www.treccani.it
sommario: 1. Introduzione. 2. Il concetto di folk: a) la vecchia
definizione; b) la nuova definizione. 3. Il concetto di lore. 4. La
raccolta del folklore. 5. Il metodo comparativo: a) il metodo
comparativo non scientifico; b) il metodo comparativo scientifico.
6. La classificazione del folklore. 7. La ricerca di principî
generali. 8. Il folklore come riflesso della cultura. 9. Folklore e
psicologia. 10. Folklore e Weltanschauung. 11. Il folklorismo. 12.
Il folklore come disciplina. □ Bibliografia.
1. Introduzione
Il termine 'folklore' designa sia un complesso generico di materiali
della tradizione (miti, leggende popolari, racconti, proverbi,
indovinelli, superstizioni, giochi, ecc.) trasmessi oralmente o con
l'esempio da persona a persona, sia lo studio scientifico di tali
materiali.Il termine venne coniato dall'inglese William Thoms
(1803-1885) in una lettera scritta sotto lo pseudonimo di Ambrose
Merton a "The Athenaeum" il 22 agosto 1846. Thoms, che nel 1849
fondò la rivista "Notes and queries", proponeva di utilizzare
il nuovo termine al posto di 'antichi usi e costumi popolari' o di
'letteratura popolare'. Mettendo in rilievo come il suo neologismo
avesse il merito di essere un "autentico sostantivo composto
sassone", Thoms evidenziava lo stretto rapporto sussistente tra
l'interesse per il folklore e un acceso nazionalismo.
Questo stesso atteggiamento nazionalistico, peraltro, ha scoraggiato
l'uso del termine inglese da parte di studiosi di altre nazioni. I
Francesi preferiscono l'espressione 'traditions populaires', gli
Spagnoli 'tradiciones populares', gli Italiani 'tradizioni popolari'
(sebbene il grande studioso siciliano Giuseppe Pitrè -
1841-1916 - proponesse il termine 'demopsicologia' nella celebre
prolusione tenuta nel 1911 all'Università di Palermo: v.
Pitrè, 1969). I Tedeschi privilegiano il vocabolo
'Volkskunde', che venne coniato prima dell'inglese folklore, a
quanto pare già nel 1782 (v. Hartmann, 1988), mentre gli
Scandinavi adottano variazioni locali del termine 'folkeminder' o
'folklivsforskning' (che può essere tradotto all'incirca come
'studio della vita popolare'). Per quanto ogni nazione e
comunità linguistica abbia i propri termini specifici,
l'inglese folklore si è gradualmente imposto a livello
internazionale - anche se nei paesi di lingua romanza persiste una
certa resistenza linguistico-nazionalistica nei confronti della
grafia col k anziché con il c.Il passaggio da questa forma di
nazionalismo linguistico all'adozione internazionale del termine
folklore è stato lento ma costante, come attesta il mutare
dei titoli nei vari periodici dedicati alla materia.
Le prime pubblicazioni, risalenti al XIX secolo, non usavano questo
termine. Il periodico fiammingo intitolato "Grootmoederken" nel 1842
e "Wodana" nel 1843 (v. Schmidt, 1943) venne pubblicato prima che
Thoms proponesse il nuovo vocabolo (Jacob Grimm collaborò al
"Wodana" con una breve nota). Un altro periodico del XIX secolo
dedicato al folklore fu lo "Zeitschrift für deutsche Mythologie
und Sittenkunde" (1853-1859). Il cambiamento si verificò
più tardi, come attesta un confronto tra i titoli delle
seguenti pubblicazioni: "Archivio per lo studio delle tradizioni
popolari" (1882-1902) e "Folklore italiano" (1925-1935), o ancora
"Revue des traditions populaires" (1886-1918) e "Revue de folklore
français et de folklore colonial" (1930-1942). A volte si
è giunti a un compromesso tra l'uso del termine locale e
quello del termine inglese. Ne è un esempio la pubblicazione
olandese "Volkskunde" (1888 ss.) che ha come sottotitolo Tidjschrift
voor Nederlandsche Folklore.Alcuni studiosi, tra cui diversi
antropologi, hanno proposto di sostituire il termine folklore con
l'espressione 'letteratura orale' o 'letteratura non scritta', ma
queste alternative poco convincenti non sono che il riflesso di un
privilegiamento della sfera letteraria. L'espressione 'letteratura
orale' è un ossimoro: il concetto di letteratura si riferisce
a testi scritti, e di conseguenza non può esistere una
letteratura orale. Inoltre, poiché il folklore in ogni area
geografica ha sempre preceduto l'invenzione della scrittura,
è a esso che si dovrebbe dare la priorità, non alla
letteratura. Gli studiosi di folklore quindi adottano di norma il
termine inglese. (C'è da osservare peraltro che le analisi
più esaurienti del termine non sono in lingua inglese,
bensì tedesca e francese: v. Schulze, 1949; v. Legros, 1962;
v. inoltre Corso, 1920-1921; v. Romero, 1938; v. Meyer, 1944).
2. Il concetto di folk
a) La vecchia definizione
Il concetto di folk è assai complesso e ha una varietà
di significati (v. Hultkrantz, 1960, pp. 126-129). Nella sua
accezione più comune esso era sinonimo di 'ceto contadino':
il folk, in altre parole, veniva considerato un segmento specifico
di una popolazione complessiva, distinto e differenziato
dall'élite. Ampiamente diffuso nell'Europa del XIX secolo, il
concetto di folk veniva definito esclusivamente in termini di
opposizione rispetto all'élite colta. Folk era quindi lo
strato inferiore della società, il vulgus in populo, gli
analfabeti in una società alfabetizzata, ossia quelli che non
sapevano né leggere né scrivere in una società
che conosceva la scrittura; folk era inoltre la popolazione rurale
contrapposta a quella urbana.
Dato che la prima definizione del concetto era basata su un
principio di opposizione (il folk come contrapposto della
popolazione urbana e dell'élite), chi viveva in una
società senza scrittura era automaticamente escluso dalla
categoria del folk. Di conseguenza nel XIX secolo, e in certa misura
anche nel nostro, le popolazioni indigene dell'Africa, della Nuova
Guinea, gli aborigeni dell'Australia nonché del Nordamerica e
del Sudamerica non erano classificati come folk. Non si trattava di
illetterati in una società alfabetizzata, bensì di
popoli senza scrittura, per definire i quali si faceva ricorso a una
serie di etichette inappropriate - 'primitivi', 'selvaggi', ecc.
Secondo una corrente della teoria evoluzionistica, tutto il genere
umano aveva attraversato o era destinato ad attraversare tre stadi
distinti: lo stato selvaggio, la barbarie (in cui rientrava la
cultura contadina e quindi il folk) e la civilizzazione. Questa
rigida forma di evoluzionismo unilineare - sebbene non sia
più ritenuta valida, in quanto si pensa che esistano molti
possibili percorsi evolutivi - riveste un'importanza cruciale per
comprendere le prime, erronee formulazioni del concetto di folk.
Come abbiamo già accennato, data l'identificazione tra folk e
ceto contadino le popolazioni indigene dell'Africa non erano
considerate come folk. Senza dubbio esse avevano tradizioni musicali
locali, ma si aveva una certa riluttanza ad attribuire a queste la
qualifica di folklore musicale. In pratica, per musica e arte
folkloristica si intendevano esclusivamente la musica e l'arte del
mondo rurale europeo, e ancora oggi alcuni studiosi europei e
latinoamericani continuano a sostenere l'opportunità di
circoscrivere il concetto di folk al mondo rurale occidentale,
escludendo i popoli 'selvaggi' o 'primitivi' le cui tradizioni
artistiche, musicali e narrative rientrerebbero più
propriamente nel campo di studi dell'etnomusicologia e
dell'antropologia.
Nel XIX secolo, quando lo studio del folklore cominciò ad
assumere il rango di disciplina, il concetto dominante di folk era
quello ristretto descritto in precedenza. Allorché ad esempio
i fratelli Grimm, Jacob (1785-1863) e Wilhelm (1786-1859),
cominciarono la loro raccolta di fiabe popolari nella prima decade
del secolo (i due volumi dei Kinder- und Hausmärchen vennero
pubblicati nel 1812 e 1815), si basarono su testimonianze attinte
dal mondo contadino, mettendo in pratica la massima di J. G. von
Herder (1744-1803), secondo la quale l'anima di un popolo è
riflessa nei suoi canti popolari. Fu proprio Herder, del resto, a
coniare il termine Volkslied nel 1773. Nel 1778 egli pubblicò
la sua fondamentale antologia Volkslieder, ispirata in parte al
precedente lavoro del vescovo Thomas Percy (1729-1811), Reliques of
ancient English poetry, pubblicato nel 1765.
Sin dagli inizi della disciplina gli studiosi di folklore ebbero un
atteggiamento alquanto ambivalente nei confronti del folk. Da un
lato tendevano a disprezzarlo identificandolo con il ceto rurale
illetterato e arretrato; dall'altro lato a esaltarlo in quanto
rappresentava in un certo senso le radici nazionali di un popolo. La
nozione di folk era affine a quella paradossale di 'buon selvaggio'
(v. Cocchiara, 1952, pp. 33-48), che associava una qualifica
negativa ('selvaggio') a una positiva ('buono'). Tale atteggiamento
ambivalente prevalse nel periodo iniziale degli studi sul folklore
che coincise con l'emergere degli Stati nazionali europei.
Sussisteva la convinzione che i contadini o le classi inferiori
avessero conservato come sopravvivenze i resti e i frammenti della
presunta cultura nazionale originaria di un intero popolo. Per
salvare o ricostruire la cultura originaria del loro paese, i
fratelli Grimm si rivolsero pertanto ai contadini tedeschi,
considerati l'unica fonte vivente disponibile.
b) La nuova definizione
La definizione restrittiva che identificava il folk con il ceto
contadino illetterato comportava parecchi problemi teorici. A parte
l'esclusione di gran parte dei popoli della terra - in quanto
selvaggi o primitivi - si riteneva erroneamente che il folklore
fosse incompatibile con il contesto urbano. Gli studiosi tuttavia si
rendevano perfettamente conto che anche nelle città si era
sviluppato un folklore non riducibile a un semplice residuo
frammentario di quello rurale, tenuto in vita da quanti erano
immigrati dalle campagne nella città in cerca di condizioni
di vita migliori. I bambini delle città praticavano giochi
tradizionali, cantavano canzoni tradizionali e recitavano
filastrocche tradizionali. Inoltre diverse categorie di lavoratori
urbani avevano un proprio linguaggio e un proprio patrimonio di
usanze e racconti tradizionali.
La definizione proposta dai marxisti rappresentò un progresso
rispetto a quella, prevalente nel XIX secolo, che identificava folk
e mondo rurale, in quanto gli studiosi di folklore marxisti
sostenevano a ragione che nella categoria del folk andavano inclusi
sia la popolazione rurale che il proletariato urbano, che era
diverso dal ceto contadino e aveva un proprio folklore. Gli operai
di una fabbrica potevano avere un folklore al pari degli
agricoltori. La definizione marxista aveva il difetto di essere
anch'essa eccessivamente ristretta. Per gli studiosi di folklore
marxisti ortodossi il folk si identificava con le classi oppresse
(sia contadini che proletariato) o, nei termini di Gramsci (1891-1937), con le
"classi subalterne" in opposizione alle classi egemoni (v. Byrne,
1982; v. Cirese, 1982). Ma anche gli oppressori hanno un proprio
folklore, e pertanto sono anch'essi un tipo di folk.Secondo la nuova
definizione affermatasi nel XX secolo folk è qualunque gruppo
di individui che presenta un fattore unificante quale la
nazionalità, l'appartenenza regionale o etnica, la religione,
l'occupazione, ecc. Si può pertanto parlare di un folklore
nazionale - canadese, giapponese, italiano, ecc. Quasi tutti gli
Italiani, sia al Sud che al Nord, conoscono il 'malocchio', anche se
non credono necessariamente al suo influsso malefico. D'altro canto
esiste anche un folklore regionale, sicché è
senz'altro lecito distinguere tra un folklore milanese e un folklore
napoletano.
Gli abitanti di una determinata città o di un determinato
villaggio costituiscono un folk nel senso di questa nuova
definizione. Si può affermare quindi che ogni villaggio
possiede un suo corpus di tradizioni speciale e unico: toponimi,
leggende, termini dialettali e specialità culinarie locali.
Con questa definizione flessibile, un determinato folk può
essere ampio quanto una nazione o piccolo quanto un villaggio.
A seconda che il fattore unificante sia la religione, l'appartenenza
etnica o l'occupazione parleremo di folklore cattolico, ebraico o
islamico; di folklore italoamericano e cino-americano; di folklore
dei vinificatori, dei fabbri, dei minatori o dei pastori. La nuova
definizione ampliata consente addirittura di considerare la singola
unità familiare come un tipo legittimo di folk. Ogni famiglia
avrà le sue tradizioni speciali: nomignoli per i familiari,
storie tramandate delle vicende della famiglia, rituali familiari
particolari. Rispetto alla vecchia definizione, non si tratta di
negare che i contadini siano un tipo di folk: senza dubbio essi lo
sono, ma è importante sottolineare che si tratta di un tipo
tra gli altri, non dell'unico possibile.
La nuova definizione consente anche di includere tutti i gruppi di
'selvaggi' esclusi dalla precedente definizione ristretta.
Ogni popolazione africana costituisce un autentico folk con il suo
complesso di tradizioni folkloristiche, miti, leggende e fiabe, e lo
stesso vale per le tribù indiane del Nordamerica e del
Sudamerica. Con questa nuova definizione è possibile anche
riconoscere l'esistenza di svariati gruppi di folks urbani (v.
Freudenthal, 1961; v. Dundes, 1980).
È chiaro inoltre che un individuo può appartenere a
diversi tipi di folk in quanto membro di una famiglia, di un gruppo
etnico, religioso, professionale e nazionale. Nel corso della sua
vita egli dovrà passare da un codice all'altro, usando il
folklore appropriato al gruppo in cui si trova in un dato momento.
Chi svolge il servizio militare, ad esempio, si approprierà
del folklore specifico dell'esercito, della marina o dell'aviazione.
Le reclute generalmente imparano a tenere il passo cantando le marce
tradizionali del corpo a cui appartengono. È importante
altresì tener presente che quando si formano nuovi gruppi si
sviluppa un nuovo folklore. I nuovi leaders politici ad esempio
possono diventare oggetto di cicli di barzellette. Secondo molte
delle vecchie teorie il folklore era circoscritto al mondo rurale, e
poiché questo andava scomparendo a seguito del processo di
urbanizzazione, si traeva l'errata conclusione che anche il folklore
nel suo complesso fosse destinato a scomparire. L'idea fallace
secondo la quale il folklore consiste solo di sopravvivenze in via
di estinzione di epoche passate è essa stessa un esempio di
sopravvivenza. Di fatto nel mondo contemporaneo gli individui
continuano, ora come prima, a utilizzare forme dialettali, a
raccontare barzellette tradizionali o a praticare giochi
tradizionali.
3. Il concetto di lore
La seconda componente del termine folklore, lore (letteralmente
'sapienza'), designa quella serie pressoché illimitata di
generi che costituiscono il corpus delle tradizioni popolari: miti,
epopee, racconti, leggende, canti, proverbi, indovinelli,
superstizioni, giochi, danze, medicina, costumi, strumenti ed
edifici (fienili, rimesse, ecc.), incantesimi, benedizioni,
maledizioni, ricette di cucina, filastrocche, forme dialettali,
similitudini, metafore, usanze, gesti, ecc. Esistono probabilmente
tre o quattrocento generi differenti di folklore, e molti non sono
ancora stati identificati o studiati. Alcuni di questi generi sono
più importanti, come i miti, le feste, le epopee; altri
possono essere considerati minori, ad esempio gli scioglilingua, le
formule mnemoniche (per ricordare i colori dell'arcobaleno o
l'ordine dei pianeti), gli scongiuri. All'interno di un genere
inoltre possono esservi vari sottogeneri. Nel genere del racconto
popolare, ad esempio, possiamo distinguere favole che hanno per
protagonisti animali, fiabe, racconti incentrati su formule, su
dilemmi (questi ultimi sono assai diffusi in Africa), su inganni;
all'interno del canto popolare distinguiamo la ninnananna dalla
ballata, i canti conviviali dai canti funebri e così via. Di
solito solo gli specialisti del folklore conoscono tutti i vari
sottogeneri di una categoria generale (per le differenti specie di
indovinelli v. Bødker, 1964; per i numerosi sottogeneri della
narrativa popolare v. Bødker, 1965).
Gli studiosi di folklore di norma si specializzano in un determinato
genere di un determinato gruppo di folk. Vi sono così esperti
di epica araba, di miti coreani, di blues afro-americani, di
leggende siciliane. L'ambito del folklore è così vasto
che è impossibile per un singolo studioso conoscere tutti i
generi di tutti i folks. Di solito gli specialisti di un determinato
genere si riuniscono in società internazionali e pubblicano i
risultati delle loro ricerche in periodici specializzati: ad esempio
"Proverbium" (1965 ss.) per i proverbi, "Fabula" (1958 ss.) per i
racconti popolari e così via. Gran parte della ricerca
contemporanea in questa disciplina è organizzata secondo
specializzazioni di genere. (Per una rassegna dell'ampia gamma di
ricerche sui proverbi v. Mieder, 1982; per i racconti popolari
europei v. Holbek, 1987; per un'introduzione alla vasta letteratura
sull'approccio orale basato su formule al genere epico v. Foley,
1985). A volte un settore di studi non è incentrato su un
genere ma su una nazione (ad esempio l'Italia: v. Falassi, 1985) o
su un continente (ad esempio l'Africa: v. Görög, 1981). Il
repertorio bibliografico internazionale sul folklore è
l'Internationale Volkskundliche Bibliographie (1917 ss.).
Per comprendere la natura del folklore occorre distinguerlo da altri
due tipi di cultura: la cultura cosiddetta 'alta' e la cultura di
massa. Nella prima rientrano l'arte, la musica e la letteratura di
élite di autori in genere famosi: le opere di Dante, Mozart e
Rembrandt ne possono essere degli esempi. I programmi della maggior
parte degli istituti di istruzione superiore occidentali si basano
sullo studio di questa cultura.Per cultura di massa si intende
quella divulgata dai media come film, programmi televisivi, fumetti,
e include generi come la fantascienza, il poliziesco, la soap opera,
il western e così via. La differenza fondamentale tra la
cultura di massa e il folklore va individuata in due caratteristiche
proprie di tutto il folklore: l'esistenza multipla e la variazione.
'Esistenza multipla' significa che ogni manifestazione del folklore
per essere considerata autentico folklore deve esistere in diversi
tempi e diversi luoghi. Per definizione, quindi, di un racconto
popolare o di una ballata devono esistere almeno due versioni
perché si possa parlare di folklore (in genere ve ne sono
centinaia).
Poiché inoltre il folklore è trasmesso da persona a
persona, quasi inevitabilmente vengono introdotte delle variazioni e
di conseguenza non esistono due versioni identiche di uno stesso
racconto popolare. Ciò significa altresì che non
esiste una versione giusta, ma una molteplicità di versioni o
testi egualmente legittimi. Per contro, sia la cultura alta che la
cultura popolare sono caratterizzate da testi fissi (di solito opera
di autori noti). Sappiamo chi è l'autore di un romanzo
poliziesco o di fantascienza, e queste opere, fissate in testi
stampati, film o videotapes, non cambiano nel tempo. Un libro di
fumetti o un film sono esattamente gli stessi ogni volta che li
leggiamo o vediamo. Un canto popolare o una leggenda invece
varieranno a seconda del narratore o dell'esecutore (e anche a
seconda della particolare composizione del pubblico). C'è
senza dubbio un rapporto di interazione e di mutuo scambio tra alta
cultura, cultura di massa e folklore: un racconto popolare
può ispirare il compositore di un'opera, oppure una leggenda
può diventare la base per un film.
4. La raccolta del folklore
I primi viaggiatori e collezionisti di testimonianze del passato
tendevano a raccogliere il materiale folkloristico per puro
interesse personale, senza preoccuparsi di classificarlo o
analizzarlo. A seguito della pubblicazione, nel 1812 e nel 1815, dei
due volumi di fiabe dei fratelli Grimm, molti si sentirono stimolati
a raccogliere il folklore della propria regione o del proprio paese.
In generale, il maggiore interesse nei confronti del folklore era
associato a un senso di inferiorità regionale o nazionale. I
fratelli Grimm, ad esempio, cercavano di dimostrare attraverso la
raccolta del folklore 'teutonico' che esisteva un patrimonio
culturale tedesco degno di essere paragonato alla cultura francese o
a quella classica greca e latina (non bisogna dimenticare che l'area
della Germania in cui vivevano i fratelli Grimm era sotto la
dominazione napoleonica).
Non è un caso che alcune delle raccolte folkloristiche
più sistematiche siano state effettuate in paesi in cui
esisteva un problema di identità nazionale. Il paese che si
è maggiormente dedicato alla ricerca folkloristica è
forse la Finlandia. Assoggettati in varie epoche al dominio della
Russia e della Svezia, i Finlandesi sentivano fortemente il bisogno
di affermare o dimostrare la propria identità nazionale;
così nel 1831 venne formata la Società Letteraria
Finnica e cominciò col massimo zelo la raccolta del folklore
locale (v. Hautala, 1968).
Due grandi studiosi, autori di fondamentali raccolte di folklore, E.
Tang Kristensen (1843-1929) e Giuseppe Pitrè, provenivano uno
dallo Jütland e l'altro dalla Sicilia, due regioni guardate con
un certo disprezzo dal resto delle rispettive nazioni. Kristensen
pubblicò più di 30.000 pagine di materiale (circa 79
volumi) comprendente 3.000 canti popolari, 1.000 melodie, 2.700
racconti popolari e 25.000 storie e leggende. Pitrè fu un
ricercatore altrettanto infaticabile; gli impegni della professione
medica da lui esercitata con successo a Palermo non gli impedirono
di raccogliere una quantità prodigiosa di materiale
folkloristico. Fondatore e condirettore di una importante
pubblicazione sul folklore, l'"Archivio per lo studio delle
tradizioni popolari" (33 volumi, 1880-1906), egli compilò la
prima esauriente bibliografia del folklore italiano, Bibliografia
delle tradizioni popolari d'Italia (1894), che conteneva oltre 6.000
voci, facendo così conoscere alla comunità
internazionale la ricerca italiana sul folklore. Pitrè
curò anche la pubblicazione delle Curiosità popolari
tradizionali in 16 volumi (1885-1899). La sua opera più
monumentale resta comunque la Biblioteca delle tradizioni popolari
siciliane (1872-1913), una raccolta del folklore siciliano in 25
volumi con varie sezioni dedicate ai canti popolari, ai racconti, ai
proverbi, alle leggende, ai giochi, ai costumi, ecc. Pitrè
era assolutamente contrario ad alterare il materiale originale, e il
folklore da lui raccolto viene riportato fedelmente in dialetto. La
ricchezza delle raccolte di Pitrè resta ineguagliata: il
volume dedicato ai giochi infantili, ad esempio, ne descrive
più di trecento, per ognuno dei quali sono registrate le
varianti sia siciliane che italiane.
Mentre la maggior parte degli studiosi preferiva basarsi sulle
testimonianze di singoli individui, alcuni optarono per la tecnica
del questionario. Uno dei primi a utilizzare questo metodo fu
Wilhelm Mannhardt (1831-1880), che inviò un questionario in
vari paesi europei per ottenere dati sulle tradizioni agricole
(comprese le usanze relative al raccolto). Nel 1865 Mannhardt
inviò 2.000 copie di una lista di circa 33 domande a vari
corrispondenti in Germania, Austria e altri paesi dell'Europa
occidentale, ma nemmeno il 2% dei destinatari rispose. Tuttavia
Mannhardt riuscì a racimolare una serie di dati che
utilizzò per il suo Die Korndämonen (1868) e per
l'importante studio Wald- und Feldkulte in due volumi (Berlino
1875-1877).
Nonostante i risultati scarsi e sostanzialmente deludenti ottenuti
da Mannhardt, l'impiego dei questionari per la raccolta del folklore
fece nascere l'idea di elaborare una rappresentazione cartografica
dei dati raccolti. Nel XX secolo questo metodo si diffuse in tutta
Europa, dando luogo alla pubblicazione di esaurienti atlanti del
folklore. Si tratta di una serie di mappe di elementi folkloristici
quali costumi, strumenti, idiomi e proverbi popolari. L'Atlas der
deutschen Volkskunde cominciò a essere pubblicato negli anni
trenta; l'Atlas der schweizerischen Volkskunde nel 1949 e l'Atlas
över Svensk folkkultur nel 1957.Uno dei vantaggi del metodo del
questionario per la raccolta del materiale era quello di consentire
una omogeneizzazione delle domande poste - a ogni corrispondente o
informatore la domanda veniva formulata esattamente negli stessi
termini - e inoltre di raccogliere un numero di risposte assai
maggiore che non con il metodo delle interviste individuali. Il
principale svantaggio per contro era dato dal fatto che i
destinatari del questionario avevano raramente la possibilità
di aggiungere informazioni contestuali o supplementari. Una critica
che viene mossa ai vari atlanti del folklore è che essi si
limitano a visualizzare la distribuzione dei dati sulle mappe senza
fornire alcuna analisi. Tuttavia la visualizzazione degli schemi di
distribuzione dei vari elementi folkloristici non è priva di
interesse.Con il crescere della mole del materiale raccolto -
attraverso il metodo dei questionari o attraverso le interviste
individuali - si rese necessario istituire degli archivi per
immagazzinare i risultati di queste attività di ricerca.
Gli archivi di cui è dotata la maggior parte dei più
importanti centri per lo studio del folklore rivestono un'importanza
decisiva, perché la quantità di materiale raccolto
sopravanza di gran lunga le possibilità di pubblicazione.Il
materiale custodito in alcuni dei principali archivi del folklore
è imponente. Citeremo a titolo di esempio gli archivi della
Società Letteraria Finnica, che nel 1965 contenevano circa
22.000 racconti popolari, 70.000 indovinelli, 100.000 leggende sui
miti e 500.000 proverbi. Quasi 8.000 studiosi hanno depositato i
risultati delle proprie ricerche in questi archivi, che contengono
anche circa 30.000 fotografie in bianco e nero (il che consente di
registrare anche la cultura popolare materiale). La Irish Folklore
Commission, fondata nel 1935, inviò questionari e studiosi in
tutta l'Irlanda, accumulando più di due milioni di pagine di
dati (v. Almqvist, 1977-1979). Tale commissione fu sostituita nel
1971 dal Department of Irish Folklore dell'University College di
Dublino. Un altro celebre archivio per il folklore è il
Deutsches Volksliederarchiv di Friburgo. Fondato nel 1914 dallo
specialista di canti popolari John Meier (1864-1953), nel 1970 esso
conteneva più di 48.000 canzoni popolari pubblicate e 209.000
inedite. (Per un'idea del materiale custodito nei principali archivi
del folklore scandinavi v. Herranen e Saressalo, 1978).
Il materiale conservato negli archivi riguardava il folklore
verbale, in un primo tempo registrato in manoscritti e in seguito in
cassette e videocassette, ma già alla fine dell'Ottocento si
avvertì l'esigenza di preservare anche il folklore materiale
istituendo dei musei all'aperto. Il museo svedese Skansen, fondato
da Arthur Hazelius (1833-1901) e aperto al pubblico nel 1891,
raccoglie diversi edifici tradizionali e oggetti provenienti da
tutta la Svezia. Questi edifici vengono demoliti con cura e
dislocati nell'area del museo all'aperto, dove vengono pazientemente
ricostruiti pezzo per pezzo. Anche le suppellettili e gli attrezzi
agricoli vengono trasferiti nel museo, e si cerca di ricostruire nel
modo più fedele possibile il contesto originario del
fabbricato. In questo modo vengono preservati più o meno in
toto, per gli studiosi delle generazioni future, fienili, mulini a
vento, botteghe di fabbri, drogherie e simili. Alcuni musei del
folklore assumono tra il personale una serie di artigiani, in modo
che i visitatori possano osservare all'opera tessitori, vasai,
intagliatori, ecc.
Nella seconda metà del XX secolo il metodo per la raccolta
del folklore ha subito un cambiamento radicale. Mentre prima
l'attenzione si concentrava esclusivamente sui testi - al punto che
le parole di alcuni canti popolari venivano pubblicate senza la
melodia di accompagnamento - ora viene privilegiato lo studio
contestuale. Il folklore si comprende appieno facendo riferimento al
contesto dell'esecuzione piuttosto che al testo; la pubblicazione di
quest'ultimo è solo una testimonianza parziale e inadeguata
di una esecuzione (v. Ben-Amos e Goldstein, 1975). Occorre tener
conto anche del sottile rapporto che si instaura tra esecutore e
pubblico (v. Falassi, 1980), e di quello, altrettanto delicato, tra
raccoglitore e informatore (v. Glassie, 1982). Un dato testo
folkloristico è il risultato unico e irripetibile di una
determinata esecuzione di un determinato narratore o cantore di
fronte a un determinato pubblico.
5. Il metodo comparativo
Sebbene all'origine dell'interesse per lo studio e la raccolta del
folklore vi sia quasi sempre stato un forte sentimento
nazionalistico (v. Wilson, 1976; v. Herzfeld, 1982), ben presto
risultò evidente che la maggior parte del folklore non era
delimitata dai moderni confini geopolitici. Anche i fratelli Grimm,
i quali avevano sperato di presentare un campione di cultura
popolare teutonica 'pura', scoprirono ben presto che in altri paesi
esistevano fiabe molto simili a quelle da loro raccolte. Nelle note
alla raccolta Kinder- und Hausmärchen, ad esempio, essi
elogiarono la raccolta di fiabe in dialetto napoletano di
Giambattista Basile (1575-1632) pubblicata postuma a Napoli nel
1634-1636 - Il Pentamerone - definendola "la migliore e la
più ricca che sia mai stata fatta in qualsiasi paese". Jacob
Grimm, che scrisse un'introduzione alla traduzione tedesca
dell'opera fatta nel 1846 da Felix Liebrecht (1812-1890),
definì le fiabe di Basile "incontestabilmente l'ultima,
straordinaria eco di miti assai antichi, che hanno messo radici in
tutta Europa". I fratelli Grimm riconoscevano quindi che le stesse
fiabe esistevano in diversi paesi europei, anche se pensavano
erroneamente che si trattasse di una derivazione laica o di una
degenerazione di antichi miti sacri. L'idea che i racconti popolari
fossero una sorta di detritus di miti si associava a un'altra
fallace teoria evoluzionistica secondo la quale le ballate sarebbero
i residui frammentari dell'epica.
a) Il metodo comparativo non scientifico
Uno dei problemi che dovettero affrontare i folkloristi del XIX
secolo fu quello di spiegare le palesi similitudini e i parallelismi
sussistenti tra popoli diversi, a volte assai distanti tra loro
nello spazio e nel tempo. Per quale motivo due popolazioni distinte
e prive di contatti avevano gli stessi racconti popolari, le stesse
usanze e gli stessi giochi infantili tradizionali?
Tra le varie teorie proposte per spiegare queste affinità
transculturali vi era quella che postulava una struttura psichica
unitaria comune a tutta l'umanità. Tutti gli esseri umani,
secondo questa teoria, hanno la medesima struttura psichica e
attraversano gli stessi stadi di un processo evolutivo unilineare,
passando dallo stato selvaggio alla barbarie alla civilizzazione.
Sulla base di queste premesse, per spiegare i parallelismi si faceva
ricorso all'ipotesi poligenetica, secondo la quale gli 'stessi'
racconti popolari sarebbero stati elaborati da diverse culture in
modo indipendente e autonomo. Poiché inoltre si assumeva che
tutte le popolazioni del mondo avessero attraversato gli stessi
stadi evolutivi, si riteneva perfettamente legittimo comparare le
pratiche popolari europee con le culture dei cosiddetti 'selvaggi'
che esistevano ancora in Africa o in Nordamerica. Secondo questa
teoria 'antropologica' della fine del secolo, la sopravvivenza della
cultura rurale-popolare si poteva comprendere solo comparandola con
la forma 'originale' e più completa, ancora osservabile tra i
'selvaggi' dell'epoca moderna.
Sir James George Frazer (1854-1941), nel saggio The scope of social
anthropology (originariamente una conferenza tenuta
all'Università di Liverpool il 14 maggio 1908),
formulò esplicitamente questa teoria, sulla quale si basava
gran parte delle sue ricerche. Mentre l'antropologia sociale
consiste nello studio delle "credenze e delle usanze dei selvaggi",
il folklore è lo studio dei "relitti di queste credenze e
usanze, sopravvissuti come fossili tra i popoli di cultura
superiore". Frazer definiva il folklore come "sopravvivenze di idee
e pratiche più primitive tra popoli che per altri riguardi si
sono elevati a un livello superiore di cultura" (v. Frazer,
1920², pp. 162 e 166).
La stessa teoria viene esposta da Andrew Lang (1844-1912) nel saggio
The method of folklore, che costituisce il primo capitolo del suo
Custom and myth (1884). Secondo Lang "esiste un tipo di studio,
quello del folklore, che raccoglie e compara le reliquie simili ma
immateriali delle antiche razze, le storie e le superstizioni che
ancora sopravvivono, nonché le idee che pur presenti nel
nostro tempo non appartengono a esso". Partendo dall'assunto che
"nei proverbi e negli indovinelli, nelle fiabe e nelle superstizioni
scorgiamo i relitti di uno stadio del pensiero che va scomparendo in
Europa, ma continua a esistere in molte parti del mondo", Lang
legittima la sua forma di metodo comparativo illustrandola nei
seguenti termini: "Ogni volta che in un qualche paese si incontra
un'usanza apparentemente irrazionale e anomala, [occorre]
individuare un paese dove esiste una pratica analoga e nel quale
essa non può più essere considerata irrazionale e
anomala, ma in armonia con le idee e i costumi della popolazione che
la ha adottata". Secondo Lang, quindi, "il nostro metodo consiste
nel comparare le usanze o le consuetudini apparentemente prive di
senso delle razze civilizzate con quelle analoghe che esistono tra i
popoli non civilizzati, presso i quali conservano ancora il loro
significato. Per una comparazione di questo tipo non è
necessario che la razza civilizzata e quella non civilizzata siano
dello stesso ceppo, né occorre dimostrare che vi sia stato un
qualche contatto reciproco. Strutture mentali simili danno luogo a
pratiche simili, a prescindere dall'identità di razza o dal
mutuo scambio di idee e di consuetudini" (v. Lang, 1884, pp. 11,
12-13, 21).
Nessuno studioso moderno condivide più questa tesi né
pratica questa forma di metodo comparativo, e tuttavia alcuni
continuano erroneamente a definire il folklore come un relitto o una
sopravvivenza del passato.
b) Il metodo comparativo scientifico
Il metodo comparativo adottato dalla maggior parte dei folkloristi
moderni non si basa su un'ipotesi poligenetica. Prevale piuttosto
l'idea che una determinata manifestazione del folklore abbia avuto
origine in un determinato luogo e in una determinata epoca e si sia
poi diffusa da individuo a individuo, da cultura a cultura. Questa
teoria è detta monogenetica e diffusionista. Il teorico
svedese Carl Wilhelm von Sydow (1878-1952) proponeva di distinguere
tra quelli che definiva "portatori attivi" e "portatori passivi" di
una tradizione. I primi sono gli 'attori', gli individui che narrano
le fiabe o eseguono i canti popolari, mentre i portatori passivi
costituiscono il pubblico: essi conoscono i canti e i racconti, ma
sono solo spettatori. Secondo von Sydow un racconto o un canto
popolare si diffondono solo se un portatore attivo li trasmette a un
altro portatore attivo (v. von Sydow, 1948, pp. 11-43; per una
eccellente discussione sulla trasmissione del folklore v. Ortutay,
1959).
Il metodo comparativo sviluppato dagli studiosi del folklore si
è ispirato in larga misura a quello utilizzato nell'Europa
del XIX secolo per lo studio storico delle lingue indoeuropee. In
particolare un linguista, Franz Bopp (1791-1867), aveva pubblicato
nel 1816 uno studio in cui le forme grammaticali del sanscrito
venivano comparate a quelle delle lingue persiana, greca, latina,
tedesca. In retrospettiva appare ovvio che queste e altre lingue
indoeuropee presentino anche affinità lessicali oltre che
grammaticali. Il sanscrito nas, ad esempio, è affine al
latino nasus, all'italiano naso, al francese nez, al lituano nosis e
al russo nos nonché all'inglese nose e al tedesco Nase.
Analogamente, il termine sanscrito pitar è affine al latino
pater, all'italiano e allo spagnolo padre, al francese père e
con la prevedibile alternanza f/v all'inglese father e al tedesco
Vater. Le somiglianze sia fonetiche che semantiche tra questi
vocaboli sono troppo spiccate per poter essere considerate puramente
fortuite o frutto di coincidenze.
Utilizzando lo stesso tipo di ragionamento si concluse che
esistevano altre affinità culturali nell'area indoeuropea,
tra cui la mitologia e altre forme di folklore. Max Müller
(1823-1900), tra gli altri, condusse uno studio comparato di diverse
mitologie mostrando, ad esempio, che l'affinità del sanscrito
Dyaus con Deus e Zeus indica l'equivalenza degli dei greci e romani
con le divinità vediche. Come indica il suo stesso nome,
Jupiter (Ju=dio, piter=padre) era chiaramente il padre degli dei.
Müller - un insigne indianista che, fatto curioso, non mise mai
piede in India - oltre a studiare le affinità tra le lingue
indoeuropee elaborò una nuova teoria del mito, la mitologia
solare, secondo la quale il sorgere e il tramontare del sole
avrebbero costituito una fonte di incessante meraviglia per l'uomo
primitivo, per cui tutti i miti in sostanza descriverebbero questa
quotidiana avventura dell'astro. Nel XIX secolo vennero formulate
altre teorie mitologiche di diversa natura, ad esempio la mitologia
lunare, secondo la quale i miti (al pari di altre forme di folklore)
si riferirebbero alle fasi lunari anziché ai fenomeni solari.
La forma scientifica del metodo comparativo fu adottata per la prima
volta nello studio del folklore in Finlandia. Julius Krohn
(1835-1888) ideò un metodo per determinare l'ipotetica forma
originaria di ogni singolo verso dell'epopea finnica, il Kalevala,
ricostruita da Elias Lönnrot (1802-1884), uno dei principali
promotori della fondazione della Società Letteraria Finnica.
Lönnrot, che al pari di Pitrè era un medico, aveva
condotto una serie di ricerche sul campo in Carelia, nella Finlandia
orientale. Unendo diversi brevi canti in un'unità più
ampia, egli credeva di aver ridato vita a quello che un tempo era
un'autentica epopea orale, il Kalevala appunto, che pubblicò
nel 1835. In questa prima versione il poema constava di 32 canti e
12.078 versi. Lönnrot continuò le sue ricerche sul campo
e raccolse altro materiale, dando alle stampe nel 1849 una versione
ampliata del poema, che comprendeva ora 50 canti e 22.795 versi. I
nazionalisti finnici erano soddisfatti di avere la loro epopea,
sebbene una versione orale del poema completo non fosse mai stata
raccolta nella ricerca sul campo.
Il metodo di Julius Krohn consisteva nel raccogliere il maggior
numero possibile di versioni di ogni singolo verso per analizzarle
sulla base di criteri sia storici che geografici, ossia tenendo
conto della data in cui era stata raccolta o pubblicata per la prima
volta una determinata versione, nonché della diffusione
geografica di un determinato particolare. Il criterio fondamentale
è che quanto più è diffuso un particolare o un
tratto, tanto più antico lo si deve ritenere (si tratta di un
principio grosso modo analogo alla cosiddetta 'ipotesi
età-area' dell'antropologia). Sulla base di questi criteri
storici e geografici Julius Krohn cercò di determinare, verso
per verso, l'ipotetica forma originaria del Kalevala.
Il figlio di Julius, Kaarle Krohn (1863-1933), impiegò lo
stesso metodo per studiare i racconti popolari. Tale metodo - noto
come metodo storico-geografico o, in onore della nazionalità
dei due Krohn, metodo finnico - è forse il più
importante tra quelli utilizzati nello studio del folklore. Kaarle
Krohn lo impiegò per la prima volta nell'analizzare vari
racconti popolari che hanno per protagonisti animali, per la sua
dissertazione di laurea all'Università di Helsinki nel 1887.
In seguito egli scrisse uno studio su questo tema, Die
folkloristische Arbeitsmethode, pubblicato nel 1926. Il metodo
finnico è stato impiegato principalmente per l'analisi dei
racconti popolari, ma si è rivelato altresì utile in
una serie di studi storico-geografici sulle ballate e sui giochi (v.
Goldberg, 1984). I migliori di tali studi riportano non meno di un
migliaio di versioni di un particolare racconto popolare,
provenienti dal mondo indoeuropeo e da altre aree (v. Roberts, 1958;
v. Rooth, 1951).
Ci vogliono anni per realizzare un valido studio storico-geografico,
che comporta l'individuazione di tutte le versioni disponibili
pubblicate o conservate negli archivi, la loro traduzione nella
lingua del ricercatore e così via. Sebbene non si ritenga
più che con questo metodo sia possibile ricostruire la forma
originale di un racconto popolare, di un mito o di una ballata,
tuttavia esso consente di individuare una serie di sottotipi
nonché i loro schemi di diffusione e le loro probabili
interrelazioni.Un'utile integrazione del metodo finnico è
data dal concetto di oicotipo, o forma locale, proposto nel 1927 da
von Sydow. Nel processo di trasmissione da individuo a individuo e
da cultura a cultura, un determinato elemento folkloristico
può assumere una forma o un contenuto locali. Così, ad
esempio, di un racconto popolare presente nelle culture romanze o
nell'area indoeuropea e semitica può esistere un oicotipo
italiano, definito dalle caratteristiche o dai tratti specifici
presenti solo nella versione italiana di tale racconto. Sul piano
teorico il punto cruciale è dato dal fatto che per
individuare un oicotipo è indispensabile aver condotto prima
uno studio comparato. Se si dispone solo di una singola versione di
un racconto popolare o di una ballata, è impossibile
determinare quali aspetti, eventualmente, siano realmente unici o
peculiari di una data località. Il concetto di oicotipo
riveste una grande importanza per gli studiosi di folklore
interessati a isolare i dati folkloristici al fine di definire il
cosiddetto carattere regionale o nazionale (per il concetto di
oicotipo v. Bødker, 1965, p. 220; v. Honko, 1980). Va
osservato che sono assai pochi gli studiosi di scienze sociali che
conoscono e applicano il metodo comparativo scientifico utilizzato
dai folkloristi.
6. La classificazione del folklore
Verso la fine dell'Ottocento i folkloristi dell'Europa
nordoccidentale si resero conto che lo studio del folklore doveva
assumere una dimensione internazionale, in quanto l'oggetto stesso
della disciplina aveva una distribuzione internazionale. Mentre
l'interesse per il folklore locale era stato stimolato dai
sentimenti nazionalistici legati ad alcune correnti del
romanticismo, ormai ci si rendeva conto che la maggior parte del
folklore non conosceva confini nazionali.
Per facilitare la cooperazione internazionale, un gruppo di eminenti
studiosi si riunì nel 1907 per costituire un'organizzazione
designata con la sigla FF, che può stare per Folklore Fellows
in inglese, Fédération des Folkloristes in francese,
Folkloristischer Forscherbund in tedesco, e così via (v.
Krohn, 1910). I primi membri di tale organizzazione furono il
finlandese Kaarle Krohn, il danese Axel Olrik (1864-1917), lo
svedese C. W. von Sydow e il tedesco Johannes Bolte (1858-1937).
Questa organizzazione ha pubblicato e continua a pubblicare una
serie di importanti monografie, le Folklore Fellows Communications
(FFC).Data l'imponente quantità di materiale folkloristico
raccolto, si poneva con particolare urgenza il problema della sua
classificazione. L'istituzione di archivi richiedeva che il
materiale folkloristico fosse classificato in base a qualche
criterio - ad esempio per generi o sottogeneri - al fine di
schedarlo in modo ordinato rendendone agevole la consultazione. I
racconti popolari furono una delle prime forme di folklore ad essere
classificate seguendo questi criteri. Un valido allievo di Krohn,
Antti Aarne (1867-1925) preparò un indice tipologico dei
racconti popolari basato in parte sulla raccolta dei fratelli Grimm,
sui materiali dell'archivio del folklore danese fondato da Svendt
Grundtvig (1824-1883), sull'imponente documentazione contenuta negli
archivi della Società Letteraria Finnica, nonché su
altre raccolte di racconti popolari dell'Europa nordoccidentale.
Questo catalogo, Verzeichnis der Märchentypen, apparve nel 1910
come terzo numero delle Folklore Fellows Communications. Aarne
considerava ogni tipo di racconto un'entità distinta, e il
suo sistema di classificazione tripartito comprendeva favole che
hanno per protagonisti animali (da 1 a 299), racconti popolari
ordinari, incluse le fiabe (da 300 a 1.199), aneddoti e barzellette
(da 1.200 a 1.999).
La pubblicazione del catalogo di Aarne stimolò altri studiosi
europei - soprattutto coloro a cui sembrava che quel catalogo non
desse adeguato rilievo all'insieme della narrativa popolare del
proprio paese - a costruire analoghi indici tipologici regionali o
nazionali. Apparvero così un indice tipologico di racconti
fiamminghi (1921), un indice preliminare norvegese (1922) e un
indice prussiano (1927). La comunità internazionale degli
studiosi di folklore comprese che si rendeva necessaria una
revisione del lavoro di Aarne al fine di incorporarvi le tipologie
registrate in questi indici. Dopo la morte di Aarne, nel 1925, Krohn
invitò lo studioso americano Stith Thompson (1885-1976) a
realizzare quest'opera di revisione. Una prima revisione apparve nel
1928 come n. 74 delle FFC, e da allora i racconti popolari europei
sono indicati convenzionalmente con il numero con cui figurano nella
tipologia di Aarne-Thompson: Cappuccetto Rosso ad esempio è
AT 333, Cenerentola AT 510A e così via. Le 66 pagine
originarie dell'indice di Aarne erano diventate 279, e continuavano
ad apparire ulteriori indici regionali e nazionali: uno spagnolo nel
1930, uno olandese nel 1943, uno toscano nel 1953. Thompson
intraprese un'altra revisione e questa nuova versione di 588 pagine
apparve nel 1961 come n. 184 delle FFC.
Attualmente il catalogo include non solo una sinossi completa di
ognuno dei circa 2.000 tipi di racconti popolari, ma anche i
riferimenti bibliografici alla letteratura critica su ciascun
racconto nonché ai materiali inediti conservati negli
archivi. Se un determinato racconto rientra tra quelli contenuti
nella raccolta dei fratelli Grimm, Thompson fornisce i riferimenti
appropriati rimandando al superbo compendio di note comparative
contenuto nell'opera in 5 volumi di J. Bolte e G. Polivka,
Anmerkungen zu den Kinder- und Hausmärchen der Brüder
Grimm (Leipzig 1913-1932), opera fondamentale nell'ambito dello
studio comparato dei racconti popolari. A partire dal 1961 sono
stati pubblicati ulteriori indici nazionali, tra cui quelli di
nazioni extraeuropee come la Cina (1978), la Corea (1979) e il
Giappone (1983). (Per una rassegna di questi vari indici v.
Azzolina, 1987).
Gli indici tipologici riguardano esclusivamente i racconti popolari,
ma gran parte della narrativa popolare del mondo non occidentale non
ha ancora avuto un'adeguata classificazione. Esiste comunque un
sistema di classificazione valido per i racconti popolari di tutto
il mondo, basato sul concetto di motivo. Un motivo può essere
un personaggio, un soggetto, o un evento di un racconto popolare.
Stith Thompson pubblicò un Motif-index of folk-literature in
sei volumi (1932-1936; un'edizione riveduta dell'opera apparve nel
1955-1958). Come dice il sottotitolo dell'opera, si tratta di una
"classificazione degli elementi narrativi di racconti popolari,
ballate, miti, favole, romanzi medievali, exempla, fabliaux,
raccolte di celie, leggende locali". A differenza dell'indice
tipologico, che riguarda esclusivamente i racconti popolari,
l'indice dei motivi include altri generi di narrativa come ad
esempio miti e leggende. Un sistema di indici alfabetici divide il
materiale in categorie: la lettera A indica i motivi mitologici, la
B i motivi di animali, la C i motivi dei tabù, la D quelli
magici e via dicendo. Così ad esempio A641 indica il motivo
dell'uovo cosmico (l'idea che l'universo sia nato da un uovo), B13
il motivo dell'unicorno, C31 il tabù dell'offesa a una
consorte sovrannaturale, D1.451 il motivo della borsa magica che
produce denaro.
I motivi differiscono dalle tipologie per un elemento fondamentale.
Mentre si assume che le differenti versioni di un tipo di racconto
siano correlate sul piano storico-genetico - le differenti versioni
di Cenerentola, ad esempio, sono ritenute affini - le diverse
ricorrenze di uno stesso motivo non sono necessariamente collegate
storicamente. Qualunque mito che spiega la presenza della morte nel
mondo può essere classificato nella categoria A1.335 -
origine della morte - sicché miti distinti e completamente
differenti possono essere classificati sotto la stessa rubrica.Vi
sono stati altri tentativi di elaborare schemi di classificazione
del folklore (v. Boggs, 1949; v. D'Aronco, 1963-1964), ma nessuno
è risultato altrettanto valido o accettato a livello
internazionale quanto quelli ideati per la tipologia dei racconti e
per i motivi.
7. La ricerca di principî generali
La maggior parte degli studiosi di folklore si è limitata a
raccogliere e classificare il folklore del proprio villaggio,
provincia o nazione, e solo occasionalmente ha cercato di
analizzarlo. Tuttavia un piccolo gruppo di studiosi ha cercato di
formulare una serie di principî generali applicabili al
folklore di qualunque parte del mondo. Alcuni di questi studiosi
erano più interessati alla speculazione che alla ricerca sul
campo, e preferivano studiare in modo approfondito il materiale
folkloristico raccolto da altri, alla ricerca di principî o di
leggi generali della disciplina.Il tentativo di Max Müller di
individuare interpretazioni basate sulla mitologia solare di miti e
racconti popolari provenienti da varie culture potrebbe costituire
un esempio di questa ricerca di principî generali, ma
purtroppo questa elaborazione teorica del XIX secolo non ha
resistito alla prova del tempo. Tuttavia un altro tentativo di
definire principî generali risalente allo stesso secolo,
l'ingegnosa analisi della magia di Frazer, gode tuttora di un'alta
considerazione da parte di alcuni studiosi. Sviluppata nella
monumentale opera in più volumi The golden bough (2 volumi
nell'edizione del 1890, 3 in quella del 1900 e ben 12 in quella del
1911-1915), che si ispirava in larga misura a Wald- und Feldkulte di
Mannhardt, l'analisi di Frazer viene considerata ancora valida dai
ricercatori del nostro secolo. Secondo Frazer la magia si basa
universalmente su due principî fondamentali: primo, che cause
simili producono effetti simili, e che l'effetto assomiglia alla
causa; secondo, che elementi che sono stati una volta in contatto
continuano anche dopo a interagire. Questi due principî, la
legge della similarità o della magia omeopatica e la legge
del contatto o del contagio, sembrano essere valide estrapolazioni
transculturali, sebbene sia teoricamente possibile che entrambi i
principî operino in una stessa pratica magica.
L'envoûtement (maleficio), ad esempio, che consiste nel
conficcare degli spilli nell'immagine di cera del nemico al fine di
danneggiarlo, oppure nel bruciare o impiccare l'effigie di un
oppositore politico, sarebbe un caso di magia omeopatica. Se
però per costruire l'effigie o l'immagine si utilizza
qualcosa che è stato a diretto contatto con la vittima
designata - capelli, unghie, un capo di vestiario - il maleficio
implica anche la legge del contatto. (Per ulteriori esempi di magia
e superstizione si può consultare uno degli strumenti
fondamentali degli studiosi di folklore contemporanei,
l'Handwörterbuch des deutschen Aberglaubens, 10 voll.,
1927-1942).
Un altro importante caposaldo nella ricerca di leggi o
principî del folklore è costituito dalle ricerche dello
studioso norvegese Moltke Moe (1859-1913) e del suo allievo danese
Axel Olrik. Nel 1889 Moe introdusse la nozione di 'legge epica' per
indicare un principio generale applicabile a tutto il folklore
verbale. Nell'accezione originaria di Moe tale concetto designava
una tendenza di sviluppo in grado di spiegare l'evoluzione delle
ballate e dei racconti popolari. Nell'accezione di Olrik per contro,
il quale era interessato all'individuazione di caratteristiche
stilistico-formali comuni al folklore verbale, le leggi epiche si
configurano come principî strutturali anziché
evolutivi. Tra esse citiamo la legge dell'incipit, della conclusione
e della ripetizione, del numero 3, delle scene a due, del contrasto,
della posizione iniziale e finale, del singolo intreccio, della
concentrazione su un personaggio principale, ecc. Olrik espose le
sue leggi epiche della narrativa popolare - da lui ritenute
obbligatorie - nel 1908 in Danimarca e nel 1909 in Germania e
propose di utilizzarle per differenziare il folklore dalla
letteratura. Egli sosteneva che gli scrittori non erano vincolati da
leggi epiche come lo erano invece i narratori orali. Nei racconti e
nei canti popolari, ad esempio, l'enfasi può essere ottenuta
mediante la legge della ripetizione, eventualmente in associazione
alla legge del 3, ma uno scrittore moderno di racconti o novelle non
ricorrerebbe certo a questo sistema di triplice ripetizione. Alcuni
studiosi hanno obiettato che l'uso del termine 'legge' è un
maldestro tentativo di scimmiottare le scienze naturali, e per
designare queste caratteristiche stilistiche preferiscono parlare di
'tendenze'. In ogni caso il tentativo di Olrik di individuare queste
tendenze o principî generali costituisce un fondamentale
progresso nella teoria del folklore.
È opportuno osservare che secondo Olrik queste leggi epiche
avevano una natura superorganica (v. Kroeber, 1917), ossia
costituivano un ordine di realtà a sé stante,
indipendente dal volere umano. Si tratta di un esempio classico di
separazione tra il folk e il lore. Altri studiosi hanno cercato di
individuare i principî superorganici che operano
presumibilmente in modo autonomo nel lore, ma nella maggior parte
dei casi non erano altrettanto verificabili empiricamente quanto le
leggi epiche di Olrik. Molti di tali principî riguardavano la
trasmissione del folklore. Kaarle Krohn propose il concetto di
automigrazione, secondo il quale i racconti popolari sono capaci di
'spostarsi' autonomamente da un luogo all'altro, senza che i
narratori stessi si muovano dal posto. Questo concetto (v. Krohn,
1922, p. 21) può essere illustrato con l'esempio del gioco
infantile in cui i partecipanti sono disposti in circolo e ognuno
sussurra un messaggio all'orecchio del vicino, il quale lo trasmette
a sua volta al compagno accanto e così via, finché il
messaggio ritorna alla prima persona, di solito in qualche misura
alterato. Il messaggio quindi si 'muove' senza che gli individui che
lo trasmettono si spostino essi stessi.Un'altra legge superorganica
è la cosiddetta 'legge dell'autorettifica' proposta da Walter
Anderson (1885-1962), secondo la quale i testi narrativi si
autocorreggono conservando una notevole stabilità rispetto ai
possibili stravolgimenti dovuti a errori o a cambiamenti inavvertiti
introdotti da narratori maldestri dotati di poca memoria. La legge
dell'autorettifica (v. Anderson, 1923, pp. 397-403; v. Glade, 1966)
implica anch'essa una separazione tra il patrimonio narrativo e i
soggetti umani, tra il folk e il lore, rendendo quest'ultimo
sostanzialmente superiore al primo. Un analogo pregiudizio verso la
creatività del folk è espresso dallo studioso svizzero
Eduard Hoffmann-Krayer nel suo saggio del 1903 Naturgesetz im
Volksleben? (ristampato in Lutz, 1958, pp. 67-72), in cui si
afferma: "Il folk non produce, riproduce soltanto". Ciò
ovviamente ripropone la questione dell'origine ultima del folklore:
presumibilmente esiste sempre un individuo creativo che inventa un
nuovo materiale folkloristico, anche se è forse corretto
affermare che la maggior parte degli esecutori si limita a
riprodurre anziché a produrre i materiali del proprio
repertorio.
Meno controverso, ma più significativo è il contributo
dello studioso francese Arnold Van Gennep (1873-1957) col suo studio
pionieristico Les rites de passage pubblicato nel 1909, nello stesso
periodo in cui Olrik formulava la teoria delle leggi epiche. Prima
della stimolante analisi di Van Gennep gli studiosi di folklore
erano soliti considerare i rituali associati alla nascita e alla
pubertà, le cerimonie nuziali e le usanze funebri come
segmenti distinti e separati del ciclo di vita dell'individuo.
Anticipando la corrente strutturalista, Van Gennep comprese che
tutti questi riti legati a momenti critici della vita si basavano
sullo stesso schema tripartito: separazione, transizione,
incorporazione. Per illustrare tale schema si può utilizzare
l'esempio di un viaggio da un paese all'altro. In primo luogo, si
prende ufficialmente congedo dal proprio paese d'origine (mostrando
alla frontiera il proprio passaporto); poi si è in transito,
ossia né nel paese d'origine né in quello di
destinazione (le sale d'aspetto per i passeggeri in transito negli
aeroporti internazionali sono un buon esempio di questo peculiare
status marginale o liminale). Infine si entra ufficialmente nel
nuovo paese, in genere passando attraverso il controllo passaporti.
Lo stesso Van Gennep utilizza questo esempio per illustrare lo
schema generale da lui individuato. Ognuna di queste tre fasi
può avere i propri rituali. I riti di separazione assumono
particolare rilievo in alcune culture, in cui le donne vengono
isolate dal resto della comunità alla comparsa del menarca, e
dopo un determinato periodo di emarginazione vengono sottoposte a un
rito di purificazione per poter essere reincorporate nella
società. Le conclusioni di Van Gennep sono tuttora pienamente
convincenti: "Ciò che ci interessa non sono i singoli riti ma
il loro significato essenziale e la loro posizione relativa
all'interno dei cerimoniali nel loro insieme, vale a dire il loro
ordine [...]. La struttura di base è sempre la stessa. Al di
là di una molteplicità di forme, ricorre sempre uno
schema tipico, che può essere sia esplicito che implicito: lo
schema dei riti di passaggio" (v. Van Gennep, 1909, p. 191). La tesi
di Van Gennep è universalmente accettata, tanto che
l'espressione francese rites de passage è entrata stabilmente
nel vocabolario degli studiosi di tutto il mondo.
Le leggi della magia simpatetica di Frazer, le leggi epiche di Olrik
e i riti di passaggio di Van Gennep in teoria sono principî
universali, validi senza eccezione per il folklore di tutte le
popolazioni. Non sono mancati però i tentativi di individuare
principî del folklore, generali ma non universali. Un primo
esempio è il tentativo di definire la sequenza degli episodi
che caratterizzano la biografia dell'eroe nelle culture indoeuropee.
Johann Georg von Hahn (1811-1869) fu il primo che cercò di
fissare questi elementi. Analizzando le biografie di Perseo, Ercole,
Edipo e di undici altri eroi leggendari, von Hahn individuò
uno schema biografico basato su sedici eventi, che definì
"formula ariana dell'espulsione e del ritorno" nei suoi
Sagwissenschaftliche Studien pubblicati postumi nel 1876. Lo
psicanalista Otto Rank nel suo classico studio del 1909, Der Mythus
von der Geburt des Helden, basò il suo schema biografico
dell'eroe sull'analisi di quindici personaggi tra i quali
Mosè, Edipo e Gesù. Nel 1934 lord Raglan
pubblicò nella rivista "Folklore" un saggio, The hero of
tradition (v. Dundes, 1965, pp. 142-157), che due anni più
tardi costituì la base del suo studio The hero. Raglan si
servì delle biografie di ventuno eroi per costruire uno
schema basato su ventidue episodi. Tra le caratteristiche comuni a
questi diversi modelli biografici vi sono la verginità della
madre, il concepimento inusuale, una profezia che mette in guardia
contro il nascituro, l'abbandono dell'eroe che viene allevato da
genitori adottivi in un paese lontano, il suo ritorno in patria per
sconfiggere il persecutore originario - un re, un gigante o un
dragone - e infine il matrimonio con una principessa. Raglan
attribuisce dei punteggi agli eroi calcolando quanti dei ventidue
episodi tipici dello schema sono presenti nelle biografie di ognuno;
per Edipo e Teseo il totale è 20 su 22, per Romolo ed Ercole
17, per Perseo 16, per Giasone 14, ecc.
Lo schema di Raglan sembra potersi applicare a parecchi eroi
indoeuropei, ma non a quelli di altre aree culturali, ad esempio
quelli degli Indiani nordamericani e sudamericani. In altre parole,
tale schema può costituire un principio generale valido per
le biografie degli eroi indoeuropei, ma non è affatto
universale. Inoltre, sebbene la validità dello schema
biografico dell'eroe possa essere dimostrata empiricamente, resta
qualche problema relativo al suo significato ultimo. Raglan, ad
esempio, sosteneva che tale schema dimostra in modo conclusivo il
carattere fittizio delle biografie degli eroi (è impossibile
che tutti abbiano avuto biografie identiche). Per quanto gli eroi
stessi possano essere stati personaggi storici, nella narrazione
folkloristica le loro biografie sono state alterate per adattarle
allo schema. Raglan riteneva che lo schema biografico da lui
descritto derivasse da un antico rituale, ossia da un regicidio
rituale. Questo è il tipo di interpretazione proprio della
cosiddetta 'scuola del rituale', secondo la quale ogni tipo di
folklore avrebbe un'origine rituale. Il problema di quasi tutte le
interpretazioni di questo genere è che non sempre è
chiara la provenienza del rituale originario, e di conseguenza resta
incerta l'origine ultima del mito. Se i miti derivano da un rituale,
da dove viene il rituale?
Otto Rank propose un'interpretazione completamente differente dello
schema biografico, basata sulla teoria freudiana del complesso
d'Edipo. Secondo Rank, ad esempio, la nascita dell'eroe da madre
vergine costituisce un ripudio totale del padre (e del suo ruolo
procreativo). Inoltre, per Rank, il tentativo del padre di
sbarazzarsi del nuovo nato (si pensi alla strage degli innocenti
nelle biografie di Mosè e di Gesù) è un esempio
di quella che oggi verrebbe definita inversione proiettiva. Nella
teoria edipica classica, infatti, è il figlio che vuole
uccidere il padre, ma poiché questo è un pensiero
tabù, nel folklore è sempre il padre che cerca di
uccidere il figlio (anche se nella maggior parte delle
società indoeuropee i padri desiderano ardentemente avere
figli maschi e colpevolizzano le mogli che non sono in grado di dar
loro eredi). Ciò libera il figlio da ogni senso di colpa:
quando egli uccide il padre o il padre putativo (re, gigante,
drago), lo fa per autodifesa.Per quanto riguarda la ricerca di
principî generali nel folklore, si può accettare lo
schema biografico dell'eroe che risulta empiricamente accertabile,
anche se si respinge l'ipotesi ritualistica di Raglan o
l'interpretazione freudiana di Rank. Quanto al tema degli schemi
narrativi, occorre menzionare l'importante scoperta dello studioso
russo Vladimir Propp (18951970). In Morfologia della fiaba,
pubblicato nel 1928, Propp ha analizzato un campione di 100 fiabe
russe dimostrando che esse si basano su una sequenza prevedibile di
31 unità di azione drammatica, da lui definite 'funzioni'.
Non tutte le fiabe contenevano le 31 funzioni al completo, ma quelle
presenti seguivano invariabilmente lo stesso ordine o sequenza. La
conclusione di Propp è che tutte le fiabe (nn. 300749 secondo
l'indice tipologico di Aarne-Thompson) appartengono a un unico tipo
strutturale basato sullo stesso schema di successione. Il corpus
analizzato da Propp si limitava alle fiabe russe, ma queste nella
maggior parte dei casi rientrano nella tipologia internazionale
secondo il sistema di classificazione di Aarne-Thompson. Ciò
indica che le conclusioni di Propp si possono applicare, con alcuni
adattamenti poco significativi, alle fiabe di altre culture
indoeuropee. Lo schema di Propp però non sembra valido per i
racconti popolari di altre aree culturali, ad esempio quelli degli
Indiani dell'America settentrionale e meridionale. Pertanto sarebbe
probabilmente errato considerare la sequenza delle 31 funzioni di
Propp come un principio generale alla stessa stregua dei
principî della magia simpatetica di Frazer o dei riti di
passaggio di Van Gennep.
8. Il folklore come riflesso della cultura
La maggior parte degli studiosi di folklore, tra cui gli antropologi
interessati alla materia, non si preoccupa di individuare
principî generali. La ricerca di ipotetiche leggi globali
è stata appannaggio dei folkloristi 'speculativi', mentre gli
studiosi dediti alla ricerca sul campo si accontentano di norma di
raccogliere il folklore di un determinato villaggio o popolo e di
effettuarne analisi dalle pretese assai più modeste.
Ciò deriva dall'adesione al relativismo culturale propugnato
dagli antropologi, secondo il quale ogni singola cultura costituisce
un'entità distinta, e in certo senso incomparabile, dotata di
caratteristiche uniche. Per un ricercatore che lavora esclusivamente
nel contesto di una singola cultura è difficile se non
impossibile formulare una valida ipotesi transculturale, oppure
verificare tale eventuale ipotesi. La crescente specializzazione fa
sì che pochi antropologi o folkloristi moderni siano in grado
di padroneggiare l'ingente quantità di materiale proveniente
da tutte le parti del mondo, come era ancora possibile per Frazer o
Van Gennep.
La scelta di concentrare l'attenzione su una singola cultura alla
volta è dovuta in parte all'influsso dell'antropologo Franz
Boas (1858-1942) e dei suoi seguaci, assai interessati al folklore,
in particolare a quello degli Indiani d'America. L'approccio
boasiano al folklore era in larga misura una reazione agli 'eccessi'
delle teorie altamente speculative del XIX secolo, basate ad esempio
sulla mitologia lunare e solare. Estremamente cauto per quel che
riguarda le generalizzazioni (sia nell'ambito del folklore che in
altri campi), Boas riteneva che il folklore fosse il riflesso di una
cultura, e poiché era convinto che le culture degli indigeni
d'America fossero in via di estinzione, si dedicò attivamente
alla raccolta del folklore di varie tribù come a una sorta di
opera di salvataggio. A suo avviso il folklore è il riflesso
di una cultura in via di estinzione o pressoché estinta, e di
conseguenza esisterebbe un rapporto biunivoco tra folklore e
cultura: un determinato tratto presente in una cultura si troverebbe
per così dire 'registrato' nel suo folklore. Boas
riuscì a ottenere la preziosa collaborazione di alcuni
indigeni americani istruiti allo scopo di preservare il loro
folklore, prevenendo così l'inevitabile distorsione inerente
alla ricerca sul campo condotta da osservatori esterni.
I miti e i racconti popolari presentati in Tsimshian mythology
(1916), forse l'opera principale di Boas, erano stati registrati da
Henry W. Tate, egli stesso un indiano tsimshian di Port Simpson,
nella Columbia Britannica. Dopo aver presentato i miti (pp. 58-392),
Boas introduce una sezione intitolata Descrizione degli Tsimshian
basata sulla loro mitologia (pp. 393-477), in cui i particolari
etnografici relativi alle abitazioni, all'abbigliamento, alle
tecniche della caccia e alla raccolta del cibo, all'organizzazione
sociale, alla vita familiare, ecc. sono attentamente estrapolati dal
corpus dei miti. Vi è anche una sezione intitolata Studio
comparativo della mitologia tsimshian (pp. 565-871) in cui Boas
compara i testi degli Tsimshian con testi affini di altre
tribù della costa del Pacifico nordoccidentale. Nel 1935 Boas
pubblicò Kwakiutl culture as reflected in mythology, in cui,
come indica il titolo, la stessa metodologia di base è
applicata a un'altra popolazione, i Kwakiutl della costa
nordoccidentale. Nel capitolo conclusivo di questa tarda opera Boas
procede a una comparazione tra i Kwakiutl e gli Tsimshian basandosi
sui dati ricavati dalle loro rispettive mitologie.Dopo Boas la
maggior parte degli antropologi ha continuato a interpretare il
folklore in modo letterale piuttosto che simbolico, ossia come
riflesso diretto di una data cultura. Nella maggior parte dei casi
il mito è l'unico genere preso in considerazione, escludendo
tutti gli altri, e l'organizzazione sociale costituisce la
caratteristica culturale cui si presta primariamente attenzione.
Claude Lévi-Strauss, ad esempio, nella sua famosa analisi del
ciclo narrativo di Asdiwal, del 1958, sostiene che una delle
principali opposizioni binarie presenti in esso è legata alla
distinzione tra modelli di residenza matrilocale e patrilocale dopo
il matrimonio (v. Lévi-Strauss, 1973).
9. Folklore e psicologia
Nello studio del folklore, così come nel campo
dell'antropologia, si è affermata la tendenza a privilegiare
un approccio storico e letterale ai dati; di conseguenza la maggior
parte delle interpretazioni simboliche e psicologiche di tali dati
è guardata con grande diffidenza dagli studiosi tradizionali.
È evidente però che il folklore, in quanto espressione
della fantasia, contiene spesso riferimenti a eventi che non si
verificano nella realtà di una determinata cultura. Nei
racconti popolari che hanno per protagonisti furfanti e ribaldi
spesso questi personaggi infrangono tabù di varia natura.
Gran parte del folklore ha contenuti fantastici che ricordano quelli
dei sogni: nella vita reale non si incontrano certo bacchette
magiche o asini che defecano oro. Se si accetta l'idea che nel
folklore trovino espressione le illusioni si può capire
perché eroi ed eroine riescano là dove fratelli e
sorelle falliscono (una chiara espressione della rivalità tra
fratelli). Analogamente, il tema della regina o della matrigna
cattiva che cerca di uccidere l'eroina, comune a tante fiabe,
può essere interpretato - in base alla teoria freudiana del
complesso di Elettra - come un'inversione proiettiva: in
realtà è la fanciulla che desidera sbarazzarsi della
madre, così come nei racconti con un protagonista maschile,
è il giovane che desidera eliminare il padre.
Il pensiero tabù è espresso attraverso un'inversione
di ruoli in cui è la madre ad aggredire la figlia.
Si potrebbe mettere in discussione la legittimità di
considerare la matrigna come un sostituto simbolico della madre
biologica dell'eroina. Per rispondere a questa obiezione si
può far riferimento al fatto che nella versione originale
della fiaba di Hansel e Gretel (n. 327 nell'indice tipologico di
Aarne-Thompson), raccolta dai fratelli Grimm, era la madre che
decideva di abbandonare i figli nella foresta. I Grimm ritennero
troppo snaturato un comportamento simile da parte di una madre, e
decisero di sostituire il personaggio con quello di una matrigna,
convinti che tale crudeltà compiuta da una matrigna sarebbe
risultata più accettabile ai lettori.
Va osservato incidentalmente che simili manipolazioni del materiale
folkloristico si sono verificate anche troppo spesso nella storia
della disciplina, dando luogo a quello che gli studiosi chiamano
'fakelore' (fake=fasullo, falso) anziché autentico folklore
(v. Dorson, 1950; v. Dundes, 1989). Si tratta di dati inventati di
sana pianta da un famoso scrittore, oppure di materiali
folkloristici censurati o alterati - come le versioni ad usum
Delphini - che nondimeno vengono presentati come autentico materiale
della tradizione popolare. Persino i moderni studiosi di folklore a
volte non sanno resistere alla tentazione di 'migliorare' una
tradizione orale trasformando così il folklore in fakelore.
Tali manipolazioni dei materiali folkloristici, ovviamente, ne
riducono notevolmente il valore di dati utilizzabili dalle scienze
sociali. Se si pensa che la maggior parte dei racconti dei fratelli
Grimm sono testi compositi, vale a dire compilazioni sintetiche che
mettono insieme pezzi e frammenti di differenti versioni, e che
molti studiosi hanno avventatamente utilizzato le versioni
adulterate dei Grimm come punto di partenza per le loro analisi, si
può comprendere perché i professionisti della ricerca
folkloristica deplorino l'esistenza del fakelore - anche se i
cambiamenti introdotti sono stati a volte ispirati da nobili fini
nazionalistici o letterari, ad esempio dall'intento di diffondere un
prezioso patrimonio culturale. È questo uno dei motivi per
cui gli studiosi del folklore preferiscono basarsi su testi
trasmessi oralmente e raccolti attraverso la ricerca sul campo,
piuttosto che su quelli letterari riscritti e quindi alterati.
Sigmund Freud (1856-1939) nutriva un profondo interesse per il
folklore. Il suo importante saggio - scritto in collaborazione col
mitologista D. E. Oppenheim intorno al 1911, ma pubblicato solo nel
1958 col titolo Sogni nel folklore - dimostra brillantemente come i
sogni contenuti nei racconti popolari trasmessi oralmente siano
interpretati dal popolo esattamente nello stesso modo in cui li
interpreterebbe un freudiano. Carl G. Jung (1875-1961), che si
interessò anch'egli al folklore, nella sua dottrina
psicologica (definita psicologia analitica per distinguerla dalla
psicanalisi) postula l'esistenza di un inconscio collettivo
pan-umano e preculturale, i cui archetipi sarebbero all'origine di
immagini oniriche analoghe ai tipi mitologici (v. Jung e
Kerényi, 1941). Tuttavia il Motif-index of folkliterature
dimostra in modo convincente che non esistono motivi o intrecci
narrativi universali ma che, al contrario, la maggior parte dei miti
e dei racconti popolari ha un'area di diffusione geografica ben
circoscritta. Se esistessero archetipi pan-umani, dovrebbero esservi
storie identiche in tutte le culture. Alcuni degli archetipi
junghiani - la grande madre, il vecchio saggio, ecc. - sono talmente
generici e vaghi da risultare pressoché privi di significato.
Senza dubbio tutte le culture hanno un concetto di 'madre' che gli
individui acquisiscono vivendo in quella cultura, ma non è
necessario postulare l'esistenza di un inconscio collettivo per
spiegare le concezioni della madre nelle diverse culture. Jung
manifesta una certa tendenza al misticismo, e sostiene che gli
archetipi sono fondamentalmente inconoscibili. Per citare le sue
parole, "essi non si riferiscono ad alcunché che sia o sia
stato conscio, bensì a qualcosa di essenzialmente inconscio.
In ultima analisi, pertanto, è impossibile dire a cosa si
riferiscano" (v. Jung e Kerényi, 1941). Freud, per contro, ha
un orientamento razionalistico: una delle premesse di fondo della
teoria psicanalitica è che l'inconscio può essere
conosciuto dalla mente cosciente.
Né Freud né Jung hanno influenzato in modo
significativo lo studio del folklore; l'atteggiamento
antipsicologico e antisimbolico è troppo radicato negli
studiosi della disciplina. Va rilevata però un'ulteriore
distinzione tra la psicanalisi freudiana e la psicologia analitica
junghiana, che ha una certa importanza per gli scienziati sociali
interessati al folklore. Jung postula una forma di unità
psichica che si presume esista indipendentemente dalle singole
culture, e di conseguenza nella teoria junghiana ortodossa non
c'è spazio per il relativismo culturale: se gli archetipi
risalgono a una fase preculturale, allora il condizionamento
culturale non può in alcun modo modificare né gli
archetipi stessi né ciò che da questi è
derivato. La teoria freudiana è invece compatibile col
relativismo culturale: la sua ipotesi di un rapporto tra il
condizionamento infantile e i sistemi proiettivi adulti (compreso il
folklore) non risulta infatti inficiata dall'obiezione che i
differenti condizionamenti infantili propri delle varie culture
producono sistemi proiettivi differenti (v. Dundes, 1984).
10. Folklore e Weltanschauung
Un approccio al folklore meno controverso ma non meno ambizioso sul
piano teorico è quello che cerca di individuare i
principî filosofici specifici di una cultura incorporati nei
testi folkloristici. In tutte le forme di folklore si possono
trovare sia norme cognitive che indicazioni relative ad orientamenti
assiomatici di valore. Come per ogni tipo di analisi del contenuto,
il problema in questo caso è quello di accertare in modo
attendibile se tali principî di una Weltanschauung siano
effettivamente presenti nel materiale analizzato, o non siano
invece, come spesso avviene, costrutti artificiosi degli studiosi.
Per esemplificare questo procedimento di estrapolazione di
principî di una Weltanschauung dai dati folkloristici
consideriamo quella che è forse la forma più elaborata
di folklore, la sagra. Le sagre di una nazione, di una regione, di
una città o di un villaggio rappresentano una complessa
espressione dello spirito o della 'psiche' di tali entità. Il
Palio di Siena, una corsa di cavalli rituale che si svolge
annualmente il 2 luglio e il 16 agosto in onore della Vergine Maria,
esprime nel modo più autentico lo spirito della città.
A ogni gara partecipano dieci delle diciassette contrade senesi; le
regole sono assai complicate, ma in sostanza il Palio (uno stendardo
di seta) è vinto dalla contrada il cui cavallo termina per
primo i tre giri prescritti della Piazza del Campo, mentre la
contrada il cui cavallo arriva secondo viene considerata perdente.
Un'ulteriore complicazione di questo schema è data dal fatto
che ogni contrada ha una tradizionale rivalità nei confronti
di una contrada 'nemica', ad esempio Oca-Torre. Secondo le regole
del Palio la contrada rivale di quella vincente è considerata
automaticamente sconfitta - anche se rientra tra quante non hanno
partecipato a quella data edizione della corsa. Analogamente, alla
contrada nemica di quella che arriva seconda è attribuita una
sorta di vittoria - anche in questo caso indipendentemente dal fatto
che abbia partecipato alla gara. Questa regola curiosa esemplifica
quello che viene definito il principio del 'bene limitato'. In base
a tale principio, diffuso in molte comunità contadine
indoeuropee, un individuo può godere di buona salute o di
benessere economico solo a danno di un altro. Così se l'Oca
vince il Palio di Siena, la Torre per definizione deve perdere: la
vittoria di qualcuno implica sempre la sconfitta di qualcun altro.
Un esempio meno complesso dello stesso principio della
Weltanschauung senese è dato da una superstizione secondo la
quale se una civetta lancia il suo grido dopo essersi posata sul
tetto di una casa, porterà fortuna agli abitanti di quella
casa e sfortuna alla casa dirimpetto, dove vi sarà un lutto
nel giro di sette giorni. (Per un'ulteriore analisi del tema v.
Dundes e Falassi, 1975, pp. 185-240).Questo nuovo approccio alla
Weltanschauung racchiusa nel folklore differisce dalle precedenti
definizioni più ristrette che la identificavano con la
cosmologia. Con questa nuova definizione si può dimostrare
che la stessa cosmologia tradizionale riflette una serie di
principî fondamentali relativi all'ethos e alla visione del
mondo.
11. Il folklorismo
Il folklorismo è un fenomeno di antica data di cui
però gli studiosi hanno preso atto solo recentemente. Mentre
il folklore vero e proprio scaturisce da un processo di creazione e
di trasmissione relativamente inconscio, il folklorismo ha a che
fare con una consapevole manipolazione del materiale folkloristico a
scopi politici, propagandistici, turistici o commerciali. Un
villaggio o una città in cerca di un simbolo di
identità conveniente o proficuo sul piano economico
può resuscitare a tal fine una determinata manifestazione del
proprio folklore, per esempio può istituire una sagra per
celebrare un particolare personaggio o una particolare usanza del
folklore locale. Le manifestazioni commerciali che ne derivano - ad
esempio la produzione di magliette, fibbie, tazze, paralumi, ecc. in
cui viene raffigurato quel personaggio o quell'usanza - sono un
esempio di folklorismo. A volte l'intera sagra o pseudo-usanza viene
inventata di sana pianta da qualche intraprendente camera di
commercio locale. In questo caso si tratta di fakelore
oltreché di folklorismo.
Per lungo tempo i puristi della disciplina hanno preferito ignorare
sia il fakelore che il folklorismo, considerati comportamenti e
simboli spuri. Molto probabilmente questi studiosi si indignerebbero
nel leggere sul programma illustrativo di uno spettacolo di danze
folkloristiche il nome di un coreografo: le autentiche danze
popolari non sono state create da nessun coreografo. In questo
stesso programma si potrebbe leggere che i costumi indossati dai
danzatori provengono da varie regioni di un paese. In altre parole,
si avrebbe un corrispettivo dei testi compositi di racconti popolari
elaborati dai fratelli Grimm o da altri compilatori di collezioni di
narrativa popolare del XIX e del XX secolo. In certi casi anche i
musei del folklore all'aperto collocano in un edificio tradizionale
ogni genere di oggetti d'arredamento e di utensili risalenti a
epoche diverse e provenienti da diverse regioni. Per giustificare
tali assemblaggi si fa appello alla 'licenza poetica' o per meglio
dire turistica; il fine è quello di attirare turisti disposti
a pagare per assistere alle danze folkloristiche o per visitare il
'museo folkloristico' locale.
Gli accademici alla fine hanno dovuto prendere atto che fakelore e
folklorismo non sono fenomeni transitori, ma elementi di crescente
importanza nella società contemporanea. Anziché
continuare a ignorarli, alcuni studiosi di folklore hanno ritenuto
di essere le persone forse meglio qualificate per studiare tali
fenomeni (v. Moser, 1962 e 1964; v. Bausinger, 1969). Questo nuovo
ambito di indagine, che si potrebbe definire folklore applicato,
porrà nuove sfide agli studiosi della disciplina.
12. Il folklore come disciplina
Sebbene alcuni studiosi di altre discipline considerino il folklore
un ramo dell'antropologia culturale o un sottoinsieme della
letteratura comparata, esso costituisce in realtà una
disciplina accademica autonoma e indipendente, che rientra in parte
nell'ambito delle scienze sociali e in parte in quello degli studi
umanistici. Il folklore come disciplina si affermò saldamente
alla fine del XIX secolo. La prima cattedra di folklore fu quella di
Moltke Moe, il quale nel 1886 fu nominato professore di Dialetto e
tradizioni popolari norvegesi presso l'Università di
Christiania (l'attuale Oslo). Poco dopo, nel 1888, Kaarle Krohn fu
nominato docente straordinario di Folklore finnico e folklore
generale presso l'Università di Helsinki. Analogamente, Axel
Olrik divenne docente straordinario di Folklore nordico presso
l'Università di Copenhagen nel 1897. Nel 1910 C. W. von Sydow
fu nominato lettore di Folklore scandinavo e comparato presso
l'Università di Lund.
Lo status di legittima disciplina accademica del folklore non
è più messo in discussione, sebbene questa materia non
figuri nei programmi di tutti gli istituti universitari (v. Erixon,
1955; v. Cirese, 1967; v. Dorson, 1974; Brückner e Beitl,
1983). Il momento preciso in cui il folklore divenne una disciplina
accademica è controverso. Gli studiosi tedeschi, ad esempio,
tendono a considerare come data cruciale il 1859, anno in cui
apparve il saggio Volkskunde als Wissenschaft (oggi ristampato in
Lutz, 1958, pp. 23-37) di Wilhelm H. Riehl (1823-1897). Ogni paese
però ha una propria storia per quanto riguarda lo sviluppo
della disciplina, e per questo motivo la maggior parte degli studi
sulla storia del folklore tende a essere circoscritta ai singoli
ambiti nazionali: Austria (v. Schmidt, 1943), Inghilterra (v.
Dorson, 1968), Finlandia (v. Hautala, 1968), Francia (v.
Sébillot, 1913), Germania (v. Freudenthal, 1955; v. Jacobeit,
1965; v. Weber-Kellerman e Bimmer, 1985²), Ungheria (v.
Márot, 1938), Italia (v. Corso, 1923, pp. 85-120; v.
Cocchiara, 1947; v. Cirese, 1974), Romania (v. Vrabie, 1968) e Stati
Uniti (v. Zumwalt, 1988).
Alcuni studiosi si sono avventurati al di là dei confini
nazionali, ad esempio Guichot y Sierra (v., 1922), Cocchiara (v.,
1952) e Boberg (v., 1953), ma anch'essi si sono limitati all'Europa
senza prendere in considerazione la situazione della disciplina in
Africa, Asia, Nordamerica e America Latina. Lo studio del folklore
esiste però anche al di fuori dell'Europa, per quanto si
debba riconoscere che storicamente la disciplina e la maggior parte
dei suoi metodi e delle sue teorie sono stati sviluppati nell'area
europea. Esistono comunque dei lavori sugli studi folkloristici in
Giappone (v. Yanagita, 1944), in India e Pakistan (v. Islam, 1970),
in Cina (v. Hung, 1985), in Africa (v. Finnegan, 1970) e in America
Latina (v. Carvalho-Neto, 1969).Lo studio del folklore, specialmente
a livello internazionale, continuerà a svilupparsi. È
impossibile infatti immaginare la specie umana senza racconti, canti
e sagre popolari. È il folklore in ultima analisi che
garantisce l'identità regionale, etnica e nazionale,
allietando l'esistenza dell'individuo e conferendole gran parte del
suo significato. Una parte così importante della cultura
umana merita senz'altro di continuare a essere oggetto di uno studio
approfondito.
*
Wikipedia
Il termine folclore o folklore (dall'inglese folk, "popolo", e lore,
"sapere") si riferisce all'insieme delle tradizioni arcaiche
provenienti dal popolo, tramandate oralmente e riguardanti usi,
costumi, leggende e proverbi, musica al canto alla danza, riferiti
ad una determinata area geografica o ad una determinata popolazione.
La nascita del termine
L'origine del termine folclore è attribuita allo scrittore e
antiquario inglese William Thoms (1803-1900) che, sotto lo
pseudonimo di Ambrose Merton, pubblicò nel 1846 una lettera
sulla rivista letteraria londinese Athenaeum, allo scopo di
dimostrare la necessità di un vocabolo che potesse
ricomprendere tutti gli studi sulle tradizioni popolari inglesi.
Il termine fu poi accettato dalla comunità scientifica
internazionale dal 1878, per indicare quelle forme contemporanee di
aggregazione sociale incentrate sulla rievocazione di antiche
pratiche popolari, ovvero tutte quelle espressioni culturali
comunemente denominate "tradizioni popolari", dai canti alle sagre
alle superstizioni alla cucina (e che già due secoli prima
Giambattista Vico chiamava "rottami di antichità").
Opere sul folclore in Italia
Le prime inchieste
La documentazione che più di ogni altra ha dato l'avvio allo
studio delle tradizioni popolari e dunque al folclore inteso come
scienza è stata l'inchiesta napoleonica del 1809-1811, svolta
nel Regno d'Italia sui dialetti e i costumi delle popolazioni
locali. L'inchiesta fu posta in essere principalmente per
individuare ed estirpare pregiudizi e superstizioni ancora esistenti
nelle campagne italiche. Gli atti dell'inchiesta e le relative
illustrazioni allegate sono custoditi nel castello Sforzesco di
Milano.
Una successiva inchiesta post-napoleonica, curata da don Francesco
Lunelli (1835-1856), riguardò il territorio del Trentino e il
Dipartimento dell'Alto Adige (con particolare attenzione ai proverbi
riguardanti le donne del Trentino), rimasti esclusi dall'indagine
napoleonica perché erano territori all'epoca non ancora
aggregati al Regno d'Italia.
Michele Placucci
La prima opera di rilievo, che anticipa di quasi cinquant'anni il
metodo della demologia scientifica italiana con una precisa
classificazione del materiale, è il trattato sulla regione
Romagna del forlivese Michele Placucci. Egli, avvalendosi di diversi
documenti, soprattutto di quelli raccolti all'epoca dell'inchiesta
napoleonica (come quanto redatto da Basilio Amati, cancelliere del
censo a Mercato Saraceno), a cui aggiunge anche altro materiale (ad
esempio, dalla Pratica agraria dell'abate Battarra), pubblica, a
Forlì nel 1818 (Tipografia Barbiani), l'opera intitolata Usi
e pregiudizj de' contadini della Romagna[1]. In Placucci ad esempio,
si racconta che i contadini romagnoli usavano mangiare fave
nell'anniversario dei morti (cioè il 2 novembre),
perché comunemente si riteneva che questa pianta avesse il
potere di rafforzare la memoria, così che nessuno
dimenticasse i propri defunti. Altra tradizione arcaica riportata
dal Placucci è quella di confezionare il ripieno dei
cappelletti privo di carne. A quel lavoro, altri faranno seguire
numerose pubblicazioni dedicate ad altre regioni italiane.
Giuseppe Pitrè
L'intellettuale che ha dato poi origine allo studio sistematico, su
base scientifica, del folclore italiano, è il medico
palermitano Giuseppe Pitrè (1841-1916) che, dopo aver dato
alle stampe la «Biblioteca delle tradizioni popolari
siciliane», ha realizzato un'opera editoriale insuperabile
(per ricchezza di informazioni), la «Bibliografia delle
tradizioni popolari italiane» nel 1894 e la «Rivista
Archivio per lo studio delle tradizioni popolari» pubblicata
ininterrottamente dal 1882 al 1909. Per primo Pitrè ottenne
nel 1911 a Palermo una cattedra universitaria per lo studio delle
tradizioni popolari, sotto il nome di demopsicologia.
L'era fascista
Durante il fascismo questo tipo di studi fu utilizzato dalla
propaganda di regime inizialmente per rafforzare il mito romantico e
medioevaleggiante del Popolo legato alla propria terra e alla
tradizione, poi per creare "il popolo" a livello nazionale, cercando
di unificare con l'azione dell'istituto del dopolavoro le tradizioni
locali.
L'epoca repubblicana
Dopo la seconda guerra mondiale, grande impatto ebbe la
pubblicazione delle Note sul folclore, contenute nei Quaderni del
carcere di Antonio Gramsci. In particolare, Ernesto de Martino
condurrà le più celebri ricerche folcloriche italiane,
Morte e pianto rituale, Sud e magia, La terra del rimorso,
scegliendo come oggetto classi sociali considerate fuori dalla
storia, i contadini del sud Italia, con il dichiarato obiettivo di
utilizzare le tradizioni popolari, definite come folclore
progressivo, come elemento fondante di una futura coscienza di
classe.
Questa corrente di studi rimarrà dominante in Italia fino
agli anni ottanta (con Alberto Mario Cirese, che dagli anni sessanta
impose come nome per gli studi di folclore all'italiana il termine
demologia), periodo dal quale viene rimesso profondamente in
discussione l'oggetto di studio, criticando la reificazione delle
tradizioni, e ponendo l'accento più sui processi di
costruzione sociale e sull'uso che i soggetti fanno di esse.
Ogni anno in Europa si svolge l'Europeade del Folclore. Le ultime
città italiane che hanno ospitato questa manifestazione sono
nel 2003 Nuoro in Sardegna, città ben nota in tutta Italia
per l'attaccamento alle tradizioni e il mantenimento di questa
ultime (Canto a Tenores, balli tradizionali, launeddas, organetto,
canti a chitarra) e nel 2010 Bolzano che comprende numerosi gruppi
provenienti da diverse aree culturali. Ininterrottamente dal 1970,
nel periodo che precede il ferragosto, ad Alatri si svolge il
Festival Internazionale del Folclore, mentre per il periodo di fine
estate è stata successivamente istituita una manifestazione
internazionale folcloristica anche per i bambini.
Antropologia culturale
Oggi, lo studio della storia delle tradizioni popolari è
materia universitaria e la bibliografia relativa è molto
vasta, abbracciando diversi temi:
ciclo della vita umana
feste e usanze del calendario
dimore rurali
vita agricola, marinara e pastorale
letteratura
prosa
drammaturgia
canti popolari
danza
musica
magia
superstizione
religiosità
arte pittorica, ecc.
La mercificazione del folclore è, secondo Luigi Maria
Lombardi Satriani, il rischio che oggi il 'folclore' corre dopo che
è stato sdoganato. Per Satriani nonostante esso sia entrato
in un ampio circuito culturale (dai canti tradizionali, a feste e
manifestazioni ripristinate, recitals in teatri underground, film su
episodi e situazioni 'meridionali', proverbi popolari riportati a
formulazione dialettale) si rischia che questa 'riscoperta' del
mondo popolare sia una nuova maniera per mantenere tale mondo nella
sua subalternita' e per negarne, in forme diverse, la cultura.