante e la maturazione della questione dell'indipendenza.

E proprio il ripensamento critico delle vicende quarantottesche contribuì a fare emergere più chiaramente all'interno della democrazia la presenza di posizioni critiche nei confronti di Mazzini. Così nello scritto Dell'insurrezione di Milano nel 1848 e della successiva guerra (1849) C. Cattaneo muoveva al rivoluzionario genovese l'accusa di aver sacrificato la libertà all'indipendenza, mettendo a tacere i principi di fronte agli illusori vantaggi promessi dalla forza materiale del Piemonte regio: critica che sta alla radice del sempre più netto distacco dal mazziniano Partito d'azione da parte di Cattaneo, preoccupato delle conseguenze che sull'assetto civile e democratico del paese avrebbe potuto avere l'unitarismo mazziniano, che gli pareva livellatore di quella varietà delle «patrie singolari» nella quale egli individuava il tratto distintivo fondamentale della storia italiana.

Il rigetto delle posizioni mazziniane appariva poi ancora più marcato nei passionali bilanci storici tracciati da alcuni rappresentanti della corrente democratica estrema (il «socialismo risorgimentale»), che accusavano Mazzini di limitare la rivoluzione sul terreno puramente politico e di non voler approfondire i suoi contenuti sociali, i soli capaci — a loro avviso — di saldare alla rivoluzione nazionale le classi popolari, e in primo luogo le masse contadine. Così G. Montanelli nell'Introduzione ad alcuni appunti storici sulla rivoluzione d'Italia (1851), dopo aver additato nel papato il nemico principale della causa italiana, affermava che l'errore principale del '48 era stato quello di aver ridotto la rivoluzione a una questione di confini, mentre il problema centrale era invece quello della libertà interna, insolubile se non si colpiva al cuore il perno della reazione europea, vale a dire la lega degli interessi capitalistici, la «feudalità del denaro»: donde la necessità che i democratici italiani si collegassero strettamente con i rivoluzionari, il che nelle condizioni date voleva dire con l'iniziativa «socialista» della Francia.

E a sua volta anche C. Pisacane, nel ripercorrere nella Guerra combattuta in Italia negli anni 1848-49 (1851) le vicende quarantottesche, faceva ruotare la sua penetrante ricostruzione intorno alla costatazione della radicale insufficienza dei rivoluzionari «formali» (Mazzini e i mazziniani) a dirigere il movimento italiano, perché i loro programmi erano incapaci di spingere all'azione le masse popolari; il compito più urgente gli pareva quindi la creazione di un partito socialista italiano realmente rivoluzionario, in grado di mobilitare le masse popolari urbane e specie rurali (facendo leva sul loro «desiderio di migliorare») e di realizzare con il loro appoggio una rivoluzione integrale, che intaccasse le basi del privilegio economico abbattendo la borghesia e dando vita a una società di liberi ed eguali.

Il problema del rapporto tra risorgimento e classi popolari, soprattutto delle campagne, costituiva il nucleo anche dello stimolante «frammento» di I. Nievo sulla Rivoluzione nazionale (1861): in quelle pagine lo scrittore veneto si proponeva infatti di richiamare l'attenzione dell'opinione pubblica «letterata» sull'apatia e anche ostilità della grande maggioranza del paese (la «nazione illetterata» delle campagne) nei confronti del processo di formazione dell'Unità; e per spiegare l'atteggiamento dei contadini chiamava in causa la loro condizione di miseria e di degradante dipendenza dai proprietari, che favoriva il fermentare di pericolosi odi antipadronali: anche se poi a giudizio di Nievo, che restava all'interno dell'area liberal-moderata e prendeva le distanze dalla democrazia «socialista», i contadini erano naturalmente refrattari alle teorie socialiste perché la loro aspirazione di fondo era quella alla proprietà individuale della terra che lavoravano.

Meno vivace e mosso appare il panorama nei primi decenni successivi all'Unità, nei quali pure continuò a prevalere una storiografia di partito e politicamente impegnata, anche se più attenta all'esigenza della documentazione. Alla scuola storica di tendenza moderata si devono così riportare le ponderose opere di N. Bianchi, caratterizzate da un'ampia utilizzazione di fonti archivistiche e da un corto respiro interpretativo, condizionate come sono dall'intento apologetico della dinastia sabauda (Storia documentata della diplomazia europea in Italia dall'anno 1814 all'anno 1861, 1865-72, 8 voll.; Storia della monarchia piemontese dal 1773 sino all'anno 1861, 1877-85, 4 voll., incompiuta); quelle di L. Chiala, che fornirono la prima documentazione di base per la ricostruzione dell'opera di Cavour e del gruppo dirigente liberale piemontese; e quelle infine di G. Massari, autore di biografie di Gioberti e di Cavour; e alla stessa ispirazione politica si rifanno le ampie rievocazioni cronistico-aneddotiche di R. De Cesare sugli ultimi tempi del Regno di Napoli e dello Stato della Chiesa.

Agli ideali democratici si ispiravano invece la Storia d'Italia dal 1814 al 1850 (1856,2 voll., condotta nelle successive edizioni sino al 1867), ampia e onesta compilazione dall'andamento moraleggiante redatta da L. Anelli (autore nel 1880 del più personale scritto I sedici anni del governo dei moderati — dato alle stampe solo nel 1929 — violenta requisitoria contro la destra storica che utilizzava ampiamente le idee di Cattaneo e G. Ferrari) e la Storia critica del risorgimento italiano (1888-97, 9 voll.), del garibaldino e radicale C. Tivaroni, ricostruzione di impianto positivistico, minuziosa ma poco elaborata.

Ben altro vigore storiografico emergeva invece nel primo contributo alla storia del risorgimento di G. Salvemini, I partiti politici milanesi nel secolo XIX (1899), in cui l'ispirazione antimoderata e antinobiliare mutuata da Cattaneo prendeva nuovo vigore e concretezza nel tentativo (influenzato dalla scuola economico-giuridica e dal materialismo storico) di istituire un rapporto organico tra le correnti politiche risorgimentali e la loro base di classe.

In quegli stessi anni anche i caduti regimi reazionari trovarono i loro difensori, come il papalino G. Spada, la cui informata Storia della rivoluzione di Roma (1862-69, 3 voll.) mirava a dipingere la crisi rivoluzionaria romana del '48-49 come il frutto dell'opera di elementi «forestieri», e G. De Sivo, che nella Storia delle Due Sicilie dal 1847 al 1861 (1861-67, 5 voll.) si proponeva di riabilitare il governo borbonico e utilizzava con abilità l'arma della satira contro i vincitori; e assai poco tenero nei confronti degli esiti laici del risorgimento si dimostrava l'ex cattolico-liberale C. Cantù nella sua «cronistoria» Dell'indipendenza d'Italia (1872-77, 3 voll.), costruita in buona parte sui materiali dell'Archivio di Stato di Milano.

Una posizione originale e solitaria tenne, allo spirare del sec. XIX, A. Oriani per il suo distacco dall'ancora dominante storiografia filologica e per lo sforzo di dominare dall'alto di un principio la congerie degli accadimenti; nella sua La lotta politica in Italia (1892), opera ricca di toni oratori e di empiti nazionalistici, Oriani cercava infatti di aggregare la secolare storia italiana e quella del risorgimento intorno al contrasto fra le tradizioni federalistiche e la tendenza all'Unità, riuscita vittoriosa per l'eroica volontà di una minoranza che si era imposta alle masse popolari rimaste inerti.

A partire dai primi anni del nuovo secolo, all'ideale di una imparzialità di stampo giudiziario, che voleva cioè considerare i personaggi alla stregua di imputati davanti al «tribunale della storia», intese orientare la sua lunga attività di studioso A. Luzio, il rappresentante più tipico della scuola erudito-filologica prevalsa sino alla prima guerra mondiale; ma nella pratica la sua vasta produzione, che pure ebbe il merito di ricostruire su fonti di prima mano momenti nodali della vicenda risorgimentale (i processi del '21, la fase carbonara di Mazzini, le cinque giornate, la cospirazione e il processo dei «martiri di Belfiore»), fu troppo spesso condizionata negativamente dalla passione politica dell'autore (clerico-moderato e poi fascista), come appare evidente soprattutto in quell'attacco a fondo alla massoneria che è il saggio del 1925 La massoneria e il risorgimento italiano.

Vie diverse da quella essenzialmente politica di Luzio percorsero nei primi anni del secolo alcuni studiosi di indirizzo liberale che indagarono la realtà economica e finanziaria del Piemonte tra Settecento e Ottocento in opere di grande rilievo, come La vita economica in Piemonte a mezzo il secolo XVIII (1908) di G. Prato, Due secoli di vita agricola (nel vercellese; 1908) di S. Pugliese e La finanza sabauda all'aprirsi del secolo XVIII e durante la guerra di successione spagnuola (1908) di L. Einaudi.

Ricerche alle quali si possono affiancare, come testimonianza del superamento di una impostazione meramente politica e dell'allargamento della visuale ai processi socioeconomici, al dibattito delle idee economiche e alle strutture amministrative, i lavori di E. Rota e A. Sandonà sulla Lombardia (rispettivamente L'Austria in Lombardia e la preparazione del movimento democratico cisalpino, 1911, e Il Regno Lombardo-Veneto, 1920), di A. Anzilotti sulla Toscana settecentesca, di M. Schipa sul Regno di Napoli sotto Carlo di Borbone (1904) e di R. Ciasca sulla formazione del programma nazionale negli anni tra la rivoluzione francese e il 1847 (1916).

Dopo la prima guerra mondiale, proprio mentre entrava in crisi lo stato liberale e si affermava al potere la dittatura fascista, gli studi storici furono influenzati in larga misura dallo storicismo idealistico di B. Croce; più in particolare una funzione essenziale svolse la sua Storia d'Italia dal 1871 al 1915 (1928), nella quale Croce tracciava un quadro largamente positivo dell'Italia liberale quale era uscita dal risorgimento e lasciava emergere un giudizio di dura condanna del fascismo, visto come una parentesi accidentale e improvvisa che aveva interrotto l'espandersi della civiltà liberale.

Nel solco della crociana «religione della libertà» sviluppò poi una coraggiosa difesa degli ideali e dell'azione liberale nel risorgimento A. Omodeo, che ridimensionò polemicamente le amplificazioni dell'opera di Carlo Alberto tentate dalla storiografia sabaudista (La leggenda di Carlo Alberto nella recente storiografia, 1941), e in contrapposizione con la diffusa immagine di Cavour come «Realpolitiker» ne ricostruì l'attività politica in chiave liberale, mettendo in evidenza il ruolo da lui svolto nella formazione del regime parlamentare in Piemonte e poi nello stato italiano (L'opera politica del conte di Cavour, 1940, 2 voll.).

Affine per più versi a quella di Omodeo, anche se culturalmente più eclettica, fu la posizione di L. Salvatorelli che, in contrasto con la storiografia di ispirazione fascista e conservatrice, rivalutò la tradizione del pensiero liberale e democratico del risorgimento, recuperando le correnti illuministiche settecentesche e sottolineando l'apporto essenziale del mazzinianesimo (Il pensiero politico italiano dal 1700 al 1870, 1935; Pensiero e azione del risorgimento, 1943).

In direzione opposta andava invece la valutazione del corso storico dell'Italia risorgimentale e contemporanea di G. Volpe, la più meditata interpretazione fascista del risorgimento, giudicato «fatto di potenza» più che di libertà, che faceva battere l'accento sul processo di costruzione territoriale e statale, sottolineava il ruolo della politica estera, manifestazione prima della vita nazionale, e scorgeva nel fascismo il momento culminante della più recente storia del paese (L'Italia in cammino, 1927; L'Italia moderna: 1815-1914, 1943-52, 3 voll.).

Su un piano più scopertamente strumentale si collocarono poi durante il ventennio fascista i sostenitori della tesi sabaudista, che insistevano sul ruolo della «conquista regia» e spostavano di conseguenza all'indietro, sino all'inizio del Settecento (quando con il trattato di Utrecht si sarebbe rafforzata la posizione dei Savoia) le origini del risorgimento (A. Solmi, F. Ercole ecc.).

Singolare, nel suo radicale «revisionismo», fu infine la prospettiva di P. Gobetti che, alla ricerca delle ragioni della crisi dell'Italia liberale sboccata nel fascismo, individuava nei suoi scritti (La rivoluzione liberale, 1924; Risorgimento senza eroi, 1926) il limite di fondo del risorgimento (una «rivoluzione fallita») nella mancata «riforma religiosa» in Italia: il che, impedendo al liberalismo di farsi democrazia, aveva determinato l'estraneità delle masse popolari dalla lotta politica e aveva portato alla formazione di uno stato che era rimasto un congegno amministrativo nelle mani di pochi privilegiati.

Dopo la caduta del fascismo, la fine del secondo conflitto mondiale e la nascita della repubblica l'esigenza di una riconsiderazione critica delle drammatiche vicende da cui usciva il paese, l'articolarsi di una dialettica democratica segnata dalla presenza di forti partiti di massa di ispirazione cattolica, comunista e socialista nei quali si riconoscevano larghe frazioni delle classi lavoratrici, lo stimolo a operare un collegamento più stretto tra passato e presente in funzione delle nuove prospettive che si aprivano alla società politica e civile contribuirono a determinare un profondo rinnovamento degli studi sul risorgimento.

Mentre si esaurivano i filoni nazionalistico e filosabaudo e finiva con l'essere generalmente accettata la stretta connessione tra rivoluzione francese e origini del risorgimento, un profondo influsso sugli storici che si richiamavano al marxismo (ma non soltanto su quelli) venne esercitato dalla riflessione che sul processo risorgimentale aveva compiuto, a cavallo degli anni Trenta, A. Gramsci nei suoi Quaderni del carcere e che venne portata a conoscenza del pubblico nel 1949 (Il risorgimento). Nelle sue pagine Gramsci analizzava il rapporto tra moderati e democratici (le forze che si erano contese la direzione della «rivoluzione borghese»), utilizzando come criterio interpretativo il concetto di «intellettuale organico», legato cioè più o meno organicamente a un gruppo socio-economico e distinto perciò dagli intellettuali «tradizionali» (forniti di una loro ininterrotta continuità storica, come gli ecclesiastici, e in possesso di una propria articolazione e struttura).

La vittoria finale dei moderati si spiegava infatti, a giudizio di Gramsci, con il fatto che essi costituivano un gruppo sociale omogeneo, erano insomma l'espressione delle classi alte alle quali in generale appartenevano anche per la loro funzione e collocazione economica, mentre invece i democratici non erano espressione di,una classe sociale omogenea. Il Partito d'azione avrebbe potuto porsi come forza autonoma e costruire un'alternativa all'«egemonia» dei moderati dandosi un programma di governo che facesse proprie le aspirazioni essenziali delle popolazioni rurali, e in primo luogo quella alla proprietà della terra; ma i democratici non imboccarono la via «giacobina» della rivoluzione contadina e rimasero quindi sostanzialmente subalterni rispetto ai moderati.

E tesi affini a quelle di Gramsci furono avanzate da un altro storico militante nel PCI, E. Sereni, nel suo Il capitalismo nelle campagne (1860-1900), una raccolta di saggi composti negli anni immediatamente precedenti la seconda guerra mondiale e modellati sull'opera di Lenin Lo sviluppo del capitalismo in Russia: per Sereni la mancata rivoluzione agraria — resa impossibile dal compromesso tra gruppi di moderna borghesia imprenditoriale e finanziaria e il vecchio ceto dei grandi proprietari fondiari che aveva sanzionato la conclusione moderata del risorgimento — costituiva la ragione essenziale della permanenza di quei profondi residui feudali nelle campagne italiane che, restringendo il mercato interno, avevano intralciato la penetrazione di più avanzati rapporti capitalistici nelle campagne.

Queste posizioni suscitarono le obiezioni di qualificati esponenti della storiografia di indirizzo etico-politico come F. Chabod, il quale sostenne (1952) che Gramsci, nel formulare le sue tesi sulla questione agraria nel risorgimento, aveva ceduto alla suggestione di esigenze politico-pratiche, trasferendo indebitamente nell'Ottocento una problematica emersa soltanto negli anni del primo dopoguerra, quando il Partito socialista fu posto davanti al problema della difficoltà del suo radicamento tra le masse rurali.

Più articolati e interni alla sostanza della questione furono i successivi interventi di R. Romeo (raccolti in Risorgimento e capitalismo, 1959) che, isolando dall'insieme della riflessione gramsciana l'elemento della mancata rivoluzione agraria, contestò la tesi diffusa tra gli storici marxisti che la struttura economico-sociale realizzatasi con il risorgimento rappresentasse una soluzione storicamente più arretrata di quella che si sarebbe potuto raggiungere con una radicalizzazione del processo storico che avesse portato all'attribuzione ai contadini delle terre dei granai proprietari.

Per Romeo, infatti, tra il 1860 e il 1885 si verificò in Italia una «accumulazione originaria» del capitale, resa possibile da un rilevante aumento della produzione agricola; accumulazione che permise la costruzione delle infrastrutture essenziali del paese e che non ci sarebbe stata se nel risorgimento si fosse realizzata una riforma agraria che avrebbe portato alla liquidazione degli elementi capitalistici presenti in alcune zone delle campagne (la valle padana) e avrebbe aumentato i consumi contadini contraendo i risparmi.

Ma al di là delle matrici ideologiche e delle scelte di campo politiche degli storici delle generazioni del secondo dopoguerra, la storiografia risorgimentale è entrata ormai in una nuova fase contraddistinta da un più marcato impegno problematico, da un più intenso sforzo interpretativo delle singole personalità (da Cavour a Mazzini, da Gioberti a Pisacane) e delle correnti politiche (dai moderati ai democratici, dai cattolico-liberali ai reazionari), da un costante allargamento della ricerca a settori nuovi che ha portato a risultati di rilievo nella ricostruzione delle vicende economiche e delle strutture sociali della variegata Italia preunitaria.

Franco Della Peruta

■ La letteratura risorgimentale

Già S. Pellico testimoniava che in Italia «romantico fu riconosciuto sinonimo di liberale», e l'equazione resta tuttora valida anche se studi recenti hanno posto in luce figure di classicisti patrioti come P. Giordani, i quali rivendicavano il valore intangibile dell'eredità umanistica proprio a esaltazione dell'orgoglio nazionale, offeso dalle mode e dai «fantasmi» importati dal nord (atteggiamento cui aderì all'inizio anche G. Leopardi, approfondendo poi per suo conto il carattere di inferiorità e d'«infelicità» della poesia moderna rispetto all'antica).

Sono eccezioni (quella di Giordani o, sul fronte opposto, quella di C. Cantù romantico reazionario dopo una parentesi liberale) che non smentiscono la regola. Sarebbe difficile, infatti, negare le implicazioni politiche della «battaglia romantica» del 1816 o gli intenti civili e pragmatici sottesi alle formulazioni teoriche dei maggiori esponenti della «nuova scuola», da G. Berchet a P. Borsieri, L. di Breme, E. Visconti; ancora nel '52 C. Tenca, una delle intelligenze più lucide ed equilibrate dell'epoca, concludeva il suo articolo-recensione intorno al Compendio della storia della letteratura italiana di P. Emiliani Giudici asserendo che compito degli scrittori era di «rifare il paese, grande, austero, degno de' suoi destini».

Da ciò appare evidente che il motivo nazionale-patriottico ha condizionato la cultura italiana fin oltre la metà del sec. XIX, producendo le ben note limitazioni del nostro romanticismo: un romanticismo che, assegnando il primato non già all'autonomia dell'arte e alla sua forza liberatrice, bensì all'utilità e alla funzione educativa dell'atto estetico, restava saldamente ancorato alle matrici illuministiche del Settecento e restringeva il suo terreno d'incontro con le nuove poetiche europee al solo tema (schlegeliano) della letteratura come «espressione della società», senza apertura alcuna verso le suggestioni (più tipicamente e radicalmente romantiche) della fiaba, del sogno, della Sehnsucht.

Ammessa dunque una convergenza di fondo fra risorgimento e romanticismo (che renderebbe superflua o accessoria la nozione stessa di «letteratura risorgimentale»), resta la possibilità di individuare taluni aspetti della produzione letteraria ottocentesca su cui più direttamente ha inciso il movimento per l'unità e l'indipendenza del paese. In primo luogo, com'è ovvio, andranno citate le opere di storiografia e saggistica politica, che nel loro insieme documentano l'ampiezza e complessità del dibattito ideologico risorgimentale, in una gamma estesissima di posizioni che va dal moderatismo neoguelfo e giobertiano di C. Balbo, M. d'Azeglio, L.C. Farmi alla mistica rivoluzionaria di G. Mazzini, dal neoghibellinismo (solo iniziale) di G. La Farina al federalismo di C. Cattaneo (particolarmente attento ai problemi del progresso economico e scientifico della penisola) fino al socialismo proudhoniano di G. Ferrari e a quello più radicale, antiborghese e libertario, di C. Pisacane.

Sono atteggiamenti conflittuali che solo in parte si riflettono nel giornalismo contemporaneo, largamente monopolizzato dal partito moderato, il quale riuscì a mantenere salda la tradizione apertasi col milanese «Conciliatore» e continuata con pari prestigio dall'«Antologia» fiorentina di G.P. Vieusseux e dai torinesi «Il Risorgimento» e «L'Opinione»; mentre la circolazione del pensiero mazziniano venne per lo più affidata a fogli clandestini compilati all'estero (primo fra tutti la «Giovine Italia», pubblicata dal 1832 a Marsiglia) e i programmi di Cattaneo si diffusero attraverso un giornale abbastanza elitario, rivolto alla borghesia colta e industriale milanese, quale «Il Politecnico».

Non minore influenza esercitarono gli ideali del risorgimento sulla storiografia e la critica letteraria, come riesce subito intuitivo se appena si pensa all'incolmabile distacco che separa la grande impresa di G. Tiraboschi (dove l'Italia è poco più che una delimitazione feografica) dalla Storia della letteratura italiana (1871) di F. De Sanctis, che è anzitutto storia e interpretazione di una civiltà e di una nazione.

E prima ancora si era segnalato fra gli altri, anche per la sua faziosità ghibellina, il citato Compendio di Emiliani Giudici, cui è possibile accostare le battagliere Lezioni di letteratura italiana ( 186672) di L. Settembrini, che proclamavano di voler non già «narrare la storia della nostra letteratura» ma considerare «la letteratura nostra nella nostra storia». Ne uscirono schemi storiografici deformanti, eppure dotati di una forza di persuasione che assicurerà loro lunga vita: la letteratura dell'età comunale vista sotto il profilo etico e civile, il mito di Dante genio della nazione o addirittura profeta del risorgimento, la condanna di epoche moralmente «fiacche» come il Cinquecento e il Seicento, il periodo del rinnovamento con le figure «monumentizzate» di G. Parini e V. Alfieri.

Spostandoci sul piano della letteratura in senso proprio, s'incontra il capitolo fondamentale dei libri di memorie, i quali contribuirono a diffondere la tipologia romantica del patriota esule o prigioniero, nell'ottica di un'autobiografia «esemplare» che servisse a foggiare la coscienza del futuro cittadino italiano. I testi classici sono: Le mie prigioni (1832) di Pellico, fautrici di una versione cattolica e «rassegnata» della lotta politica; Il manoscritto di un prigioniero (1833) di C. Bini, il più libero e spregiudicato dei nostri memorialisti, l'unico che adotti come strumento di analisi e denuncia l'arma sottile dell'umorismo sterniano; I miei ricordi (1867) di d'Azeglio, ritratto emblematico di un politico-artista piemontese capace di conciliare il grigio pedagogismo del suo credo conservatore con le attrattive d'una vita socievole e galante; infine le impetuose Ricordanze (postume, 1879) di Settembrini, gonfie di fede nella bontà degli uomini in generale e, in particolare, nella generosità dei giovani, i quali sarebbero riusciti ad abbattere, nel meridione, le forze oscurantiste del papato e dei Borbone.

Un discorso a parte richiederebbe poi la memorialistica garibaldina che, soprattutto attraverso i capolavori di G.C. Abba e G. Bandi, avvierà una sorta di riduzione dell'idealismo romantico-risorgimentale in termini di bozzetto epico ma sostanzialmente antieroico, fra le cui pieghe si può già scorgere qualche timido preannuncio della narrativa veristica.

Conversione cui collaboreranno, a diverso titolo, anche i romanzi autobiografici o d'ispirazione «contemporanea»: non tanto il Lorenzo Benoni (1853) e il Dottor Antonio (1855) di G. Ruffini, opere intese ad alimentare le simpatie dell'Inghilterra per la causa italiana, quanto i Cento anni (1857-64) di G. Rovani e, a più alto livello, Le confessioni di un italiano (postume, 1867) di I. Nievo.

Comunque, il genere di narrativa di gran lunga più popolare fu e restò per vari decenni il romanzo storico, ed è proprio in questo settore che si può sorprendere, con maggior immediatezza, l'operazione di adattamento dei modelli romantici stranieri alle esigenze nazionali. Il modello, in questo caso, era W. Scott; ma, attenuati gli elementi nordici e avventurosi, G.B. Bazzoni (Il castello di Trezzo, 1826; Il Falco della Rupe, 1828-29), C. Varese (Sibilla Odaleta, 1827), d'Azeglio (Ettore Fieramosca, 1833; Niccolò de' Lapi, 1841), T. Grossi (Marco Visconti, 1834) e il pur truculento F.D. Guerrazzi (La battaglia di Benevento, 1828; L'assedio di Firenze, 1836; L'assedio di Roma, 1863-65 ecc.) calarono negli schemi del romanziere scozzese vicende e figure finalizzate alla propaganda politica, mescolando strazianti drammi d'amore a episodi d'italico eroismo, tratti dalla storia medievale e rinascimentale. Il passato diventava così una trasparente allegoria dell'oggi, e ciò non tanto per sfuggire alla censura poliziesca, quanto perché le regole della retorica volevano che la realtà fosse «aulicizzata» dalla lontananza nel tempo.

Un processo analogo subì la letteratura in versi, dove la ballata romantica venne piegata a contenuti e significati risorgimentali, con o senza la finzione arcaizzante; ma qui, in poesia, si avvertiva più acutamente il problema dell'ammodernamento del linguaggio (un problema che fu affrontato anche dal Manzoni lirico e che non trovò mai soluzioni adeguate, persistendo una sgradevole oscillazione tra residui classicistici e cadute prosaiche). A disegnare il nuovo repertorio romantico-patriottico fu, com'è noto, Berchet; i suoi componimenti, schizzati alla brava ma caldi d'affetti e sostenuti da ritmi cantabili e martellanti, fissarono tutta una serie di situazioni che sarebbero divenute paradigmatiche: il popolo cacciato dalla sua terra (nel poemetto I profughi di Parga, 1821), la giovane che piange l'amato in esilio e il padre sconvolto per l'arresto del figlio carbonaro (rispettivamente nelle romanze Clarina e II romito del Cenisio, 1822-24), la rievocazione delle gloriose lotte comunali (nel poemetto Le fantasie, 1829).

A questo deposito di immagini attingeranno gli innumerevoli poeti della patria, nel tentativo di rendere popolare una rivoluzione che era nata senza l'appoggio del popolo; e l'unico a rendersene conto, tra i verseggiatori della carboneria, fu il classicista giacobino G. Scalvini, che nel poemetto II fuoruscito (postumo, 1860) denunciò apertamente i limiti, gli equivoci, gli intrinseci motivi di sconfitta dei moti liberali del 1821. Tutti gli altri (in buona o in cattiva fede) si sforzarono invece di accreditare l'immagine consolatoria di un risorgimento maturato nel consenso, donde l'impressione generale che tutta questa produzione poetica valga oggi soltanto come una mostra di «cimeli storici» cui si è tentati di avvicinarsi con impietoso gusto kitsch.

Ciò non toglie che, al di là di reazioni superficiali, lo storico della letteratura possa isolare e recuperare, fra tanta mediocrità e goffaggine, momenti di più genuino slancio o fenomeni interessanti almeno sotto il profilo sociologico: saranno gli Stornelli italiani (1847) di F. Dall'Ongaro, freschi d'arguzia popolaresca; le liriche percorse da autentico afflato mazziniano di A. Poerio e G. Mameli (quest'ultimo ingiustamente conosciuto soltanto come l'autore dell'inno nazionale); le caricature graffianti di un G. Giusti e di un D. Carbone (l'autore del celebre Re Tentenna); l'impeto giacobino, ben presto corretto da fughe mistiche, di G. Rossetti; le mosse epiche di A. Gazzoletti (la sua lirica La patria dell'italiano ebbe larghissima eco nel '48), C. A. Bosi (il Canto del volontario, più noto come Addio, mia bella, addio), L. Mercantini (La spigolatrice di Sapri, Inno di Garibaldi), T. Ciconi (Passa la ronda) ecc.

Mentre è proprio nelle rielaborazioni più tarde e con pretese «d'arte», quali i Canti politici (1852) di G. Prati, che la tematica patriottica scade nelle forme più urtanti di oleografia, anche perché viziate da un qualunquismo politico di fondo, che predica rassegnazione al popolo e accomuna in un solo abbraccio Mazzini, Garibaldi e Vittorio Emanuele.

Bisognerà attendere G. Carducci (e anche il Pascarella di Villa Gloria, 1886) per avere una rievocazione dell'epos risorgimentale che, seppur non immune dalla retorica, sia almeno sorretta da dignità artistica e da una sincera nostalgia dell'eroismo quarantottesco.

Resta da dire qualcosa sul teatro che, già nel triennio giacobino (1796-98), era apparso uno degli strumenti più utili alla formazione di una coscienza rivoluzionaria; e di una sua riforma in senso politico-sociale si era fatto promotore F.S. Salfi, pubblicando le Norme per un teatro nazionale sul «Termometro politico di Lombardia» del 26 luglio '96 e mettendo in scena una serie di opere frementi di passione repubblicana, fra cui l'irriverente pantomima Il ballo del papa o II generale Colli in Roma (1797) e le tragedie La congiura pisoniana (1797), Virginia bresciana (1798), Pausania (1800), che ripetono strutture e linguaggio del teatro alfieriano.

Appunto l'Alfieri aveva dichiarato, nella Risposta a R. de' Calzabigi (1784), di voler «istillare negli italiani l'amore della tragedia», in quanto era convinto che gli uomini dovessero «imparare in teatro a essere liberi, forti, generosi, trasportati per la vera virtù, insofferenti d'ogni violenza, amanti della patria, veri conoscitori dei propri diritti, e in tutte le passioni loro ardenti, retti e magnanimi».

E a questi ideali si conformarono le tragedie di Pellico (Francesca da Rimini, 1815; Eufemio da Messina, 1820) e soprattutto di G.B. Niccolini (Giovanni da Procida, 1830; Arnaldo da Brescia, 1843), mentre a più espliciti esiti romantici si era volto il teatro di Manzoni, nel contesto di un dibattito teorico che vide anche l'intervento di Mazzini (Del dramma storico, 1830; Della falsità considerata come elemento drammatico, 1836), auspice di un dramma di tipo schilleriano, fondato sull'equilibrio tra verità storica e libera invenzione dell'artista.

Temi politici di immediata attualità (cioè non più proiettati nella consueta allegoria delle «vicende remote») furono introdotti sui palcoscenici milanesi soltanto nella breve parentesi del 1848 (quando venne a cadere il controllo della censura austriaca) e ricomparvero poi, in tutta la penisola, subito dopo l'unità, con opere come I legittimisti in Italia (1861) di L. Suner e Antonello capobrigante calabrese (1864) di V. Padula.

Intanto, fin dall'epoca napoleonica, si erano moltiplicati i tentativi di istituire compagnie stabili sovvenzionate dai governi, con lo scopo palese di richiamare un pubblico sempre più vasto: si ricordano la Compagnia dei commedianti italiani al servizio di Eugenio di Beauharnais (1807), la Compagnia reale di Napoli (1816-26), la Compagnia reale sarda (1821-53), la Compagnia ducale di Modena (1829-31) e la Drammatica compagnia al servizio di Maria Luigia di Parma (1827-46).

Ma, nonostante queste iniziative non trascurabili, il teatro restava un fenomeno alquanto circoscritto, sprovvisto di un repertorio che potesse conquistare le masse e affidato soprattutto alla bravura di attori come G. Modena, E. Rossi, Adelaide Ristori.

L'unica forma di spettacolo realmente popolare fu il melodramma, e non a caso infatti i veri «canti della patria» divennero il duetto guerriero dei Puritani («Suoni la tromba e intrepido...») e i cori famosi del Nabucco e dei Lombardi alla prima crociata: senza che ciò autorizzi minimamente a fare di Bellini e Verdi i propagandisti del risorgimento.

Lucio Felici