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Liberalismo
di Giuseppe Bedeschi
sommario: 1. Problemi di definizione. 2. Le origini del liberalismo:
i suoi presupposti sociali e spirituali. 3. Le garanzie contro gli
abusi del potere politico. 4. Proprietà e libertà. 5.
Fecondità dell'antagonismo, della varietà, del
dissenso. 6. Liberalismo e democrazia. 7. Liberalismo ed
eguaglianza. 8. Liberalismo e liberismo. 9. Le sfide del XX secolo.
□ Bibliografia.
1. Problemi di definizione
Del liberalismo sono state date definizioni sensibilmente
differenti, e, naturalmente, tali differenze corrispondono a modi
diversi di concepire il liberalismo stesso. La cosa non deve
stupire. Il liberalismo, infatti, è un concetto assai
controverso, non solo perché esso ha avuto molti e aspri
critici, ma anche perché i suoi seguaci (coloro, cioè,
che si sono proclamati 'liberali') hanno mostrato di avere
divergenze su aspetti dottrinali fondamentali (la ben nota
discussione sul rapporto fra liberalismo e liberismo è solo
un aspetto di queste divergenze). Anche da un punto di vista
storico, il concetto di liberalismo è problematico e
sfuggente. Il termine, d'altro canto, nasce abbastanza tardi:
infatti l'aggettivo 'liberale' entra nel linguaggio politico solo
con le Cortes di Cadice del 1812, per connotare il partito, appunto,
liberal, che difendeva le libertà pubbliche contro il partito
servil; esso fu poi ripreso da Madame de Staël e da Sismondi
per indicare un nuovo orientamento etico-politico (v. Matteucci,
Liberalismo, 1976, p. 530). Di qui il paradosso che alcuni di quelli
che noi consideriamo fra i maggiori pensatori liberali (Locke,
Montesquieu, Kant) non hanno mai usato né il sostantivo
('liberalismo') né l'aggettivo ('liberale') nell'accezione in
cui noi li usiamo oggi. A ciò si deve aggiungere che nel
pensiero liberale si ritrovano ispirazioni e strumenti teorici non
solo diversi, ma addirittura opposti fra loro: i pensatori liberali
del Seicento e del Settecento hanno fondato le loro concezioni su
presupposti giusnaturalistici, mentre quelli di parte dell'Ottocento
e del Novecento si sono fondati su concezioni o utilitaristiche o
storicistiche, e comunque non giusnaturalistiche o addirittura
antigiusnaturalistiche. D'altro canto sarebbe assurdo ritenere che
il pensiero liberale (ovvero quel pensiero che noi definiamo tale),
che si è sviluppato dal Seicento a oggi, cioè lungo
quattro secoli di storia della civiltà occidentale, sia
rimasto sempre identico a se stesso, come una specie di idea
platonica, e non abbia conosciuto sviluppi e trasformazioni
profonde, ripensamenti e arricchimenti, a seconda dei diversi
contesti sociali, politici e culturali nei quali ha operato, e
quindi a seconda dei diversi problemi che ha affrontato e che ha
inteso avviare a soluzione.
Alla luce di tutto ciò, alcuni studiosi hanno negato la
legittimità stessa del concetto di liberalismo in quanto
categoria storico-politica, e hanno preferito parlare di molti e
diversi 'liberalismi'. Questa ci sembra però una posizione
estrema e inaccettabile, per vari motivi. In primo luogo
perché, anche qualora si decidesse che è legittimo
parlare solo di molti 'liberalismi', l'uso stesso del sostantivo,
sia pure al plurale, denoterebbe pur sempre qualcosa di comune che
ne giustifica l'uso, e che dovrebbe essere in ogni caso esplicitato.
Del resto, se non fosse così, tanto varrebbe rinunciare alla
stessa parola 'liberalismo', espungerla dal lessico politico. Ma
nessuno storico o filosofo serio ha mai pensato di proporre questo.
In secondo luogo perché il concetto di liberalismo indica un
complesso di valori e di garanzie per noi irrinunciabili. Infatti,
quando diciamo che viviamo in una società
liberal-democratica, l'aggettivo 'liberale' specifica in modo
sostanziale di quale democrazia si tratti: di una democrazia
liberale, appunto, ovvero di una democrazia nella quale la
maggioranza è tenuta a rispettare rigorosamente i diritti
delle minoranze (politiche, religiose, culturali), e non può
mai mettere a repentaglio tali diritti, come avviene invece nelle
democrazie plebiscitarie o populistiche.
Senonché, se è vero che l'uso del concetto di
liberalismo è non solo legittimo ma necessario, è
parimenti vero che esso è il risultato di una estrapolazione
dai molti e diversi liberalismi che si sono manifestati
storicamente. In quanto il liberalismo non è stato un unico
soggetto storico (ideologico-politico-giuridico), esso è in
larga misura un'astrazione, ovvero una ricostruzione formalizzata,
un isolamento delle caratteristiche tipiche (o di quelle che noi
riteniamo che siano le caratteristiche tipiche) dei vari pensatori,
dei vari istituti e dei vari movimenti 'liberali'. Non perdere mai
di vista questo fatto è importante, perché esso ci
ricorda che, dopo aver individuato alcuni temi e alcune esigenze
fondamentali comuni ai vari pensatori e alle varie correnti
liberali, non dobbiamo mai trascurare la loro concretezza storica, e
quindi la specificità delle loro articolazioni e delle loro
sfumature, connesse ai loro diversi contesti sociali, ideali e
politici. Perciò, nel corso del presente articolo, cercheremo
di individuare, insieme ai grandi tratti comuni, le
peculiarità, o almeno alcune delle peculiarità,
proprie di tali pensatori.
Per quanto riguarda i principali motivi ispiratori del liberalismo,
essi sono stati ben individuati nella definizione che del
liberalismo stesso ha dato un eminente studioso, Norberto Bobbio.
Tenendo presenti soprattutto le sue origini secentesche e i suoi
sviluppi settecenteschi, Bobbio ha sottolineato fortemente (e
giustamente) la dimensione politico-giuridica del liberalismo, e
quindi lo ha definito come una dottrina che afferma la limitazione
dei poteri dello Stato in nome dei diritti naturali individuali,
inerenti a ogni uomo in quanto tale (i cosiddetti diritti innati).
In questa definizione liberalismo e giusnaturalismo sono
strettamente connessi. "La dottrina liberale - ha scritto infatti
Bobbio - è l'espressione, in sede politica, del più
maturo giusnaturalismo: essa, infatti, si appoggia sull'affermazione
che esiste una legge naturale precedente e superiore allo Stato e
che questa legge attribuisce diritti soggettivi, inalienabili e
imprescrittibili, agli individui singoli prima del sorgere di ogni
società, e quindi anche dello Stato. Di conseguenza lo Stato,
che sorge per volontà degli stessi individui, non può
violare questi diritti fondamentali (e se li viola diventa
dispotico), e in ciò trova i suoi limiti; anzi, deve
garantirne la libera esplicazione, e in ciò trova la sua
funzione, che è stata detta 'negativa' o di semplice
'custode"'. Bobbio ha opportunamente aggiunto che, per quanto
riguarda i principî filosofici, il liberalismo è
espressione dell'individualismo razionalistico, proprio della
filosofia illuministica, per il quale l'uomo in quanto essere
razionale è persona, e ha un valore assoluto, prima e
indipendentemente dai rapporti di interazione coi suoi simili.
Come persona, il singolo è superiore a qualsiasi
società di cui entra a far parte, e lo Stato, a sua volta,
è soltanto un prodotto dell'uomo (in quanto sorge da un
accordo o da un contratto fra gli uomini stessi), e non è mai
una persona reale, bensì solo una somma di individui aventi
ciascuno la propria sfera di libertà. I diritti fondamentali,
che lo Stato deve garantire, pur variando da autore ad autore, e da
costituzione a costituzione, si possono raggruppare in due grandi
categorie: diritti che riguardano la libertà dallo Stato
nella sfera spirituale (libertà di pensiero, di religione,
ecc.); diritti relativi alla libertà dallo Stato nella sfera
economica (diritto di proprietà, libertà di intrapresa
economica, di commercio, ecc.; v. Bobbio, 1957, pp. 617-618).
Questa definizione di Bobbio riconduce giustamente il liberalismo
alle sue origini, che sono giusnaturalistiche e contrattualistiche
(e infatti la prima grande e organica concezione liberale è
quella di Locke), e ne sottolinea opportunamente sia gli aspetti
filosofici sia gli aspetti politici: la persona come valore,
antecedente al costituirsi della società; il sorgere della
società da un accordo fra gli individui (contrattualismo); la
società come somma delle sfere di autonomia e di
libertà dei singoli (tanto nel campo intellettuale e
spirituale quanto in quello economico) che non possono essere lese
in alcun caso, bensì devono essere garantite dallo Stato; una
concezione negativa del ruolo dello Stato (libertà dallo
Stato), che deve limitarsi ad assicurare l'applicazione delle regole
della convivenza fra gli individui, ma non può imporre loro
alcunché né sul piano intellettuale e morale né
sul piano economico.
2. Le origini del liberalismo: i suoi presupposti sociali e
spirituali
Naturalmente, le idee e le dottrine liberali hanno avuto origine e
hanno preso corpo, sino a formare a poco a poco una concezione
articolata e organica, in un particolare contesto sociale e
spirituale. Ed è opportuno vedere, preliminarmente, quale sia
stato questo contesto. Per discutere questo delicato problema
possiamo prendere le mosse dal libro di H.J. Laski, The rise of
European liberalism (1936), che non solo costituisce il lavoro
più ampio e sistematico scritto a tutt'oggi sulle origini del
liberalismo europeo, ma esprime anche un punto di vista assai
diffuso tra gli studiosi: tanto diffuso da essere ormai diventato un
luogo comune. Nel corso della sua indagine l'autore ricostruisce
minutamente le origini del liberalismo in un ampio arco di tempo,
che va dalla Riforma alla Rivoluzione francese. La tesi di Laski
è che in tale periodo una nuova classe sociale si creò
i titoli per una piena partecipazione al controllo dello Stato, e
nella sua ascesa al potere essa spezzò tutte le barriere che
in ogni sfera della vita (fuorché in quella ecclesiastica)
avevano fatto del privilegio una funzione della condizione sociale,
e avevano associato l'idea di diritto con il possesso di terre (v.
Laski, 1936; tr. it., p. 1). Questa nuova classe fu, secondo Laski,
la "borghesia". E fu grazie all'emergere, al consolidarsi e
all'imporsi di questa classe che all'inizio dell'età moderna
il quadro spirituale, ideologico, giuridico e politico dell'Europa
occidentale venne completamente sconvolto. La condizione sociale fu
sostituita dal contratto come fondamento giuridico della
società; l'uniformità di fede religiosa lasciò
il posto a una varietà di fedi religiose; la concezione
medievale dell'impero universale fu soppiantata dal potere
irresistibile della sovranità nazionale; lentamente, ma
ineluttabilmente, la scienza sostituì la religione in quanto
fattore dominante per la formazione del pensiero degli uomini;
l'idea dell'uomo caratterizzata essenzialmente dal peccato originale
lasciò il posto all'idea della perfettibilità
dell'uomo per mezzo della ragione, e quindi alla dottrina del
progresso (ibid., pp. 1-2).
Come si vede, Laski non trascura né sottovaluta, e anzi
sottolinea fortemente nella propria ricostruzione, gli elementi
spirituali, religiosi e culturali che sono all'origine del
liberalismo; e tuttavia egli li considera un po' come elementi
'sovrastrutturali' (conformemente alla sua ispirazione marxista), i
quali 'sorgono', o comunque acquistano importanza ed esercitano un
influsso reale, in virtù di un elemento 'strutturale':
l'emergere, il consolidarsi e poi l'imporsi di una nuova classe, la
"borghesia". La quale, secondo Laski, realizzò il proprio
dominio in due fasi: in una prima fase essa, che derivava la propria
influenza esclusivamente dal possesso di un capitale mobile,
costrinse l'aristocrazia, la cui autorità era fondata sulla
proprietà terriera, a condividere con lei il potere politico;
in una seconda fase il banchiere, il commerciante, l'industriale,
cominciarono a sostituire del tutto il proprietario terriero,
l'ecclesiastico e l'uomo d'armi come detentori di quel potere
(ibid.).
Il limite principale di questa interpretazione, che vede nel
liberalismo l'espressione dell'emergere e dell'affermarsi della
borghesia, consiste nel fatto che il concetto di borghesia è
un concetto ambiguo, tanto più "vago ed equivoco" quanto
più "è usato per un arco storico tanto lungo da
coincidere con la formazione dell'Europa moderna" (v. Matteucci,
Liberalismo, 1976, p. 540). Ed è proprio nella patria del
liberalismo, l'Inghilterra, che lo schema interpretativo proposto da
Laski mostra la propria debolezza e inadeguatezza. In Inghilterra,
infatti, si può parlare di egemonia della borghesia nel XVII
secolo (cioè nel secolo che vede il sorgere e il trionfare
delle dottrine parlamentari e liberali), solo a patto di chiamare
'borghesia' la gentry, cioè quello strato sociale agrario
che, già a partire dalla seconda metà del XVI secolo,
venne largamente a sostituirsi all'antica nobiltà nel
possesso della terra. Ma è giustificata questa definizione?
Certo la gentry, i gentiluomini di campagna, insieme agli yeomen e
ai freeholders (che però, dal punto di vista del prestigio
sociale, si differenziavano dalla gentry, per la loro condizione di
proprietari coltivatori diretti), impressero alla società
inglese un profondo dinamismo, che doveva a poco a poco minare e poi
travolgere l'assetto signorile e feudale. L'organizzazione del
lavoro agricolo su basi razionali, la nuova mentalità che
vedeva nella terra un bene nel quale investire capitali per
ricavarne profitti: questi elementi fecero della gentry e degli
yeomen uno strato sociale medioalto assai vitale, che non aveva
confronto in alcun altro grande paese europeo (cfr. M.L. Salvadori,
Storia dell'età moderna. Dal Cinquecento all'età
napoleonica, Torino 1990, p. 151).
Ciò produsse risultati assai importanti. Infatti l'ingente
trasferimento di terre dalla Chiesa, dalla Corona e dalla più
alta nobiltà, insieme al diminuito potere e prestigio dei
grandi signori, determinarono un maggior controllo da parte della
gentry sugli affari locali: l'accrescimento del potere economico di
questo strato sociale si accompagnò insomma, nel corso del
Cinquecento e del primo Seicento, con la graduale presa del potere
politico. Uno storico ha tracciato il seguente quadro: "Il controllo
del governo locale, a livello di parrocchia e di contea, rendeva la
gentry l'arbitro in una serie di importanti settori, sostanzialmente
riconducibili alle funzioni di giudici di pace che non solo
amministravano la giustizia criminale, ma regolavano prezzi e
salari, si occupavano di carceri, ospizi, dei poveri, del
mantenimento in genere dell'ordine pubblico. [...] Inoltre, con il
relativo declino dell'aristocrazia, la gentry cominciò ad
assumere notevole influenza anche nelle elezioni al Parlamento,
riuscendo a far eleggere i propri candidati contro quelli della
Corona o dei nobili; nel Seicento i Comuni erano composti in
maggioranza di gentiluomini di campagna. La maggior indipendenza
della gentry, il suo accresciuto potere economico e politico, il
conseguente controllo della Camera dei Comuni, ne fecero nel primo
Seicento il naturale oppositore di una Corona e di una Chiesa sempre
più impopolari per l'imposizione illegale di tasse, per gli
abusi nell'amministrazione della giustizia, per la corruzione e il
favoritismo della Corte e per i provvedimenti ecclesiastici adottati
dalla Chiesa anglicana" (cfr. G. Garavaglia, Società e
rivoluzione in Inghilterra, 1640-1689, Torino 1978, pp. 82-83).Le
idee parlamentari e liberali sorsero e trionfarono dunque,
nell'Inghilterra del Seicento, grazie agli strati nuovi e più
dinamici della società: gentry, yeomen, ceti mercantili (nel
1600 fu fondata la Compagnia delle Indie Orientali) e ceti medi
cittadini (uomini di legge, impiegati nelle amministrazioni
cittadine, negozianti e artigiani autonomi, ecc.).
Ora, definire tutto questo sviluppo come 'borghese' significa usare
un'etichetta che, come tale, non solo è assai generica, e
quindi scarsamente utile, ma che può essere persino
controproducente. Infatti - anche a prescindere dalla critica severa
che storici eminenti hanno rivolto all'equazione fra gentry e
borghesia, sia sul piano concettuale che su quello empirico (cfr. L.
Stone, The causes of the English revolution 1529-1642, London 1972;
tr. it., Torino 1982, pp. 49-51 e passim), poiché la gentry
era assai composita (c'era una gentry formata da grandi proprietari
terrieri, e c'era una gentry minore, di piccoli proprietari), ma era
tutta molto fiera e gelosa dei propri titoli nobiliari acquistati
via via con la ricchezza - l'uso dell'aggettivo 'borghese' fatto da
storici di ispirazione marxista (Laski, R.H. Tawney, C. Hill), a
proposito dello sviluppo economico-sociale inglese del Seicento,
può indurre in forzature, fraintendimenti, errori. Per
esempio, può portare a sopravvalutare gli elementi
industriali certamente presenti in modo significativo in quella
società (industria estrattiva del carbone, industria tessile,
metallurgica, cantieristica), ma non in misura tale da mettere in
discussione il suo carattere complessivo di società agricola,
preindustriale (e questo errore è stato commesso da C. Hill,
quando nei suoi lavori ha parlato, a proposito di questo periodo, di
"sviluppo del modo di produzione capitalistico entro le strutture
feudali"); così come può portare a interpretare i
conflitti sociali di una società agricola nei termini dei
conflitti sociali propri di una società
capitalistico-industriale. Molto più opportuno appare invece
un approccio in termini di 'modernizzazione' economico-sociale e
politica, che studi concretamente il passaggio da una società
signorile e feudale, relativamente statica, a una società
agricolo-mercantile notevolmente dinamica, e il ruolo svolto in essa
da ceti e strati sociali emergenti (gentry, yeomen, mercanti, ecc.),
avendo cura di evitare schematizzazioni eccessive, e dando il giusto
peso anche agli aspetti spirituali e religiosi (che non devono
essere considerati mere proiezioni di attori e interessi economici).
E soprattutto, in questo modo, si può evitare di perdere di
vista il fatto più importante (che l'idea di 'rivoluzione
borghese' tende a oscurare o ad attenuare): e cioè che le
dottrine liberali sorgono, si sviluppano e si affermano con i loro
caratteri inconfondibili non in società industriali,
bensì in società agricole. È fuor di dubbio
che, già nell'Inghilterra elisabettiana, si sviluppò
una 'classe media borghese' di artigiani, piccoli negozianti e
mercanti istruiti; ma è altrettanto fuor di dubbio che il
sistema di valori dominante restò quello dei gentiluomini di
campagna (cfr. L. Stone, The crisis of the aristocracy, Oxford 1965;
tr. it., Torino 1972, p. 41). In Inghilterra sono appunto
essenzialmente i ceti terrieri più dinamici a costituire la
spina dorsale del regime liberale fino a tutta la prima metà
dell'Ottocento: e ciò naturalmente non è senza
conseguenze sul piano della mentalità e dei valori di quel
liberalismo (v. Cuomo, 1981, p. 107). Lawrence Stone ha osservato a
questo proposito: "L'idea che, a partire dal Seicento, l'Inghilterra
sia stata una nazione di bottegai ispirata all'etica del mercato e
guidata da una borghesia capitalistica è una di quelle idee
dure a morire. In realtà, fino al 1870, l'Inghilterra ebbe un
tono essenzialmente aristocratico e mutuò i suoi canoni
morali, la gerarchia dei suoi valori sociali e il suo sistema
politico dalle classi dei proprietari terrieri" (The crisis... cit.,
p. 23). (E del resto, anche per quanto concerne la Rivoluzione
francese - che con la Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del
cittadino del 1789 produce il più grande 'manifesto' del
liberalismo continentale - storici come Alfred Cobban e
François Furet hanno messo in guardia verso gli errori che
nascono dal fatto di interpretarla alla luce del concetto di
'rivoluzione borghese').
Dicevamo che quando si studiano le origini del liberalismo inglese
bisogna evitare, per un verso, schematizzazioni sociopolitiche
troppo rigide, e per un altro verso bisogna considerare anche il
ruolo assolutamente fondamentale che ebbero i fattori spirituali e
religiosi. Per quanto riguarda il primo aspetto, basti pensare che i
'partiti' tory e whig, formatisi in Inghilterra nel periodo che
intercorse fra le due rivoluzioni del Seicento (il primo favorevole
alla sovranità del re per diritto divino, il secondo
sostenitore della sovranità del Parlamento), non avevano basi
sociali nettamente distinte. Certo (ma ciò è fin
troppo ovvio e scontato) quei 'partiti' non avevano i propri seguaci
nelle classi e nei ceti più umili e subalterni della
società. Ma, detto ciò, è impossibile
distinguere fra le classi sociali superiori che quei 'partiti'
rappresentavano. Gli storici affermano, a questo proposito, che
"entrambi erano emanazione della grande aristocrazia e della piccola
nobiltà di campagna", e che "ciò che distingueva whig
e tory non era la loro origine sociale quanto il modo di concepire
il governo del paese e la vita politica" (cfr. Garavaglia, op. cit.,
p. 202). Affermazione, questa, di grande importanza, perché,
mentre ci impedisce qualunque schematismo sociologico-politico
troppo rigido, ci induce a dare tutto il peso che meritano a
importanti fattori spirituali e culturali: primo fra tutti quel
vasto movimento religioso che va sotto il nome di puritanesimo. E
ciò ci sollecita a considerare il secondo aspetto del
problema.
Stone ha giustamente osservato che la rivoluzione inglese possiede
caratteristiche di unicità tra le ribellioni europee
verificatesi all'inizio dell'età moderna, unicità che
le viene dal suo radicalismo politico e religioso (The causes...
cit., p. 59), sicché l'approccio a essa deve essere
multicausale, nel senso che si deve attribuire agli elementi
religiosi e ideologici la stessa importanza che si dà ai
movimenti sociali e ai cambiamenti economici (ibid., p. 69). E in
effetti la componente religiosa è indispensabile per
intendere la tormentata e drammatica storia inglese del Seicento, e
il germinare in essa delle idee liberali, destinate a trionfare con
la 'gloriosa rivoluzione'.Naturalmente non è possibile
ricostruire qui nei dettagli la complessa vicenda religiosa del
Seicento inglese, con il suo mosaico di anglicani, puritani
(suddivisi in presbiteriani e in congregazionalisti), quaccheri. Qui
basti ricordare che il dibattito sulla libertà di coscienza,
particolarmente acceso fra il 1644 e il 1648, rappresentò uno
dei momenti più significativi della prima rivoluzione
inglese, e gettò le basi per l'accettazione sempre più
generalizzata dell'idea di tolleranza (cfr. Garavaglia, op. cit., p.
230); e che, più in generale, non si può intendere un
secolo di lotte politiche ove si prescinda dalla profonda resistenza
che vasti strati di cittadini opposero a una chiesa imposta
dall'alto con il Supremacy act del 1534, che dichiarava il re
d'Inghilterra capo supremo della Chiesa inglese: una resistenza che
fu sostenuta con profonda passione e spirito di sacrificio dalle
sette riformate ispirate alla dottrina calvinista. Di qui lo stretto
intreccio fra lotta politica e lotta religiosa nella società
inglese del Seicento. E infatti l'opposizione parlamentare si
saldò intimamente alla causa puritana, portando avanti di
pari passo richieste di riforme in campo politico e amministrativo e
in campo religioso: "nel primo caso in nome della sovranità
del Parlamento, quale rappresentante del popolo, contro
l'assolutismo monarchico di origine divina, nel secondo a favore di
un'attuazione più rigorosa dei principî della Riforma
protestante contro i tentativi di fare della Chiesa anglicana uno
strumento di repressione e di controllo anche della vita civile"
(ibid., p. 226).
È proprio questo stretto intreccio fra lotta sociopolitica
(che ha le proprie radici in un vasto processo di modernizzazione
della società inglese) e lotta religiosa a costituire la
caratteristica inconfondibile delle origini del liberalismo in
Inghilterra. E non è certo un caso che il primo grande
teorico del liberalismo, John Locke (1632-1704), elabori sia una
concezione organica della difesa del cittadino contro gli abusi del
potere sovrano, sia una delle prime grandi formulazioni dell'idea di
tolleranza (Lettera sulla tolleranza, 1689).Ma affrontiamo ora,
senza ulteriori indugi, il problema fondamentale del pensiero
liberale, che è il problema dei rapporti fra cittadino e
potere politico, e delle garanzie che il primo deve avere nei
confronti del secondo.
3. Le garanzie contro gli abusi del potere politico
I Due trattati sul governo civile di Locke furono pubblicati nel
1690 ma la loro redazione risale almeno a un decennio prima,
sicché si può dire che la teoria politica in essi
svolta costituisca tanto l'autocoscienza teorica quanto il
coronamento del processo di demolizione dell'assolutismo degli
Stuart, processo che con alterne e drammatiche vicende caratterizza
la storia inglese del XVII secolo e culmina nella 'gloriosa
rivoluzione' del 1688. Il secondo di questi Trattati ha infatti come
obiettivo essenziale quello di dare una piena e coerente
giustificazione del principio secondo cui i diritti dei cittadini
non possono essere mai violati dal potere politico, il quale deve
essere quindi un potere limitato, fondato sul consenso e sulla
fiducia dei cittadini medesimi.
Locke combatte perciò in primo luogo la concezione dispotica
del potere sovrano (concezione che aveva avuto il suo massimo
campione in Hobbes), e lo fa dando una particolare caratterizzazione
dello stato naturale e del passaggio da quest'ultimo alla
società civile o politica (political or civil society).
Secondo Locke, infatti, nello stato naturale gli individui vivono,
almeno in un primo tempo, in una condizione pacifica, godendo dei
diritti inerenti a ogni uomo sin dalla nascita (il diritto alla
vita, il diritto alla libertà e il diritto alla
proprietà). Lo stato naturale, lungi dall'essere asociale
ovvero una condizione di guerra di ognuno contro tutti, in cui
l'individuo è continuamente minacciato persino nella vita
(secondo la raffigurazione che ne aveva dato Hobbes), costituisce
per Locke una società notevolmente sviluppata, in cui sono
presenti diversi istituti (la famiglia, il rapporto padrone-servo) e
rapporti economico-sociali molto articolati, fondati sulla moneta e
sull'accumulazione illimitata di ricchezza (e quindi corrispondenti
a un'economia mercantile assai matura). L'abbandono dello stato
naturale e il passaggio alla società civile o politica
diventano necessari perché a un certo punto lo stato naturale
degenera in stato di guerra (in esso, infatti, in mancanza di leggi
positive e di giudici che le facciano rispettare, ognuno deve farsi
giustizia da solo).
Senonché, a differenza di quanto avveniva in Hobbes, il patto
stipulato fra gli individui per dar vita alla società civile
o politica (la sola che può tutelare adeguatamente gli
istituti sociali ed economici sviluppatisi già nello stato di
natura) non implica per Locke una completa alienazione di tutti i
diritti individuali al sovrano; al contrario, attraverso il patto
gli individui entrano in società conservando tutti i loro
diritti naturali (che dunque devono essere garantiti dalle leggi
positive), tranne uno: il diritto di farsi giustizia da soli. Ne
segue che il potere sovrano non può acquisire più di
quanto gli sia stato trasmesso, e quindi non è un potere
illimitato, non è legibus solutus, non può violare i
diritti naturali individuali, non può imporre alcunché
ai cittadini, né sotto il profilo economico e sociale,
né sotto il profilo spirituale e intellettuale. Il potere
politico è, insomma, un potere fiduciario. Ma proprio
perché è tale, esso trova la sua concretizzazione
più importante nel potere legislativo (espressione della
volontà della maggioranza dei cittadini). Il potere
legislativo è quindi il potere supremo, rispetto al quale il
potere esecutivo (che compete al re) è senz'altro
subordinato. Legislativo ed esecutivo sono poteri nettamente
separati, in quanto esercitano funzioni nettamente distinte (il
primo ha il compito di fare le leggi, il secondo di farle eseguire).
E come il potere esecutivo non può limitare in alcun modo il
potere legislativo, così quest'ultimo non può venir
meno alla fiducia che il popolo ha riposto in esso (non può
far leggi in contrasto con le leggi naturali, non può
trasferire in altre mani il potere di far leggi, ecc.). Il popolo ha
il pieno diritto o di deporre l'esecutivo che conculca il
legislativo, o di rovesciare il legislativo venuto meno alla sua
fiducia, e di eleggere un nuovo legislativo: un diritto che il
popolo può esercitare anche con la forza, poiché, dice
Locke, alla forza si può reagire soltanto con la forza (il
pensatore inglese riconosce dunque al popolo il diritto di
resistenza).
Si è molto discusso su questa teoria antidispotica di Locke,
e diversi critici hanno cercato di attenuarne la portata, in
considerazione del fatto che nella costruzione lockiana i diritti
politici sono riservati soltanto ai proprietari, sicché la
società civile o politica delineata dal filosofo inglese
mostra caratteri nettamente oligarchici. Del resto, se, come si
è detto, la teoria politica lockiana è il riflesso e
al tempo stesso il coronamento teorico del processo che culmina
nella 'gloriosa rivoluzione' del 1688, non c'è dubbio che la
monarchia inglese uscita da quella rivoluzione, "sotto la veste
decorosa di un governo misto, dove tutte le forze della nazione
fossero proporzionalmente rappresentate, dissimulava la sostanza di
un potere oligarchico" (v. De Ruggiero, 1962, p. 13). Infatti il
potere politico era monopolio della grande aristocrazia fondiaria,
della piccola nobiltà di campagna (gentry) e dei sempre
più ricchi e potenti ceti mercantili. E tuttavia,
riconosciuto ciò, non si può non riconoscere,
parimenti, che il sistema politico inglese (e l'immagine teorica che
ne dava Locke) mostrava una fisionomia spiccatamente liberale. "La
rivoluzione del 1688 - ha scritto significativamente Laski, uno dei
critici ai quali abbiamo fatto riferimento sopra - non fece che
completare gli obiettivi cui mirava la rivolta della classe media
che Cromwell capeggiò contro il dispotismo tentato dagli
Stuart. L'habeas corpus, i parlamenti triennali dominati da partiti
politici, uno dei quali sarà l'alleato costante degli
interessi commerciali, la libertà religiosa entro vasti
limiti, la soppressione del controllo governativo sulla stampa, un
potere giudiziario indipendente dal potere esecutivo
nell'espletamento della sua funzione giuridica, la finanza e
l'esercito controllati da un parlamento elettivo" (v. Laski, 1936;
tr. it., p. 71): tutte queste erano conquiste di enorme importanza,
che non avevano alcun corrispettivo nel resto d'Europa. La
concezione politica di Locke e la 'gloriosa rivoluzione' tracciavano
quindi la strada dell'avvenire.
La stessa preoccupazione che ha mosso Locke (porre dei limiti al
potere dello Stato) ha mosso anche Montesquieu (1689-1755), il quale
poté intravvedere gli ultimi splendori del regno di Luigi
XIV, assistere alla crisi della reggenza e alla progressiva
involuzione dello Stato assoluto. Nello Spirito delle leggi (1748)
Montesquieu ha presente tanto la monarchia francese quanto la
monarchia inglese, e naturalmente le considerazioni che egli svolge
in riferimento all'una e all'altra sono assai diverse, essendo
diversi i rispettivi contesti sociopolitici. E tuttavia si tratta di
considerazioni che muovono da un'unica preoccupazione: è
assolutamente necessario limitare il potere politico, è
assolutamente necessario dividerlo e frazionarlo il più
possibile; solo così si potrà porre un freno a quella
che è la tendenza insita nel potere medesimo (in ogni
potere), di abusare delle proprie prerogative, di prevaricare sulla
società civile e di limitare gravemente o addirittura
distruggere le libertà dei sudditi.
Quale sia l'ideale politico di Montesquieu - ideale che fa della sua
riflessione un momento essenziale nella storia del pensiero liberale
- emerge nettamente dalla bipartizione che egli traccia tra governi
moderati e governi immoderati: una bipartizione che costituisce la
chiave di volta dell'opera politica montesquiviana. Governo moderato
è quello fondato su un opportuno bilanciamento o equilibrio
dei vari poteri e dei vari corpi che lo compongono, nel senso che
l'uno limita l'altro senza prevaricare su di esso; il che significa
che ciascun potere e ciascun corpo non agisce arbitrariamente, ma
osserva regole ben precise e si muove all'interno di confini ben
delineati. Se questo delicato meccanismo può essere osservato
in un determinato stadio della monarchia francese - basata appunto
su un complesso bilanciamento o equilibrio fra potere regio
(limitato dalle leggi fondamentali), corpi intermedi
(nobiltà, città, clero, coi loro diritti e i loro
privilegi) e Parlamenti (costituiti da giudici indipendenti) - esso
può essere osservato anche e soprattutto nella monarchia
inglese, di tanto più evoluta e matura. Qui vige un sistema
di distinzione e al tempo stesso di bilanciamento dei poteri, che
sarebbe troppo schematico e riduttivo definire di pura e semplice
separazione dei poteri medesimi (una definizione, d'altro canto, che
non si ritrova in Montesquieu). Distinzione perché, come dice
il pensatore francese, "tutto sarebbe perduto se la stessa persona,
o lo stesso corpo di grandi, o di nobili, o di popolo, esercitasse
questi tre poteri: quello di fare le leggi, quello di eseguire le
pubbliche risoluzioni, e quello di giudicare i delitti o le liti dei
privati" (XI, 6). Legislativo, esecutivo e giudiziario devono essere
dunque poteri distinti, cioè non possono essere uniti nella
stessa persona o nello stesso corpo politico, poiché, ove
questo avvenisse, verrebbe meno quel frazionamento del potere, e
quel reciproco controllo fra le singole parti che lo costituiscono,
che è la conditio sine qua non per evitare il dispotismo. Ma
al tempo stesso ci troviamo di fronte a un bilanciamento dei poteri
(e non a una loro meccanica separazione). Infatti, lo stesso corpo
legislativo è diviso in due parti (Camera alta e Camera
bassa), che si tengono a freno fra loro grazie alla reciproca
facoltà di impedirsi. Le leggi, d'altro canto, non entrano in
vigore se non vengono approvate dal re. Il che significa che
l'intero sistema politico non può funzionare senza l'assenso
e il concorso dei vari elementi che lo compongono (monarca, Camera
alta, Camera bassa), e che basta il dissenso di uno di questi per
incepparlo. Ma proprio qui è la miglior garanzia di un
governo moderato, in cui nessun interesse particolare e nessuna
frazione della società è in grado di imporre la
propria volontà contro quella degli altri. Governo moderato
è dunque per Montesquieu quel governo che tiene conto della
molteplicità e della diversità degli interessi, che
riesce a trovare un punto di equilibrio o di compromesso fra loro.
Su questa base sorge un sistema di civile convivenza, in cui vengono
rispettati i diritti e gli interessi di tutti, ed è bandito
ogni atto di forza e ogni abuso politico.
Il governo fondato sulla distinzione e sul bilanciamento dei poteri
è dunque per Montesquieu il governo moderato per eccellenza.
L'alternativa a esso è il governo immoderato o dispotico, in
cui il principe riunisce nella propria persona tutte le
magistrature. Ma questo governo, che annulla tutti i diritti dei
sudditi, ha come proprio principio la paura. In esso i sudditi
devono al despota un'obbedienza incondizionata, quale che sia la sua
volontà o quali che siano i suoi capricci. Sono impossibili
accomodamenti, controproposte, discussioni, accordi. I sudditi sono
creature che obbediscono a una creatura che vuole, e a essi, come
gli animali, non restano che l'obbedienza o il castigo. E con queste
parole Montesquieu non poteva dare del dispotismo una
caratterizzazione più negativa, e pronunciarne una condanna
più aspra e più ferma.
L'influsso dell'opera di Montesquieu (soprattutto della sua
riflessione relativa all'Inghilterra) sul pensiero politico e sulla
storia politica è stato enorme. Egli è stato uno degli
scrittori più letti dalla classe dirigente americana del
XVIII secolo (nel Federalist le citazioni da Montesquieu sono
numerose). Le prime costituzioni scritte - la Costituzione americana
del 1776 e quella francese del 1791 - si considerano applicazioni
della sua teoria della distinzione dei poteri. Le istanze
antipaternalistiche (così vive in Locke) e quelle
antidispotiche (così forti sia in Locke che in Montesquieu)
vengono a costituire anche il contrassegno essenziale della
concezione politica di Kant (1724-1804). Per il filosofo di
Königsberg (che vive nel regime dispotico-paternalistico
prussiano) uno dei principî a priori sui quali deve essere
fondato lo Stato civile in quanto Stato giuridico, è la
libertà. Tale principio significa, dice Kant, che "nessuno mi
può costringere a essere felice a suo modo (come cioè
egli si immagina il benessere degli altri uomini), ma ognuno
può ricercare la sua felicità per la via che a lui
sembra buona, purché non rechi pregiudizio alla
libertà degli altri di tendere allo stesso scopo, in guisa
che la sua libertà possa coesistere con la libertà di
ogni altro secondo una possibile legge universale (cioè non
leda questo diritto degli altri)" (Scritti politici e di filosofia
della storia e del diritto, Torino 1965, p. 255). Si tratta, come si
vede, di un principio schiettamente liberale, che mira a
salvaguardare una larga sfera d'azione dell'individuo nella sua vita
privata e sociale, al riparo dalle pretese e dalle intrusioni del
principe. Senza tale sfera d'azione, senza la possibilità di
seguire le proprie inclinazioni, di soddisfare i propri gusti, di
manifestare il proprio carattere e di adottare lo stile di vita a
esso conforme, l'individuo non solo non è libero, ma è
completamente asservito. E infatti Kant, per chiarire meglio il
proprio pensiero, aggiunge che un governo fondato sul principio
della benevolenza verso il popolo, al modo del governo di un padre
verso i figli, cioè un governo paternalistico, in cui i
sudditi, come figli minorenni che non possono distinguere ciò
che è loro utile o dannoso, sono costretti a comportarsi solo
passivamente, ad aspettare che il capo dello Stato giudichi in qual
modo essi devono essere felici, e ad attendere solo dalla sua
bontà che egli lo voglia, è il peggior dispotismo che
si possa immaginare.
Per intendere appieno l'importanza di queste proposizioni kantiane,
è necessario tenere ben presente il quadro sociopolitico
della Germania del tempo in cui Kant scriveva, nella quale i
principi esercitavano una minuziosa e pedantesca regolamentazione
burocratica di tutti gli aspetti, anche minimi, della vita privata
dei sudditi. Così, per esempio, un'ordinanza camerale del
Principato del Baden del 1766 stabiliva come al Consiglio di Corte
competesse di trattenere i sudditi "dall'errore e di ricondurli
sulla retta via, nonché di insegnar loro, anche contro la
loro volontà, il modo in cui devono organizzare l'economia
domestica, coltivare i campi e alleviare a se stessi, mediante una
conduzione economicamente più produttiva dell'azienda, gli
oneri dei tributi da loro dovuti".
Il problema di una forma di governo che sia fondata sul consenso dei
cittadini, e che rispetti scrupolosamente i loro diritti,
costituisce quindi la preoccupazione fondamentale di Kant. Per lui
la costituzione dello Stato deve essere repubblicana; essa, in
quanto tale, si oppone radicalmente a quella dispotica. Il regime
repubblicano (che può essere anche una monarchia
costituzionale) si fonda essenzialmente sul principio politico della
separazione del potere legislativo dal potere esecutivo e dal potere
giudiziario: tali poteri sono coordinati, e al tempo stesso i loro
compiti e le loro sfere sono rigorosamente distinti. Il dispotismo,
invece, è caratterizzato dall'esecuzione arbitraria delle
leggi dello Stato, e in esso la volontà pubblica è
maneggiata dal sovrano come sua volontà privata. Nel regime
repubblicano, al contrario, il vero potere sovrano è il
legislativo (eletto dai cittadini che abbiano diritto di voto), al
quale l'esecutivo è sottomesso. Perciò il legislativo
può anche togliere all'esecutivo il suo potere, deporlo o
riformare la sua amministrazione. Infine, nel regime repubblicano
né il sovrano o legislativo, né il reggitore o
esecutivo possono giudicare. Il popolo si giudica da sé per
mezzo di quei suoi concittadini che esso nomina a questo effetto,
con una libera scelta, come suoi rappresentanti, per ogni atto
particolare.
Con ciò il filosofo di Königsberg ha tracciato il
disegno del suo Stato ideale in quanto Stato di diritto e liberale a
un tempo, fondato sulla divisione e sul coordinamento dei poteri, a
tutela della libertà di ognuno, scrupolosamente garantita e
delimitata dai diritti e dai doveri di tutti. E per Kant ogni forma
di governo che non sia rappresentativa è propriamente
informe, poiché in essa il legislatore può essere in
una sola e medesima persona anche esecutore del proprio volere, con
tutte le inevitabili conseguenze di abuso e di arbitrio (ma nemmeno
in questo caso il filosofo tedesco riconosce al popolo il diritto di
ribellione o di resistenza, mostrando in ciò una posizione
assai più arretrata di quella di Locke).
Questa preoccupazione di tutelare i diritti e le libertà
dell'individuo contro gli abusi e le prevaricazioni del potere
politico trova probabilmente la sua espressione più sottile
ed efficace nella dottrina di Benjamin Constant (1767-1830),
maturata nel fuoco delle tremende esperienze della dittatura
giacobina e del dispotismo napoleonico. Constant è un
convinto difensore della sovranità popolare, la quale non
può non significare supremazia della volontà generale
su ogni volontà particolare. Ma sarebbe un errore
imperdonabile, egli dice, scambiare tale supremazia per una
sovranità illimitata. Il potere sovrano deve sempre avere due
limiti invalicabili: il rigoroso rispetto dei diritti delle
minoranze e la non intromissione nella vita privata dei singoli,
qualora questi non violino le leggi. C'è sempre una parte
dell'esistenza umana che deve restare individuale e autonoma, e che
è di diritto fuori di ogni competenza sociale. Se la
società viola i diritti delle minoranze, o se si intromette
nella sfera della vita individuale che non le compete, essa si rende
colpevole non meno del despota che ha come titolo soltanto la spada
sterminatrice. Il che significa che la sovranità può
esistere solo in maniera limitata e relativa, che la società
non può eccedere dalla sua sfera di competenza senza essere
usurpatrice, la maggioranza senza essere faziosa.In questo quadro di
rigorosa ispirazione giusnaturalistico-individualistica, Constant
vibra un attacco formidabile alla concezione politica di Rousseau,
tanto spesso invocata a favore della libertà ma divenuta il
più terribile sussidio di ogni specie di dispotismo.
Rousseau, dice Constant, definisce il contratto intervenuto tra la
società e i suoi membri come la completa alienazione di ogni
individuo con tutti i suoi diritti e senza riserve alla
comunità. E per rassicurarci circa le conseguenze di questa
completa alienazione di tutti i nostri diritti a favore di un ente
astratto, Rousseau ci dice che il sovrano, cioè il corpo
sociale, non può nuocere né all'insieme dei suoi
membri né a ciascuno di essi in particolare; che ognuno, in
quanto si dà a tutti, non si dà a nessuno; e che
ognuno, infine, acquista su tutti gli associati gli stessi diritti
che cede loro e guadagna con maggior forza l'equivalente di tutto
ciò che perde. Senonché, nonostante queste
rassicurazioni, la soluzione roussoiana è astratta e
irrealistica. Rousseau dimentica infatti, dice Constant, che non
appena il sovrano deve fare uso della forza che possiede, non appena
deve procedere a una organizzazione effettiva del proprio potere -
in quanto non può esercitarlo in prima persona - egli deve
delegarlo; sicché non è affatto vero che il cittadino,
dandosi a tutti, non si dà a nessuno: egli si dà
invece a coloro che agiscono a nome di tutti. Accade così che
coloro ai quali è stato delegato l'esercizio della
sovranità traggano esclusivo profitto dal sacrificio degli
altri. Non è affatto vero, dunque, che nessuno abbia
interesse a rendere onerosa la condizione altrui, poiché in
realtà vi sono dei consociati che stanno fuori della
condizione comune; non è affatto vero che tutti i consociati
acquistino gli stessi diritti che essi cedono, perché non
tutti guadagnano l'equivalente di ciò che perdono.
In realtà, quando la sovranità non è limitata,
non c'è alcun mezzo per tenere gli individui al riparo dai
governi; ed è vano pretendere di sottomettere i governi alla
volontà generale, perché sono sempre i governi a
dettare tale volontà. E neppure è sufficiente
stabilire che il potere esecutivo non ha il diritto di agire senza
il concorso di una legge, se a esso non si pongono dei confini
precisi, se non si dichiara che vi sono materie sulle quali il
legislatore non ha diritto di fare leggi, e che vi sono delle
volontà che né il popolo né i suoi delegati
hanno il diritto di violare. Ecco dunque quel che bisogna
proclamare, il principio eterno che bisogna stabilire: "I cittadini
posseggono diritti individuali indipendenti da ogni autorità
sociale o politica, e ogni autorità che viola questi diritti
diviene illegittima. I diritti dei cittadini sono la libertà
individuale, la libertà di religione, la libertà di
opinione, che comprende la libertà di manifestarla, il
godimento della proprietà, la garanzia contro ogni arbitrio.
Nessuna autorità può attentare a questi diritti senza
lacerare il suo titolo" (Principî di politica, Roma 1965, p.
72).
4. Proprietà e libertà
Una critica mossa molte volte al pensiero liberale - formulata, in
varie fasi e in vari contesti, essenzialmente dalla cultura
socialista e marxista - è stata quella di aver dato una
giustificazione teorica degli interessi delle nuove classi e dei
nuovi ceti protagonisti della rivoluzione antiaristocratica e
antifeudale, e di aver concepito il diritto alla proprietà
privata come il diritto per eccellenza, al quale avrebbe subordinato
tutti gli altri diritti, e per la tutela del quale avrebbe
congegnato l'intero sistema politico. Il liberalismo sarebbe quindi
rimasto vittima di una illusione ideologica: esso ha creduto di
creare le condizioni per la libertà di tutti gli uomini, e
invece ha creato le condizioni per la libertà di una
minoranza soltanto; ha creduto di esprimere esigenze universali, e
di creare regole e istituzioni atte a soddisfarle, e invece ha
espresso solo esigenze particolari, e ha creato regole e istituzioni
per soddisfare quelle esigenze particolari, a spese della grande
maggioranza (v. Laski, 1936).
Si tratta di una critica che, proprio perché riduce il
giudizio sul liberalismo al problema della difesa della
proprietà privata, sottovaluta gravemente l'importanza delle
tecniche politico-giuridiche elaborate dai pensatori liberali a
difesa della libertà individuale contro le intromissioni e le
prevaricazioni del potere politico. Quando Marx afferma che "in un
periodo e in un paese in cui potere monarchico, aristocrazia e
borghesia lottano per il potere, il quale quindi è diviso,
appare come idea dominante la dottrina della divisione dei poteri,
dottrina che allora viene enunciata come 'legge eterna"' (cfr. K.
Marx e F. Engels, L'ideologia tedesca, Roma 1958, p. 43) - quando
afferma ciò, Marx sottovaluta il fatto che la dottrina della
divisione dei poteri ha una validità e un'efficacia che
trascendono di gran lunga il contesto sociopolitico nel quale quella
dottrina è sorta, e che essa è uno strumento
fondamentale di difesa del cittadino contro gli abusi del potere
anche in altri tipi di società.Ma, per quanto riguarda il
concetto di proprietà, è opportuno chiarire che esso
non ha nel pensiero liberale quel significato e quella funzione
univoci che gli sono stati spesso attribuiti (sino a pretendere di
unificare il liberalismo del XVII e del XVIII secolo sotto la
categoria di "individualismo possessivo"; cfr. C.B. Macpherson, The
political theory of possessive individualism. Hobbes to Locke,
Oxford 1962).
Assai significativo è il caso di Locke. Del filosofo inglese
è stata citata infinite volte l'affermazione, che ricorre
spesso nel Secondo trattato sul governo civile, secondo la quale per
potere politico si deve intendere "il diritto di far leggi con
penalità di morte, e per conseguenza con ogni penalità
minore, per il regolamento e la conservazione della
proprietà" (II, 3). Si tratta di un testo certo esemplare,
per la sua fortissima sottolineatura della proprietà privata,
che viene posta all'origine della società civile o politica
(la quale ha un carattere fortemente oligarchico, per l'estrema
ristrettezza del corpo elettorale). Senonché si è
voluto ignorare troppo spesso che Locke ha una concezione assai
ampia della proprietà, nella quale rientrano non solo i beni
mobili e immobili, ma anche la vita, la sicurezza, la
libertà. Del resto, nella Epistola sulla tolleranza egli
afferma significativamente: "Mi sembra che lo Stato sia una
società di uomini costituita per conservare e promuovere
soltanto i beni civili. Chiamo beni civili la vita, la
libertà, l'integrità del corpo, la sua immunità
dal dolore, i possessi delle cose esterne, come la terra, il denaro,
le suppellettili, ecc.". Qui viene enunciata, come si vede, una
definizione ampia e polisensa di proprietà, che è ben
lungi dal ridurre quest'ultima ai soli beni materiali. Con
ciò non si vuol sostenere, naturalmente, che la
proprietà privata in senso stretto non abbia un'importanza
fondamentale nella concezione politica di Locke (oltretutto, il
filosofo inglese ha elaborato, proprio nel Secondo trattato sul
governo civile, una teoria assai acuta e originale per spiegare il
sorgere della proprietà privata dei beni, la cui origine
viene individuata nel lavoro). Si vuole solo sottolineare il fatto,
non certo privo di significato, che la concezione lockiana della
proprietà non può essere appiattita sui suoi contenuti
'borghesi', anche se essi sono certo importantissimi.
Tali contenuti 'borghesi' sono presenti anche nella concezione
politica di Kant. Anche per lui, infatti, la proprietà
privata è già presente nello stato di natura, e la
costituzione civile ha fra i suoi obiettivi fondamentali quello di
rendere perentorio, ovvero giuridicamente garantito, quel possesso
(il mio e il tuo esterni, secondo la terminologia kantiana) che
nello stato naturale era provvisorio, cioè non
sufficientemente garantito. Inoltre, nella sua teoria del potere
legislativo, Kant considera la posizione economica e il censo quali
condizioni imprescindibili per l'esercizio dell'elettorato attivo e
passivo. Per avere il diritto di voto, e dunque per essere cittadino
in senso pieno, occorre infatti, dice Kant, essere padrone di
sé (sui juris), e quindi avere una qualche proprietà
che procuri i mezzi per vivere. Con ciò si intende che il
cittadino deve avere una qualunque attività, manuale,
professionale, artistica, scientifica, che gli assicuri una vita
economicamente autonoma. E Kant distingue puntigliosamente fra il
domestico, il garzone di bottega, chi lavora a giornata, il
precettore privato, ecc., i quali sono da qualificarsi solo come
operarii, e quindi non possono essere cittadini, e coloro che sono
invece artifices, e quindi possono alienare un opus (come
l'artigiano, il fittavolo, l'insegnante, l'artista, ecc.): questi
sono cittadini in senso pieno (e quindi titolari dei diritti
politici), mentre i primi sono soltanto consociati sotto la
protezione dello Stato. Nessun dubbio che qui Kant esprima un punto
di vista rigidamente classistico, che sarà corretto in
notevole misura dagli sviluppi successivi del pensiero liberale.
E infatti la concezione della proprietà come qualcosa di
naturale e di presociale trova una significativa attenuazione
nell'opera di Benjamin Constant. Certo, anche Constant è
assai fermo nell'escludere gli indigenti dai diritti politici.
Nessun popolo, egli dice infatti, ha mai considerato come membri
dello Stato tutti gli individui che risiedano come che sia sul suo
territorio: né la nascita nel paese né la
maturità dell'età sono elementi sufficienti a
conferire i diritti politici. Per esercitare tali diritti occorre
qualcos'altro: occorre il tempo indispensabile all'acquisizione
della cultura e di un retto giudizio. Ma soltanto la
proprietà garantisce questa disposizione.E tuttavia, detto
ciò, Constant introduce qualcosa di nuovo e di importante
nella concezione della proprietà privata. Egli polemizza
infatti contro "un errore grave": l'errore di coloro che hanno
rappresentato la proprietà come antecedente alla
società o indipendente da questa. "Nessuna di queste
asserzioni - dice Constant - è vera. La proprietà non
è affatto anteriore alla società, perché senza
l'associazione che le dà una garanzia essa non sarebbe che il
diritto del primo occupante, in altri termini il diritto della
forza, cioè un diritto che non è tale. La
proprietà non è indipendente dalla società
perché uno stato sociale, in verità assai miserevole,
può concepirsi senza proprietà, mentre non si
può immaginare la proprietà senza stato sociale". In
realtà, la proprietà esiste perché esiste la
società, e quindi essa "non è altro che una
convenzione sociale", anche se dal considerarla tale non discende
che essa sia meno essenziale e meno necessaria di quanto la
considerino altri scrittori (op. cit., p. 182).
Questa concezione constantiana della proprietà come
"convenzione sociale" è assai importante, sia perché
spezza lo schema giusnaturalistico della proprietà come
qualcosa di presociale, sia perché, implicitamente, inaugura
un modo di considerare la proprietà in funzione della
società, delle sue esigenze e dei suoi bisogni (e ciò
valse a Constant l'accusa, da parte di liberali conservatori come il
Laboulaye, di aver aperto la strada al comunismo!).Un altro aspetto
importante della concezione constantiana della proprietà
consiste nel fatto che egli ritiene che la Rivoluzione francese
abbia aperto un positivo processo di frazionamento della
proprietà fondiaria, un processo che si concluderà con
l'estinzione della grande proprietà e con l'estendersi e il
consolidarsi delle piccole proprietà. Questo processo
sarà accelerato dal rafforzarsi continuo dell'industria (che
è tutta nelle mani del Terzo stato), la quale
contribuirà a rendere la proprietà fondiaria sempre
più divisa, mobile, circolante all'infinito. Sorgerà
così una classe media sempre più numerosa, formata da
tutti gli individui intraprendenti e dotati di iniziativa e di
talento, una classe che costituirà la spina dorsale della
nazione. Il pensiero di Constant su questo punto costituisce
un'importante testimonianza del passaggio dall'ideologia liberale
propria dei ceti terrieri a quella propria dei ceti industriali.
Ma il pensatore liberale che rielabora più profondamente la
connessione fra liberalismo e proprietà privata è John
Stuart Mill (1806-1873). Egli assume un atteggiamento tutt'altro che
ostile verso le varie scuole di indirizzo socialista (owenismo,
sansimonismo, fourierismo, anche se è un deciso avversario di
Marx e dei suoi seguaci). E tuttavia Mill non ritiene che la strada
giusta sia quella della soppressione pura e semplice della
proprietà privata. Egli pensa che un regime comunistico non
lascerebbe sufficiente spazio all'individualità dei
caratteri, che l'assoluta dipendenza di ciascuno da tutti e la
sorveglianza di tutti su ciascuno ridurrebbero gli uomini a una
tetra uniformità di pensieri, di sentimenti e di azioni. La
strada da seguire è quindi, per lui, un'altra: incidere
profondamente sul meccanismo della distribuzione della ricchezza.
Mill, che vive in un paese che ha il più avanzato sviluppo
industriale, non ha dubbi sul fatto che in futuro le classi
lavoratrici - rese sempre più mature dall'istruzione, dalla
partecipazione all'attività sindacale e politica, dalla
stampa - accresceranno di gran lunga il loro peso nella
società e non si accontenteranno della condizione di
lavoratore salariato come condizione definitiva. Il rapporto fra
padrone e operaio sarà sostituito a poco a poco, secondo
Mill, dall'associazione: in alcuni casi dall'associazione dei
lavoratori col capitalista, in altri casi, e forse alla fine in
tutti, dall'associazione dei lavoratori fra loro. In tali
cooperative i lavoratori si troveranno su un piede di eguaglianza,
possiederanno collettivamente il capitale, e lavoreranno sotto
direttori eletti e destituibili da loro stessi.Il sistema
cooperativistico permetterà di conseguire i vantaggi morali
ed economici della produzione associata, e, senza violenza o
spoliazione, realizzerà, almeno nel campo industriale, le
migliori aspirazioni dello spirito democratico, cancellando tutte le
distinzioni sociali, salvo quelle giustamente meritate coi servizi e
le attività personali. Al tempo stesso tale sistema si
baserà sulla concorrenza, a proposito della quale i
socialisti hanno, secondo Mill, idee molto confuse, e anzi sbagliano
quando attribuiscono a essa tutti i mali economici. "Essi - egli
dice - dimenticano che dovunque non vi è concorrenza, vi
è monopolio; e che il monopolio, in tutte le sue forme,
è una tassazione sugli uomini attivi per il mantenimento
dell'indolenza, se non della ruberia". In realtà, se si
eccettua la concorrenza fra i lavoratori (donde, per Mill,
l'importanza, per la classe operaia, degli insegnamenti di Malthus),
ogni altra concorrenza è a vantaggio dei lavoratori, in
quanto riduce il costo delle merci che essi consumano
(Principî di economia politica, Torino 1962, pp. 747-748).
Come si vede, la concezione liberalsocialista di Mill si ispira al
principio dell'adeguato compenso allo sforzo individuale. Di qui
l'esigenza, da lui sempre rivendicata, di incisivi interventi sul
diritto di successione (soltanto i discendenti diretti dovrebbero
poter ereditare, e solo quanto è necessario per una modesta
esistenza; il di più dovrebbe essere avocato dallo Stato),
per evitare quell'eccessiva concentrazione delle fortune che
è all'origine di tanti mali sociali. E di qui anche lo
sfavore con cui Mill guarda alla proprietà privata della
terra, e la sua critica alla rendita fondiaria. La proprietà
deve essere frutto del lavoro, e poiché "nessun uomo ha fatto
la terra" ed essa è "l'eredità originaria di tutta la
specie umana", nessuno può vantare dei diritti su di essa. La
proprietà terriera si giustifica solo e soltanto se la terra
viene costantemente coltivata e migliorata (di qui la simpatia di
Mill per la piccola proprietà contadina); in caso contrario i
proprietari, dice Mill, "diventano più ricchi quasi dormendo,
senza lavorare, senza rischiare e senza risparmiare. Che diritti
possono avere, secondo i principî generali della giustizia
sociale, a questo incremento di ricchezza?" (ibid., pp. 368, 372,
1077).
5. Fecondità dell'antagonismo, della varietà, del
dissenso
Un aspetto fondamentale del pensiero liberale è da cercare
nella sua convinzione che l'antagonismo fra gli individui, i gruppi,
i ceti e le classi sia estremamente fecondo, e che senza tale
antagonismo in campo economico, sociale, politico e culturale non ci
sia progresso nella società, bensì solo stagnazione e
regresso. Il confronto e il conflitto fra interessi e opinioni
diversi non sono dunque fatti negativi, ma altamente positivi, che
lo Stato liberale deve porre a proprio fondamento, limitandosi a
tutelare il loro corretto svolgimento. La società
pluralistico-conflittuale è enormemente superiore a qualsiasi
società omogenea e organicistica. Solo la prima è una
società dinamica, e quindi in grado di produrre e accumulare
beni, conoscenze, sapere; la seconda è invece una
società statica, incapace di miglioramento e di progresso.
"Solo nella lotta, - ha affermato uno scrittore liberale italiano -
solo in un perenne tentare e sperimentare, solo attraverso a
vittorie e ad insuccessi, una società, una nazione prospera.
Quando la lotta ha fine si ha la morte sociale e gli uomini hanno
perduto la ragione medesima del vivere" (cfr. L. Einaudi, Prediche
inutili, Torino 1974, p. 243).
Chi ha espresso questo punto di vista con maggior forza è
stato forse, fra i 'classici', Kant. Egli ha affermato che il mezzo
di cui la natura si serve per attuare lo sviluppo di tutte le sue
disposizioni è l'antagonismo degli individui, in quanto esso
è la causa dell'ordinamento civile della società. Per
antagonismo si deve intendere - egli ha chiarito - la "insocievole
socievolezza" degli uomini, cioè la loro tendenza a unirsi in
società, congiunta con una generale avversione, che minaccia
continuamente di disunire la società medesima. Si tratta,
dice Kant, di una tendenza insita nella natura umana. L'uomo,
infatti, ha per un verso una forte inclinazione ad associarsi con
gli altri uomini, perché egli sente di poter sviluppare
meglio, nella società, le proprie disposizioni naturali; ma
per un altro verso ha una forte tendenza a dissociarsi,
poiché ha in sé la qualità antisociale di voler
volgere tutto al proprio interesse, contro gli interessi degli
altri.
Questa caratteristica della natura umana costituisce per Kant
qualcosa di altamente positivo. Infatti la resistenza di ognuno
contro tutti, egli dice, eccita le energie dell'uomo, lo induce a
vincere la sua tendenza alla pigrizia; l'uomo, spinto dal desiderio
di onori, di potenza, di ricchezza, si conquista un posto tra i suoi
consoci. In tal modo si compiono i primi veri passi dalla barbarie
alla civiltà, si sviluppano a poco a poco tutte le
capacità umane, si educa il gusto, ecc. Senza la
insocievolezza, "tutti i talenti rimarrebbero in eterno chiusi nei
loro germi in una vita pastorale arcadica di perfetta armonia,
frugalità, amore reciproco", e "gli uomini, buoni come le
pecore che essi menano al pascolo, non darebbero alla loro esistenza
un valore maggiore di quello che ha questo loro animale domestico".
"Siano allora rese grazie alla natura - esclama Kant (op. cit., p.
128) - per l'intrattabilità che genera, per l'invidiosa
emulazione della vanità, per la cupidigia mai soddisfatta di
averi o anche di dominio! Senza di esse tutte le eccellenti
disposizioni naturali insite nell'umanità rimarrebbero
eternamente assopite senza svilupparsi".
Questa tematica trova importanti sviluppi in Wilhelm von Humboldt
(1767-1835), il quale ha espresso in modo estremamente efficace il
punto di vista secondo il quale il progresso della società ha
la propria molla nel libero dispiegarsi degli individui.
Perché tale libero dispiegamento abbia luogo occorre
naturalmente piena libertà nel campo sociale e politico, ma
occorrono anche una ricca varietà di situazioni e una vasta
gamma di scelte. Infatti, anche l'uomo più libero e
più indipendente, se posto in un ambiente uniforme, ha uno
sviluppo meno completo. Questo è per Humboldt un punto assai
importante e delicato, anche in considerazione del fatto che il
progresso della civiltà comporta uniformità (Humboldt
è il primo ad avvertire questo problema, che, come vedremo,
sarà sempre più discusso successivamente): ogni epoca
è sempre meno varia di quella che l'ha preceduta, a causa dei
processi di unificazione e di omogeneizzazione (degli stili di vita,
del costume, della mentalità, ecc.) che la diffusione della
civiltà comporta. Inoltre, il continuo complicarsi della vita
sociale richiede un intervento ognora crescente dello Stato, e
quindi un continuo potenziamento della macchina
burocratico-amministrativa. "Di decennio in decennio - dice Humboldt
- aumentano, nella maggior parte degli Stati, il personale dei
funzionari e gli archivi, mentre diminuisce la libertà dei
sudditi" (Antologia degli scritti politici, Bologna 1961, p. 73).
Verso il crescente intervento dello Stato nella vita civile Humboldt
è estremamente diffidente e preoccupato, in quanto esso
comporta un aumento costante della regolamentazione della
società dall'alto, e un progressivo indebolimento
dell'iniziativa individuale dal basso. Ma l'intelletto umano si
educa solo attraverso la propria attività autonoma, la
propria inventività o la personale utilizzazione di
invenzioni altrui. Le istituzioni statali, e le iniziative da esse
promosse, comportano invece sempre costrizione, oppure abituano a
contare su direttive, controlli e aiuti esterni, invece che a
pensare e ad agire autonomamente. Di qui, anche, la diffidenza di
Humboldt verso le grandi associazioni e le grandi organizzazioni, le
quali non richiedono agli individui di essere sempre più
autonomi, più originali e più riccamente dotati,
bensì, all'opposto, di essere sempre più omogenei e
uniformi, sempre più conformisti, di avere sempre minore
iniziativa personale, di diventare meri strumenti
dell'organizzazione. "L'individuo che sia spesso e in larga misura
eterodiretto - dice Humboldt - arriva facilmente a sacrificare quasi
volontariamente ogni residuo di indipendenza. Egli si crede
sollevato da ogni responsabilità, constatando come altri se
l'accolli, e pensa di fare abbastanza attendendo le altrui direttive
e seguendole" (ibid., p. 67).
Questi motivi ritorneranno, alcuni decenni dopo, in Alexis de
Tocqueville (1805-1859). Il pensatore francese apprezzerà
altamente, nella democrazia americana, l'autonomia della
società civile dal potere politico: un'autonomia che ha
risvegliato tutte le capacità e tutto lo spirito d'iniziativa
della società civile medesima, la quale ha individuato da
sola le proprie necessità e le ha soddisfatte con
straordinaria efficacia. "Non c'è paese al mondo - dice
Tocqueville - ove gli uomini facciano, in definitiva, tanti sforzi
per creare il benessere sociale. Non conosco un popolo che sia
riuscito a creare scuole altrettanto numerose ed efficienti; chiese
più adatte ai bisogni religiosi degli abitanti; strade
comunali meglio tenute. Non bisogna dunque cercare negli Stati Uniti
l'uniformità e stabilità di vedute, la cura minuziosa
dei particolari, la perfezione dei procedimenti amministrativi;
ciò che vi si trova è l'immagine della forza, un po'
selvaggia, è vero, ma piena di potenza, l'immagine della
vita, disseminata di contrarietà, ma anche di movimento e di
sforzi" (Scritti politici, Torino 1968-1969, vol. II, pp. 115-116).
A questa libertà un po' selvaggia ma estremamente vitale, il
seguace dello Stato paternalistico è portato a contrapporre
un modello completamente diverso, caratterizzato da
un'autorità sempre all'erta, che veglia sulla
tranquillità del suddito, che vola davanti ai suoi passi per
allontanarne tutti i pericoli, che gli assicura l'esistenza
materiale senza che egli abbia bisogno di pensarvi. Ma, esclama
Tocqueville, che cosa importa tutto ciò, "se poi questa
autorità, nello stesso tempo in cui allontana le più
piccole spine dal mio passaggio, è padrona assoluta della mia
libertà e della mia vita; se monopolizza il movimento e la
vita al punto che, quando essa langue, tutto langue, quando essa
dorme, tutto dorme, quando essa muore, tutto muore?" (ibid., p.
116).
Ma è soprattutto in John S. Mill che rivive nel modo
più suggestivo l'ispirazione individualistica humboldtiana,
per il fortissimo accento da lui posto sul singolo, sulla sua
libertà, sulla sua originalità, e quindi sulla
varietà delle personalità umane e delle loro libere
aggregazioni. "La natura umana - dice Mill- non è una
macchina da costruire secondo un modello e da regolare perché
compia esattamente il lavoro assegnatole, ma un albero, che ha
bisogno di nascere e svilupparsi in ogni direzione, secondo le
tendenze delle forze interiori che lo rendono una creatura vivente"
(Saggio sulla libertà, Milano 1981, p. 92). Non è
dunque stemperando nell'uniformità tutte le caratteristiche
individuali, ma coltivandole e facendo appello a esse entro i limiti
imposti dai diritti e dagli interessi altrui, che gli individui
diventano nobili esempi di vita. Solo così l'esistenza umana
si arricchisce, si diversifica e si anima, fornendo maggiore stimolo
ai pensieri e ai sentimenti più elevati. Ma perché la
natura di ciascuno abbia la possibilità di esplicarsi,
è essenziale che sia consentito a persone diverse di condurre
vite diverse, secondo la loro vocazione, i loro talenti, le loro
aspirazioni e il loro carattere. Per Mill l'unanimità non
è mai utile (dunque non è un valore), mentre la
diversità di opinioni è sempre altamente auspicabile
(dunque è un valore). Gli uomini infatti non sono
infallibili, e quello che credono falso oggi può dimostrarsi
vero domani; inoltre, le loro verità sono per la maggior
parte delle mezze verità, e anche l'opinione erronea
può contenere, e spesso contiene, una parte di verità,
che può emergere solo e soltanto attraverso il confronto tra
opinioni opposte.
6. Liberalismo e democrazia
È appena il caso di avvertire che la ferma difesa
dell'antagonismo, della concorrenza, nonché della
varietà e del dissenso, e la correlativa esaltazione della
personalità individuale, della sua originalità, della
sua intima energia creatrice, che si rafforza solo attraverso il
confronto e la lotta, implicano, nei pensatori liberali, una forte
diffidenza nei confronti dello Stato e la tendenza a ridurne al
minimo indispensabile non solo i poteri ma anche le funzioni. E
infatti, sotto il profilo della riduzione e del controllo dei
poteri, i pensatori liberali teorizzano (come abbiamo visto) lo
Stato limitato; sotto il profilo della riduzione, quanto più
ampia possibile, delle funzioni, essi teorizzano lo Stato minimo (v.
Bobbio, 1986, p. 13). Il primo e più deciso difensore dello
Stato minimo è stato senza dubbio Humboldt. È
significativo che Humboldt abbia apposto come motto alla propria
opera principale (Idee per un saggio sui limiti dell'attività
dello Stato, 1792) un'affermazione di Mirabeau padre che dice: "Il
difficile è di promulgare soltanto leggi necessarie, di
restare sempre fedeli a questo principio veramente costituzionale
della società, di stare in guardia contro il furore di
governare, la più funesta malattia dei governi". Lo Stato,
dunque, deve intervenire il meno possibile nel libero svolgimento e
nella libera crescita della società civile, che ha in se
stessa tante energie, tanto rigoglio e tanta forza da assicurare
senz'altro, nel modo più ampio, quello svolgimento e quella
crescita, i quali possono essere invece solo inceppati e compromessi
dall'intervento della pubblica autorità. Ma protagonista
della società civile è l'individuo. Dunque, più
la sfera d'azione dell'individuo è ampia e libera, e,
correlativamente, più la sfera d'intervento dello Stato
è ristretta, e più il progresso della società
è assicurato.
Naturalmente, in questa concezione humboldtiana il fine della
società non è lo Stato, il quale è invece solo
lo strumento, strettamente subordinato alla società, per
garantirne lo sviluppo infinitamente mutevole e vario. Lo Stato
è coercizione, la società è libertà
degli individui che la compongono. Perciò l'optimum sarebbe
poter fare a meno dello Stato. Ciò però non è
possibile, perché senza lo Stato le sfere d'azione degli
individui, le loro libertà, entrerebbero in collisione e la
convivenza diventerebbe presto impossibile. Lo Stato è dunque
un male necessario (ein notwendiges Übel), ma occorre fare in
modo che sia il male minore, ovvero che la sua funzione sia
mantenuta entro limiti assai precisi e molto ristretti: garantire la
sicurezza sia contro i nemici esterni sia nel caso di contrasti
interni tra i cittadini. (Ed è appena il caso di ricordare la
profonda consonanza fra queste proposizioni di Humboldt e
l'ispirazione di fondo della Ricchezza delle nazioni di Smith).
Senonché, quelli che Humboldt considerava i possibili
vantaggi dello Stato minimo diventano sempre più problematici
per i pensatori liberali che vivono il passaggio dalla
società liberale alla società democratica. È
soprattutto Tocqueville ad avvertire i grandi pericoli antiliberali
che la società democratica sviluppa nel proprio seno: da un
lato la tirannia della maggioranza e il conformismo di massa (un
nuovo, potente Leviatano), dall'altro lato l'accentramento
politico-amministrativo. Per il primo aspetto, osservato negli Stati
Uniti, Tocqueville rileva che, a mano a mano che i cittadini
divengono più uguali e più simili, la disposizione di
ciascuno a identificarsi nella massa e a credere in essa aumenta, ed
è sempre più l'opinione comune a guidare la
società. Il pubblico viene quindi a godere, presso i popoli
democratici, di un singolare potere: "non fa valere le proprie
opinioni attraverso la persuasione, ma le impone e le fa penetrare
negli animi attraverso una specie di gigantesca pressione dello
spirito di tutti sull'intelligenza di ciascuno", sicché "si
può prevedere che la fede nell'opinione pubblica
diverrà come una specie di religione, di cui la maggioranza
sarà il profeta" (op. cit., vol. II, p. 302). Si delinea
così il pericolo di un nuovo dispotismo, tanto più
pernicioso in quanto non controlla solo i movimenti e le azioni
esteriori, bensì annichila l'autonomia dello spirito e
isterilisce la creatività dell'intelligenza. Per il secondo
aspetto Tocqueville rileva che su tutti gli Stati della vecchia
Europa (ma il suo sguardo è rivolto soprattutto alla
Francia), quanto più avanza il processo democratico, tanto
più scende la coltre di una legislazione uniforme. È
uno sviluppo indotto dal livellamento sociale egualitario e dagli
effetti che esso produce nella mentalità e nella psicologia
degli uomini. Se a ciò si aggiungono i formidabili problemi
creati dalla rivoluzione industriale, che richiedono un intervento
sempre più esteso dei pubblici poteri nell'economia, non
può stupire che la democrazia finisca col produrre un nuovo
Stato paternalistico, in cui il sovrano si ritiene responsabile
delle azioni e del destino di ciascuno dei suoi sudditi, e
perciò opera al fine di guidarli e di illuminarli nei diversi
atti della loro vita e, se occorre, di farli felici loro malgrado.
Da parte loro, i cittadini considerano sempre più il potere
sovrano da questo stesso punto di vista, lo chiamano continuamente
in aiuto per i loro bisogni, e vedono in esso un precettore o una
guida. "Sostengo - dice Tocqueville - che in tutti i paesi d'Europa
l'amministrazione pubblica non solo è diventata più
centralizzata, ma anche più inquisitiva e più
minuziosa; ovunque essa penetra più profondamente di un tempo
negli affari privati; ovunque regola a suo modo un numero sempre
più grande di azioni sempre più piccole e si insedia,
ogni giorno di più, a fianco di ogni cittadino, intorno a lui
e sopra di lui, per assisterlo, consigliarlo e costringerlo". "Vedo
una folla innumerevole - conclude Tocqueville - di uomini simili e
uguali che non fanno che ruotare su se stessi, per procurarsi
piccoli e volgari piaceri con cui saziano il loro animo. [...] Al di
sopra di costoro si erge un potere immenso e tutelare, che si
incarica da solo di assicurare loro il godimento dei beni e di
vegliare sulla loro sorte. È assoluto, minuzioso,
sistematico, previdente e mite" (ibid., pp. 801, 812, 818).
Contro il nuovo Stato paterno che asservisce interamente gli
individui e crea un mostruoso sistema di controllo capillare, di
uniformità intellettuale e morale, di infiacchimento delle
coscienze e di mortificazione della società civile (la quale
viene completamente 'inghiottita' dal potere sovrano), Tocqueville
invoca come rimedio in primo luogo un largo decentramento
amministrativo, sul tipo di quello realizzato in America, che renda
possibile un ampio autogoverno locale. Egli indica poi
nell'associazionismo e nella libertà di stampa due importanti
antidoti al potere onnipervasivo del nuovo Leviatano.
Un'associazione, egli dice, sia essa politica o economica o
letteraria o scientifica, "è come un cittadino illuminato e
potente, che non può essere assoggettato a piacere, né
oppresso in segreto" (ibid., p. 818). La libertà di stampa, a
sua volta, è lo strumento attraverso il quale il singolo
può rivolgersi alla nazione intera, esprimendole le proprie
ansie, le proprie esigenze, i propri ideali, i propri timori.
È l'autonomia della società civile dal potere politico
e burocratico che sta a cuore a Tocqueville; e al tempo stesso gli
stanno a cuore il pluralismo e la ricca articolazione della
società civile medesima, che permettono all'individuo di
vivere in un quadro di vera e piena libertà. In questo modo
è possibile neutralizzare i pericoli insiti nella democrazia,
e quest'ultima può coniugarsi col liberalismo.
Ma il pensatore liberale che ha espresso nel modo più
suggestivo l'incontro fra liberalismo e democrazia è stato
probabilmente John S. Mill. Anche Mill è ben consapevole dei
pericoli, messi in rilievo da Tocqueville (di cui fu ammiratore),
che la società democratica cova nel proprio seno contro lo
spirito e la prassi liberali; ma, a differenza di Tocqueville, Mill
non provò una sorta di "terrore religioso" verso quella
società, e si mostrò fiducioso che fosse possibile
superare gli inconvenienti della democrazia.Il fatto è che
nella riflessione di Mill confluisce tutta la ricca e complessa
vicenda politica inglese dell'Ottocento, a partire dalla grande
battaglia per la riforma elettorale. Già alla fine del
Settecento la rivoluzione industriale aveva creato in Inghilterra un
vasto ceto manifatturiero, che era del tutto escluso dall'assetto
politico. L'aristocrazia terriera monopolizzava non solo la Camera
dei Lord, ma anche quella dei Comuni, i cui rappresentanti erano
nominati, nella loro grande maggioranza, da collegi interamente
soggetti ai grandi proprietari. "Di fronte a contee e a borghi
formati da poche decine di elettori, dipendenti da un padrone e
votanti pubblicamente, sotto il controllo di questo, v'erano i nuovi
ceti industriali, o affatto privi di rappresentanze, o forniti di
rappresentanze privilegiate, a guida degli altri collegi: il che
rendeva anche più stridente il contrasto tra le forze
effettive e i pochi possessori dei diritti politici" (v. De
Ruggiero, 1962, pp. 92-93). Nell'aspra battaglia che fu ingaggiata
per la riforma elettorale ebbero un ruolo fondamentale i seguaci di
Bentham: nel 1823 James Mill (padre di John Stuart) e i suoi amici
fondarono la "Westminster review", per esporre e diffondere le loro
vedute. Il loro obiettivo essenziale era la riforma del sistema
politico inglese, sulla base di una più autentica
rappresentanza popolare. Essi promossero una forte agitazione
politica, che si diffuse in tutto il paese e portò presto i
suoi frutti: nel 1824 e nel 1825 furono tolti i divieti delle
coalizioni operaie; nel 1829 fu votata dal Parlamento
l'emancipazione dei cattolici, nel 1832 fu realizzata la grande
riforma elettorale, che era, certo, frutto di un compromesso, e come
tale lasciava insoddisfatti i radicali (i quali continueranno a
battersi per una riforma più incisiva, basata sul suffragio
universale), ma che poneva le premesse indispensabili per
svolgimenti ulteriori (ibid., pp. 101-102).
Tutti gli umori di questa grande vicenda (che è la vicenda
del passaggio della società inglese da un assetto liberale ad
assetti sempre più vicini alla liberaldemocrazia) si
ritrovano, come abbiamo detto, nell'opera di John S. Mill. Il quale
è fermamente convinto che la miglior forma di governo sia
quella che investe della sovranità l'intera comunità,
e in cui ciascun cittadino è chiamato, di quando in quando, a
prendere parte effettiva al governo con l'esercizio di qualche
funzione pubblica locale o generale. In particolare, la
superiorità dello Stato democratico-rappresentativo riposa,
secondo Mill, su due principî fondamentali. Il primo principio
è che i diritti o gli interessi di chicchessia hanno la
sicurezza di non essere mai trascurati solo là dove gli
interessati posseggano essi stessi la forza di difenderli; il
secondo principio è che la prosperità della cosa
pubblica tanto più aumenta, quanto più le
capacità politiche individuali (di tutti gli individui, o
della maggior parte di essi) abbiano modo di svilupparsi. Ne
consegue che lo Stato democratico-rappresentativo deve sollecitare
il maggior numero di persone a partecipare al governo.
Sulla base di questi principî Mill è non solo un
difensore del suffragio più esteso possibile (ne esclude gli
analfabeti e coloro che vivono dell'elemosina delle parrocchie), ma
anche un convinto proporzionalista. Una maggioranza di elettori,
egli afferma, dovrebbe sempre avere una maggioranza di
rappresentanti, e una minoranza di elettori dovrebbe sempre avere
una minoranza di rappresentanti. Là dove le minoranze non
sono rappresentate, i loro diritti sono inevitabilmente
disconosciuti e i loro interessi conculcati.Il pensiero liberale del
Novecento considera ormai come un dato acquisito che la democrazia
debba essere considerata come il naturale sviluppo dello Stato
liberale (se la si prende, beninteso, non dal lato del suo ideale
sociale egualitario, bensì dal lato della sua formula
politica, che è la sovranità popolare; v. Bobbio,
1986, p. 30). Come ebbe a osservare acutamente De Ruggiero, "non
appena il liberalismo sorpassa lo stadio feudale e ripudia il
concetto della libertà come privilegio o monopolio
tradizionale di pochi, per assumere quello di una libertà
come diritto comune, almeno potenzialmente, a tutti, esso è
già sulla stessa strada della democrazia". Certo,
storicamente questo passaggio è stato tutt'altro che facile e
tutt'altro che indolore, per le resistenze opposte dai ceti e dagli
ambienti più conservatori (basti pensare agli sforzi che sono
stati necessari, in alcuni paesi d'Europa, per l'allargamento del
suffragio). E tuttavia, una volta aboliti privilegi e monopoli, una
rigida divisione di ambiti tra liberalismo e democrazia non è
più possibile, e anzi il loro territorio è comune. E
infatti essi hanno finito col coincidere nella concezione formale
dello Stato, fondata sul riconoscimento dei diritti individuali e
della capacità del popolo a governarsi da sé.
"L'estensione democratica dei principî liberali - ha affermato
ancora De Ruggiero - ha avuto il suo pratico complemento con la
concessione dei diritti politici a tutti i cittadini e con la
immissione degli strati più bassi della società nello
Stato; e l'assimilazione ha potuto effettuarsi senza modificare
essenzialmente la struttura politica e giuridica delle istituzioni
liberali, confermando così l'unità dei principî"
(v. De Ruggiero, 1962, pp. 357-359).
E tuttavia - come ha rilevato lo stesso Autore - fra i concetti di
liberalismo e di democrazia (e fra le due realtà e le due
culture che essi sottendono) c'è una differenza profonda di
mentalità politica, che dà luogo a seri e durevoli
conflitti sul terreno della pratica. "Innanzi tutto, vi è
nella democrazia una forte accentuazione dell'elemento collettivo,
sociale, della vita politica, a spese di quello individuale" (ibid.,
p. 359). Tale elemento collettivo si rafforza nella società
industriale, che vede un doppio accentramento, capitalistico e
operaio, il quale annega nell'organizzazione di categoria - sia essa
il trust o il sindacato - le iniziative spontanee e autonome.
"Questi convergenti impulsi - aggiungeva De Ruggiero - hanno servito
a capovolgere gradualmente l'originario rapporto che la
mentalità liberale aveva istituito fra l'individuo e la
società: non è la cooperazione spontanea delle energie
individuali che crea il carattere e il valore dell'insieme, ma
è questo che determina e foggia i suoi elementi. [...] Il
logico sviluppo di siffatta tendenza porta non soltanto a
disconoscere l'efficacia formatrice della libertà, ma anche a
comprimerla e a deprimerla" (ibid.).
Inoltre, c'è una sostanziale differenza di atteggiamento, fra
liberalismo e democrazia, verso le decisioni della maggioranza. Come
ha osservato Friedrich von Hayek, dal punto di vista del liberale
è necessario che solo quanto è accettato dalla
maggioranza diventi legge, ma non è da credere che ciò
basti a renderla una buona legge; dal punto di vista del
democratico, invece, il solo fatto che la maggioranza voglia
qualcosa è sufficiente per considerare buono ciò che
essa vuole.Ancora: per il liberale è indispensabile, in primo
luogo, che la maggioranza osservi determinati principî e
determinate regole; e, in secondo luogo, che il processo di
formazione della maggioranza sia indipendente e spontaneo.
Ciò però presuppone l'esistenza di vaste sfere libere
dal controllo della maggioranza medesima, entro le quali si formano
le opinioni individuali. Il democratico, invece, è portato,
per mentalità e per cultura, a sottovalutare queste esigenze,
fondamentali per il liberale (cfr. F. von Hayek, The constitution of
liberty, Chicago 1960; tr. it., La società libera, Firenze
1969, pp. 127-133). E, insomma, "ci sono delle libertà che
esorbitano dalla sensibilità della democrazia, così
come ci sono delle eguaglianze che non sono apprezzate dal
liberalismo" (v. Sartori, 1958², p. 238).
7. Liberalismo ed eguaglianza
La discussione del rapporto che intercorre fra liberalismo e
democrazia ci porta dunque a discutere il rapporto fra liberalismo
ed eguaglianza. Si tratta di un problema assai delicato,
perché nelle moderne società democratiche è
sempre viva l'aspirazione all'eguaglianza sociale, variamente
recepita da partiti politici e da organizzazioni sindacali (sempre
più potenti in una società democratico-industriale).
Senonché, come ha osservato Bobbio in modo perentorio (ma qui
la perentorietà va a tutto vantaggio della chiarezza),
"libertà ed eguaglianza sono valori antitetici, nel senso che
non si può attuare pienamente l'uno senza limitare fortemente
l'altro: una società liberal-liberista è
inevitabilmente inegualitaria così come una società
egualitaria è inevitabilmente illiberale". E mentre per il
liberale il fine principale della società è
l'espansione della personalità individuale - anche se lo
sviluppo della personalità più ricca e dotata
può andare a detrimento dello sviluppo della
personalità più povera e meno dotata - per
l'egualitario il fine principale è lo sviluppo della
comunità nel suo insieme, anche a costo di diminuire la sfera
di libertà dei singoli (v. Bobbio, 1986, p. 27).
Sul rapporto libertà-eguaglianza c'è una vastissima
letteratura, corrispondente all'intenso dibattito svoltosi su questo
tema nel nostro secolo, e in questa sede non è certo
possibile riassumerlo. Qui basti dire che il pensiero liberale
più coerente e più maturo ha sempre respinto la
svalutazione della libertà civile e politica a favore
dell'eguaglianza sociale. La libertà civile e politica
è stata considerata sempre fondamentale dai liberali,
perché senza di essa c'è solo il regime del privilegio
insieme a quello dell'arbitrio (come i regimi totalitari hanno
mostrato nel modo più convincente e più terribile), e
quindi senza libertà civile e politica non possono essere
raggiunte nemmeno quelle libertà sociali che stanno
giustamente a cuore anche al liberalismo più avanzato. Senza
libertà civile e politica, insomma, non ci può essere
nemmeno giustizia sociale (la quale è sempre il risultato di
una dialettica politica in cui devono avere libero gioco i partiti,
i sindacati, i movimenti d'opinione, ecc.).
A ciò si può aggiungere che lo stesso ideale fatto
proprio da diversi filoni del pensiero liberale contemporaneo, che
siano assicurate a tutti le stesse opportunità, è
un'esigenza che ha un senso solo in una società integralmente
libera: ovvero in una società in cui gli individui possano
affermare le proprie potenzialità in tutti i campi
(economico, professionale, culturale, politico) senza incontrare
vincoli e condizionamenti, senza trovare limitazioni e
ostacoli.Problemi assai delicati nascono, per il pensiero liberale,
dall'esigenza di assicurare alla collettività determinati
servizi e determinate provvidenze (quali sono assicurate oggi dal
cosiddetto 'Stato del benessere'), poiché ciò implica
una forte ridistribuzione della ricchezza e un ampio intervento
dello Stato in molti settori della vita sociale, cioè implica
l'esercizio di una serie di poteri e l'adozione di una serie di
misure da parte del governo, che vengono sentiti da molti liberali
come una seria minaccia (si pensi, a questo proposito, alle analisi
di von Hayek). A dire il vero, ben pochi liberali hanno contestato,
in passato, le esigenze e le finalità del cosiddetto Stato
del benessere (Welfare State). Su questo punto si è
registrata una sostanziale convergenza fra liberali e democratici, o
addirittura fra liberali e socialisti. Come ebbe a rilevare Luigi
Einaudi (op. cit., pp. 211-212), "su taluna maniera di porre rimedio
alla disuguaglianza nei punti di partenza vi ha sostanziale
concordia fra liberali e socialisti ed è per quel che
riguarda l'apprestamento - a spese di tutti, e cioè dei
contribuenti, ossia, formalmente, dello Stato, degli enti pubblici e
delle varie specie di opere di bene, coattive o volontarie - di
mezzi di studio, di tirocinio e di educazione aperti a tutti. [...]
Ad uguale sentenza si giunge rispetto a quei provvedimenti intesi ad
instaurare parità di punti di partenza tra uomo e uomo con le
varie specie di assicurazioni sociali: contro la vecchiaia e la
invalidità, contro le malattie, a favore della
maternità, contro la disoccupazione e simiglianti". E anche
uno scrittore liberale come von Hayek, noto per le sue posizioni
contrarie allo Stato-Provvidenza, dopo aver rilevato che "tutti gli
Stati moderni hanno adottato provvedimenti per gli indigenti, gli
sfortunati, gli invalidi, e si sono preoccupati dei problemi
sanitari e della diffusione della scienza", ha affermato che "non
c'è ragione che, con il generale aumento della ricchezza, non
aumenti anche il volume di queste attività di puri e semplici
servizi", e che è impossibile negare che, quanto più
ci arricchiamo, tanto più dovrà aumentare il ruolo
dello Stato nel settore delle assicurazioni sociali e
dell'educazione (op. cit., pp. 291-292).
La differenza, semmai, fra liberali e democratici, e fra liberali e
socialisti, sorge sui modi e sui criteri di applicazione di tali
provvedimenti. Poiché mentre i primi (come dice Einaudi) sono
più attenti ai meriti e agli sforzi della persona, e quindi
sono propensi a mantenersi stretti nell'ammontare dei sussidi, i
secondi, invece, sono pronti a maggiori larghezze. E, più in
generale, mentre il liberale "vuole porre le norme, osservando le
quali risparmiatori, imprenditori, lavoratori possono liberamente
operare", il socialista, invece, "vuole soprattutto dare un
indirizzo, una direttiva all'opera dei risparmiatori, proprietari,
imprenditori e lavoratori anzidetti. Il liberale pone la cornice,
traccia i limiti dell'operare economico; il socialista indica od
ordina le maniere dell'operare" (cfr. Einaudi, op. cit., pp.
213-218). E von Hayek, a sua volta, traccia quella che egli ritiene
un'importante distinzione tra due diversi modi di concepire la
sicurezza: "C'è una limitata sicurezza che può essere
realizzata per tutti e che pertanto non è un privilegio, e
una sicurezza assoluta, che, in una società libera, non
può essere garantita a tutti. La prima è la sicurezza
contro le privazioni fisiche gravi, la certezza di un minimo di
mezzi di sussistenza per tutti; la seconda è la certezza di
un dato livello di vita, che si determina mettendo a confronto il
livello di vita di cui godono gli uni con quello di cui godono gli
altri. La distinzione da fare, quindi, è tra la sicurezza di
un reddito minimo uguale per tutti e la sicurezza di un particolare
reddito che si ritiene una persona dovrebbe avere" (op. cit., pp.
293-294).
Da questa impostazione risulta escluso, naturalmente, qualunque
modello di giustizia distributiva. Per il liberale, infatti, da un
lato non esistono principî generali di giustizia distributiva
universalmente riconosciuti, e, dall'altro lato, anche se fosse
possibile raggiungere un accordo su di essi, non li si potrebbe
imporre a una società in cui gli individui debbono essere
liberi di impiegare le loro capacità e le loro cognizioni per
il conseguimento di fini privati. Imporre alla società una
gerarchia di fini - ha affermato von Hayek - equivarrebbe a chiedere
agli individui di fare ciò che è necessario nella
prospettiva di un programma autoritario: cioè significherebbe
realizzare un modello che è esattamente l'opposto della
società liberale.Inoltre il liberale auspica (per usare di
nuovo le parole di von Hayek) che nell'attuazione dei servizi e
delle assicurazioni sociali venga lasciata aperta la
possibilità di un intervento per l'iniziativa privata ogni
qualvolta ciò appaia concretamente fattibile; che tali
servizi siano gestiti, finché è possibile, dalle
autorità locali, anziché da quelle centrali; e che
infine la maggior parte dei servizi di previdenza sociale siano
forniti mediante la creazione di istituti assicurativi
concorrenziali, al fine di evitare il monopolio di un'unica macchina
burocratica sempre più vasta e potente, il cui controllo da
parte della collettività è assai problematico, mentre
i danni che essa arreca agli interessi e alla libertà dei
cittadini sono sicuri. "Invece - ha aggiunto von Hayek - la
decisione di fare dell'intero campo delle assicurazioni sociali un
monopolio statale, nonché quella di trasformare l'apparato
costruito a tale scopo in un grande meccanismo di ridistribuzione
del reddito, hanno condotto a una crescita progressiva del settore
pubblico dell'economia (ossia del settore controllato dallo Stato) e
a un costante restringimento di quell'area dell'economia in cui
ancora prevalgono i principî liberali" (v. Hayek, 1978, pp.
990-991).
8. Liberalismo e liberismo
Nel Novecento i pensatori liberali sono diventati sempre più
sensibili alla connessione fra istituzioni e mentalità
liberali da un lato e contesti socioeconomici dall'altro lato. Se
nel corso dell'Ottocento le preoccupazioni espresse in questa
direzione dal pensiero liberale si erano concentrate sui pericoli di
massificazione, di conformismo generale, di tirannide della
maggioranza, insiti nel passaggio dalla società liberale alla
società liberaldemocratica, nel nostro secolo, invece, esse
si sono concentrate soprattutto sulle trasformazioni che l'economia
e la società civile subiscono o potranno subire a opera dei
cartelli, dei trusts e dei monopoli da un lato, e dei movimenti
socialisti e comunisti dall'altro lato. Le istituzioni liberali
potranno o no sopravvivere a limitazioni sempre più
consistenti della libertà di intrapresa, di commercio, di
iniziativa individuale? E inoltre, la società socialista (che
nella prima metà del nostro secolo costituiva l'ideale
sociale e politico di grandi partiti politici e di grandi movimenti
d'opinione in numerosi paesi) è compatibile o no col
liberalismo? Questi interrogativi si sono imposti con forza ai
pensatori liberali, e nel nostro paese essi hanno suscitato una
vivace e vigorosa discussione fra Luigi Einaudi e Benedetto Croce.
Croce aveva affermato che se il comunismo avesse avuto ragione nel
ritenere che l'ordinamento capitalistico ha come effetto di
danneggiare e scemare la produzione della ricchezza, il liberalismo
non avrebbe potuto se non approvare e invocare per suo conto
l'abolizione della proprietà privata, poiché "l'idea
liberale può avere un legame contingente e transitorio, ma
non ha nessun legame necessario e perpetuo con la proprietà
privata della terra e delle industrie". Il promovimento della
libertà, aveva detto ancora Croce, è l'unico criterio
con cui l'idea liberale misura istituti politici e ordinamenti
economici, in rapporto alle varie situazioni storiche, a volta a
volta accettandoli o respingendoli secondo che quegli istituti
serbino o perdano efficacia per il suo fine. Del resto, precisava il
filosofo napoletano, "l'ideale liberale ha natura religiosa", e solo
muovendo dalla libertà come esigenza morale è dato
interpretare la storia nella quale questa esigenza si è
affermata e ha creato di volta in volta le proprie istituzioni
secondo che di volta in volta è stato possibile nelle varie
epoche: "come monarchie feudali e come repubbliche comunali, come
monarchie assolute e come monarchie costituzionali, e via dicendo, e
anche come vario ordinamento della proprietà nell'economia a
schiavi, a servi e a salariati, nella massima del lasciar fare e
lasciar passare, e nell'altra, diversa, dell'intervento statale, e
via" (cfr. B. Croce e L. Einaudi, Liberismo e liberalismo, a cura di
P. Solari, Napoli 1957, pp. 134-135).
A queste posizioni di Croce (che coincidevano largamente, su questo
punto, con quelle di Kelsen), Einaudi obiettò, in primo
luogo, che un liberalismo il quale accettasse l'abolizione della
proprietà privata e l'instaurazione del comunismo, in ragione
di una sua ipotetica maggiore produttività di beni materiali,
non sarebbe più liberalismo, e che l'essenza di quest'ultimo,
che è la libertà, non può sopravvivere
là dove la società civile è interamente
dominata e plasmata dallo Stato (ibid., p. 128). Inoltre, a Einaudi
non sembrava accettabile "la tesi che la libertà possa
affermarsi qualunque sia l'ordinamento economico e anche
nell'economia a schiavi o a servi". In realtà, egli
ribatteva, "l'idea liberale trionfa e si perfeziona non con l'uso
dello strumento della schiavitù, bensì col negarlo e
collo sforzarsi di spezzarlo e di sostituirlo con altro più
congruo" (p. 136). In particolare, a Einaudi sembrava che nel mondo
contemporaneo due sistemi economici, diversissimi fra loro nei
presupposti ma assai simili nei risultati, negassero in eguale
misura la libertà umana: il comunismo e il capitalismo
monopolistico. Tali sistemi, diceva Einaudi, "tendono, per l'indole
loro propria, a ridurre gli uomini a meri strumenti, anelli minimi
di una ferrea catena che lavora e produce", "a imprimere uno stampo
uniforme su tutti gli uomini, a farli svegliare, muovere, entrare in
certi luoghi di lavoro, che si direbbe di pena, alla stessa ora, a
compiere i medesimi atti". Ma se questo era vero, perché
affermare che la libertà morale può prosperare in
qualunque ordinamento economico? "Se la filosofia indaga la
realtà, perché chiudere gli occhi al fatto che in
certi ordinamenti economici la libertà è l'appannaggio
di pochissimi eroi o ribelli?" (p.144).
Per questo, secondo Einaudi, gli economisti neoliberali non potevano
accettare l'atteggiamento di quasi indifferenza con cui Croce
guardava ai mezzi economici (liberismo, protezionismo, monopolismo,
economia regolata e razionalizzata, autarchia economica, ecc.),
ciascuno dei quali poteva, a giudizio del filosofo napoletano,
essere adottato o rigettato a seconda delle varie situazioni
storiche. Era vero, invece, che il liberalismo ha come base il
liberismo, inteso come iniziativa individuale, operosità,
libera concorrenza come selezione di capacità e via dicendo.
"Cadendo nel protezionismo, nel parassitismo di industrie e di
lavoratori verso lo Stato, ecc. - concludeva Einaudi - ci si avvia a
negare anche il liberalismo nel suo valore più schiettamente
politico e morale" (p. 158).
Oggi lo stretto rapporto che intercorre fra liberalismo e contesti
socioeconomici è un dato fermamente acquisito dal più
maturo pensiero liberale, e posizioni come quelle sostenute da John
Dewey negli anni trenta (gli anni della grande depressione) - che il
liberalismo dovesse abbandonare ogni mentalità liberistica e
costruirsi strumenti ideali e politici di tutt'altro tipo, fino a
far propria l'idea della socializzazione delle forze produttive e
correlativa pianificazione dell'economia (Liberalism and social
action, New York 1935) - sarebbero del tutto improponibili.
Chi si è impegnato di più a lumeggiare e a discutere
il rapporto fra liberalismo e contesti socioeconomici è
stato, dopo L. von Mises, Friedrich von Hayek. In pagine assai
importanti egli ha messo in rilievo la profonda connessione
esistente fra la sfera intellettuale e scientifica - in cui il
progresso delle conoscenze ha luogo in modi e secondo itinerari
assolutamente imprevedibili, essendo il risultato di una
combinazione di concetti, di scoperte e di circostanze estremamente
vari, a volte addirittura fortuiti, e appartenenti sempre ai
più vari campi del sapere -e la sfera socioeconomica. "La
libertà d'azione, anche nelle cose umili, - dice Hayek -
è tanto importante quanto la libertà di pensiero.
È diventato d'uso comune svilire la libertà d'azione
chiamandola 'libertà economica'. Ma il concetto di
libertà d'azione è molto più ampio di quello di
libertà economica, che vi è ricompreso, e - cosa ancor
più importante - è discutibile che esistano mere
azioni 'economiche' e che possano applicarsi restrizioni alla
libertà limitatamente ai cosiddetti aspetti puramente
'economici"'. In realtà, secondo Hayek, esaltare il valore
della libertà intellettuale a detrimento della libertà
sociale equivale a considerare il cornicione da solo come se fosse
tutto l'edificio. Tale punto di vista non comprende che abbiamo idee
nuove da discutere e visuali diverse da confrontare, ed
eventualmente da adattare e da combinare fra loro, solo
perché quelle idee e quelle visuali sono nate dagli sforzi
fatti in tutte le nuove circostanze dagli individui che nei loro
compiti concreti hanno sperimentato nuovi metodi e nuovi strumenti
(The constitution of liberty, cit.; tr. it., pp. 54-55). Proprio per
questo la società deve essere integralmente libera (e quindi
estremamente varia) a tutti i livelli, socioeconomici e
intellettuali. (Sul pensiero di Hayek ha esercitato un influsso
profondo la Inquiry di Smith, da lui ritenuta "in misura forse
maggiore di qualsiasi altra opera, l'inizio del pensiero liberale
moderno").
9. Le sfide del XX secolo
Nel nostro secolo il liberalismo ha dovuto misurarsi con profondi
mutamenti economici, sociali e politici, e ha dovuto sostenere
grandi sfide. L'ulteriore balzo in avanti dell'industrializzazione
(fondata sul motore a scoppio e sulle macchine elettriche), la
vastissima urbanizzazione e l'avvento della società di massa
(nel 1910 Londra e New York avevano ormai più di cinque
milioni di abitanti, Parigi circa tre, Vienna due, Berlino quasi
quattro milioni) hanno prodotto forti inquietudini sociali e
politiche e creato un clima non favorevole al liberalismo. "Queste
masse di salariati e di stipendiati - ha scritto G. Lichtheim - non
potevano accontentarsi delle vedute individualistiche tipiche della
borghesia europea nella sua fase creativa; erano attratte dai nuovi
slogan: da una parte il nazionalismo, dall'altra il socialismo"
(Europe in the twentieth century, London 1972; tr. it., Roma-Bari
1973, p. 38). Il processo di 'massificazione' (che è stato
analizzato da un'ampia letteratura), con i suoi stereotipi, il suo
conformismo, la sua burocratizzazione, ecc., non poteva non mettere
in discussione i fondamenti della mentalità e della cultura
liberali (come Tocqueville aveva previsto). A ciò bisogna
aggiungere che dopo il decennio 18701880, in cui il liberalismo
europeo aveva raggiunto il proprio apice, incominciò a
imporsi sempre più una politica di protezionismo e di
interventi statali. Tali interventi venivano chiesti dai socialisti
in nome del movimento operaio, dai nazionalisti a sostegno delle
loro rivendicazioni, e dalle associazioni industriali e finanziarie.
"Tutti quanti contribuivano a spingere l'intervento dello Stato
oltre il punto considerato accettabile dalla dottrina liberale
classica, che assegnava alle autorità pubbliche una funzione
regolatrice soltanto nei confronti di quelle attività che
esorbitavano chiaramente dalle capacità dei privati" (ibid.,
p. 39).Ma gli avvenimenti più sconvolgenti del nostro secolo
sono stati il sorgere e il consolidarsi dei grandi regimi
totalitari: del comunismo bolscevico in Russia, del fascismo in
Italia, del nazionalsocialismo in Germania. I liberali hanno dovuto
confrontarsi in primo luogo con queste realtà epocali e
drammatiche, e nella battaglia contro la 'società chiusa' dei
totalitarismi hanno difeso i principî e le ragioni della
'società aperta', ovvero della società
liberaldemocratica, ritrovando in tale battaglia una più
profonda fiducia in se stessi e nella superiorità dei propri
ideali.
La società aperta e i suoi nemici è appunto il titolo
di una celebre opera di K. Popper pubblicata nel 1945 (scritta
quindi negli anni bui della seconda guerra mondiale). Per Popper la
'società aperta' è una società fondata sul
razionalismo critico o scientifico; e come in campo scientifico non
esiste una teoria assolutamente vera (poiché ogni teoria
sarà sostituita prima o poi da un'altra teoria, più
soddisfacente e adeguata), così in campo sociale e politico
non esiste un assetto perfetto e definitivo. Ogni assetto
istituzionale è sempre rivedibile e migliorabile. Ma se una
società perfetta non può esistere, non può
esserci nemmeno un intervento politico risolutivo di tutti i
problemi sociali. Gli interventi per modificare la società
devono essere quindi sempre parziali, graduali, per migliorare
questa o quella situazione: non possono essere utopistici e
olistici. In questo quadro di ingegneria sociale (l'unico possibile)
la discussione e il confronto fra posizioni e soluzioni diverse (a
tutti i livelli: dai partiti ai sindacati, ai giornali, al
parlamento) sono essenziali e fondamentali. Il pluralismo culturale
e politico deve dunque essere garantito e istituzionalizzato, e il
momento del dissenso è, in fondo, ancora più prezioso
di quello del consenso. La 'società aperta' (contrapposta a
qualunque tipo di società teocratica, o comunque fondata su
valori indiscutibili) è l'unico tipo di società in
grado di dare adeguata soluzione ai conflitti sociali e di
assicurare un reale, anche se graduale, progresso della
società civile.
L'enorme superiorità dei regimi costituzional-pluralistici
sui regimi autoritari o totalitari, non solo 'di destra' ma anche
'di sinistra', è stata sostenuta con vigore anche da quei
pensatori liberali che, come Raymond Aron, si sono ispirati, nelle
loro analisi, alle teorie elitistiche. Ogni regime politico, ha
affermato Aron, è oligarchico, poiché tutte le
società - per lo meno tutte le società complesse -
sono governate da un piccolo numero di uomini. A questa sorte non
sfuggono nemmeno le società liberaldemocratiche. "La
sovranità popolare - ha detto Aron - non significa che la
massa dei cittadini prenda essa stessa, direttamente, le decisioni
relative alle finanze pubbliche o alla politica estera. È
assurdo paragonare i regimi democratici moderni all'idea
irrealizzabile di un regime in cui il popolo si governi da
sé" (Démocratie et totalitarisme, Paris 1965; tr. it.,
Milano 1973, p. 111). Detto questo, però, Aron ha messo in
rilievo la profonda trasformazione che i regimi
costituzional-pluralistici hanno subito nel passaggio dalla fase
liberale alla fase liberaldemocratica. Nel XIX secolo, in Gran
Bretagna e in Francia, era difficile penetrare nella minoranza
governativa quando non si era dalla parte buona della barricata, a
meno che non ci fosse una rivoluzione. Il quadro è poi
profondamente mutato: oggi le minoranze dirigenti sono molto
più aperte di quanto fossero nel secolo scorso, per ragioni
che dipendono anche dalla struttura delle società
industriali. Infatti, quanto più il sistema di istruzione si
allarga, quanto più aumentano le possibilità di
selezione e di ascesa sociale, tanto più il regime politico
diventa democratico. E non solo i regimi costituzional-pluralistici
sono meno oligarchici di tutti i regimi conosciuti finora, ma in
essi, anche se le minoranze economicamente dominanti sono sempre
legate in certa misura agli ambienti politici dirigenti, il potere
politico è separato dal potere economico. Coloro che
esercitano le funzioni politiche più importanti non sono gli
stessi che detengono le posizioni economiche più importanti.
Questo dualismo di élite economica e di personale politico
ha, per Aron, una grande rilevanza, perché comporta una
divisione del potere, e quindi lascia al cittadino margini di
libertà più ampi rispetto ai regimi nei quali potere
socioeconomico e potere politico sono concentrati nelle stesse mani
(come è avvenuto negli Stati totalitari comunisti).
Inoltre, la difesa che Aron ha fatto dei regimi
costituzional-pluralistici non si fonda soltanto sulla constatazione
del maggior benessere e delle maggiori chances sociali che essi
assicurano, ma anche su alcuni valori o principî che essi
realizzano: la libertà e la legalità. "I regimi
pluripartitici - ha detto infatti Aron - derivano dai regimi
costituzionali o liberali, e vogliono mantenere i valori del
liberalismo nell'ambito di una politica divenuta democratica. Il
potere dev'essere esercitato in conformità di precise norme,
i diritti degli individui devono essere rispettati, e i governanti
devono avere abbastanza autorità per poter agire in maniera
efficace" (ibid., p. 89). Nella riflessione di Aron, dunque, fra
liberalismo e democrazia scompare ogni tensione, ed essi sono
concepiti come assolutamente complementari, perché solo la
democrazia può assicurare benessere e un'ampia selezione
sociale delle élites dirigenti, e solo il liberalismo
può garantire che tutto ciò avvenga in un quadro di
rigoroso rispetto delle norme e dei diritti individuali.Le
società liberaldemocratiche hanno ampiamente vinto il
confronto con il mondo comunista, assai prima che questo crollasse
come di schianto. A partire dal 1956 (l'anno della denuncia, fatta
da Chruščëv, dello stalinismo, e della rivoluzione ungherese)
è apparso sempre più chiaro a tutti che la
società sovietica e le società dei paesi satelliti
erano caratterizzate da un lato dal dominio di apparati burocratici
fondato sul terrore poliziesco e sulla negazione di tutti i diritti
civili e politici dei cittadini, e dall'altro lato da un'estrema
penuria di beni materiali. Le società liberaldemocratiche, al
contrario, non solo si sono mostrate capaci di garantire i diritti
civili e politici dei cittadini, ma sono diventate società
sempre più ricche. Questo però non ha eliminato in
tali società gravi questioni sociali, dovute all'esistenza di
larghe fasce di povertà e di disoccupazione; di qui molti e
seri problemi relativi all'esercizio della cittadinanza nel senso
pieno della parola.
Su questi problemi si è svolto negli ultimi decenni, e
continua a svolgersi, un intenso dibattito nel pensiero
etico-politico di ispirazione liberale, con esiti e soluzioni,
però, radicalmente diversi tra loro. Così, John Rawls
(A theory of justice, Cambridge, Mass., 1971) ha espresso
preoccupazioni di giustizia sociale, ed è partito nella sua
riflessione da due principî: il primo di ispirazione liberale
("ciascun individuo possiede un eguale diritto a una libertà
di base la più estesa possibile, compatibile con altrettanta
libertà per gli altri"), il secondo ispirato da ideali di
giustizia distributiva ("le disuguaglianze sociali ed economiche
debbono essere strutturate in modo tale da essere: a) volte al
vantaggio dei meno favoriti e b) connesse a posizioni e cariche
accessibili a tutti in condizioni di equa eguaglianza di
opportunità"); R. Nozick, invece, ha teorizzato lo 'Stato
minimo', e, interessato soltanto alla giustizia commutativa, fondata
sui contratti fra privati (la cui tutela è l'unico compito
dello Stato), ha criticato aspramente qualunque forma di giustizia
distributiva, fino ad affermare che "la tassazione dei guadagni di
lavoro è sullo stesso piano del lavoro forzato" (Anarchy,
State and utopia, New York 1974).
Le posizioni di Rawls e di Nozick incarnano due ispirazioni
radicalmente differenti (Nozick è convinto che una
società è tanto più ricca e più libera
quanto più è ridotto il ruolo dello Stato), e
attestano una profonda lacerazione nel pensiero liberale degli
ultimi decenni del nostro secolo. Una lacerazione destinata
probabilmente ad aggravarsi con la crisi dello 'Stato del benessere'
manifestatasi in diversi paesi e con la necessità sempre
più evidente di ridimensionare, a causa dei loro costi
eccessivi, le garanzie e le protezioni che quello Stato assicura.
Liberismo
di Riccardo Faucci
sommario: 1. Definizioni. 2. Il Settecento: dall'ordine naturale al
laissez faire. 3. L'Ottocento: il liberismo fra prassi e retorica.
4. Il Novecento: l'eclissi del liberismo. 5. Luci e ombre del
neoliberismo contemporaneo. □ Bibliografia.
1. Definizioni
Il termine 'liberismo' ha una pluralità di significati che,
ove non segnalata, può essere fonte di equivoci. Con esso ci
si può riferire sia a una visione del processo economico
secondo la quale le decisioni fondamentali devono essere affidate,
prevalentemente o esclusivamente, a operatori privati, con
intervento governativo minimo o nullo, sia a una politica
commerciale basata sulla libertà degli scambi internazionali.
Nel primo caso si vuole sottolineare l'antistatalismo, e liberismo
si contrappone a 'interventismo', 'dirigismo', 'collettivismo', o
addirittura 'totalitarismo' tout court (da parte di quei liberisti i
quali ritengono che qualsiasi intervento dello Stato nell'economia
sia necessariamente di tipo autoritario e illiberale). Nel secondo
caso liberismo è sinonimo di 'liberoscambismo', termine
però ormai poco usato, e in tal caso il suo contrario
è 'protezionismo'. È facile notare che i liberisti -
se coerenti - sono anche liberoscambisti, mentre non necessariamente
i liberoscambisti - anche se coerenti - sono liberisti (per esempio
l''Europa del libero scambio' prevede controlli e interventi
pubblici in numerosi settori).
Nelle altre lingue, invece, non sorgono equivoci, perché
liberismo è reso con laisser faire - in inglese e in tedesco,
oltre che in francese -, mentre si ha free trade, libre
échange e Freihandel nel caso ci si riferisca al libero
scambio in senso stretto. Liberismo e liberoscambismo esprimono
entrambi la convinzione che il libero mercato, la libera impresa, la
libertà di lavoro consentano di raggiungere una maggiore
efficienza al sistema economico e un maggiore benessere alla
collettività.
2. Il Settecento: dall'ordine naturale al laissez faire
L'espressione laisser faire (lasciar lavorare, lasciar produrre),
correlata con laisser passer (lasciar scambiare, lasciar
commerciare), si trova forse per la prima volta nella fisiocrazia,
la scuola di economisti alla quale si devono sia l'elaborazione del
primo schema analitico di funzionamento del sistema economico, sia
una vivace battaglia contro i vincoli corporativi e feudali che,
ancora alla metà del XVIII secolo, ostacolavano lo sviluppo
dell'economia francese. Anne-Robert-Jacques Turgot attribuisce al
mercante Thomas Legendre l'espressione laissez nous faire, che
questi avrebbe rivolto al ministro di Luigi XIV, Colbert, per
protestare contro le eccessive regolamentazioni dell'industria e del
commercio allora esistenti. L'uomo d'affari e funzionario statale
Vincent de Gournay l'avrebbe poi diffusa nella cerchia fisiocratica.
Nello scritto di Turgot Éloge de Gournay, seppure attribuiti
a Gournay, sono presentati con esemplare chiarezza i concetti chiave
del liberismo: "Allorquando l'interesse dei privati è
precisamente il medesimo che l'interesse generale, quello che si
può fare di meglio è di lasciare ciascun uomo libero
di fare quello che egli voglia. Ora, [Gournay] trovava impossibile
che nel commercio abbandonato a se stesso l'interesse particolare
non concorresse [...] con l'interesse generale" (v. Turgot, 1759;
tr. it., p. 283). L'interesse generale, che il governo ha il compito
di proteggere, consiste nell'evitare che i privati si danneggino
l'un l'altro, nell'accrescere la ricchezza nazionale e nello
scongiurare brusche cadute della produzione, che "immergendo il
popolo negli orrori della carestia, turbino la tranquillità
pubblica e la sicurezza dei cittadini" (pp. 283-284). Nel medesimo
scritto Turgot mostra efficacemente come il funzionamento di un
mercato libero permetta di raggiungere tutti e tre questi obiettivi
di interesse generale. Anzi, "l'interesse privato abbandonato a se
medesimo produrrà sempre più sicuramente il bene
generale, che non le operazioni del governo, sempre difettose e
necessariamente dirette da una teoria vaga e incerta" (p. 286).
I fisiocratici coniugarono l'efficienza garantita dal mercato
concorrenziale con l''ordine naturale della società'.
Nell'opuscolo Le droit naturel il maggiore esponente della
fisiocrazia, François Quesnay, chiarisce che non esiste un
"diritto naturale di tutti a tutto", ma che "il diritto naturale di
ciascun uomo si riduce in realtà a quella porzione che egli
può procurarsi col proprio lavoro" (v. Quesnay, 1765; tr.
it., p. 3). Le ineguaglianze naturali fra gli uomini relativamente
al godimento del loro diritto naturale operano a fin di bene,
perché spingono l'uomo a un continuo perfezionamento. La
spinta della miseria e del bisogno - afferma Quesnay anticipando
Malthus - è un potente fattore di progresso. Invece le
ineguaglianze artificiali, dovute cioè agli ordinamenti
sociali vigenti, debbono essere superate abbattendo tali
ordinamenti. Quesnay afferma che la libertà non è mai
assoluta, ma relativa: essa consiste nella capacità
dell'individuo di esprimere "preferenza, scelta, decisione" (p. 6,
nota; corsivo nel testo). Egli ha dunque ben presente il
comportamento razionale dell'homo oeconomicus. Le forme di governo
costituzionale sono secondarie rispetto all'essenza del diritto
naturale, nel senso che diversi regimi politici sono compatibili con
esso. Soltanto "dove le leggi [...] non assicurano la
proprietà e la libertà, non c'è governo, non
società giovevoli" (p. 10). Questa posizione è
peraltro dettata da considerazioni di opportunità politica,
in quanto i fisiocrati non intendevano ribellarsi all'ancien
régime.
Il banco di prova per il nascente liberismo fu costituito dalla
questione del commercio dei grani, che si impone negli anni sessanta
e settanta del XVIII secolo. Come è stato osservato, il
libero mercato dei beni di sussistenza, sottratto alle decisioni
politiche, pone le basi per una moderna economia di mercato (v. Hont
e Ignatieff, 1985, pp. 13-14). Secondo Antoine de Condorcet, autore
fra l'altro delle Réflections sur le commerce des blés
(1776), una politica economica sana era quella di lasciare che il
grano si vendesse a prezzi di mercato, sussidiando i poveri in modo
che potessero comprarne; mentre era una cattiva politica economica
quella, allora seguita, di espropriare i produttori e di fissare un
prezzo politico non remunerativo (v. Rotschild, 1992, p. 1202).
Si può far risalire a quei decenni l'inizio della polemica
fra liberisti puri e interventisti: una polemica destinata a
protrarsi in termini pressoché invariati per almeno un
secolo. Fin da allora i liberisti sono accusati di astrattismo e
antistoricismo, e reagiscono accusando gli avversari di paternalismo
e autoritarismo. Se è innegabile che molti avversari dei
liberisti presentavano questi connotati, almeno due mostrarono una
singolare capacità di cogliere le difficoltà di
un'economia basata sul puro laissez faire e la necessità di
apprestare correttivi ai suoi effetti indesiderati. Sir James
Steuart - uno scozzese che visse a lungo in Germania - nella sua
Inquiry into the principles of political oeconomy (1767)
assegnò allo statesman il compito di rendere compatibili fra
loro gli interessi privati per il raggiungimento del bene generale,
predisponendo un plan (v. Steuart, 1966, vol. I, pp. 122-125; v.
Mitchell, 1967). Dal canto suo Ferdinando Galiani, che invece
soggiornò a Parigi, nei Dialogues sur le commerce des bleds
introdusse la fondamentale distinzione fra effetti di breve e di
lungo periodo delle misure di politica economica, discutendo i
possibili contraccolpi negativi di una liberalizzazione assoluta e
indiscriminata (v. Galiani, 1770; tr. it., pp. 202 ss.).
La battaglia liberista non ebbe gli esiti sperati. Turgot,
controllore generale delle finanze dal 1774 al 1776, riuscì a
liberalizzare il mercato del lavoro e a introdurre il libero
commercio del grano, ma la conseguente 'guerra delle farine'
scoppiata a causa della susseguente carestia lo obbligò a
dimettersi e una parte dei provvedimenti vennero revocati (v.
Schelle, 1892; v. Cazes, 1970).
Negli Stati italiani del Settecento non si ebbero vere e proprie
correnti di pensiero rigorosamente liberiste. "Gli economisti
italiani della metà del XVIII secolo ebbero tutti, dal
Genovesi al Beccaria al Verri, l'ossessione della bilancia
commerciale passiva" (v. Vianello, 1942, p. XXV). Erano
perciò tendenzialmente dei mercantilisti. Soltanto per la
Toscana si è parlato di "eclettismo [...] preparato
all'instaurazione di un sistema liberistico" (v. Mori, 1951, cap.
4): grazie agli sforzi dei riformatori toscani, la riforma doganale
del 1781 sancì la liberalizzazione del commercio dei grani
(v. Becagli, 1983).Con Adam Smith il liberismo raggiunse pienezza di
rigore concettuale. Contrariamente a quanto spesso sostenuto (v.,
per tutti, Viner, 1927), non esiste cesura fra lo Smith filosofo e
lo Smith economista. La morale smithiana, descritta nella Theory of
moral sentiments, è basata sui risultati e non sulle
intenzioni: Smith, pur ammirandoli, critica gli stoici in quanto
hanno "considerato la vita umana come un gioco di grande
abilità a cui si mescola però il caso [...]. La posta
è insignificante e tutto il piacere del gioco deriva dal
giocare bene. [... Ma] il piano e il sistema delineati dalla Natura
sembrano del tutto diversi da quelli della filosofia stoica" (v.
Smith, 1759; tr. it., pp. 381-399). Smith invece attribuisce un peso
fondamentale all'approvazione data dal prossimo (sia pure come
'spettatore imparziale') alla condotta di ciascun individuo. La sua
concezione della morale è dunque, per così dire,
già pronta per essere adattata ai comportamenti economici
dell'uomo sul mercato.
In Smith l'interesse individuale, anziché dar luogo alla
hobbesiana lotta di tutti contro tutti, oppure alla paradossale
trasformazione mandevilliana dei "vizi privati" in "pubbliche
virtù", costituisce il tessuto connettivo di una
società ben ordinata. Il fondamento del liberismo non
è più posto, come nei fisiocrati, nel diritto
naturale, ma nella stessa natura umana, in cui diverse 'passioni'
trovano fra loro un equilibrio intorno al self-love moderato dalla
sympathy. In tal modo le passioni stesse si trasformano in
'interessi' (v. Hirschman, 1977). Questi ultimi sono basati
sull'interdipendenza, oltre che sulla costanza e la
prevedibilità. Il luogo 'naturale' in cui essi trovano
reciproca soddisfazione è il mercato. La notissima
osservazione smithiana secondo cui non è dalla benevolenza
del macellaio che noi ci attendiamo il nostro pranzo, ma dal suo
tornaconto, si trova, ripetuta quasi con le medesime parole, sia
nelle Glasgow lectures on jurisprudence, sia nel Draft della Wealth
of nations, sia infine nell'opera maggiore (v. Smith, 1762-1763, tr.
it., p. 443; 1764, tr. it., pp. 41-42; 1776, tr. it., p. 18). Nel
libero mercato gli individui, pur proponendosi di perseguire
soltanto il proprio tornaconto, collaborano inconsapevolmente
all'innalzamento del benessere collettivo. È il principio
della "mano invisibile", che nel corso della sua opera Smith precisa
collegandolo appunto all'operare del mercato. Nella Theory of moral
sentiments egli si limita a osservare che il landlord accresce la
produzione delle sue terre per nessun altro scopo se non quello di
godersi tutto il prodotto. Si tratta ovviamente di un calcolo
sbagliato, in quanto "la capacità del suo stomaco non
può essere nemmeno paragonata all'immensità dei suoi
desideri [...]. I ricchi [...] consumano poco più dei poveri
e malgrado il loro egoismo e la loro ingordigia naturale, malgrado
facciano conto solo della propria convenienza, [...] da una mano
invisibile sono guidati a fare quasi la stessa distribuzione dei
beni necessari alla vita che se la terra fosse stata divisa in parti
eguali fra tutti i suoi abitanti [...]; e così, senza volerlo
e senza saperlo, promuovono gli interessi della società" (v.
Smith, 1759; tr. it., pp. 248-249; corsivo nostro). Nell'opera
maggiore, trattando degli impieghi del capitale più
vantaggiosi, Smith presenta il capitalista come il soggetto
economico per il quale è più appropriato il
riferimento alla mano invisibile: "La considerazione del suo proprio
vantaggio lo porta naturalmente, o meglio necessariamente, a
preferire l'impiego più vantaggioso per la società
[...]. In effetti egli non intende, in genere, perseguire
l'interesse pubblico, né è consapevole della misura in
cui lo sta perseguendo [...]. Egli mira solo al suo proprio guadagno
ed è condotto da una mano invisibile, in questo come in molti
altri casi, a perseguire un fine che non rientra nelle sue
intenzioni [...]. Perseguendo il suo interesse, egli spesso persegue
l'interesse della società in modo molto più efficace
di quando intende effettivamente perseguirlo" (v. Smith, 1776; tr.
it., pp. 442-444). I liberisti dell'Otto e del Novecento, fino a
Hayek, non faranno che qualificare meglio queste affermazioni.
Smith giudica il "governo civile" un'istituzione nata per "la difesa
dei ricchi contro i poveri" (p. 707) e denuncia, con accenti molto
attuali, le distorsioni prodotte dall'intervento pubblico quando
esso in realtà serve solo a favorire gruppi privati (v.
Stigler, 1971). D'altra parte l'intervento statale in alcuni settori
non soltanto non è dannoso, ma è indispensabile tutte
le volte in cui si debba conciliare l'interesse privato con quello
pubblico. Per esempio, lo Stato dovrebbe contrastare la tendenza
alla separazione fra proprietà e direzione nelle
società per azioni (v. Smith, 1776; tr. it., pp. 733-734);
valorizzare al massimo la produttività del lavoro come
parametro di retribuzione dei pubblici impiegati (p. 711);
preferire, con gli opportuni aggiustamenti, il modello dell'esercito
permanente e professionale (standing army) rispetto a quello di leva
(militia: pp. 692 ss.; v. anche Rosenberg, 1960).
Nonostante la mano invisibile, le frizioni nel mercato non mancano.
I capitalisti, che pure del progresso economico sono i demiurghi,
tendono a collusioni fra loro per impedire l'ingresso nel mercato di
nuovi concorrenti (contrastando in questo modo la tendenza a cadere
del saggio di profitto) e per tenere bassi i salari dei lavoratori.
Essi sfruttano le loro migliori cognizioni circa l'andamento del
mercato per far prevalere il proprio interesse personale su quello
collettivo, impedendo così il funzionamento della mano
invisibile: "Siccome i loro pensieri sono comunemente rivolti
piuttosto all'interesse del loro particolare ramo di affari che
all'interesse generale della società, [...] la proposta di
una nuova legge o di un regolamento di commercio che provenga da
questa classe dovrebbe essere sempre ascoltata con grande
precauzione e non dovrebbe mai essere adottata [...]. Tale proposta,
infatti, proviene da un ordine di uomini il cui interesse non
è mai esattamente uguale a quello del pubblico e che,
generalmente, ha interesse a ingannare e anche a opprimere il
pubblico, come in effetti ha fatto in numerose occasioni" (v. Smith,
1776; tr. it., p. 254). Un altro fallimento del mercato riguarda la
condizione dei lavoratori salariati, la cui situazione è
aggravata, da una parte, dalla difficoltà a coalizzarsi (p.
67), e, dall'altra parte, dall'ignoranza e dall'abbrutimento ai
quali la divisione del lavoro li condanna (pp. 769-770). Smith non
arriva a proporre i sindacati, ma argomenta a favore dell'istruzione
obbligatoria per i lavoratori (pp. 772-773).
Pur attento a rilevare squilibri e contrasti all'interno della
società capitalistica, Smith non ha esitazioni a dichiarare
la propria preferenza per essa rispetto a tutte le società
precedenti (o contemporanee, ma più arretrate). È la
società capitalistica, infatti, quella che meglio consente il
dispiegarsi delle virtù medie, le virtù borghesi per
eccellenza, quali "pazienza, operosità, forza d'animo e
assiduità di pensiero. Difficilmente ci si imbatte in tali
virtù in uomini nati in ceti superiori" (v. Smith, 1759; tr.
it., p. 73). Il nesso fra virtù individuali, libero mercato e
buongoverno è esplicito. Regime liberale rappresentativo, e
quindi liberalismo politico, ed economia di libero mercato, e quindi
liberismo economico, sono, per Smith, il naturale complemento l'uno
dell'altro.
3. L'Ottocento: il liberismo fra prassi e retorica
L'insegnamento smithiano fu portato avanti da Jeremy Bentham che,
con la Defense of usury (1787), va addirittura oltre il maestro
affermando - diversamente da Smith - che il saggio d'interesse
doveva essere lasciato libero di crescere, in modo da non
scoraggiare gli investitori amanti del rischio: quei projectors per
i quali Smith non aveva simpatia (v. Pesciarelli, 1989). Un'altra
proposta discendente dal suo liberismo è quella
dell'emancipazione delle colonie, basata sulla considerazione che il
capitale impiegato in esse (e ivi indirizzato grazie alla protezione
doganale) può essere investito più proficuamente nella
madrepatria. Nel Manual of political economy (1793) - che contiene
la famosa esortazione al governo: "Be quiet!" - Bentham distingue
fra sponte acta degli individui (la maggior parte dei comportamenti
economici), agenda governativi (tendenti a rimuovere gli ostacoli
alla libera attività privata, come pure a consentire la
soddisfazione dei bisogni più importanti rispetto a quelli
meno importanti) e non agenda (in particolare, non intervenire sulle
decisioni del pubblico su risparmio e consumo, non creare
inflazione, ecc.).
L'idea di Bentham è che la società, seguendo il
precetto utilitarista della 'massima felicità per il maggior
numero', tenda a una progressiva eguaglianza di fortune, e quindi
che fra liberty ed equality non ci sia un reale conflitto. Invece,
il trade-off fra efficienza ed eguaglianza è un nodo cruciale
del liberalismo/liberismo. Il contrasto fra i due poli affiora fra
gli stessi seguaci di Bentham (su tutti questi aspetti v. Stark,
1941): chi accentuò l'elemento dell'eguaglianza
approdò al socialismo (Owen) o comunque a una posizione
anticapitalistica (Sismondi); chi accentuò l'elemento della
libertà rifluì nell'alveo dell'economia classica.
Fra gli economisti classici influenzati da Bentham riveste una
posizione preminente James Mill, che scrisse nel 1808 un opuscolo,
Commerce defended, per sostenere che "il commercio britannico ha
molto più da temere dai regolamenti poco saggi del governo
inglese che dai decreti di Napoleone" (cit. in Farolfi, 1976, p.
58). L'Inghilterra doveva aprirsi al commercio internazionale,
nonostante il blocco continentale, ma il libero scambio confliggeva
con gli interessi dei produttori agricoli inglesi, abituati a godere
di alti prezzi interni dei cereali. Dal canto suo David Ricardo,
anch'egli vicino a Bentham, affrontò nell'Essay on profits il
problema della rendita fondiaria crescente come quota del prodotto
netto, per effetto dei rendimenti decrescenti delle terre che
venivano progressivamente messe a coltura. La sua proposta era di
importare liberamente il grano, facendone cadere il prezzo di
mercato e lasciando che i capitali impiegati nelle terre peggiori si
indirizzassero verso le manifatture. Anche se lo scritto ha un
taglio teorico, l'indicazione di politica economica è
evidente. Ricardo rammenta che "fu il tentativo di Buonaparte
[attraverso il blocco continentale] di impedire l'esportazione di
prodotto grezzo dalla Russia che suscitò gli sforzi
stupefacenti del popolo di quel paese contro la forza più
potente che mai sia stata raccolta per soggiogare una nazione" (v.
Ricardo, 1815; tr. it., pp. 346-347). Dunque il protezionismo
napoleonico fu all'origine della caduta dell'imperatore.
Nei successivi Principles of political economy and taxation Ricardo
presenta la sua nota teoria del commercio estero basata sui vantaggi
comparati. E osserva incidentalmente: "In un sistema di perfetta
libertà di commercio ogni paese rivolge naturalmente il
capitale e il lavoro agli impieghi che gli sono maggiormente
vantaggiosi. Questo perseguimento del vantaggio individuale si
accorda mirabilmente con il bene universale della società"
(v. Ricardo, 1817; tr. it., p. 92). Tuttavia, seppure liberista,
Ricardo non è un armonicista, perché la sua teoria
della distribuzione del reddito (secondo cui i salari crescono a
spese dei profitti, e la rendita tende anch'essa a comprimere i
profitti ove la sua crescita non sia opportunamente contrastata)
nasconde un latente conflitto fra le classi sociali. In alcuni
settori, inoltre, egli non sostenne un assoluto laissez faire. In
materia monetaria, per esempio, invocò la necessità
della concentrazione dei poteri di emissione nella Banca
d'Inghilterra, ispirando così il Peel's act del 1844 (v.
Robbins, 1952; tr. it., p. 29).I maggiori risultati della propaganda
liberista/liberoscambista in Inghilterra si ebbero con l'abolizione
della cosiddetta Old poor law (1834) e delle Corn laws (1846). La
prima - di origine elisabettiana - consisteva in un sussidio, a
carico delle 15.000 parrocchie, a favore dei lavoratori poveri ivi
residenti (v. Marshall, 1968, p. 12). L'argomento principe contro la
Poor law era che essa incoraggiava la pigrizia e la scarsa
iniziativa personale dei lavoratori, i quali per di più non
potevano emigrare da regione a regione, ma erano fissati per sempre
alla propria parrocchia d'origine. Thomas Robert Malthus, sempre
preoccupato che la popolazione crescesse più delle
sussistenze, accusò la Poor law di spingere i lavoratori a
matrimoni prematuri e quindi ad altrettanto premature procreazioni,
opinione condivisa anche da Nassau Senior (v. Robbins, 1952; tr.
it., pp. 88-90). L'abrogazione della legge portò a un acuirsi
della questione sociale e del pauperismo, cui si pose rimedio con la
prima legislazione sociale moderna nei decenni seguenti.
Le Corn laws, dal canto loro, rappresentavano un antico espediente
per controllare in qualche modo le fluttuazioni del prezzo del
grano, mediante un sistema di sovvenzioni (bounties) quando i prezzi
interni del grano erano troppo bassi, e con bassi dazi di
importazione quando i prezzi interni crescevano per via di cattivi
raccolti. Terminate le guerre napoleoniche, le Corn laws
funzionarono soprattutto come protezione dei proprietari fondiari.
Fin dal 1815 nei distretti industriali si andarono formando
associazioni per la loro abrogazione, finché nel 1838 venne
costituita la Anti-Corn law League, sotto la guida degli industriali
Richard Cobden, George Wilson e John Bright, e con la partecipazione
di uomini politici come Henry Brougham e Francis Place, e di
pubblicisti come Harriet Martineau e John Bowring (v. McCord, 1968).
La pressione della League sul governo conservatore di Robert Peel
ebbe successo: nel 1846 la protezione cerealicola venne abolita. Nel
1847 Cavour illustrava minuziosamente il sistema doganale inglese,
concludendo che "questo edifizio protettore, da tanti secoli
così gelosamente custodito dall'aristocrazia fondiaria, venne
in pochi anni interamente distrutto" (v. Cavour, 1962, p. 256), e ne
traeva alimento per una previsione di aumento delle esportazioni
italiane. Fra il gennaio e il giugno 1847 Cobden visitò
diverse città italiane e riscosse grande successo.
La Anti-Corn law League si collegò, ma non si
identificò del tutto, con la cosiddetta Manchester school of
economics: un gruppo informale ed eterogeneo, per il quale
l'appellativo di 'scuola', impressogli da Disraeli con intenti
negativi, è improprio. Anche la provenienza geografica dei
suoi membri era varia. Manchester fornì al gruppo soltanto
alcuni uomini d'affari che ne rappresentavano l'ala conservatrice;
altri esponenti erano philosophic radicals londinesi, allievi di
Bentham e attivi in Parlamento (v. Grampp, 1960). La propaganda per
il libero scambio, per quanto dichiaratamente ispirata agli
interessi dei manifatturieri, fu nobilitata da appassionati accenti
democratici (suffragio universale maschile), pacifisti e
'internazionalisti'. Il periodico che maggiormente si distinse nel
sostenere la causa del movimento fu l' "Economist", fondato nel 1843
da James Wilson. Per almeno quindici anni l' "Economist" - cui
collaborava l'ultraindividualista Herbert Spencer - fu un organo di
propaganda non solo del (limitato) free trade, ma di un generale
laissez faire (v. AA.VV., 1943, pp. 1-17; v. Gordon, 1971, pp.
201-202).
Negli anni cinquanta dell'Ottocento i due maggiori successi del
movimento furono la soppressione dei Navigation acts (1854) e della
East India Company (1858), entrambi retaggi della vecchia politica
mercantilista. L'Inghilterra medio-vittoriana divenne la Mecca del
libero scambio, che ebbe il suo coronamento con i governi liberali
presieduti da William Gladstone (v. Rees, 1933). Progresso economico
e liberismo andarono di conserva, anche se non furono accompagnati
dal desiderato pacifismo, almeno rispetto ai paesi extraeuropei.
L''imperialismo del libero scambio' praticato dall'Inghilterra
consentì infatti l'espansione coloniale in Africa e altrove
(v. Semmel, 1970).I principî del laissez faire ritardarono
invece l'adozione di misure a tutela dei lavoratori industriali.
Prevalse a lungo la tesi dei free agents: poiché i lavoratori
maschi adulti erano 'liberi agenti', lo Stato non poteva intervenire
nei contratti di lavoro 'liberamente' stipulati fra loro e i
padroni. Il laissez faire ammetteva al massimo la tutela del lavoro
minorile e femminile, in quanto queste categorie non appartenevano
ai free agents. La fissazione per legge del numero delle ore
lavorative fu avversata anche perché avrebbe diminuito il
saggio di profitto e scoraggiato l'accumulazione. Tuttavia si
arrivò a un compromesso e nel 1847 fu approvato il Ten hours
bill (v. Blaug, 1971; v. Taylor, 1972).
In Francia e in Italia il liberismo di metà Ottocento assunse
forma accentuatamente dottrinaria: segno, probabilmente, di una
società civile più arretrata, in cui la battaglia sui
principî era sentita più di quella sulle scelte
concrete. Nelle sue Harmonies économiques
Frédéric Bastiat, andando ben oltre Smith e Bentham,
afferma che "tutti gli interessi sono armonici" (v. Bastiat, 1850;
tr. it., p. 1; corsivo nel testo). I portatori di interessi
illegittimi, e perciò contrari all'armonia, sono per lui da
una parte i socialisti (per questo polemizza duramente con
Proudhon), e dall'altra i monopolisti e i protezionisti. Nei
Sophismes économiques Bastiat finge che sia stata rivolta al
Parlamento una Pétition des fabricants de chandelles contro
la sleale concorrenza della luce solare (v. Bastiat, 1845-1848). In
Baccalauréat et socialisme (1850) se la prende con
l'istruzione pubblica di tipo classico, matrice a suo dire del
socialismo, per invocare un'assoluta libertà di insegnamento
e l'abolizione di qualunque esame di Stato (cfr. il brano riportato
in Ferrara, 1956, pp. 432-434).
Dal canto suo Francesco Ferrara, il maggior economista del
Risorgimento, sviluppò soprattutto la critica
liberal-liberista allo Stato etico. Già Bastiat aveva
definito lo Stato come "la gran finzione per mezzo della quale tutti
si sforzano a vivere a spese di tutti" (cit. in Ferrara, 1956, p.
429). Nel suo Germanismo economico in Italia (1874) Ferrara
approfondisce il punto. Egli rimprovera "i professori tedeschi"
(cioè i "socialisti della cattedra", con i loro seguaci in
Italia) di "deificare lo Stato [...]. Lo han preso come un ente
reale; se lo figurano tal quale lo trovano dipinto in un trattato
giuridico, in una qualsiasi filosofia del diritto e della storia,
[...] mentreché nel mondo pratico lo Stato fu sempre e
sarà il governo, il gruppo degli uomini che comandano [...].
Quindi è che qualunque economia fondata su questo falso
concetto sarà falsa di sua natura" (v. Ferrara, 1972, p.
588). Ne consegue che il modello di condotta dello Stato-governo
deve essere desunto dall'operare di un mercato di perfetta
concorrenza. Scriveva Ferrara nel 1884: "L'ufficio del governare
è una fra le migliaia di occupazioni, una delle tante
industrie, uno de' tanti mestieri che [...] danno l'idea
dell'attività sociale [...]. Da ciò, una classe di
produttori, addetti a procurare quella tale utilità che si
chiama giustizia, ordine, tutela, in una parola governo [...].
L'utilità sociale che il governo produca non può, da
lui medesimo o da lui solo, estimarsi [...]. Sì, noi,
nazione-governata, siamo i soli a cui spetti il decidere se ella
meriti quel prezzo che il produttore-governo, per mezzo delle
imposte di cui ci aggrava, o delle privazioni a cui ci condanna,
pretenda di farcela costare [...]. Tale è la portata
dell'espressione che noi usiamo, libertà economica" (v.
Ferrara, 1976, p. 358). In questo modo Ferrara riteneva di aver
saldato insieme liberalismo politico e liberismo economico.
L'assimilazione dell'economia finanziaria all'economia privata
consentiva all'economista siciliano di definire a contrario i casi
in cui fra prelievo statale e spesa pubblica non vi sia perfetta
corrispondenza (in termini di utilità sottratta e restituita)
perché il prelievo risulta più oneroso di quanto non
risulti vantaggiosa la seconda. Casi che dovevano essere
analiticamente studiati da due economisti liberal-liberisti, ideali
discepoli del Ferrara: Antonio De Viti De Marco, con la fattispecie
dello Stato assoluto o monopolista, e Luigi Einaudi, sotto il
duplice profilo dell'imposta-grandine e dell'imposta-taglia (per un
quadro complessivo, v. Buchanan, 1960).
Mentre considerava realisticamente lo Stato come un'istituzione
artificiale, Ferrara riteneva la proprietà non una
istituzione, ma un connotato della natura umana, come tale
imprescindibile e in linea di massima inviolabile. Qui egli seguiva
gli idéologues liberali francesi del Sette-Ottocento, in
particolare Destutt de Tracy (v. Faucci, 1990, pp. 27-28). Questo
tratto 'proprietario' segna ideologicamente in senso conservatore il
suo pensiero, che peraltro non è privo di spunti libertari e
radicaleggianti, soprattutto nella critica alla contaminazione fra
politica e grandi affari nel Piemonte di Cavour e nell'Italia unita.
Molti di questi spunti - la lotta contro il monopolio della Banca
Nazionale, la denuncia del protezionismo doganale, ecc. - furono
ripresi da Vilfredo Pareto, che negli anni giovanili fu assiduo
dello stesso ambiente intellettuale (la Firenze del salotto Peruzzi)
frequentato precedentemente da Ferrara. Tutta la produzione
liberista del Pareto giovane è inoltre ispirata a un energico
pacifismo, umanitarismo, cosmopolitismo mutuati da Cobden (v.
Pareto, 1975).
4. Il Novecento: l'eclissi del liberismo
Il liberismo assoluto sognato dagli economisti non fu mai realizzato
neppure nel secolo in cui le idee liberiste ebbero maggior seguito.
Infatti, a partire dalla metà degli anni settanta
dell'Ottocento, i rapporti economici internazionali si orientarono
in senso protezionista. L'Italia si convertì a un moderato
protezionismo con la riforma doganale del 1878, e a un protezionismo
più deciso nel 1887. Anche l'intervento attivo dello Stato
per lo sviluppo industriale, soprattutto tramite le commesse
militari, era molto al di fuori dei canoni liberisti. Tuttavia
è solo dopo la prima guerra mondiale che il liberismo - sia
come dottrina, sia come prassi di politica economica - entrò
in una crisi più generale. L'enorme spesa militare, la
riconversione industriale, il reinserimento dei combattenti
nell'attività produttiva, l'inflazione che in alcuni paesi
determinò l'annullamento del potere d'acquisto della moneta
(come in Germania, nel 1923) furono tutti fattori che - ancor prima
che sconsigliarlo - resero impossibile il ritorno all''età
dell'oro' precedente, quell'età caratterizzata da
un'incessante accumulazione di capitale in mani private, che John
Maynard Keynes rappresenta con grande maestria nelle prime pagine di
The economic consequences of the peace (1919).
Keynes è probabilmente il primo economista che
consapevolmente separa liberismo e liberalismo. Nel 1923 critica
come depressive le politiche liberiste con cui il cancelliere dello
scacchiere Winston Churchill intende ritornare alla parità
prebellica sterlina-oro (v. Keynes, The economic..., 1925). Continua
però a dichiararsi partecipe dei valori della cultura
borghese e nel 1925 scrive: "La lotta di classe mi troverebbe dalla
parte della borghesia colta" (v. Keynes, Am I..., 1925; tr. it., p.
249), e così commenta l'esperimento rivoluzionario russo:
"Come posso adottare un credo che [...] esalta il rozzo proletariato
al di sopra della borghesia e dell'intelligencija, le quali [...]
sono l'essenza della vita e portano sicuramente in sé il seme
di ogni progresso umano?" (v. Keynes, A short..., 1925; tr. it., p.
231). Tuttavia nel 1926 afferma che "il problema politico
dell'umanità consiste nel mettere insieme tre elementi:
l'efficienza economica, la giustizia sociale e la libertà
individuale" (v. Keynes, Liberalism..., 1926; tr. it., p. 262) e che
l'individualismo è solo una delle componenti necessarie per
raggiungere questi obiettivi. Nello stesso anno proclama che il
laissez faire è finito: l'economia di mercato descritta (o
sognata) dai fondatori dell'economia politica non esiste più,
dato il prevalere, da una parte, "di organismi semiautonomi
all'interno dello Stato", e dall'altra, della "tendenza della grande
impresa a socializzarsi" (v. Keynes, The end..., 1926; tr. it., p.
241). Ne deriva che l'elenco degli agenda benthamiani è
profondamente cambiato. Gli agenda "non riguardano le
attività che gli individui già svolgono, ma le
funzioni che cadono al di fuori della sfera dell'individuo, le
decisioni che, se non le assume lo Stato, nessuno prende.
L'importante per il governo non è fare le cose che gli
individui stanno già facendo, e farle un po' meglio o un po'
peggio, ma fare le cose che al presente non vengono fatte per
niente" (p. 243). Finalmente, in una conferenza del 1930, afferma in
modo volutamente paradossale che fra le "prospettive economiche dei
nostri nipoti" rientra nientemeno che la "fine del problema
economico", inteso come problema della scarsità delle risorse
rispetto ai bisogni, e che il problema principale del futuro sarebbe
stato il miglior impiego del tempo libero (v. Keynes, 1930; tr. it.,
pp. 278 e 280).
Ex post possiamo dire che queste profezie si sono oggi
(relativamente) avverate, almeno nei paesi più sviluppati. Ma
quando Keynes le formulava, si era nel corso della 'grande
depressione', e suonavano come utopistiche o peggio. Luigi Einaudi
le bollò in quest'ultimo senso, come "storia scritta da un
Marx in ritardo" (v. Faucci, 1986, p. 256). L'economista piemontese
si assunse negli anni fra le due guerre la funzione di difensore del
liberismo dagli attacchi che, nell'Italia fascista, provenivano da
parte corporativista, ma che altrove erano avanzati da keynesiani,
democratici rooseveltiani e socialisti più o meno
marxisti.Nell'arco del decennio 1931-1941 Einaudi discusse a lungo
con Benedetto Croce su liberismo e liberalismo. Per il filosofo i
due concetti sono posti su due piani completamente differenti, in
quanto il primo ha carattere empirico ed è quindi transeunte,
mentre il secondo ha autentico carattere filosofico ed è
eterno. Ma obietta Einaudi che in questo modo la religione della
Libertà predicata da Croce è adatta a un popolo di
anacoreti, non agli uomini comuni, desiderosi di vedere la
Libertà incarnarsi nella varietà delle scelte
economiche, nella facoltà di lavoro e di movimento, ecc. (v.
Croce ed Einaudi, 1957; v. Faucci, 1986, pp. 297-300).
Mentre Croce non mutò le sue idee circa il carattere non
filosofico del liberismo, Einaudi - anche per la suggestione su di
lui esercitata dal pensiero dell'economista tedesco Wilhelm Roepke
(su cui v. Frumento, 1968) - fu spinto a caricare il liberismo di
nuovi contenuti intellettuali. Egli identificò il sistema di
libero mercato non con l'economia capitalistica vigente, ma con una
specie di 'città divina' affiorante qua e là nel corso
dei secoli: l'Atene di Pericle, i Comuni medievali, alcuni momenti
della società europea del Settecento e Ottocento. Tale 'terza
via', peraltro, non avrebbe mai dovuto aver a che fare con i 'piani'
(v. Einaudi, 1942).
Allievo di Einaudi fu Ernesto Rossi. Antikeynesiano, sensibile alla
lezione di Pareto e di De Viti De Marco oltre che degli utilitaristi
inglesi, egli coniugò liberismo e radicalismo riformatore,
denunciando in numerosi volumi sprechi, inefficienze e indebiti
favori statali ai privati, e animando l'attività degli Amici
del "Mondo" su temi come la politica antimonopolistica (v., per
esempio, Piccardi e altri, 1955). La nazionalizzazione
dell'industria elettrica, avvenuta nel 1962, mentre fu osteggiata
dai liberisti di destra presenti nel Partito Liberale di Giovanni
Malagodi, fu sostenuta dai liberisti di sinistra, che la ritenevano
necessaria per risolvere una situazione di monopolio privato (v.
Rossi, 1962). Si trattò peraltro di posizioni politicamente
minoritarie, in un panorama dominato dal nuovo interventismo
keynesiano coniugato con l'antico solidarismo cattolico (mentre
l'intelligencija marxista non era liberista per ragioni
ideologiche).
5. Luci e ombre del neoliberismo contemporaneo
La ricostruzione economica del dopoguerra fu condotta, in Italia
come nel resto dell'Europa, su basi keynesiane di sostegno della
domanda aggregata attraverso una massiccia spesa pubblica e
investimenti pubblici in infrastrutture. Queste politiche
consentirono per molti anni il 'miracolo' di una crescita stabile e
senza disoccupazione, favorita peraltro dall'ampliamento degli
scambi internazionali e dai processi di liberalizzazione e
unificazione dei mercati (Comunità Europea del Carbone e
dell'Acciaio, 1951; Comunità Economica Europea, 1957) e, nel
caso italiano, dall'imponente flusso di migrazione dal Sud al Nord.
Liberoscambismo internazionale e liberismo interno non hanno
marciato di pari passo.
È a partire dagli anni settanta che il modello keynesiano
viene messo in discussione dall'aggravarsi dell'inflazione, da una
parte, e dal ristagno produttivo con crescita della disoccupazione,
dall'altra. Soprattutto nell'area anglosassone gli economisti si
riavvicinano al liberismo, ritenendo che la burocratizzazione
dell'economia per effetto della crescita del settore pubblico - con
conseguente mortificazione dell'iniziativa privata - abbia gravi
responsabilità per la situazione. Il neoliberismo presenta
però un fronte eterogeneo. Alcune proposte di politica
economica sono ormai largamente condivise, come quelle di
deregulation (v. Cassese e Gerelli, 1985) di molti settori economici
nei quali si ritiene che l'intervento statale abbia effetti
controproducenti (per esempio le tariffe aeree). Altre proposte di
privatizzazione (specie nel settore sanitario e pensionistico)
incidono invece profondamente sul Welfare State (v. Caffè,
1986). I risultati di queste politiche liberiste-privatiste -
sperimentate soprattutto negli Stati Uniti durante l'amministrazione
Reagan (1980-1988) - sono di difficile valutazione, anche
perché l'innegabile sviluppo economico americano di quegli
anni ha coinciso con una crescita della spesa pubblica (bellica) che
certo non fa parte della dottrina liberista.
Sul piano delle idee il neoliberismo economico ha il suo centro
forse più importante nell'Università di Chicago, dove
ha insegnato il premio Nobel Milton Friedman. Fondatore
dell'indirizzo 'monetarista', più interessato alla politica
economica che alla teoria e alla storia del pensiero, Friedman
è sostenitore, in polemica con i keynesiani, di una politica
priva di interventi discrezionali e rivolta soprattutto a mantenere
costante la crescita dell'offerta di moneta (v. i saggi raccolti in
Bellone, 1972). In vari testi per il grande pubblico Friedman esalta
il ruolo del capitalismo concorrenziale nei risultati ottenuti nel
dopoguerra da Germania, Giappone e Hong Kong, rispetto ai risultati
insoddisfacenti di paesi 'pianificatori' come l'India (v. Friedman,
1962; v. Friedman e Friedman, 1980 e 1984).
Maggiore profondità concettuale hanno le riflessioni di
Friedrich A. von Hayek, anch'egli per molti anni professore a
Chicago e capofila, insieme al suo maestro Ludwig von Mises, della
cosiddetta scuola neoaustriaca (v. Cubeddu, 1992). Partito negli
anni trenta dall'analisi economica delle crisi, nella quale si era
opposto alle tesi keynesiane (ma le sue teorie sul credito sono
state di recente riprese e valorizzate), nel dopoguerra si è
rivolto prevalentemente alla speculazione filosofico-politica.
Centrale in essa è il rapporto fra individuo, conoscenza e
mercato (v. Hayek, 1988). Il primo è dotato di forze limitate
e di conoscenza imperfetta; il mercato è l'istituzione che
consente a queste forze e a questa conoscenza di raggiungere
risultati che si pongono al di là degli scopi individuali.
Hayek contrappone al 'costruttivismo' (credere che le istituzioni
dipendano da un preciso atto di volontà degli individui) la
nota idea settecentesca della loro origine spontanea e non
intenzionale: idea che egli fa risalire a Vico, Smith e Ferguson, ai
quali aggiungeremmo Galiani. Hayek è particolarmente efficace
nel presentare il mercato come il luogo in cui avviene nel modo
migliore la selezione naturale. Interessanti anche le sue
riflessioni sulla differenza fra cósmos (ordine spontaneo) e
táxis (ordine artificiale) nei fenomeni economici. Avversario
di ogni regime democratico-giacobino, ai partiti politici (portatori
dell'aborrita 'volontà generale') propone di sostituire
gruppi di opinione di sapore ottocentesco (v. Hayek, 1978). Per
molti versi egli appare un epigono di Bastiat (della cui traduzione
inglese è prefatore: v. Bastiat, 1964) e di Ferrara: a
cominciare dalla critica del concetto di 'giustizia sociale'
(cioè distributiva), che ritiene incompatibile con l'ordine
naturale di un'economia autenticamente competitiva (v. Jossa, 1994,
p. 12).
Nonostante la fortuna di Hayek, le tendenze più recenti
sembrano approfondire, anziché colmare, il divario fra
liberismo e liberalismo (v. Ricossa, 1989, pp. 65 ss.). Alcuni
pensatori liberali si sono maggiormente interessati al problema
della giustizia, rovesciandone il tradizionale rapporto di
subordinazione con la libertà e facendone il cardine del
liberalismo politico (v. per tutti Rawls, 1971 e 1993). Dal canto
loro autori come il premio Nobel James Buchanan, seppure liberisti e
insieme liberali, procedono con maggiore prudenza nella critica
delle istituzioni, distinguendo fra un livello 'costituzionale' -
che detta le regole ed è necessario a un'economia
autenticamente liberista - e un livello amministrativo e
discrezionale, che va sfrondato radicalmente (v. Buchanan, 1977 e
1986; v. Brennan e Buchanan, 1985). Non è dunque da escludere
un ritorno di tipo benthamiano del liberismo nell'alveo del pensiero
democratico.