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Machiavellismo
Termine entrato nel lessico filosofico-politico, ma anche nel
linguaggio comune, sul finire del 16° sec., con lo scopo di indicare
teorie e prassi politiche che si ritenevano ispirate al pensiero di
Machiavelli.
L’antimachiavellismo.
Il termine in origine ha avuto una connotazione negativa, in virtù
della quale sarebbe più appropriato parlare di antimachiavellismo.
Negli scritti del cardinale inglese R. Pole (Apologia, 1535), del
vescovo portoghese G. Osorio (De nobilitate christiana, 1542),
dell’ugonotto I. Gentillet (Contre Nicolas Machiavel, 1576), del
gesuita A. Possevino (Iudicium … de Nicolao Machiavello, 1592) e di
Campanella (Città del Sole, 1602; Atheismus triumphatus, 1607) il m.
indica infatti un modo di concepire ed esercitare il potere svincolato
da qualsiasi preoccupazione etica e pronto a servirsi di qualunque
mezzo (dalla frode alla violenza) per ottenere il successo. Tale
tendenza culmina nell’Antimachiavel (1739-40) di Federico di Prussia,
che fu rivisto e integrato da Voltaire, e nel saggio di Kant Per la
pace perpetua. Un progetto filosofico (1795), dove viene teorizzata la
più radicale subordinazione della politica alla morale.
L’interpretazione repubblicana.
Se per questo filone interpretativo il m., identificato con le tesi del
Principe, non è che un breviario per tiranni, per un altro filone
interpretativo – che da Spinoza va sino a Rousseau e poi a V. Alfieri e
a U. Foscolo – il m. coincide invece con il repubblicanesimo ed è
quindi portatore di ideali di libertà. Si tratta della cosiddetta
interpretazione obliqua del m.: rivolgendosi ai principi, Machiavelli
ammaestrerebbe in realtà i popoli, rivelando loro la violenza del
potere e indicando, per contrasto, l’importanza della libertà. Se
Spinoza, nel Tractatus theologico-politicus (V, 7), sostiene che
Machiavelli ha voluto mostrare ai popoli quanto cauti debbano essere
nell’affidarsi a un uomo solo, Diderot (probabile autore della voce m.
nell’Encyclopédie) vede nel Principe una satira del potere tirannico e
Rousseau vi riconosce «il libro dei repubblicani», giacché in esso
Machiavelli, «fingendo di dare lezioni ai re, ne ha date di grandi ai
popoli» (Contratto sociale, III, 6).
Il machiavellismo tra Ottocento e Novecento.
Ma è soprattutto nei secc. 19° e 20° che il pensiero di Machiavelli,
ricollocato nel suo contesto storico, è stato ampiamente rivalutato. In
Hegel si possono trovare la contestazione di tutte le tesi
dell’antimachiavellismo, a cominciare da quella che ne fa un breviario
della politica immorale: «è sommamente irrazionale – scrive nella
Costituzione della Germania (post., 1893) – il trattare l’esecuzione di
un’idea che è sorta immediatamente dall’osservazione della situazione
dell’Italia come un compendio di principi politico-morali onnivalente,
per tutte le circostanze, cioè adatto a nessuna situazione specifica.
Si deve giungere alla lettura del Principe immediatamente dalla storia
dei secoli trascorsi prima di Machiavelli, con l’impressione che questa
ci ha dato; esso così non solo viene giustificato, ma apparirà come una
concezione sommamente grande e vera di una autentica mente politica di
grandissimo e nobilissimo sentire». A muovere Machiavelli, infatti, è
il fine eticamente supremo di unire un popolo in uno Stato: fine di
fronte al quale le recriminazioni sui mezzi appaiono del tutto
ingiustificate, giacché «le membra cancrenose non possono esser curate
con l’acqua di lavanda».
Se per Hegel il m. è una scuola di alto sentire politico e di
straordinario realismo, per De Sanctis (che pure critica l’eccessivo
potere riconosciuto allo Stato) esso è all’origine della modernità,
giacché anticipa la separazione tra sfera temporale e sfera spirituale
e l’autonomia della ragione.
Anche per Croce e per Meinecke il m. ha un ruolo fondativo nelle
vicende della modernità: per Croce, Machiavelli ha scoperto l’autonomia
della politica dalle altre sfere della vita spirituale, mentre per
Meinecke ha formulato per la prima volta l’idea della ragion di Stato
come norma dell’azione politica e legge motrice dello Stato (lo
studioso tedesco sottolinea però la tragica eredità implicita nel m., a
causa della scissione tra le varie forme della spiritualità umana).
Nell’ambito del pensiero marxista, Gramsci ha visto nel Principe il
simbolo concreto e realistico della volontà collettiva di un popolo; e,
pur sottolineando che si tratta di un’opera che deve essere inquadrata
nel suo tempo, ha sostenuto che da essa è ricavabile una lezione valida
per sempre, in particolare per quel moderno principe che è il partito
comunista.
Ammiratore del m. fu anche Nietzsche, che ne apprezzava la lontananza
dalla morale tradizionale e vedeva in esso un’espressione
rinascimentale del «sì alla vita».