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DBI
di Marina Santucci
Nacque a Nicotera (Catanzaro) l'8 febbr. 1885 da Diego e da
Teresa Stilo. Il padre, medico, si interessava di storia e di
archeologia ed aveva frequenti rapporti di studio con lo storico
M. Amari.
Durante il periodo universitario il C. si stabilì nella
città di Napoli, dove frequentò la facoltà di
giurisprudenza. In occasione della preparazione della tesi di
laurea entrò in contatto, tramite B. Croce, con G.
Pitrè, docente di demopsicologia all'università di
Palermo, di cui divenne un convinto allievo. Ebbe inizio una fitta
corrispondenza tra lui e il Pitrè (Folklore della Calabria,
VII [1962], pp. 49-58) a testimonianza di un fecondo rapporto di
studio, al punto che, alla morte di Pitrè, il C. fu
invitato a ricoprire la cattedra di demopsicologia
all'università di Palermo. Nel 1906 il C. si laureò
discutendo la tesi Proverbi giuridici italiani, pubblicata
nell'Archivio delle tradizioni popolari (XXIII [1907], pp.
484-506), dove analizzava le forme elementari e popolari del
diritto, l'origine del proverbio e la sua istituzionalizzazione in
norma giuridica.
Passò quindi a studiare il cerimoniale nuziale dei popoli
primitivi, determinando così definitivamente la sua
attività di ricerca nell'ambito dell'emografia: nel saggio
Gli sponsali popolari (in Revue des études ethnographiques
et sociologiques, XI-XII [1908], pp. 1-13) sosteneva il valore
rituale del dono opponendosi alla interpretazione comune che
vedeva nello scambio dei doni uno scambio di merci e di compensi.
Gli altri saggi sul cerimoniale nuziale sono raccolti nel volume
Patti d'amore e pegni di promesse (S.Maria Capuavetere 1924).
Intervenne ancora sull'argomento al I Congresso di etnografia
italiana (Roma 1911) in occasione del cinquantenario
dell'unificazione italiana, con la relazione Per lo studio dei
riti nuziali.
Collaborò con L. Loria nella ricerca di materiale
etnografico per l'istituzione di un museo nazionale;
catalogò anche la collezione etnografica della villa d'Este
a Tivoli. Conobbe G. D'Annunzio ed insieme progettarono la
fondazione di una rivista, Le tradizioni popolari italiane, e di
una società delle tradizioni popolari italiane, ma tali
progetti non furono realizzati. Dal 1914al '21 insegnò,
primo in Italia, etnografia all'istituto di antropologia
dell'università di Roma. Successe poi a L. Loria nella
direzione del Museo etriografico di Roma e nel '22 fu chiamato a
ricoprire la cattedra di etnografia all'Istituto orientale di
Napoli, dove insegnò fino al raggiungimento del limite di
età. Si interessò di etnologia africana e fu inviato
dal ministero della Pubblica Istruzione e dall'Istituto orientale
in Africa, a Fezzan, per studiare i costumi di vita dei Tuareg.
Sotto il fascismo questi studi ricevettero notevole impulso, e il
C., sostenendo la politica coloniale del regime, pubblicò
una serie di studi sulle abitudini e le tradizioni degli Etiopi e
dei Somali (quali Genti, usi costumi e tradizioni dell'Etiopia e
Genti, usi, costumi e tradizioni della Somalia, in L'Impero
coloniale fascista, Novara 1937, pp. 151-189 e 321-337).
Collaborò a numerose associazioni culturali italiane ed
estere ed a molte riviste di etnografia e di folklore.
Nel 1925 fondò la rivista Il Folklore italiano, Archivio per la raccolta e lo
studio delle tradizioni popolari italiane, che interruppe
le pubblicazioni nel 1941, per riprenderle quindi dal '46 al '55
con il titolo di Folklore.
La rivista voleva essere uno strumento di coordinamento delle
varie ricerche a carattere regionale e di valorizzazione delle
testimonianze folkloristiche.
Durante il fascismo l'attività del C. fu particolarmente
intensa; importante ricordare la polemica tra il C. e il titolare
della cattedra di etnografia all'università di Leningrado,
E. Kagaroff, che accusava gli studiosi di etnografia in Italia e
in Germania di esaltare il concetto di razza e di nazione in campo
etnico e di privilegiare il periodo imperiale e il mito della
romanità in campo politico. II C. rispose sottolineando il
ruolo che il fascismo aveva avuto, con l'esperienza coloniale,
nella diffusione degli studi folkloristici e dichiarandosi
sostenitore del fascismo quale espressione della nuova Italia
(Critiche sovietiche allo studio dell'emografia nell'Italia
fascista, Roma 1938).
Dopo la seconda guerra mondiale, il C. rallentò
notevolmente la sua attività di studioso. Morì a
Napoli il 29 luglio 1965.
L'opera più importante del C. è il volume del 1923 Folklore- Storia-Obietto-Metodo
(Napoli 1923; quattro edizioni, fino al 1953) che conobbe larga
fortuna in Italia e all'estero. Il volume nasceva dall'esigenza,
avvertita dal C. e da altri studiosi di folklore, di avere un
approccio rigoroso con questa disciplina, determinandone i
principi fondamentali sia concettualmente sia metodologicamente.
Il C., con questo manuale, intendeva precisare l'oggetto del
folklore, la sua peculiarità rispetto ad altre discipline
quali l'antropologia, la sociologia, la psicologia, ecc., che
assumevano allora carattere scientifico, e il suo rapporto con
l'emografia. Il C. analizza il nome "folklore" con cui, nel 1846,
si decise di indicare lo studio delle tradizioni e delle
consuetudini di vita del popolo, che, in Italia, G. Pitrè
diffuse con il nome, di origine greca, di demopsicologia.
Già l'etimologia del nome è sufficiente, secondo il
C., a stabilire il rapporto esistente tra il folklore e
l'etnografia. Infatti mentre quest'ultima (GRECO) studia i popoli
e le forme di organizzazione sociali, culturali che si sono dati,
il folklore studia il patrimonio culturale di quella parte del
popolo che, nell'ambito della società evoIuta, conserva
residui di cultura anteriori, primitive; secondo il C. i nuclei
plebei e rustici sono depositari di forme primordiali e primitive
di civiltà che l'uomo urbano ha invece totalmente
modificato. L'oggetto del folklore è dunque, secondo il C.,
quello di ricercare nell'ambito della vita quotidiana del popolo
minuto quelle forme di civiltà remote e primitive ormai
scomparse negli altri strati della società evoluta.
È, quindi, il concetto di sopravivvenza che informa lo
studio dei pregiudizi, delle cerimonie, delle leggende, ecc.,
dell'età passata, che continuano ad esistere e ad avere il
loro peso per alcune componenti della società civile. Il
folklore è, secondo il C., una branca particolare
dell'emografia, è una etnografia del volgo ed ha per
oggetto una preistoria contemporanea.
Gramsci criticò piuttosto duramente questa
definizione del folklore data dal C. (cfr. Quaderni del carcere; a
cura di V. Gerratana, Torino 1975, p. 1105). Gli sembrava,
infatti, troppo riduttivo definire in questo modo un fenomeno
tanto complesso, che, per la sua stessa peculiarità, si
presentava estremamente frammentario e contraddittorio e non
consentiva una facile definizione; entrando quindi nel merito
dell'espressione del folklore come studio della preistoria
contemporanea, Gramsci osservava l'impossibilità di
ricercare in una stessa area folkloristica le diverse
stratificazioni e la difficoltà di fare la storia delle
influenze che ogni area ha avuto e insisteva sul carattere di
maggiore mobilità del folklore rispetto alla lingua e ai
dialetti; lo stesso rapporto esisteva anche tra la cultura delle
classi colte e la lingua letteraria, dove quest'ultima si modifica
meno velocemente del proprio contenuto culturale ed è
difficile trovare una adesione perfetta tra forma sensibile e
contenuto culturale.
La seconda parte del volume del C. è dedicata
all'illustrazione del metodo da adottare nello studio del
folklore. Le fasi iniziali sono due: la prima comprende la
semplice raccolta del materiale, quindi succede la schedatura
secondo criteri geografici (regionali, nazionali) e cronologici.
Queste prime classificazioni entrano nell'ambito del folklore; se
poi la tradizione, o un'altra manifestazione presa in esame, si
estende ai popoli senza distinzione di tempo e di luogo si
può definire etnografia generale. Il metodo da adottare
è quello comparativo, che permette di stabilire gli
elementi primordiali presenti in una particolare manifestazione di
vita popolare, confrontarla con le altre determinando gli elementi
comuni e quelli divergenti ed, eventualmente, il carattere
generale di una tradizione che mantiene la sua specificità
esulando dalle contingenze geografiche e storiche.